La stretta attualità bellica, circa il conflitto Russia-Ucraina, impone una doverosa riflessione sulla Russia stessa, per come viene inquadrata nell’ottica lombardista. Siamo, ovviamente, lontani anni luce dalla considerazione che l’Occidente ha dell’Orso euro-siberiano, ma ciò non significa nemmeno glorificare senza se e senza ma la Federazione Russa governata da Putin. Abbiamo dunque un punto di vista critico, per quanto chiaramente smarcato dal pensiero comune occidentale, fermo restando che la Russia appartiene indubbiamente al dominio europeo, quantomeno sino agli Urali. C’è però da dire che la nazione russa, più che una nazione, sia effettivamente un impero, con tutti i difetti e le magagne che riguardano un’entità “imperiale”.
Ma questa situazione è anche il frutto della geopolitica unipolare americana. Putin, per sfuggire al cappio dell’imperialismo americano, che a suo tempo condannò uno Eltsin, cerca nel multipolarismo un’opzione che dia voce e spazio agli altri grandi potentati del mondo, complice anche l’Europa ridotta ad Unione Europea e a terra occupata da Usa e Nato. È chiaro, ed è sotto gli occhi di tutti: a Vladimir poco importa della razza europide e delle sue etnie e nazionalità , essendo la Russia quasi condannata a quella mentalità a suo modo imperialista che già fu dell’Impero russo e dell’Unione Sovietica.
Ma noi dobbiamo ragionare diversamente, pur non condividendo le velenose balle russofobe diffuse e alimentate dai mortali nemici di Mosca. Noi lombardisti crediamo fortemente nell’Euro-Siberia, che naturalmente includa la Russia ma che, finalmente, sia votata, come confederazione continentale di genti bianche, alla preservazione, alla salvaguardia e all’autoaffermazione delle vere nazioni europee, tra cui la Lombardia. Niente più unipolarismo a guida statunitense, e al contempo niente più multipolarismo che vituperi l’essenza razziale dei popoli, andando così involontariamente (?) ad accrescere un patetico antifascismo che confonde il nazionalsocialismo con il neonazismo d’accatto.
Putin è certamente un gigante attorniato da nanerottoli (i governanti occidentali), ma la sua Russia non è la miglior Russia possibile, e lo si dica senza strizzare l’occhio alla propaganda euro-atlanto-americana. La miglior nazione moscovita possibile è quella che contribuisca alla causa euro-siberiana, promuovendo un salutare cameratismo europide volto all’affermazione, anche biologica, della nostra civiltà . Una civiltà che esclude il degrado d’oltreoceano, confermandosi altamente tradizionalista, ma anche il multiculturalismo e il multietnicismo (a tratti con sfumature financo razziali) dell’attuale Federazione Russa. Siamo per l’Euro-Siberia, non per l’Eurasia – concetto inevitabilmente multirazziale – e in questo senso le minoranze non europidi non vengono contemplate. Forse è utopico, ma Mosca dovrebbe abbracciare tale progetto, riscoprendosi Europa e parte fondamentale della nostra stessa civilizzazione.
Credo valga la pena stendere una riflessione su quel che è stato il mio periodo italianista, o meglio, su ciò che mi spinse ad allargare lo sguardo etnonazionalista al contesto panitaliano (termine improprio, ma impiegato per capirsi), e lo faccio approfittando di un articoletto di un tizio coperto da pseudonimo e pubblicato, nell’aprile 2014, su Giornalettismo, testata online il cui nome è fin troppo eloquente.
Fu scritto, per l’appunto, all’indomani del mio cambio di registro nei confronti dell’Italia (intesa come “nazione” storica, non come stato ottocentesco o repubblica partigiana postbellica, beninteso; non avrei, comunque, potuto nutrire alcuna simpatia nei confronti della RI) e l’unico intento che animò l’anonima penna fu, ovviamente, quello di pigliarmi per i fondelli, considerando che l’inclinazione del giornaletto multimediale è quella del più banale pressapochismo antifascista e petaloso.
Di conseguenza, chi non si genuflette di fronte alla vulgata resistenzial-democratico-repubblicana, benedetta dagli americani (ossia dai paladini della sinistra italica ed europea), è un povero imbecille da guardare con compassione dall’alto in basso. E il nostro baldo orobico può, forse, fare eccezione, nella mente di cotanti intellettuali?
Il suddetto tizio mi sbrodolò addosso le consuete logore fesserie, da leggersi tra le righe: nazista da strapazzo, lombrosiano, caso umano, fenomeno da baraccone; altresì, ridicolizzando sia la primeva fase lombardista che la svolta italianista, ridusse ad una farsa opportunistica il passaggio dal lombardesimo all’italianesimo (così chiamato all’epoca), come se non fosse altro che una cialtronata di poco momento e non, piuttosto, il frutto di una approfondita riflessione, una sorta di maturazione (più che una conversione o, addirittura, un tradimento del prima lombardista, come l’individuo scrisse con assoluta leggerezza). A testimonianza della razionalità di questo articolo, comunque, ecco la perla: io sarei un tifoso laziale. Prego?
La sua “analisi” si incentrò su quanto di me noto tramite la rete, fra cui i documenti di cui ho già parlato in questo blog, ovvero l’intervista al Post e alle Invasioni barbariche.
L’anonimo si soffermò sulla mia passione per la razziologia considerandola alla stregua di ciarpame degno dell’astrologo giudeo Lombroso, mostrando grande ignoranza se si pensa che è la frenologia ad essere pseudoscienza, non la craniometria e la tassonomia delle razze e sottorazze umane, con relative varianti fenotipiche. Per non parlare della genetica delle popolazioni, che rimarca pure le note differenze tra “italiani”.
Illuminante, però, appare la chiusura del patetico scritto: «il nazionalismo che chiama in causa le aquile romane, pur declinato come etno-nazionalismo federale, ha invece tutt’altro sapore e non fa ridere come l’arianesimo orobico» – e ancora – «Una grande occasione d’intrattenimento persa e Sizzi che cade dalla padella alla brace». Capito?
Lo scopo dell’autore era palese: ridicolizzare e demonizzare l’area identitaria e i suoi protagonisti, soprattutto i più genuini e non corrotti dalla politica di professione, esprimendo ironico rammarico per l’abbandono delle posizioni lombardiste originarie; il soggetto sembrava più allarmato dall’aura fascistoide del cambio di rotta, minimizzando la portata dell’etnonazionalismo lombardo. L’insipiente non può che ridere (a denti stretti) di ciò che è per davvero rivoluzionario, palesando tutta la sua imbarazzante arroganza e ignoranza.
Alla lunga, come è poi avvenuto, l’esperienza italianista si è esaurita e ho preferito riabbracciare in toto, coerentemente, quanto da me teorizzato agli esordi, tornando ad affermare che se di Italia si può e, si deve, parlare va fatto riferendosi squisitamente al centrosud, ossia all’Italia primigenia. Lo capite che, se ci si dichiara nemici giurati del mondialismo, non è possibile indugiare oltre su posizioni che, involontariamente, diventano un servigio al moloc globalista: l’Italia artificiale in chiave 1861 non è altro che uno stato, non una nazione, e ripropone in piccolo la barbarie che il sistema-mondo pratica su vasta scala. Come non esiste una “razza umana” così non esiste una “razza italiana”: non si può combattere il nichilismo unipolare all’americana con quello in tredicesimi del tricolore.
Se per sette anni mi sono professato italianista (ovviamente secondo la mia visione: prima bergamasco e lombardo, poi italiano) è stato in assoluta buonafede, non per opportunismo. Gli argomenti di cui mi sono occupato e mi occupo sono pura passione, e non ho mai avuto la fregola del soldo, della poltrona, della carica o del posticino al sole. Ho sempre preferito cultura e metapolitica alla politica, anche solo come velleità .
C’è di buono che, con il periodo italiano, per così dire, mi sono dato una regolata, fors’anche per l’età . Nel 2014 avevo 30 anni, una crescita dunque, e ho cominciato da quel momento a lasciarmi alle spalle gli eccessi e i furori ideologici (non la coerenza e la radicalità , ovviamente), evitando di impelagarmi in ulteriori grane. Anche la soluzione etnofederalista voleva essere un equilibrio tra due posizioni estreme e poco pratiche: indipendentismo da una parte e fascismo dall’altra. Ma l’Italia come sacrale federazione indoeuropea e romana di piccole patrie non è, dopotutto, da meno, considerando che razza di stato abbiamo per le mani, e il gioco non vale la candela.
Al di là della politica e delle beghe fra centralismo, federalismo, autonomismo ed indipendentismo, infatti, la cosa basilare rimane l’identitarismo etnico, la salvaguardia di sangue-suolo-spirito, fermo restando che la Grande Lombardia merita appieno la totale autoaffermazione nei confronti di Roma e dell’Italia. Non si tratta di fantasticare – come facevo agli albori – di un nord celto-germanico “e basta” (manco fossimo inglesi o fiamminghi!), in ossequio a certo nordicismo neonazista, ma di contestualizzare le Lombardie nel quadro europeo centromeridionale, anello di congiunzione tra Mediterraneo e Mitteleuropa.
Non rinnego la fase italianista, così come non rinnego i primordi lombardisti, e se oggi posso gustare appieno, nella maturità dei miei quasi 40 anni, il lombardesimo è anche grazie a quei precedenti sette anni in cui tra meditazioni, riflessioni e studi ho fortificato la convinzione che ogni rinascita di orgoglio patrio deve necessariamente passare per la verità del sangue, la sacralità del suolo e la luminosità dello spirito. E, dunque, oggi più che mai affermo con convinzione che la mia patria è la Grande Lombardia.
Se non fosse che le vicende israelo-palestinesi abbiano ovvie ricadute anche sul mondo europeo, potremmo ampiamente disdegnare le semitiche beghe tra giudei e arabi di Palestina. Purtroppo non è così, in un mondo vieppiù globalizzato ed interconnesso, e per tale ragione il lombardesimo deve occuparsene, esprimendo il proprio punto di vista. Le vicissitudini mediorientali in questione si trascinano ormai da più di mezzo secolo, senza accennare ad una soluzione tra le parti; gli arabi vogliono che Israele scompaia, e gli ebrei che spariscano i palestinesi, lasciando spazio al Grande Israele auspicato dai guerrafondai stellati. Nel mezzo un’Europa, ridotta ad Unione Europea, succube degli intoccabili e della loro propaganda, e così gli Stati Uniti, che sono i principali fiancheggiatori e finanziatori dell’entità sionista.
Aleksej Navalny, noto oppositore politico di Putin, è morto nella colonia penale artica in cui era detenuto. L’Occidente è immediatamente partito all’attacco del presidente russo, accusandolo di aver commissionato un omicidio, mentre Mosca smentisce riconducendo la morte a cause naturali. In passato Navalny si è reso protagonista di episodi facilmente inquadrabili nell’orbita del neonazismo e, come tutti i neonazisti (parodia, cioè, del nazionalsocialismo originale), soprattutto dell’Europa orientale, è stato foraggiato e manovrato dagli Stati Uniti e dall’imperialismo euro-atlantico. Davvero singolare la schizofrenia occidentale, di fronte alla fenomenologia dell’estrema destra, cosiddetta: se in Occidente i neonazisti vengono perseguiti, condannati e incarcerati, in Oriente vengono mossi come burattini, in funzione antirussa, dunque protetti, coccolati, glorificati. Proprio come è accaduto e sta accadendo a Navalny, fresco di morte strumentalizzata e pronto per la canonizzazione, in ottica democratica. Uno come lui, nell’Europa occidentale, verrebbe appeso per i piedi (ricordiamoci di Norimberga), anche se, leggendo le sue note biografiche, emergono pruriginosi particolari di taglio liberaleggiante, come l’appoggio per i “matrimoni” omosessuali.
Credo che la Russia di Putin non sia la miglior Russia possibile; Vladimir ha un’ottica fin troppo eurasiatica, sebbene frutto dell’ostilità occidentale, che lo porta a snobbare il fulcro europide della nazione moscovita, obliando l’identitarismo bianco e l’idea di un’Euro-Siberia restituita ai popoli europei indigeni. Sicuramente Putin ha in non cale la coscienza razziale, l’opposizione al semitismo, l’etnonazionalismo, i valori völkisch, ma d’altra parte la Federazione Russa è un impero, più che una nazione compatta. L’Occidente, in confronto a Mosca, è ben poca cosa, e il presidente russo giganteggia nei riguardi dello stuolo di nanerottoli politici sfornati dalle nazioni (si fa per dire) “democratiche”. Il vero nemico dell’Europa non è certo Putin: la nostra nemesi è l’unipolarismo americano, che riduce il continente a scendiletto del padrone statunitense. Il rischio di un abbattimento del capo moscovita, dunque, pensando anche alle vicende belliche russo-ucraine, di cui avremo modo di parlare, è quello di consegnare la Russia alla decadenza Usa, come ai tempi di Eltsin. Detto ciò, sarebbe auspicabile che la nazione russa, nel suo cuore europeo sino agli Urali, si riscoprisse bianca e di retaggio indoeuropeo, promuovendo una solida coscienza identitaria in chiave anche biologica e, così, il progetto euro-siberiano. Mantenendo, comunque sia, con fierezza l’ostilità nei confronti del ciarpame all’americana.