Pensieri sulla Russia

La stretta attualità bellica, circa il conflitto Russia-Ucraina, impone una doverosa riflessione sulla Russia stessa, per come viene inquadrata nell’ottica lombardista. Siamo, ovviamente, lontani anni luce dalla considerazione che l’Occidente ha dell’Orso euro-siberiano, ma ciò non significa nemmeno glorificare senza se e senza ma la Federazione Russa governata da Putin. Abbiamo dunque un punto di vista critico, per quanto chiaramente smarcato dal pensiero comune occidentale, fermo restando che la Russia appartiene indubbiamente al dominio europeo, quantomeno sino agli Urali. C’è però da dire che la nazione russa, più che una nazione, sia effettivamente un impero, con tutti i difetti e le magagne che riguardano un’entità “imperiale”.

I russi sono europei, ovviamente ci riferiamo ai russi etnici non rimescolati. Sono strettamente apparentati con le altre Russie: la Russia Bianca (Bielorussia) e la Piccola Russia (Ucraina/Rutenia). Esiste dunque una realtà etnoculturale russa, in senso allargato, che riguarda tutti coloro che possono dirsi eredi del Rus’ medievale e che, chiaramente, appartengono alla sfera della Slavia orientale. Come lombardisti riconosciamo l’esistenza delle Russie ma siamo per un’ovvia suddivisione nazionale: Russia moscovita, Russia ucraina, Russia di Minsk. E il rispetto delle relative nazionalità è fondamentale, perché condanniamo quelle ammucchiate che comportano l’oblio dell’identità etnoculturale e nazionale. Probabilmente la Russia putiniana ha in non cale questi aspetti, e in effetti si proietta più verso oriente che verso occidente, ignorando, se non calpestando, i vincoli di sangue.

Ma questa situazione è anche il frutto della geopolitica unipolare americana. Putin, per sfuggire al cappio dell’imperialismo americano, che a suo tempo condannò uno Eltsin, cerca nel multipolarismo un’opzione che dia voce e spazio agli altri grandi potentati del mondo, complice anche l’Europa ridotta ad Unione Europea e a terra occupata da Usa e Nato. È chiaro, ed è sotto gli occhi di tutti: a Vladimir poco importa della razza europide e delle sue etnie e nazionalità, essendo la Russia quasi condannata a quella mentalità a suo modo imperialista che già fu dell’Impero russo e dell’Unione Sovietica.

Ma noi dobbiamo ragionare diversamente, pur non condividendo le velenose balle russofobe diffuse e alimentate dai mortali nemici di Mosca. Noi lombardisti crediamo fortemente nell’Euro-Siberia, che naturalmente includa la Russia ma che, finalmente, sia votata, come confederazione continentale di genti bianche, alla preservazione, alla salvaguardia e all’autoaffermazione delle vere nazioni europee, tra cui la Lombardia. Niente più unipolarismo a guida statunitense, e al contempo niente più multipolarismo che vituperi l’essenza razziale dei popoli, andando così involontariamente (?) ad accrescere un patetico antifascismo che confonde il nazionalsocialismo con il neonazismo d’accatto.

Putin è certamente un gigante attorniato da nanerottoli (i governanti occidentali), ma la sua Russia non è la miglior Russia possibile, e lo si dica senza strizzare l’occhio alla propaganda euro-atlanto-americana. La miglior nazione moscovita possibile è quella che contribuisca alla causa euro-siberiana, promuovendo un salutare cameratismo europide volto all’affermazione, anche biologica, della nostra civiltà. Una civiltà che esclude il degrado d’oltreoceano, confermandosi altamente tradizionalista, ma anche il multiculturalismo e il multietnicismo (a tratti con sfumature financo razziali) dell’attuale Federazione Russa. Siamo per l’Euro-Siberia, non per l’Eurasia – concetto inevitabilmente multirazziale – e in questo senso le minoranze non europidi non vengono contemplate. Forse è utopico, ma Mosca dovrebbe abbracciare tale progetto, riscoprendosi Europa e parte fondamentale della nostra stessa civilizzazione.

Il percorso ideologico di Paolo Sizzi

P. Sizzi

Credo valga la pena stendere una riflessione su quel che è stato il mio periodo italianista, o meglio, su ciò che mi spinse ad allargare lo sguardo etnonazionalista al contesto panitaliano (termine improprio, ma impiegato per capirsi), e lo faccio approfittando di un articoletto di un tizio coperto da pseudonimo e pubblicato, nell’aprile 2014, su Giornalettismo, testata online il cui nome è fin troppo eloquente.

Fu scritto, per l’appunto, all’indomani del mio cambio di registro nei confronti dell’Italia (intesa come “nazione” storica, non come stato ottocentesco o repubblica partigiana postbellica, beninteso; non avrei, comunque, potuto nutrire alcuna simpatia nei confronti della RI) e l’unico intento che animò l’anonima penna fu, ovviamente, quello di pigliarmi per i fondelli, considerando che l’inclinazione del giornaletto multimediale è quella del più banale pressapochismo antifascista e petaloso.

La sicumera dei democratici è risaputa quando si tratta di analizzare fenomenologie identitarie: loro sono moralmente superiori in quanto sinistrorsi/sinistrati all’acqua di rose, tutti gli altri sono casi umani da compatire perché retrogradi, disadattati, repressi, complessati, pazzi e chi più ne ha più ne metta. Loro sono i geni, gli altri sono i reietti.

Di conseguenza, chi non si genuflette di fronte alla vulgata resistenzial-democratico-repubblicana, benedetta dagli americani (ossia dai paladini della sinistra italica ed europea), è un povero imbecille da guardare con compassione dall’alto in basso. E il nostro baldo orobico può, forse, fare eccezione, nella mente di cotanti intellettuali?

Il suddetto tizio mi sbrodolò addosso le consuete logore fesserie, da leggersi tra le righe: nazista da strapazzo, lombrosiano, caso umano, fenomeno da baraccone; altresì, ridicolizzando sia la primeva fase lombardista che la svolta italianista, ridusse ad una farsa opportunistica il passaggio dal lombardesimo all’italianesimo (così chiamato all’epoca), come se non fosse altro che una cialtronata di poco momento e non, piuttosto, il frutto di una approfondita riflessione, una sorta di maturazione (più che una conversione o, addirittura, un tradimento del prima lombardista, come l’individuo scrisse con assoluta leggerezza). A testimonianza della razionalità di questo articolo, comunque, ecco la perla: io sarei un tifoso laziale. Prego?

La sua “analisi” si incentrò su quanto di me noto tramite la rete, fra cui i documenti di cui ho già parlato in questo blog, ovvero l’intervista al Post e alle Invasioni barbariche.

L’anonimo si soffermò sulla mia passione per la razziologia considerandola alla stregua di ciarpame degno dell’astrologo giudeo Lombroso, mostrando grande ignoranza se si pensa che è la frenologia ad essere pseudoscienza, non la craniometria e la tassonomia delle razze e sottorazze umane, con relative varianti fenotipiche. Per non parlare della genetica delle popolazioni, che rimarca pure le note differenze tra “italiani”.

Illuminante, però, appare la chiusura del patetico scritto: «il nazionalismo che chiama in causa le aquile romane, pur declinato come etno-nazionalismo federale, ha invece tutt’altro sapore e non fa ridere come l’arianesimo orobico» – e ancora – «Una grande occasione d’intrattenimento persa e Sizzi che cade dalla padella alla brace». Capito?

Lo scopo dell’autore era palese: ridicolizzare e demonizzare l’area identitaria e i suoi protagonisti, soprattutto i più genuini e non corrotti dalla politica di professione, esprimendo ironico rammarico per l’abbandono delle posizioni lombardiste originarie; il soggetto sembrava più allarmato dall’aura fascistoide del cambio di rotta, minimizzando la portata dell’etnonazionalismo lombardo. L’insipiente non può che ridere (a denti stretti) di ciò che è per davvero rivoluzionario, palesando tutta la sua imbarazzante arroganza e ignoranza.

A quei tempi, convinto della bontà dell'”evoluzione” italianista, pensai che anche le scomposte reazioni di soggetti come quello citato fossero il tributo involontario ad una scelta ponderata e matura: mettendo da parte l’identitarismo “regionale” solleticato dall’indipendentismo, il nazionalismo italianista rispettoso dell’istanza etnofederale appariva meritorio nel contesto nostrano, perché unificante. Ma l’Italia, signori miei, come vado ripetendo spesso, non è la soluzione, è il problema, se interpretata come Stivale fantozziano che arriva sino alla Pianura Padana…

Nella primavera del 2014, e in quelle successive, l’intento sizziano fu di conciliare l’istanza lombardista con quella “nazionale” ma, più che altro, da un punto di vista civile, culturale, geopolitico; vedevo l’Italia come uno dei pilastri imperiali europei e difendevo la suggestione latina di grande civiltà romana, pagana, cattolica, italiana in senso moderno e contemporaneo, alla luce dell’unificazione linguistica. Fino all’estate del 2019 posi parecchia enfasi sulla questione delle radici precristiane – con toni non molto concilianti verso il cristianesimo cattolico – poi optai per un ammorbidimento poiché la Tradizione va difesa integralmente, ed equiparare il culto di Cristo a giudaismo e islam è una sciocchezza.

Tuttavia, smaltita la sbornia del neofita, mi assestai su posizioni comunque etnonazionaliste, dove prevalse – e non poteva essere altrimenti – la componente etnicistica: il mio faro è sempre stata la triade sangue, suolo, spirito e la realtà biologica (da cui tutto il resto) dell’Italia non poteva certo essere taciuta o distorta per fini propagandistici. E allora parlai estesamente, per anni, di Italie, di patto etnofederale, di etnonazionalismo declinato in chiave rigorosamente federale, perché le differenze tra “italiani” sono sotto gli occhi di tutti, retorica patriottarda a parte.

Alla lunga, come è poi avvenuto, l’esperienza italianista si è esaurita e ho preferito riabbracciare in toto, coerentemente, quanto da me teorizzato agli esordi, tornando ad affermare che se di Italia si può e, si deve, parlare va fatto riferendosi squisitamente al centrosud, ossia all’Italia primigenia. Lo capite che, se ci si dichiara nemici giurati del mondialismo, non è possibile indugiare oltre su posizioni che, involontariamente, diventano un servigio al moloc globalista: l’Italia artificiale in chiave 1861 non è altro che uno stato, non una nazione, e ripropone in piccolo la barbarie che il sistema-mondo pratica su vasta scala. Come non esiste una “razza umana” così non esiste una “razza italiana”: non si può combattere il nichilismo unipolare all’americana con quello in tredicesimi del tricolore.

Con buona pace delle aquile romane, la forza dell’etnonazionalismo non ha eguali, e la sacralità della lotta identitaria e tradizionalista deve necessariamente passare per la coscienza etno-razziale. Anche perché parlare di Italia dalle Alpi alla Sicilia in nome di latinità, romanità, echi gentili, religione cattolica e lingua fiorentina è un po’ pochino… Tolto l’idioma franco di Firenze, la romanitas è il comun denominatore di altri territori europei, mica solo di quelli a sud dell’arco alpino.

Se per sette anni mi sono professato italianista (ovviamente secondo la mia visione: prima bergamasco e lombardo, poi italiano) è stato in assoluta buonafede, non per opportunismo. Gli argomenti di cui mi sono occupato e mi occupo sono pura passione, e non ho mai avuto la fregola del soldo, della poltrona, della carica o del posticino al sole. Ho sempre preferito cultura e metapolitica alla politica, anche solo come velleità.

Per quanto concerne, invece, le trite e ritrite pagliacciate apotropaiche di gente che, come sempre, non ha nemmeno il coraggio di mostrare nome e faccia ma adora sputare sentenze (stile l’autore dell’articolo commentato), sono la regola, nonché l’indice della pochezza antifascista: di fronte alla radicalità del patriottismo völkisch i ragli d’asino non finiranno mai di cessare. E non fatevi ingannare dalla criminalizzazione lib-dem della galassia neofascista, poiché chi sventola tricolori, in un modo o nell’altro, fa un servizio alla piovra mondialista.

C’è di buono che, con il periodo italiano, per così dire, mi sono dato una regolata, fors’anche per l’età. Nel 2014 avevo 30 anni, una crescita dunque, e ho cominciato da quel momento a lasciarmi alle spalle gli eccessi e i furori ideologici (non la coerenza e la radicalità, ovviamente), evitando di impelagarmi in ulteriori grane. Anche la soluzione etnofederalista voleva essere un equilibrio tra due posizioni estreme e poco pratiche: indipendentismo da una parte e fascismo dall’altra. Ma l’Italia come sacrale federazione indoeuropea e romana di piccole patrie non è, dopotutto, da meno, considerando che razza di stato abbiamo per le mani, e il gioco non vale la candela.

Qualcuno pensa che un Paese diviso e litigioso faccia solo comodo allo straniero. Un Paese, appunto: l’Italia non lo è. E, fra l’altro, l’occupazione atlanto-americana continentale, peninsulare e insulare è possibile proprio grazie a questa artificiale unità, in cui Roma è una delle più fedeli pedine dell’Occidente a trazione statunitense. L’indipendentismo assennato, ossia quello etnonazionalista, non fa il gioco del forestiero, perché il vero ascaro del globalismo è lo stato senza nazione di matrice ottocentesca, perfettamente incarnato dalla Repubblica Italiana.

Da parte mia era doveroso il ritorno al lombardesimo, depurandolo dagli elementi controversi degli esordi (ero ventenne, d’altronde), non solo perché ideologia da me lanciata ma pure in quanto salutare riscoperta di quella coerenza necessaria per affrontare, col piglio giusto, le sfide del domani. L’italianismo di otto anni fa era animato da nobili intenti ma è inutile ai fini della battaglia etnonazionalista; il sottoscritto è utile, alla causa identitaria, come teorico lombardista, che prima dell’indipendenza della Lombardia auspica l’affrancamento della sua sopita identità nazionale.

Al di là della politica e delle beghe fra centralismo, federalismo, autonomismo ed indipendentismo, infatti, la cosa basilare rimane l’identitarismo etnico, la salvaguardia di sangue-suolo-spirito, fermo restando che la Grande Lombardia merita appieno la totale autoaffermazione nei confronti di Roma e dell’Italia. Non si tratta di fantasticare – come facevo agli albori –  di un nord celto-germanico “e basta” (manco fossimo inglesi o fiamminghi!), in ossequio a certo nordicismo neonazista, ma di contestualizzare le Lombardie nel quadro europeo centromeridionale, anello di congiunzione tra Mediterraneo e Mitteleuropa.

All’epoca del Movimento Nazionalista Lombardo, immaginavamo una Cisalpina inserita in una confederazione “gallo-teutonica”; da italianista la collocavo nel contesto panitaliano; adesso, razionalmente, la concepisco per conto proprio, poiché le macroregioni sono delle sciocchezze dal puzzo tecnocratico e affaristico. La famiglia imperiale eurussa sta bene, ma qui dobbiamo badare all’autodeterminazione nazionale dei lombardi, senza scendere a compromessi né con Roma né con Bruxelles. Degli altri nemmeno parlo. Al più, avrebbe senso un rapporto stretto con le realtà dell’arco alpino o della (vera) Alta Italia, ossia Toscana e Corsica, fermo restando che, nella storia, è certamente esistito uno spazio carolingio di impronta celto-germanica che comprendeva anche la Padania.

Volenti o nolenti, dobbiamo certamente fare i conti con la realtà, ma senza perdere di vista l’obiettivo fondamentale, che è quello di opporci risolutamente all’omologazione dello status quo divenendo esempio e applicando, nel concreto, i dettami del nazionalismo etnico. Come individui e come popolo. E senza dimenticarci che, prima della politica, viene la cultura poiché se mancasse quest’ultima la res publica sarebbe completamente svuotata di significato. A che giova portare alle urne i lombardi se questi non sanno nemmeno chi sono?  L’indipendenza e la liberazione della Lombardia cominciano dalle nostre menti e coscienze.

Non rinnego la fase italianista, così come non rinnego i primordi lombardisti, e se oggi posso gustare appieno, nella maturità dei miei quasi 40 anni, il lombardesimo è anche grazie a quei precedenti sette anni in cui tra meditazioni, riflessioni e studi ho fortificato la convinzione che ogni rinascita di orgoglio patrio deve necessariamente passare per la verità del sangue, la sacralità del suolo e la luminosità dello spirito. E, dunque, oggi più che mai affermo con convinzione che la mia patria è la Grande Lombardia.

Israele-Palestina: uno sguardo lombardista

Se non fosse che le vicende israelo-palestinesi abbiano ovvie ricadute anche sul mondo europeo, potremmo ampiamente disdegnare le semitiche beghe tra giudei e arabi di Palestina. Purtroppo non è così, in un mondo vieppiù globalizzato ed interconnesso, e per tale ragione il lombardesimo deve occuparsene, esprimendo il proprio punto di vista. Le vicissitudini mediorientali in questione si trascinano ormai da più di mezzo secolo, senza accennare ad una soluzione tra le parti; gli arabi vogliono che Israele scompaia, e gli ebrei che spariscano i palestinesi, lasciando spazio al Grande Israele auspicato dai guerrafondai stellati. Nel mezzo un’Europa, ridotta ad Unione Europea, succube degli intoccabili e della loro propaganda, e così gli Stati Uniti, che sono i principali fiancheggiatori e finanziatori dell’entità sionista.

Gli altri grandi potentati del globo, come Russia e Cina, strizzano l’occhio alla Palestina in chiave anti-occidentale, ma è questo soprattutto il caso dell’Iran, strenuo difensore delle genti arabe e islamiche oppresse dall’imperialismo sionista, nonché patrono della causa sciita di Hezbollah. L’Europa, ricattata dai giudei, è completamente incapace di avere un punto di vista critico circa i fatti di Palestina, e finisce per accodarsi al padrone statunitense. E c’è da dire che il giochino funziona grazie alla strumentalizzazione israeliana di fatti di ormai 80 anni fa.

E proprio gli ebrei sono coloro che dovrebbero fare i conti con la propria storia, mettendosi in discussione, poiché dimostrano di non avere imparato nulla dalle loro peripezie. Oggi schiacciano gli arabi di Palestina sotto il peso della macchina militare israeliana, mettendo a ferro e fuoco Gaza, tormentando la Cisgiordania e Gerusalemme Est con le colonie ebraiche, provocando altri stati arabi con una condotta militarista che si interseca con il terrorismo. Troppo facile vedere il terrore nelle organizzazioni paramilitari dei loro cugini semitici, perché sarebbe ora di comprendere come sia proprio Sion ad esercitare terrorismo nei confronti di un popolo inerme.

Noi lombardisti siamo solidali nei confronti dei palestinesi, ma non in virtù di un terzomondismo pezzente che simpatizza per i diseredati. Infatti, osteggiamo il sionismo laddove si faccia occupazione statuale e militare di territori tradizionalmente arabi, ma per il resto non siamo affatto contrari alla presenza israelitica nel Medio Oriente: gli ebrei, signori, non sono europei, vengono dalla Palestina e dintorni. Pertanto preferiamo che le genti ebraiche si trasferiscano laggiù (o negli Usa), essendo pesci fuor d’acqua nel contesto europeo. Non siamo dunque contigui alle posizioni antifasciste. I sinistrorsi sono pro Palestina per le solite questioni, mentre noi supportiamo la causa palestinese perché contraria allo strapotere ebraico.

Ma, chiariamo un punto fondamentale: non vogliamo uno stato palestinese, accanto ad uno stato israeliano, perché non crediamo nella favoletta dei due stati per due popoli; vogliamo una Grande Siria alauita e sciita, fraternamente sostenuta dall’Iran, che inglobi, oltre alla Siria, le restanti aree etnicamente e storicamente siriane come Libano, Iraq, Giordania e Palestina. Uno stato palestinese sarebbe ridicolo perché non esiste una nazione palestinese: esiste una nazione grande-siriana, di cui la Palestina è giusto una regione. Israele cesserebbe, chiaramente, di esistere poiché usurpatore di territori siriani, ma gli ebrei possono tranquillamente starsene in “Terra santa”, anzi, andrebbero incentivati a lasciare l’Europa per riabbracciare la culla dei loro padri.

Quale Russia, per un’Europa identitaria?

Aleksej Navalny, noto oppositore politico di Putin, è morto nella colonia penale artica in cui era detenuto. L’Occidente è immediatamente partito all’attacco del presidente russo, accusandolo di aver commissionato un omicidio, mentre Mosca smentisce riconducendo la morte a cause naturali. In passato Navalny si è reso protagonista di episodi facilmente inquadrabili nell’orbita del neonazismo e, come tutti i neonazisti (parodia, cioè, del nazionalsocialismo originale), soprattutto dell’Europa orientale, è stato foraggiato e manovrato dagli Stati Uniti e dall’imperialismo euro-atlantico. Davvero singolare la schizofrenia occidentale, di fronte alla fenomenologia dell’estrema destra, cosiddetta: se in Occidente i neonazisti vengono perseguiti, condannati e incarcerati, in Oriente vengono mossi come burattini, in funzione antirussa, dunque protetti, coccolati, glorificati. Proprio come è accaduto e sta accadendo a Navalny, fresco di morte strumentalizzata e pronto per la canonizzazione, in ottica democratica. Uno come lui, nell’Europa occidentale, verrebbe appeso per i piedi (ricordiamoci di Norimberga), anche se, leggendo le sue note biografiche, emergono pruriginosi particolari di taglio liberaleggiante, come l’appoggio per i “matrimoni” omosessuali.

Credo che la Russia di Putin non sia la miglior Russia possibile; Vladimir ha un’ottica fin troppo eurasiatica, sebbene frutto dell’ostilità occidentale, che lo porta a snobbare il fulcro europide della nazione moscovita, obliando l’identitarismo bianco e l’idea di un’Euro-Siberia restituita ai popoli europei indigeni. Sicuramente Putin ha in non cale la coscienza razziale, l’opposizione al semitismo, l’etnonazionalismo, i valori völkisch, ma d’altra parte la Federazione Russa è un impero, più che una nazione compatta. L’Occidente, in confronto a Mosca, è ben poca cosa, e il presidente russo giganteggia nei riguardi dello stuolo di nanerottoli politici sfornati dalle nazioni (si fa per dire) “democratiche”. Il vero nemico dell’Europa non è certo Putin: la nostra nemesi è l’unipolarismo americano, che riduce il continente a scendiletto del padrone statunitense. Il rischio di un abbattimento del capo moscovita, dunque, pensando anche alle vicende belliche russo-ucraine, di cui avremo modo di parlare, è quello di consegnare la Russia alla decadenza Usa, come ai tempi di Eltsin. Detto ciò, sarebbe auspicabile che la nazione russa, nel suo cuore europeo sino agli Urali, si riscoprisse bianca e di retaggio indoeuropeo, promuovendo una solida coscienza identitaria in chiave anche biologica e, così, il progetto euro-siberiano. Mantenendo, comunque sia, con fierezza l’ostilità nei confronti del ciarpame all’americana.

Grande Siria, l’unica soluzione

La diuturna questione israelo-palestinese, da mesi nuovamente deflagrata in tutta la sua distruttiva potenza, tiene ovviamente banco nell’attualità e nelle notizie dal mondo, anche per via dell’inguaribile sudditanza occidentale nei confronti dello Stato ebraico. Israele, o meglio, l’entità sionista, sta schiacciando sotto i cingoli del proprio esercito l’inerme popolo arabo-palestinese di Gaza, in uno scontro impari tra una scheggia impazzita d’Occidente, conficcata nel cuore del Levante, e una popolazione del terzo mondo, completamente in balia dell’occupante giudaico. La flebile scusa del terrorismo, accampata da Tel Aviv, non regge, poiché non esiste paragone tra le forze dispiegate in campo dagli israeliani e la resistenza palestinese. Oltretutto, è opinabile parlare di terrorismo: che forse gli ebrei di Palestina non rappresentino una forza militarista che esercita terrorismo, colpendo indiscriminatamente i palestinesi? Credo che l’Europa debba rivedere i propri criteri, relativamente al terrorismo e al patriottismo, essendo il primo incarnato da Gerusalemme, mentre il secondo da una Palestina condannata al brutale pugno di ferro di chi viene incessantemente foraggiato dal mondo capitalistico.

E che dire dei giudei? Un popolo che non ha imparato nulla dalla propria storia, con cui dovrebbe più spesso fare i conti, che esercita sproporzionata violenza su torme di diseredati, dimentico di tutte le sue peripezie millenarie. E che, nonostante questo, si permette di fare del moralismo spicciolo nei confronti di noi europei, ricattati con vicende di 80 anni fa, divenute il pretesto di tutti gli scempi a cui assistiamo da mesi, anzi, decenni. Personalmente non credo nella soluzione dei due stati per due popoli: Israele è e sarà sempre fuori luogo, una presenza ingombrante ed insostenibile che, giustamente, i palestinesi rifiutano; d’altro canto, non condivido l’idea dello Stato palestinese, poiché la Palestina è semplicemente una provincia siriana, al pari di Libano, Giordania, Iraq. Non sono contrario allo stanziamento ebraico nel Medio Oriente, anche perché è da lì che gli israeliti provengono. Sono contrario all’esistenza dell’entità sionista, dato che il territorio israeliano, che è sempre Palestina, appartiene a Damasco. Perciò, gli ebrei non sono affatto pesci fuor d’acqua laggiù, a differenza degli scenari europei. Certo, si tratterebbe di saper convivere, ma i giudei sono un’isola nel mare arabo, e dovrebbero accettare la potestà della Grande Siria alauita.