Paolo Sizzi a “Piazzapulita”

Sizzi a “Piazzapulita”

La prima settimana del dicembre 2019 fu piuttosto impegnativa, per il sottoscritto, essendo passato per ben tre interviste (si fa per dire) effettuate dai media di regime: due de La Zanzara di Cruciani e Parenzo e una ad opera del programma di La7 Piazzapulita. Qui parlerò, nello specifico, di quest’ultima.

Nel tardo pomeriggio di mercoledì 27 novembre 2019, mentre tornavo dal lavoro in macchina, mi trovai fra capo e collo un giornalista di Piazzapulita con un operatore, che praticamente irruppero in casa mia seguendomi alle spalle, essendo il cancello aperto. Fui preso alla sprovvista, così come mia madre che ritrovandosi due estranei in cortile (abito in un rustico villino del contado bergamasco) uscì allarmata per vedere che accadesse.

Capendo la situazione la signora, anziana e vedova, si spaurì, venendo colta da sconforto, e di fronte alla telecamera espresse tutta la sua preoccupazione e sofferenza per via della mia vicenda giudiziaria (condanna definitiva per “offesa all’onore e al prestigio del PdR”, Napolitano, e “istigazione alla discriminazione razziale”).

Questo, cari amici, suscita in persone normali ed oneste la persecuzione liberticida di chi si sfila dalle maglie dello status quo mondialista, finendo denunciato, condannato, esposto alla gogna mediatica. Leggi come la Mancino e il vilipendio delle istituzioni italiane sanzionano mere idee ed opinioni, e chi si macchia di tali “reati” non fa alcuna vittima, non danneggia né persone né cose: le uniche vittime sono gli stessi identitari, e i loro famigliari, come in questo caso vergognosamente tirati in ballo nella caccia alle streghe.

Cercai di tranquillizzare mia madre, facendole capire (per l’ennesima volta) che io non dico nulla di male, nonostante certe esagerazioni del passato – anche se lei non sente ragione e teme per me, soprattutto in chiave lavorativa (perché un lavoro ce l’ho) – e che, francamente, dell’opinione altrui me ne sbatto allegramente i cosiddetti. L’odio o il disprezzo che le reti sociali possono vomitare su di me non mi tangono, anche se fa capire chi, per davvero, è vittima di persecuzioni, di insulti, calunnie, minacce, bullismo internettiano e squadrismo antifascista da tastiera.

Dopo la scena patetica scatenata dall’intervento dei due figuri di La7 – che pensavo non venisse filmata e poi mandata in onda, avendo detto di non coinvolgere il genitore – decisi comunque di rilasciare un’intervista di un quarto d’ora circa, fuori dalla mia abitazione, in cui esposi il mio pensiero völkisch, la bontà della battaglia lombardista, la necessità di un “italianesimo” etnofederale (ero ancora nel periodo filo-italico) e la mia passione per l’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni.

Pur comprendendo come il rischio del consueto taglia e cuci fosse concreto, decisi di affrontare la telecamera, nonostante tutto e tutti, e illustrai il mio punto di vista, anche in merito alle domande che mi venivano fatte. Si parlò di craniometria e craniologia, antropologia fisica, genetica delle popolazioni, di ebrei (Segre) e di Balotelli, del concetto di cittadinanza e nazionalità, di endogamia e altri aspetti emersi dalla mia visione del mondo, ripescando vecchi cinguettii di Twitter.

Ultimata l’intervista, i due se ne andarono e io rincasai. Una settimana dopo, giovedì 5 dicembre, vidi il servizio su La7, anticipato dagli spot della trasmissione, Piazzapulita per l’appunto. Il sottoscritto venne presentato dissotterrando un vecchio filmato che circolava su YouTube circa la prima fase lombardista – praticamente un video di oltre dieci anni fa – e mostrando alcuni tweet del vecchio profilo Twitter, andati perduti (essendo stato cacciato due volte, da quel social), ma salvati dalla “preziosa” opera dell’Osservatorio antisemitismo. La cornice? Il tema dell’odio, ovviamente, con tanto di scritta a caratteri cubitali posta a chiusura delle réclame del programma, una trovata di cattivo gusto. Manco fossi Breivik.

Sì, perché fu proprio tale osservatorio democratico (?), ossessionato dai neonazisti virtuali o presunti tali e malato di censura, a dare l’imbeccata al giornalista Alessio Lasta, questo il suo nome, indirizzandolo verso di me, al fine di confezionare un servizio in cui si mettesse alla berlina il “nazi” disadattato di turno per fare sensazionalismo. Venni presentato come un nazista, un odiatore, un leone da tastiera che vomita bile su internet (come se mi fossi mai nascosto dietro avatar e nickname, peraltro!), un disagiato sociale, accostandomi a personaggi controversi e veicolando il messaggio che, da un momento all’altro, potrei passare all’azione, come se l’identitarismo fosse odio e la passione antro-genetica il prodromo della violenza.

Dell’intervista originale, si capisce, vennero mandati in onda pochi spezzoni raffazzonati, evidenziando faziosamente i passaggi più pruriginosi, se vogliamo, ancorché espressi in tutta calma, lucidità, razionalità, senza deliri e senza atteggiamenti nazisteggianti. Trasmisero i frangenti in cui parlai di endogamia all’europide, affermando l’importanza della salvaguardia anche biologica della propria identità (caucasoide bianca, italica, lombarda); la necessità di difendere il concetto di razza, come subspecies, che non è nulla di nazista e hitleriano – checché ne dica lo stucchevole intervistatore – ma è realtà antropologica, genetica, biologica appunto (mentre etnia è un concetto più culturale che altro); la differenza tra cittadinanza (carta) e nazionalità (sangue), sottolineando come la Segre, ebrea italiana, sia di cittadinanza italiana ma di nazionalità giudaica, così come un Balotelli nato e cresciuto in “Italia” sia negroide ghanese, e non italico per sangue.

Non mi sembra proprio di aver affermato delle castronerie perché la stessa genetica delle popolazioni ci dice come esistano ebrei distinti in vari rami (aschenaziti, sefarditi, mizrachi i principali, ma anche gli italkim , cioè gli Ebrei italiani, cui la Segre appartiene) e distinti, soprattutto, dai popoli europidi, essendo una popolazione sì ibrida – nel caso europeo – ma comunque situata, come cluster genetico, tra Italia meridionale e Levante. E questo vale per tutte le popolazioni del globo, i cui confini biologici possono essere delimitati sia dalla genetica che dall’antropologia fisica, che passa pure per l’analisi del cranio.

Infine, una battuta sulla Liliana che, senza addentrarmi nel suo passato che rispetto tranquillamente, oggi è un’anziana signora longeva e distinta (non se la passa certo male, in qualità di senatore a vita), dignitosa, ma dai propositi a mio avviso troppo bellicosi verso la libertà d’espressione, che non è libertà di insultare ma libertà di dire, ad esempio, che gli ebrei d’Europa sono un’etnia a sé stante, diversa dai cosiddetti “italiani” (a loro volta distinti in differenti etnie), ponte tra Levante ed Europa. Questo è forse odio? Affermare che esistono razze, sottorazze e profili fenotipici peculiari, nonché etnie innervate proprio sul concetto di sangue e, naturalmente, di cultura è istigazione a fare del male, ad impugnare un’arma? Ma che stiamo dicendo? Questo è un delirio bello e buono.

Terminato il filmato, in cui il Lasta si dimostrò chiaramente prevenuto, ignorante, partigiano e censore (ma visto l’esordio non poteva essere altrimenti), ecco il commento in studio di eminenti esperti di antropologia e genetica: Laura Boldrini, Arianna Ciccone, Valentina Petrini, Gennaro Sangiuliano (oggi ministro della cultura) e un giovane sovranista meloniano, Francesco Giubilei. Conoscevo solo la Boldrini, che ovviamente può vantarsi di essere una gigantesca testa pensante in materia di sangue, suolo, spirito.

Orchestrati da Corrado Formigli, il conduttore, indeciso sul come classificarmi (scemo o futuribile criminale nazista), i presenti si produssero in tutta una serie di beceri luoghi comuni, conditi da insulti, continuando a mescolare il sottoscritto con neonazismo, neofascismo, suprematismo bianco, Hitler, Mengele e gente varia che fa della violenza o aizza a farla. Io ho avuto guai giudiziari, è vero, ma per mere questioni d’opinione; sicuramente, ai tempi, posso dire di avere un “tantino” sbarellato, ma non ho mai fatto il nazifascista della mutua o il suprematista alla lombarda, non ho mai propagandato odio, e tantomeno lo faccio ora!

Piuttosto infervorata la signora Ciccone, assidua frequentatrice del “Cinguettatore”, che voleva ridurmi alla stregua di personaggio folcloristico, cui non dare alcuna visibilità, preso per i fondelli da tutti: tutti chi, scusate? I guitti antifascisti di Twitter, probabilmente, quelli che si vantano di essere democratici e liberali ma poi fanno le crociate per bannare e sospendere in perpetuo, dimostrando come dietro le “prese per il culo” vi sia comunque una grande paura per tematiche spinose e poco simpatiche come etnonazionalismo, antropogenetica e razzialismo, che sono inesorabili pugni nello stomaco al pensiero unico fucsia e al mondialismo, con le loro perversioni.

A questa signora dico che censura fa rima con paura e, pur concordando sul fatto che io sia innocuo perché persona civile, ribadisco che le tematiche da me trattate stanno profondamente sulle gonadi ai semicolti, ma non perché odio, istigazione alla violenza, neonazismo o altre assurde accuse di questo genere, ma perché vanno a sbugiardare clamorosamente tutte le balle antirazziste e antifasciste, tutte le narrazioni liberali e progressiste, tutte le costruzioni e sofisticazioni del politicamente corretto e della retorica resistenziale, che in questo finto Paese è una vera e propria droga. E non solo una droga, direi, ma pure una forma di dittatura che vuole eliminare tutto quello che esula dal contesto “democratico” (ossia schiavo dell’alta finanza), e infatti gli ospiti in studio condannarono pure il comunismo staliniano, altro nemico mortale del capitalismo e dell’imperialismo americano, quanto nazionalsocialismo e fascismo.

Il “simpatico” Formigli insistette dandomi del povero scemo, e dimostrando una grandissima profondità intellettuale e capacità di analisi, mentre quella Ciccone continuò a minimizzare riducendomi al rango di macchietta senza alcun peso ed importanza; in entrambi i casi stiamo parlando di ignoranti abissali che nulla sanno di ciò di cui mi occupo, e nulla sanno di antropologia, di genetica, di etnonazionalismo, però parlano, parlano e dicono un mucchio di corbellerie, assieme al Giubilei che prende le distanze da me difendendo il suo triste partito sovran-sionista, oggi al governo tricolore, amante della Repubblica Italiana, della costituzione e di tutta la chincaglieria partigiana, dicendo che il suo capo, la Meloni, nulla ha a che fare con l’etnonazionalismo. E meno male, diamine!

Scemo, scemo del villaggio, pazzo, personaggio folcloristico, nazista, soggetto dalle opinioni criminali (se non criminale tout court)… Le ficcanti argomentazioni degli astanti, ideologicamente trasversali (a testimonianza di come tutto l’arco parlamentare sia complice del sistema), alla corte di Corrado Formigli si sprecano, senza che nessuno entri nel merito della questione: odio? nazismo? razzismo? no no, nulla di tutto questo, parlo del preservazionismo etno-razziale fondato su basi scientifiche e biologiche, che non è sacrosanto perché lo dice il Sizzi ma perché lo suggeriscono la realtà che viviamo ogni giorno, una realtà fatta di globalizzazione che sradica, calpesta, infanga e distrugge l’identità in tutti i suoi aspetti, un’opera infame di demolizione supportata sia dai cialtroni di sinistra che dai cialtroni di destra, pecoroni statali della baracca italiana, entità coloniale di proprietà Usa e Nato.

La trasmissione intendeva stigmatizzare l’esistenza dei “nazisti del web” – per cavalcare ridicole polemiche qualche mese più tardi spazzate via dal coronavirus – ma, in tutta franchezza, è stata solamente la messa in onda di una sceneggiata indecente e spoetizzante in cui una persona, io nella fattispecie, viene linciata senza contraddittorio sparando nello spazio le più pacchiane banalizzazioni e strumentalizzazioni, senza, ripeto, entrare nel merito della vera questione che è la salvaguardia dell’identità e della tradizione di un popolo, di una comunità, in tempi di globalizzazione galoppante che non lascia spazio all’orgoglio etno-razziale. Quella stessa globalizzazione che poi cagionò una pandemia. Ma si sa, “il vero virus è il razzismo” (citazione di qualsivoglia fesso liberal).

Del resto, perché, periodicamente, si parla tanto, a vanvera, di fantomatico pericolo fascista o nazista, in Europa? Perché bisogna far guardare da un’altra parte, e perché si creano finti problemi con lo scopo di incanalare l’odio della gente verso il capro espiatorio “nazi”, lasciando belli tranquilli i veri nemici dei popoli europei che sono gli squali, i banchieri, i finanziocrati, i mondialisti, gli imperialisti euro-atlantici, la mafia nelle sue varie sfumature.

Qualcuno, a caldo, mi disse che avrei fatto meglio a non farmi intervistare; il problema è che il servizio, questi, lo avrebbero fatto comunque, e se li avessi cacciati a malo modo avrei dato l’idea del tizio che si spaventa ed evita di parlare, esprimendo il suo dissenso al regime. Io approfitto delle situazioni propizie per divulgare il messaggio etnonazionalista, che si costruisce anche sulle basi biologiche e, mi pare evidente, la figuraccia la fanno questi tristi e omologati giornalisti proni alla volontà dei tecnocrati antifascisti, giornalisti che non sanno nulla, non sanno di cosa uno parli, tentano di mettergli in bocca cose mai nemmeno pensate e fanno della retorica cosmopolita da quattro soldi.

Chiaro, col senno di poi (memore della prima intervista televisiva, quella de Le invasioni barbariche della Bignardi, con Michele Serra a sputare sentenze senza contraddittorio), vista l’irruzione, il coinvolgimento di terzi, le riprese in casa mia, il taglia&cuci e lo spettacolo raccapricciante in diretta, avrei potuto tranquillamente indurre gli intrusi ad andarsene evocando i carabinieri; tuttavia, ritengo che a sfigurare sia stato il circo di Piazzapulita, non certo chi scrive, perché il modello di giornalismo proposto da La7 in questa occasione si è dimostrato davvero pessimo, un imbarazzante tributo a chi comanda e tiene gli scribacchini per le gonadi.

Il discorso relativo al baraccone di Formigli può essere fatto anche per le due chiamate di Cruciani (che mi aveva già contattato nel giugno del 2015), dove lui e Parenzo si dimostrarono i veri fanatici intolleranti, ignoranti come caproni, che più di insultare, coprire la voce dell’interlocutore con le proprie, e buttare in gazzarra discussioni molto profonde e degne di attenzione, non possono fare. Fra l’altro, anche qui, solito lavoretto di taglio e cucito, senza dare lo spazio che merita alla basilare questione del sangue. Naturalmente, il loro programma radiofonico è quello che è, fatto di satira, provocazioni e inflazioni, ma non sarebbe male cercare di confrontarsi seriamente evitando, ad ogni piè sospinto, di aggredire verbalmente a vuoto, senza che, peraltro, vi sia da parte di chi parla (il sottoscritto) arroganza, presunzione, protervia. Io cerco solo di propagare il messaggio etnonazionalista, che ovviamente si avvale anche della scienza per corroborare i propri principi.

L’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni meritano rispetto, perché sono branche scientifiche, così come meritano rispetto l’etnonazionalismo, l’identitarismo sangue e suolo e il comunitarismo. Chi si approccia a questi contesti colmo di pregiudizi, dettati da superficialità e ignoranza crassa, non andrà da nessuna parte, e non capirà mai come lo studio dell’uomo, anche in chiave biologica, sia fondamentale soprattutto oggi, con lo scopo di annichilire tutte le idiozie egualitariste della vulgata progressista, antifascista, lib-dem.

Da ultimo, una precisazione: circolava una bufala secondo cui io avrei detto, in merito all’argomento Liliana Segre, che: «I campi di sterminio sono una fandonia come l’11 settembre»; questa affermazione mi è stata attribuita da un giornalista di Repubblica, Piero Colaprico, che si è basato su questo commento Facebook (il primo), postato da un tal Daniele (cognome cancellato), collegandolo, non so in che modo, al sottoscritto. Come mai non mi stupisce che un simile sfondone (a quanto pare in malafede) provenga da uno che scrive su quel giornale? Si prendono un po’ troppe libertà questi soggetti, dall’alto della loro inesistente superiorità morale…

Tutto questo voleva forse essere una trappola architettata contro il sottoscritto per presentarlo come mostro nazista da sbattere in prima pagina? Se così fosse il trabocchetto non ha funzionato perché, nonostante i soliti mezzucci giornalistici, credo proprio di aver detto la mia in una maniera sobria, equilibrata e ben lontana sia dallo stereotipo del neonazi che da quello della macchietta da tastiera. Sta alla gente obiettiva farsi un’idea circa la condotta sizziana, nella personale convinzione che nelle mie parole non vi sia alcuna forma di odio, discriminazione e incitamento alla violenza, ma solamente e semplicemente amore per la natura che sta alla base di una sana visione del pianeta terra e di chi lo abita.

Su YouTube potete reperire le tre interviste in oggetto. Lascio giudicare a voi il taglio giornalistico (se di giornalismo si può parlare, beninteso) assunto da questi personaggi, e se qui il problema vero sia io o, piuttosto, la dittatura dell’imperante pensiero unico/pensiero debole che si serve di cervelli succubi e bacati incapaci di animare individui per davvero liberi. Il dispotismo reale sta nell’antifascismo e nella sua macchina del fango, produttrice di leggi liberticide, giustificate da una presunta superiorità sinistroide e/o liberale, e di prodotti “culturali” affetti da faziosità cronica, dove i buoni e i belli sono i complici della tirannia globalista mentre i cattivi e i brutti tutti quelli che si sottraggono alla vulgata di questa fosca temperie occidentale (contemporanea).

A proposito di craniometria (e di “Zanzara”)

Pól

Nel giugno del 2015 ricevetti la prima telefonata (ne seguiranno altre 4 fra 2019 e 2023, tutte quante reperibili su YouTube) da quei due guitti de La Zanzara (nota trasmissione radiofonica demenziale in onda su Radio24), Giuseppe Cruciani e David Parenzo. Avrei potuto benissimo sbattergli il telefono in faccia – pur non conoscendo bene il programma, all’epoca – ma la tentazione propagandistica è sempre troppo forte. E credo sia giusto affrontare il dibattito, anche a costo di venir irriso da minus habentes come quelli (il che, comunque, è un’attestazione di stima involontaria, visti i soggetti).

La loro chiamata era dovuta alla curiosità suscitata dalla craniometria, un interesse che coltivo da anni in qualità di amatore, nel più ampio contesto dell’antropogenetica, ma che nella testa di personaggi del genere (o dell’itaglione medio) sembra qualcosa di lombrosiano o nazista. Oltretutto, chissà come si procurò il mio numero, il duo romano-ebraico…

Cari amici, che cos’è la craniometria, scusate? Non è altro che una diramazione della più vasta branca antropometrica, una disciplina scientifica che tratta delle misurazioni del corpo umano (del cranio e dello scheletro, soprattutto) per scopi archeologici e antropologici, perno dell’antropologia fisica (o razziologia, ma tale termine so che provoca forte prurito nei benpensanti).

La craniometria, misurazione del cranio, si ricollega alla craniologia, vale a dire allo studio del cranio umano ai fini antropologici ed etno-razziologici. Tutto ciò, tengo a precisare, con Lombroso e la sua frenologia (o la fisiognomica) non ha nulla a che vedere. La craniometria è scienza, la frenologia è astrologia. Chiaro il concetto?

Ormai dovrebbe esser chiara – a chi frequenta i lidi sizziani – la preminenza delle misure cranio-facciali e corporee per gli scopi della tassonomia razziale, poiché la pigmentazione è un dato secondario e non è il principale discrimine tra razze umane, soprattutto tra sottorazze e varietà fenotipiche di una stessa razza.

Detto questo, non è che il sottoscritto sia un antropologo o uno scienziato, ma ha una passione per l’antropologia fisica (così come per la genetica delle popolazioni, pur non essendo un genetista), e dunque per l’approfondimento delle conoscenze riguardo la biodiversità razziale umana.

Ovviamente è uno studio da integrare, per forza di cose, con la suddetta genetica delle popolazioni ma che, evidentemente, agli occhi di gente come Cruciani o Parenzo suona poco più che una barzelletta. Beata ignoranza: costoro volevano far fare la figura dello scemo al sottoscritto ma, irridendo anche solo il concetto di ‘aplogruppo’, si sono tirati la classica zappa sui piedi. Chiunque può cercare informazioni su quanto sto dicendo ora (e che ho sempre detto più e più volte sui vari blog) e può così verificare se sia io ad essere “da ambulanza” (cit. Cruciani) o loro da asilo infantile. Io sono solo un appassionato, ma genetisti del calibro di Cavalli-Sforza, Piazza, Barbujani, Boattini, Francalacci, Cruciani (omonimo del conduttore), Boncinelli, Sazzini, Caramelli, Raveane, Sarno ecc., solo per rimanere sugli italofoni, non credo meritino di vedere sputacchiato il proprio campo scientifico d’indagine da due saltimbanchi.

La realtà “italiana”, fra le altre cose, è una delle più studiate al mondo, in fatto di genetica, per via della sua ben nota diversità etnica che le dà un aspetto alquanto eterogeneo, così peculiare da non avere eguali in Europa. E non solo in senso nord-sud ma anche ovest-est, per non parlare del caso sardo e delle varie minoranze.

Per carità, la trasmissione radiofonica incriminata, La Zanzara, è un tripudio di cattivo gusto e cialtroneria dove uno come Parenzo fa la parte del… leone, ma ogni occasione è buona per parlare di antropologia e amore per le proprie radici, con relativo studio approfondito in campo sia fisico che genetico.

Quanto dai due mandato in onda è stato il consueto taglia&cuci (l’intervista è durata 5-6 minuti, in cui ho parlato di svariate questioni) ma, francamente, ribadisco che la figura degli imbecilli l’hanno fatta Cruciani e Parenzo. Io mi sono limitato, senza sbottare per cadere nei loro tranelli e far la figura dell’idiota fanatico, a parlare brevemente di craniometria/craniologia e genetica, argomenti che come sapete ho affrontato con dovizia sui miei spazi virtuali precedenti, e che continuo a fare su Lombarditas.

La misurazione del cranio è assai ricorrente presso archeologi, paleontologi, anatomopatologi, medici forensi, ricercatori antropologici e fino a che non è stato un reato (per gli antirazzisti) parlare liberamente di razze e loro studio antropologico e fisico, a livello accademico, fior fior di autori se ne sono avvalsi per spiegare al meglio la differenziazione tra gruppi razziali umani (per citarne qualcuno ricordiamo Broca, Boas, Ripley, Lapouge, Deniker, Sergi, Livi, Biasutti, von Eickstedt, Hooton, Coon, Günther, Lundman, Baker, Schwidetzky, Knussmann). Tra l’altro, va detto che l’antropologia fisica è una disciplina scientifica e si studia nelle università (a Bologna e Ferrara, ad esempio), e a questo proposito va fatto il nome dell’accademico fiorentino Brunetto Chiarelli, tuttora in vita.

Pure Cavalli-Sforza si avvaleva di studi antropometrici ed antroposcopici parlando di genetica delle popolazioni (citando lavori contemporanei), proprio perché non siamo tutti uguali, e sensibili differenze fisiche intercorrono tra le principali razze umane e relativi sottogruppi. Questi studi sul corpo umano in senso etno-razziale corroborano poi, ovviamente, la genetica delle popolazioni, che mostra anch’essa la biodiversità tra etnie e razze.

Peraltro, se teniamo conto di antropologia fisica e genetica, più che di sottorazza, oggi come oggi, conviene parlare di fenotipi, e la craniometria di cui tratto io (le misurazioni, le tassonomie, l’inquadramento etnico e geografico) non è altro che questo. Le sottorazze vere e proprie, infatti, riguardano le suddivisioni geografiche della razza caucasoide e delle altre, caratterizzate dai vari tipi fisici regionali.

Sulla rete c’era un interessante calcolatore per caucasoidi (Racial analysis calculator) messo a punto da Dienekes Pontikos, personaggio greco noto anche per lo studio della genetica delle popolazioni (vedi il Dodecad Project); una versione pensata per i maschi e una per le femmine. In mancanza di craniometri, e di altri strumenti professionali, era un valido supporto per avere una classificazione indicativa circa il proprio fenotipo, basandosi sui punti craniometrici.

Non essendo più online appare superfluo parlarne, ma la misurazione andava effettuata correttamente, utilizzando strumenti come calibro, morsa, riga rigida, bindella, compasso, squadra metallica e il responso prodotto andava messo in relazione con il supplemento fotografico dell’opera fondamentale di Coon The Races of Europe, che potete ancor oggi trovare qui. Il sito in oggetto, sebbene di taglio nordicista, è una fonte assai preziosa di informazioni, e potete reperirvi tantissimo materiale interessante, tra cui un utilissimo glossario, tavole, mappe e la bibliografia del caso.

Un altro sito alquanto degno di nota è Human Phenotypes, frutto dell’eccellente lavoro di un utente tedesco un tempo presente sull’antro-forum The Apricity (che, tra le altre cose, mi classificò come “southern Celt“, ossia Atlanto-Mediterranid + North Atlantid, da intendersi come il Keltic Nordid di Coon).

Una precisazione: il sottoscritto è noto per saper classificare, fenotipicamente, un individuo partendo anche solo da poche fotografie (basate sulle classiche tavole craniologiche: visione frontale, di tre quarti, laterale); è evidente che la mia classificazione non potrà che essere indicativa, per quanto basata sulla cultura fenotipica, perché la craniometria vera e propria necessita, ovviamente, di valori numerici.

Con il calcolatore razziale di cui sopra ho misurato me stesso e pochi altri individui, ma come capirete, o saprete, chiunque poteva misurarsi e misurare per avere un responso di massima circa la propria natura sub-subrazziale. Ovviamente, alle misurazioni va unita l’osservazione antroposcopica (e la conoscenza, dunque, dei raggruppamenti razziali umani) e la già citata genetica delle popolazioni.

A questo proposito vi inviterei a farvi un bel test dell’ADN, che reputo soldi ben spesi se una persona ha a cuore l’approfondimento del proprio lignaggio. Ai tempi (2013), io e il mio “giro” lombardista ci testammo con 23andMe, ottimo ed economicamente abbordabile per avere una prima infarinatura, circa il proprio genoma. Stesso discorso per Living DNA e MyHeritage. Come ulteriore approfondimento, per chi volesse, ci sono anche AncestryDNA, FTDNA e Full Genomes, per citare qualche test.

Studiare, anche solo per passione, le razze umane è semplicemente amore per le proprie radici e per la biodiversità, e non è nulla di sbagliato, di criminale, di razzista o di folle, con buona pace di chi irride, con arrogante ignoranza, le discipline – scientifiche – che si occupano della questione.

Ma forse è giusto così, poiché il disprezzo di chi è parte integrante del sistema segna la via da non seguire per finire dritti dritti nelle fauci dell’omologazione, che è poi eradicazione e distruzione della propria identità e del proprio retaggio, anche biologici, non solo culturali. Chi ha invece due dita di cervello e del buonsenso, si tolga le fette di salame oscurantiste dagli occhi e si lasci avvincere dalla razziologia. Conoscere se stessi e la propria stirpe, ma anche quelle altrui (partendo dall’Europa), è una marcia in più, non una in meno, soprattutto in questi tempi di relativismo distruttore e di gioventù dal cranio vuoto infarcito di spazzatura americana.

Sizzi alle “Invasioni barbariche”

Sizzi alle “Invasioni barbariche”

Veniamo alla famosa intervista rilasciata a Le invasioni barbariche di Daria Bignardi, andata in onda il 13 aprile 2012 su La7, di cui, credo, potete trovare ancora qualche spezzone su YouTube.

Reperirete, probabilmente, anche le immancabili parodie seguite alla pubblicazione di alcuni miei datati video propagandistici, forse un po’ pittoreschi essendo vecchia scuola (quelli in primeva camicia plumbea, per capirsi), ma non mi crucciano: fanno parte del gioco, e state tranquilli che non ho fregole liberticide, a differenza della Repubblica Italiana (che fa rima con “colonia americana”).

Venni intervistato da una troupe televisiva del programma il 23 dicembre 2011; lo scenario fu attorno a casa mia e al vecchio cascinale paterno, che si trovano nel medesimo fondo denominato Gér (ossia ‘luogo ghiaioso’, perché un tempo qui ci arrivava il Brembo), nel comune di Brembate di Sopra, tra campi, boschi, vigneti, orti, pollai.

L’intervista durò tre ore buone con un fuori programma finale proprio in riva al fiume succitato, sulla cui destra orografica sorge il mio paese. Siamo nel nordest dell’Isola bergamasca, cosiddetta perché incuneata tra i fiumi Adda e Brembo, appunto.

Anche in questo caso, come nell’intervista de il Post, dissi cose contenute in questo blog, sebbene in modalità più “rozza”, e quindi è inutile ripeterle: si parlò di me, della mia storia, della mia famiglia, della mia formazione, delle mie idee, dell’allora Movimento Nazionalista Lombardo.

Sarei dovuto andare in onda il 20 gennaio 2012, durante la prima puntata delle Invasioni, su La7, ma per tutta una serie di problematiche logistiche slittai all’ultima, quella del 13 aprile, che fra le altre cose si occupava dei famigerati scandali leghisti relativi a Belsito, al “Trota” Bossi e Rosi Mauro che portarono alle dimissioni di Bossi senior e alla smania di repulisti incarnata da Maroni, il segretario della Lega Nord subentrato al genio di Cassano Magnago. Successivamente, Maroni divenne governatore della Pirellonia (la Regione Lombardia) e al suo posto venne eletto l’uomo della (finta) svolta, Matteo Salvini.

Dico “finta”, sì, perché l’italianismo di via Bellerio era in fieri e l’ex felpato del Giambellino (Salvini) si è solo limitato a prendere atto della vera natura italiana del leghismo, in senso soprattutto deteriore, sgombrando il campo da annosi equivoci frutto della propaganda secessionista.

Piccolo inciso: ma mentre la Lega andava a passeggiatrici, grazie al “cerchio magico” ausonico stretto attorno all’Umberto (e capeggiato dalla sua seconda mogliettina per metà sicula), Maroni e Salvini dov’erano? Veramente non sapevano nulla?

La puntata della trasmissione in oggetto si concentrò anche sugli umori della base padana e sulla voglia di “identità” dei “militonti” leghisti, traditi dai loro magno-greci dirigenti/digerenti, al che si inserì la mia intervista.

In studio con la Bignardi, tale Michele Serra Errante (un nome un programma), giornalista sud-italiano (ovviamente) di Repubblica che ama farsi gli affari nostri – nostri di noi lombardi – pontificando sull’italianità di cartapesta e sul padanismo con un sarcasmo piuttosto untuoso e patetico.

Tre ore di riprese condensate in pochissimi minuti, in cui il girato originale si alternava a stralci del mio video di presentazione del vecchio canale YouTube dei Lombardisti. Il filmato finale risultò così essere una “demonizzazione” del sottoscritto, con tanto di musichetta lugubre e di Hitler sbraitante in sottofondo.

C’è da stupirsi che La7 di De Benedetti abbia deciso di presentarmi così? Assolutamente no, era prevedibile e difatti decisi di affrontare il rischio, conscio comunque dell’esposizione mediatica e della pubblicità gratuita, per me e pel movimento lombardista. Valgono, insomma, gli stessi ragionamenti fatti per la precedente intervista a il Post. Bisogna osare, signori miei, altrimenti possiamo anche lasciar perdere di fare (meta)politica e di portare la nostra rivoluzionaria testimonianza, in questo mare di conformismo tricolore e, quindi, mondialista.

Le tragicomiche iniziarono quando, al termine dell’intervista taglia&cuci, la radical chic Bignardi chiese al buon compagnuccio Serra sue impressioni circa il sottoscritto. L’enotrico sputasentenze, con un’espressione tra il sorpreso e l’imbarazzato stampata in volto, si produsse allora in considerazioni banali, scontate, infantili, che qualunque attivista da cesso sociale poteva rilasciare.

Approfittando della mancanza di contraddittorio, si permise pure di fare il fenomeno, aizzato dalla claque del programma, insultando e usando turpiloquio nei miei riguardi, come se fosse un comunistello “terruncello” qualunque e non un giornalista di professione. Che poi, per carità, non pretendo troppo da chi scrive su certe testate, anche perché l’odierna qualità del giornalismo italico la conosciamo tutti…

Il tizio si lasciò andare alle seguenti esternazioni:

«bisogna essere drastici con uno come questo» – “questo” ha un nome, ma stai forse istigando?;

«uno può inventarsi le identità che vuole» – ha parlato il trombone itaglione, per dirla alla Oneto, difensore dell’italianità posticcia e dell’anti-identità mondialista;

«ogni identità su base etnica è razzista» – ecco il solito benpensante ignorante che confonde la razza con l’etnia e che reputa l’identità null’altro che un documento rilasciato dallo Stato senza nazione (peraltro, il razzismo cosa c’entra?);

«bisogna che qualcuno gli vada a dire, affettuosamente ma fermamente, che dice puttanate» – paternalismo misto a pacchiana prosopopea, da suprematismo sinistrato con tanto di trivialità ben poco “signorile”, ne abbiamo, Serra?;

«il razzismo non è un gioco» – non sono razzista, caro Michele, e chi gioca, surriscaldato dagli applausi pilotati e dalla compiacente Bignardi, sei tu vecchio mio;

«sangue e suolo producono morte, paranoia, follia» – a parte il fatto che nel video mandato in onda non parlavo di sangue e suolo – avranno mica imbeccato un sapientone come te, Michele? – vogliamo trattare di tutto il criminale degrado prodotto da oltre 75 anni di repubblica partigiana, atlantista e democristiana? Tutto produce morte, paranoia e follia comunque, se interpretato da menti malate, ma non devo certo farmi carico io dell’assistenza sociosanitaria “nazionale”;

«ha la camicia bruna, poverino anche lui» – il poverino sei tu, la camicia era grigio piombo, mettiti gli occhiali;

«il simbolo (la Croce lombardista, NdA) ricorda pateticamente il nazismo» – a parte la confusione della ruota solare, volgarmente detta “celtica”, con la croce uncinata nazionalsocialista, vogliamo dire, o Serra, quanta morte e distruzione produssero la Rivoluzione francese e i tuoi amati “liberatori” americani, assieme agli zelanti tirapiedi partigiani di ogni colore (in particolar modo i traditori rossi al soldo dei titini) o a quelli della Brigata Ebraica, che poi finirono nelle file degli aguzzini israeliani?;

«costui è una persona abbandonata perché non si è stati severi» – sono grato ai miei genitori per l’educazione ricevuta, grazie a cui sono cresciuto tradizionalista, identitario, rustico, immune ai veleni modernisti, altrimenti oggi sarei un Michele Serra qualsiasi;

«qualche adulto gli dovrebbe dire che sta dicendo cose imbecilli e pericolose, inaccettabili» – ed ecco ancora la sciocca paternale democratica di chi non ha alcun titolo per farla, come se per forza di cose il bamboccio fossi io (all’epoca ventisettenne) e non, piuttosto, i giovani reggicoda del regime antifascista fossilizzato nei liberticidi reati d’opinione e di vilipendio delle istituzioni tricolori. Cosa c’è di più infantile del seguire il sentiero battuto, acriticamente, magari indicando come soluzione l’emigrazione di massa verso la Babilonia americana o i “civili” Paesi nordici? Ma l’adulto chi sarebbe, poi? Uno come l’Errante Serra?

Il soggetto terminò sparando a zero sulla Lega Nord, dicendo che essa ha fallito il suo obiettivo che era quello di fare la Padania e i padani mentre il padanismo non è che identità di pochi imposta a molti.

Questa sua ultima affermazione mi fa ancora sorridere, a distanza di dieci anni: la Padania certamente non esiste, ma la Lombardia sì, come ben sappiamo; non c’è bisogno di inventarsi proprio nulla, in questo caso, perché i lombardi e la Lombardia sono realtà a prescindere da ogni propaganda e da ogni forzatura politica. Bisogna solo prenderne atto, senza farsi venire la schiuma alla bocca, delirando di “padanismi” imposti.

Chi, oltretutto, ha imposto qualcosa agli altri sono proprio coloro che hanno creato il baraccone ottocentesco italiano, fregando decine di milioni di persone a tutto vantaggio di una sparuta minoranza di maneggioni massonici (sul libro paga dei forestieri), quindi non fatemi venir da ridere. Non lo dico certamente per difendere i legaioli, sia chiaro, dato che si sono spensieratamente adattati alla temperie della capitale dell’Italia etnica (cioè “Roma ladrona”).

Serra e i suoi epigoni, da indefessi democratici, concepiscono l’Italia come un mero staterello senza sangue e senza suolo, aperto a cani e porci e in vendita al miglior offerente mondialista, e ci può anche stare, capiamoci, se la intendiamo come “unica famiglia dalle Alpi alla Sicilia”, appiattita sulla linea della statolatria di marca giacobina e antifascista.

La vera Italia è il territorio centromeridionale, e solo laggiù uno Stato unitario italiano potrebbe avere un senso; in caso contrario, allargando l’italianità a terre che italiche e italiane non sono mai state, non si può che ottenere la contemporanea repubblica-canaglia del tricolore, entità multietnica inevitabilmente – per coerenza cosmopolita (dunque apolide) – schierata dalla parte della globalizzazione e dei nemici della sovranità nazionale dei veri popoli storici.

Ai Michele Serra di turno parlare di identità va bene solo ed esclusivamente quando si tratta di popolazioni del terzo mondo, da strumentalizzare abilmente per gli scopi cari agli idoli della sinistra progressista occidentale: gli americani, preferibilmente in stile Obama.

Cari i miei sommi sacerdoti del giornalismo italiano, avete uno Stato ma non avete una nazione, non avete unità, non avete fraterna solidarietà perché questa repubblica è sbagliata e campata per aria, e di conseguenza fa solo il gioco del nemico. E la situazione non può essere certo sanata dalla retorica patriottarda dei Napolitano e dei Mattarella. Non posso riconoscermi nell’Italia etnica e storica, perché sono lombardo; pur avendo, per sette anni, lasciato perdere la soluzione indipendentista carezzando una forma di etnofederalismo volto alla coesione delle “Italie”, sono sempre rimasto fermo (e non solo per le inique grane giudiziarie) nel mio giudizio negativo circa lo Stato italiano, che di identitario non ha praticamente nulla (basti pensare, ad esempio, al fatto che la lingua italiana – cioè l’idioma di Firenze – non è riconosciuta come lingua ufficiale dalla “sacra” costituzione).

Il concetto contemporaneo di democrazia non è altro che una forma di sudditanza, della politica dell’arco parlamentare, in favore della plutocrazia e dell’alta finanza il cui obiettivo è annientare le radici delle genti estirpandole e bruciandole con l’infernale fuoco anti-identitario e anti-tradizionalista, che alimenta l’odio mondialista delle moderne dittature finanziocratiche basate sulla debolezza del pensiero unico. I politici? Camerieri lautamente ricompensati al servizio dei potenti e degli intoccabili.

Costoro non difendono e rappresentano, dunque, il popolo, non difendono la gente comune, non difendono il sangue (perché l’identità è sangue, altrimenti è ius soli, o ius sanguinis da strapazzo stile RI): incarnano le istituzioni, e uno stato-apparato che non ha un’ossatura identitaria e genuinamente nazionale, in quanto espressione di un’accezione di Italia del tutto fallace.

Il concetto artificiale di italianità è odioso e insopportabile, prevede una massa amorfa di cittadini che sono “italiani” sulla base di un pezzo di carta burocratico, o quando si tratta di pagare esorbitanti tasse (in cambio di servizi da sottosviluppo) e strisciare muti obbedendo al padrone internazionalista di Roma.

L’italianità può essere un concetto vivo e guizzante se applicato alla sua reale sfera etnonazionale, che è quella toscana, còrsa, mediana, siculo-ausonica, maltese, altrimenti diventa il moloc che ancor oggi ci fa scannare senza alcun vantaggio per nessuno, o meglio, per i nostri parassitari nemici.

Io non mi invento proprio nulla quando parlo di Lombardia e lombardi, perché esistono, a differenza degli italiani caricaturali “spantegati” sino alla Vetta grande-lombarda (il Klockerkarkopf), concepiti come sguaiati tifosi bardati d’azzurro, mangia-spaghetti, mammoni, servi papisti, mandolinari dai baffi neri, mafiosi o cibo per altri stereotipi americani (fondamentalmente basati sul meridione italico) e perché io non difendo il mondialismo e il suo sottoprodotto all’amatriciana, ma la natura, la verità, la libertà.

Tutte cose che fanno un male cane a quelli come Serra e colleghi che difendono Stati e non nazioni, e che gli fanno letteralmente perdere le staffe al punto di insultare, frignare e volgarizzare con termini da bar sport le sacrosante ragioni identitarie dei lombardi e di ogni vero popolo d’Europa.

L’intervista a “il Post”

Ol Pól (foto di Thomas Pololi)

Nell’estate del 2011, in piena temperie lombardista dei primordi, rilasciai un’intervista ad un giornalista indipendente, che poi la fece avere al noto quotidiano online sinistroide (e filo-americano) il Post, che la pubblicò il 12 luglio dello stesso anno. All’epoca avevo 26 anni e la fregola un po’ narcisistica di atteggiarmi a personaggio, il che può aver in parte inflazionato la bontà del  messaggio che volevo comunicare, e in cui ho sempre creduto: la fondamentale importanza, soprattutto in una temperie globalista, di difendere a tutti i costi identità e tradizione.

A quei tempi, essendo stato esponente del Movimento Nazionalista Lombardo, avevo tutto l’interesse di farmi pubblicità, sfruttando vari canali, e poco mi importava di come potevo venire raffigurato agli occhi dell’amorfa massa antifascista; del resto, il gioco di questa gente è quello di rappresentare gli identitari come pazzoidi e casi umani, è così da tempo: chi va contro la vulgata mondialista merita il pubblico ludibrio, una cosa che comunque ha anche i suoi vantaggi.

Personalmente ho sempre messo nome, cognome e faccia per diffondere ciò in cui credo, ed è quello che dovrebbe fare ogni patriota, per concretizzare la resistenza al sistema globale e globalizzante. Delle scomposte reazioni dei conformisti poco me ne cale; non mi ha mai preoccupato il giudizio altrui, pur riconoscendo di avere, in diverse occasioni, esagerato calcando la mano. Eccessivo zelo giovanile.

Naturale che gli avversari si occupino di te in maniera ferocemente critica o canzonatoria. Ma, se ti prendono in considerazione, vuol dire che, a tuo modo, fai pensare e in un certo senso fai anche paura ai benpensanti, e lo dimostra il fatto che sono stato sotto processo e condannato per ridicoli reati d’opinione (vilipendio del PdR e istigazione all’odio razziale, a mezzo blog).

La satira fa parte del gioco – sebbene il sottoscritto non sia certo un potente – e a differenza dei presidenti della Repubblica italiani non sono permaloso. A patto che non mi si diffami, ovviamente.

Le manifestazioni isteriche dei media, e del pubblico coi paraocchi in genere, sono sintomatiche dei riti apotropaici che la società buonista ancor oggi inscena per esorcizzare i fantasmi del passato, a dimostrazione che, nonostante il mare di ciarle retoriche con cui le istituzioni ci sommergono, non è affatto vero che la gente abbia sviluppato gli anticorpi necessari per combattere il “fascismo” e il “razzismo”. Di conseguenza, si ripescano tematiche di ottant’anni fa per far guardare da un’altra parte, sparigliando le carte in tavola col fine di impedire di capire dove stia il bene e dove il male.

Il sottoscritto, peraltro, tecnicamente non è né fascista né razzista, anche se fa comodo dipingermi così per, appunto, esorcizzare le proprie paure e banalizzare le tematiche scottanti che stanno a cuore ad ogni sincero nazionalista, e che solo i fessacchiotti di regime possono derubricare al rango di “deliri” di personaggi isolati e disadattati che “non trombano” (magari qualche bella meticcia sudamericana?). Curiosa l’ossessiva insistenza degli antifascisti sul “trombare” e lo “scopare”: sa tanto che ad andare in bianco siano loro…

Che dunque i perbenisti della vulgata antifascista e antirazzista continuino pure ad occuparsi ossessivamente di noi e a criminalizzarci; ci fanno solo un favore e le persone genuine e razionali valuteranno da sé dove stia la verità.

Nel luglio di una decina di anni fa, quindi, previo accordo telefonico, si presentarono a casa mia due tizi per intervistarmi e scattare qualche foto nell’agro brembatese (superiore), in cui felicemente vivo e che ha naturalmente condizionato la mia formazione. Nell’intervista, nonostante il cambio di registro e di prospettiva su alcune cose (maturando è giocoforza), dicevo ciò che potete leggere su questo blog; al netto di qualche esagerazione esibizionistica, io sono quello che emerge dall’articolo, al di là delle idee politiche: una persona rustica, schietta, genuina, vera, terragna, proba, fortemente attaccata al proprio sangue, al proprio suolo, al proprio spirito.

Signori, è ovvio: il giornalismo italiano (parlo dei media di regime) cerca di presentarti come un caso umano, lo scemo del villaggio, uno a metà strada fra un matto e un buffone, ma forse non lo sappiamo? Per questo dovremmo nasconderci e darci all’anonimato? Giammai, e ben vengano queste occasioni – a patto che non siano trappole – che permettono di esporci e di dire la nostra facendo valere le nostre ragioni. Spesso smentendo il prevenuto che ci troviamo davanti. Dipende, tuttavia, dalla serietà e dall’onestà dell’interlocutore: nei casi che vedremo nei prossimi articoli i giornalisti, se così possono chiamarsi, si sono dimostrati pessimi.

Superfluo dire, altresì, che io non sia un pazzo, un criminale e un cultore della violenza e quindi chi mi accusa di cose simili la fa fuori dal vaso, in cattiva fede, per portare avanti la sua patetica agenda di servo. C’è, infatti, la tentazione di dipingere l’etnonazionalista o il sovranista, il tizio di “estrema destra” insomma, come un pericolo pubblico, sulla scorta di qualche caso di cronaca d’oltreoceano (una realtà che nulla c’entra con l’Europa).

Ad ogni modo, l’intervistatore si mostrò gentile e ben disposto nei miei confronti, e devo dire che, nonostante qualche errore di trascrizione e qualche confusione, ha riportato fedelmente, nell’articolo, quanto ho avuto modo di dirgli all’epoca. Capiamoci: questo giornalista non era nella maniera più assoluta un mio ammiratore o un sostenitore della causa etnicista, anzi, e non era nemmeno neutro; la sua inclinazione antifascista era evidente (altrimenti dubito che il Post gli avrebbe pubblicato il pezzo).

L’intervista riguardò la mia biografia, il passaggio all’etnonazionalismo radicale come conseguenza del distacco dal cattolicesimo e dal pensiero cristiano, il Movimento Nazionalista Lombardo, la Weltanschauung sizziana e la passione per il sangue, il suolo e lo spirito, declinata anche in chiave antropologica e culturale.

Il titolo dell’articolo, “Non ho mai visto il mare”, nacque dalla mia dichiarazione di non essere mai stato in località marittime (pur avendo visitato Venezia nel 2004) e potrebbe celare qualche piccola malignità da apericena antifascista dell’autore, della serie: «Questo è un disadattato con l’apertura mentale di un talebano». In realtà, quel che volevo dire era che non ho mai vissuto il mare, e non ne sento il bisogno, essendo un lombardo coi piedi ben piantati per terra e amante di laghi, campagne, colline e montagne della mia patria. Naturalmente, il mare bagna anche la Grande Lombardia (Liguria, Romagna, Venezie) ma il suo nucleo etnico è squisitamente di terraferma.

In altre parole, alludevo alla mia idiosincrasia nei riguardi di quella mentalità italiana stereotipata incentrata su ‘o sole e ‘o mare; il mondo marittimo non fa parte della cultura e dell’esperienza padano-alpine, così come non fa parte della cultura alpina in genere. Ciò non toglie che, un domani, possa visitare le terre granlombarde o europee bagnate dai mari. Ma, di sicuro, non ho una mentalità “da spiaggia” e i miti melodrammatici e petalosi del “mare-che-apre-la-mente” e del “mare-che-unisce-i-popoli” mi provocano prurito alle mani.

La mia visione è un handicap? Direi proprio di no. Io so nuotare e non ho paura dell’acqua, ma al mare preferisco i miei fiumi, i miei laghi, le mie pozze orobiche alpine, i miei torrenti dagli antichi nomi indoeuropei. Anche questo è identitarismo.

Questa mitologia del mare, in chiave italiana, fa un po’ parte del lavaggio del cervello meridionalista operato da Roma, che prevede abbondanti dosi di pizza, spaghetti, sugo di pomodoro, esaltazione dell’olio d’oliva a scapito dei “barbari” derivati del latte e di sceneggiate napoletane assortite per farci credere tutti quanti uguali, da Bolzano a Pantelleria. L’Italia esiste, è innegabile, ma non comprende la Lombardia, che rispetto al centrosud e alle isole è un mondo a sé stante. L’appiattimento subculturale romanocentrico, attuato anche grazie agli esodi “interni” su vasta scala, ha tramutato lo Stato del tricolore in una grigia e tetra prigione di popoli disparati.

Ma il mare (inteso come Mediterraneo), notoriamente, è anche il simbolo del relativismo, dell’annientamento, dell’annullamento dell’individuo tra i flutti del nichilismo contemporaneo, e di un certo libertinaggio promiscuo ed edonista che vuole estirpare la moralità della tradizione per travolgere i popoli col conformismo, e dunque lo sprezzo o l’indifferenza per ogni vero valore degno di essere vissuto sino in fondo.

Non odio e non temo il paesaggio marino concreto, quello che riguarda le coste della stessa Grande Lombardia; stigmatizzo il “mare mentale”, null’altro che il dilagante nulla che invade la scatola cranica della moderna gioventù europea occidentale, e respingo lo stereotipo meridionaleggiante che vorrebbe tutti gli “italiani” appiattiti sul modello caricaturale del “terrone”.

Altro discorso è la sfera dei rapporti interpersonali, soprattutto col gentil sesso. Al giornalista dissi di non essere mondano, di non frequentare luoghi di divertimento di massa e di avere poche amicizie, preferendo la cultura alla “perdizione”; all’epoca (più di dieci anni fa) ammisi anche di non aver mai avuto relazioni concrete, snobbando l’idea del matrimonio in favore di un improbabile “sacerdozio laico e pagano del lombardesimo”. In questo passaggio sottolineai, in maniera fin troppo enfatica, la necessità di rieducare le masse lombarde, anche per prendere le distanze dalle fissazioni dei ventenni occidentali standardizzati.

Di acqua sotto i ponti ne è passata, da allora, e alla luce della vita vissuta e dell’esperienza maturata di sacerdozi, di qualsiasi forma, non voglio sentir parlare. Non ostenterò mai il mio privato (famigliare, sentimentale, lavorativo), coinvolgendo terzi, ma sarò ben felice di dare il mio contributo alla causa demografica, qualora ve ne siano le condizioni. Non ho mai vissuto la questione come un’ossessione.

Certo è che l’uomo qualunque di simpatie antifasciste e antirazziste, in una società ipersessualizzata e materialista fino al midollo, pensa che viaggiare in luoghi esotici, sguazzare in calde acque salate e copulare a tutti i costi sia la ricetta per non chiudersi in se stessi e diventare “nazifasciorazzisti”; ma, forse, qualche imbecille pensa davvero che se io frequentassi assiduamente il Mediterraneo, viaggiassi in lungo e in largo e diventassi un Casanova cambierei visione del mondo? Sarei l’uomo più miserabile della terra.

Insomma, sono le solite balle dell’armamentario sinistroide o liberale di chi vuole demonizzare gli identitari perché tendono ad uscire dal coro dei pecoroni di regime. E così, magicamente, chi sostiene il pensiero forte contro la debolezza del pensiero unico diventa psicopatico, frustrato, represso (magari omosessuale!), caso umano, incel, emarginato, potenziale stragista e chi più ne ha più ne metta.

Se è l’identitario ad evadere questi diventa nemico pubblico numero uno, se invece lo fa qualche scrittore “illuminato” è un atto d’amore per la cultura (quale?), e così ogni capriccio radical chic diventa una moda da imitare.

Nella nota intervista alle Invasioni barbariche (2012), di cui parlerò successivamente, dissi di ritenermi, provocatoriamente, un «disadattato volontario». Nella misura in cui ripudio le schifezze moderniste anti-identitarie e anti-tradizionaliste, lo confermo in pieno ancor oggi: non mi sento figlio di questi tempi di… buona donna, e non mi conformo in maniera supina agli usi e costumi occidentali, che hanno ridotto gli europei a larve che vivacchiano cibandosi della spazzatura proveniente dalla pattumiera transoceanica.

Chi ha voluto occuparsi di me, al di là dei propri intenti, per certi versi mi ha fatto un favore, garantendo visibilità alle mie idee e al movimento di allora. Vorrei spronare tutti quanti la pensino come me ad uscire allo scoperto e ad unirsi alla battaglia etnonazionalista, senza vergognarsi di nulla perché chi, su questa terra, si deve vergognare e sotterrare, è l’agente internazionalista della globalizzazione, che ci vuole tutti uguali, bastardi, plagiati, imbelli, sudditi, idioti, buoni solo per rimpinzare lo spaventoso ventre senza fondo del mercato, solleticando i bassi appetiti consumistici ed edonistici dell’occidentale.

I pennivendoli vogliono raffigurarci ora come pazzi scatenati ora come fenomeni da baraccone? Facciano pure. La verità è dalla parte degli identitari e sempre, quando sorge qualcuno con idee forti, nascono trasversali alleanze di mediocri per abbatterlo. Non dico sia il mio caso, per carità, non mi ritengo un genio o un eroe (anche perché, in passato, ho posto in essere poco proficui eccessi) ma è certamente quello di uomini rivoluzionari di indubbio acume ed indubbia levatura, che nella loro vita sono stati circondati solo da nemici insipidi. E solo l’alleanza in blocco di costoro ha potuto toglierli di mezzo.

Le onde del mare globalista, mondialista, pluralista, multirazzialista, relativista e nichilista che ci vogliono travolgere ed inghiottire, si infrangono sugli scogli della natura dura e pura e della ferrea volontà socialista MA nazionalista. Ovviamente in accezione etnica: il patriottismo italiano tricolore non è coerente nemico del cosmopolitismo, essendo l’inesistente Italia dalle Alpi alla Sicilia – realtà multinazionale – sottoprodotto di una temperie culturale giacobino-massonica che teneva in non cale sangue e suolo.

In tribunale per reati d’opinione

Tribunale di Bergamo

Ho esordito come autore di blog sulla fine di agosto del 2009, in qualità di lombardista della prima ora. Titoli “storici” degli spazi da me gestiti Il LombardistaLongobardo TiratorePaulus Lombardus e un blog recante il mio nome, precedente al famoso Il Sizzi dell’esperienza etnofederalista (chiuso per fare spazio a Lombarditas, collocazione virtuale definitiva del pensiero sizziano).

I siti lombardisti primigeni sono stati eliminati nel tempo (per via della persecuzione di cui divennero vittime) ma i contenuti culturalmente valevoli, trattati precedentemente, confluiscono nell’attuale spazio su cui sto scrivendo, riveduti e aggiornati.

Ammetto tranquillamente che quanto scrissi in passato (ormai una dozzina d’anni fa), per quel che concerne il lato ideologico, fu spesso viziato dall’eccessivo zelo propagandistico col risultato di vergare diverse castronerie che si sono tramutate in un boomerang: sulla base di alcuni articoli scritti fra il 2009 e il 2010 sono stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione e sei mesi di lavori socialmente utili per “istigazione alla discriminazione razziale” e “offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica”, con sospensione della pena respinta per non si sa quali motivi. La sentenza è stata confermata in appello e in Cassazione e ora dovrò svolgere un anno di affidamento in prova ai servizi sociali.

Da un punto di vista etico riconosco senza problemi i miei sbagli, perché è chiaro, mi feci prendere la mano e scrissi cose a tratti stupide, pesanti, aggressive e inutilmente provocatorie, ma una cosa è altrettanto certa: una legge come la Mancino è politica, ideologica e arbitraria (chi stabilisce cosa si può dire e cosa no, se la libertà d’espressione è garantita?) ed è a mio avviso sconcertante che qualcuno debba finire in tribunale, processato penalmente, per delle opinioni.

Nella Repubblica Italiana esistono già leggi specifiche che prevedono la repressione di reati d’istigazione a delinquere e apologia di reato. Perché dunque la cosiddetta “Mancino” (emanata nel 1993)? Per motivi politici, ovvio. Appare utile ricordare come la legge 25 giugno 1993, n. 205 prenda il nome dall’allora ministro dell’Interno ma fu fortemente voluta e stesa da due politici ebrei, Modigliani e Taradash.

Una cosa ancor più sconcertante è che sia stato condannato anche per “offesa all’onore e al prestigio del PdR” (che, tra l’altro, è il reato più grave), solamente per una frase ironica – decontestualizzata – nei riguardi del capo dello Stato dell’epoca, Napolitano: lo paragonai ad una vecchia comare partenopea petulante chiamandolo ‘Giorgiazzo’. Paragonato, attenzione, nemmeno attaccato direttamente. Se siamo tutti uguali – come i boiardi di Stato amano ripeterci ad nauseam – perché il presidente della RI dovrebbe essere al di sopra degli altri cittadini? Nel XXI secolo inoltrato ancora con la lesa maestà, pur vivendo in una repubblica?

Interessante notare come gli esponenti politici che commettano vilipendio (mi vengono in mente Bossi, Grillo e Storace, sempre in relazione a Napolitano, peraltro) non finiscano nei guai. Insomma, siamo alle solite, paghi solo se sei un comune cittadino che non conta nulla.

In tutto questo, mi sto ancora chiedendo dove siano le mie vittime visto che un reato, per essere tale, si presume ne abbia: deve fare del male a qualcuno o danneggiare qualcosa, direi. La verità è che i reati ideologici/politici (per di più a mezzo internet) non ledono niente e nessuno, mentre l’iter giudiziario – che dura ormai da ben 13 anni e rotti, e già questa è una pena – danneggia chi si espone con idee politicamente scorrette (sequestro di costoso materiale informatico o telefonico pulito, disagi famigliari, ricadute sociali, spese legali e processuali e via dicendo). Ripeto: ho sicuramente sbagliato nei toni, in certi contenuti, nello stile ma trascinare una persona in tribunale, finendo nel penale, per degli affari simili è decisamente spropositato, così come la pena che mi è stata inflitta. Forse qualcuno pensa realmente che io sia un criminale?

Sarebbe interessante conoscere anche le motivazioni di chi mi denunciò in blocco nel 2009, ossia gli studenti della sinistra universitaria bergamasca con la compartecipazione di un dirigente dell’ateneo, ma l’esito è scontato: l’antifascismo – che crede di aver vinto, 80 anni fa circa, una guerra – si proclama moralmente superiore a tutto e tutti, senza rendersi nemmeno conto di come sia divenuto, a sua volta, una dittatura. Chi si sottrae a questo regime diventa un reprobo da punire severamente; non solo, anche da esporre, periodicamente, al pubblico ludibrio indicendo campagne d’odio mediante gogna social. Se lo fanno i “fascisti” è un “attentato alla democrazia”, se lo fanno lorsignori è una “doverosa opera di sensibilizzazione socioculturale”.

Peccato che il sottoscritto sia innocuo, senza alcuna inclinazione violenta e aggressiva, incapace di fare del male gratuitamente a chicchessia, anche perché civile e morigerato. Notoriamente, ironia della sorte, i veri violenti sono nelle fazioni dei benpensanti “rossi” che si credono superiori perché eredi di coloro che aiutarono l’invasore angloamericano e titino, balzando sul carro dei vincitori.

Chi mi segnalò alla questura di Bergamo sapeva benissimo che non sono un soggetto pericoloso, ma la bava alla bocca della sinistra verso tutto quello che non coincide col suo assolutismo relativista (un ossimoro che rende bene l’idea dei “valori” progressisti) è risaputa, e così i tanto odiati “sbirri”, sputacchiati e spernacchiati durante le manifestazioni, vengono però invocati a gran voce e blanditi quando si tratta di dare la caccia ai “fascisti”, e si tramutano in eroi. Ci sarebbe anche da riflettere su come la magistratura raramente sia espressione del territorio lombardo, ma questo riguarda le annose magagne concorsuali e l’estrazione etnica peculiare di chi lavora nel pubblico impiego in generale.

Io ho sempre esposto il mio pensiero mettendo nome, cognome e faccia, perché detesto l’anonimato e non ho nulla da nascondere. Chi ti denuncia o segnala in massa, invece, la faccia non ce la mette e fa affidamento su leggine liberticide, volte a reprimere il dissenso verso le posizioni mondialiste tricolori. Leggine che sono il tributo italiano, od occidentale in genere, allo status quo e a coloro che manovrano gli stati-apparato ottocenteschi nell’ombra.

Gli antifascisti si credono tanto superiori ma hanno bisogno dei reati ideologici per mettere fuori gioco gli avversari. Gli piace vincere facile insomma, incuranti del fatto che ‘censura’ faccia rima con ‘paura’. Coloro che sporsero denuncia contro il Sizzi (per ragioni ideologiche, ripeto), senza nemmeno affrontarlo a viso aperto, non sono certo migliori di lui.

La Lega, in uno dei rari momenti di lucidità della sua dirigenza, anni fa raccolse firme proprio per abolire la legge Mancino, ma non se ne fece nulla. Qui, nell’Europa schiavizzata dalla Ue, più si va avanti e più spuntano come funghi leggi atte a stroncare il dissenso e il politicamente scorretto: le “mancinate”, il vilipendio di pezzi di stoffa giacobini e massonici, l’offesa alle cariche istituzionali come fossero intoccabili emanazioni divine, il negazionismo, l’omofobia, il sessismo, l’antisemitismo e l’antisionismo, i deliri in stile ddl Zan.

Credo che uno Stato bisognoso di inventarsi queste cose sia un’entità fragile e timorosa, incoerente coi suoi dogmi liberali e democratici. Che senso ha perseguitare e reprimere delle semplici idee, arrivando a rovinare chi le professa? Di cos’hanno paura a Roma?

Il problema della Repubblica Italiana è che è uno Stato senza nazione, in quanto espressione politica volta a rappresentare un popolo inesistente: l’italiano in senso artificiale, dalle Alpi a Lampedusa. L’Italia è schiava dell’atlantismo e questi sono i risultati; sanzionare idee, opinioni, libera espressione della gente comune è il pegno della sudditanza tricolore ai “vincitori” e ai (presunti) valori occidentali, che sono modellati sui capricci statunitensi.

Riconoscendo di aver, a suo tempo, sbarellato su alcune questioni (ma ero comunque ventenne) mi auguro che di leggi simili non ve ne sia più bisogno e possano venire abrogate, e che, se da una parte chi manifesta pubblicamente le proprie idee sappia farlo in maniera civile e razionale, dall’altra possa farlo in santa pace, senza l’angoscia di ritrovarsi la digos all’uscio il giorno dopo.

Il ritorno (sul “Tubo”) di Paolo Sizzi

Pavol Sizz

Ebbene sì, signori, dopo dieci anni esatti Paolo Sizzi è tornato sul “Tubo”, aprendo un canale in cui si occupa di divulgazione culturale all’insegna del lombardesimo e della lombardità. Assieme a ciò sono anche sbarcato sul “Telegramma” inaugurando, parimenti, un canale in cui pubblico settimanalmente dei video, cioè gli stessi proposti su YouTube. In quest’ultima piattaforma mi trovate come Il Lombardista mentre su Telegram il canale è denominato come il blog da cui scrivo, Lombarditas. Mi auguro di fare cosa gradita a quanti sentivano la mancanza in video di chi scrive, e a tutti coloro che possono essere interessati a queste nuove avventure. Sino ad ora ho reso pubblici 6 filmati: uno di presentazione sul “Tubo” (con la versione bergamasca) e quattro sul “Telegramma”, e vedrò di portarmi in pari. Il giorno d’elezione della realizzazione è il saturdì/sabato, sull’esempio dei vecchi tempi, ma la condivisione sulle reti sociali viene posticipata al lunedì sera.

Se una decina di anni fa lo scopo era la propaganda politica e ideologica, relativamente al Movimento Nazionalista Lombardo, oggi mi voglio occupare principalmente di divulgazione, acculturazione e trattazione lombardista in chiave etnoantropologica, riservandomi di pubblicare, più avanti, qualche video di contenuto metapolitico e dottrinale. Il mio punto di vista, ovviamente, non è del tutto neutro, perciò è evidente come si possa intuire l’ideologia etnonazionalista ed indipendentista; tuttavia, si vuole cercare di dimostrare che, al di là della politica, le Lombardie hanno tutte le carte in regola per dirsi comunità nazionale, patria e insieme di popoli omogenei affratellati da un comune passato. Il vecchio canale fu chiuso con la cessata esperienza dell’MNL, ma devo dire che riscosse un discreto successo, che spero di eguagliare e superare.

Del resto, come si evince dalla casacca da me indossata, il colore sociale e la fede lombardista vengono rispettati, riallacciandomi idealmente all’esperienza militante degli anni scorsi. Vorrei, comunque sia, che il pubblico non partisse prevenuto sull’affidabilità e la credibilità di quanto dico, e sappia dunque ascoltarmi con attenzione, aprendosi poi – perché no? – al dibattito e al confronto, interagendo con me e con tutti quelli che mostreranno la mia stessa sensibilità e il mio stesso interesse circa gli argomenti affrontati. Invito sempre ad un dialogo franco e schietto ma al contempo civile e costruttivo; la goliardia e i toni accesi ci possono anche stare, a patto che non si esondi nelle sterili provocazioni e nel caos.

I commenti sono attivati tanto su YouTube che su Telegram e, già che ci sono, vi ricordo anche di aggiungermi, qualora lo vogliate, su Twitter e su Instagram: sul primo do spazio, oltre alla cultura, all’attualità, mentre sul secondo posto immagini relative all’esperienza del lombardesimo associativo, all’antropologia fisica, alla civiltà lombarda e alla dimensione culturale ed etnoantropologica del lombardesimo. I vecchi profili furono chiusi nella primavera scorsa per motivi di lavoro, e oggi vengono riproposti in una veste contenutistica rinnovata, per quanto sempre sotto l’egida del pensiero sizziano, come è ovvio che sia. Vi chiedo, nelle vostre possibilità, di aiutarmi a spargere la voce perché gradirei che il ritorno del Sizzi fosse accompagnato da una certa eco, che possa permettergli di raggiungere un uditorio sempre più ampio, non per velleità narcisistiche ma per diffondere la vulgata panlombarda e, quindi, lombardista.

Dai profili social diffondo anche gli articoli del blog, a cui invito ad iscrivervi per rimanere aggiornati e commentare. Ne approfitto per ringraziarvi anticipatamente della sequela, vedendo anche la risposta positiva in termini di iscrizioni ai canali succitati, che in pochi giorni hanno visto un concreto incremento. Mi fa piacere riscontrare un certo interesse, perché tutto quel che faccio è ispirato alla lombardità e vuole essere un tributo alla mia vera patria, che non è una piccola “matria” italica bensì una nazione a se stante a metà strada fra Mediterraneo ed Europa centrale. Vi esorto dunque alla sequela e al dibattito, senza precludermi, un domani, una trattazione più politico-ideologica che, comunque, in controluce è sempre presente.

Salut Lombardia!

Ritorno alle origini

P. Sizzi

Un anno fa, dopo un settennio trascorso all’insegna della conciliazione fra pensiero lombardista e italianismo etnofederale, decisi di riabbracciare in toto il lombardesimo delle origini, tornando sulle mie posizioni etnonazionaliste iniziali incentrate sull’autodeterminazione lombarda e sull’identitarismo etnico applicato al contesto cisalpino. Tale svolta fu il frutto di una riflessione estiva motivata dall’esigenza di una rinnovata coerenza comunitaria (dunque nazionale e sociale), dove sangue, suolo e spirito venissero ricollocati al centro del dibattito senza più compromessi; la decisione fu agevolata dalla pubblicazione di alcuni studi di genetica delle popolazioni (da affrontare più avanti) che ribadivano con forza non solo la straordinaria eterogeneità – unica in Europa – di ciò che oggi chiamiamo Italia, ma anche quanto andava emergendo nelle ricerche degli anni precedenti: il contributo esotico, antico e recente, al genoma italico, ossia centromeridionale (segnatamente meridionale).

Avremo modo di parlare compiutamente della questione genetica italiana, ma sin da ora appare utile sottolineare come il dato biologico, nell’ottica sizziana, rimanga fondamentale al fine di plasmare un concreto e lineare pensiero politico-ideologico che poggi su solide basi etnoantropologiche: stirpe e terra, dunque la patria sublimata dal radioso spirito indoeuropeo, sono sempre state le irriducibili guide della visione del mondo del sottoscritto, non per razzismo o suprematismo ma per questioni di serietà, trasparenza e coerenza; il dato razziale (inteso come origine, nazione, discendenza) esige una salutare radicalità che nelle destre di ogni tempo viene meno ma che in ambito etnonazionalista rappresenta il fulcro della filosofia völkisch.

Il Sizzi nasce lombardista, l’originalità del lombardesimo fa parte della sua cifra ideologica e politica, nonché culturale ed antropologica, ed era dunque giusto e doveroso recuperare il senso del messaggio primevo lasciandosi alle spalle l’esaurita esperienza italianista. A maggior ragione è doveroso in un momento in cui trionfa il sovranismo tricolore sposato persino da coloro che un tempo si dicevano padanisti ma che, in realtà, sono sempre stati ambigui, ondivaghi e opportunisti. La Lombardia, ovviamente nella sua accezione etno-storica, non ha affatto bisogno di patriottismo italiano (non essendo Italia in senso nazionale) bensì di identitarismo genuino e di affrancamento da ogni giogo imposto dal sistema-mondo, a partire dalla gabbia statolatrica romana.

L’indipendentismo è dunque la logica conseguenza dell’azione metapolitica e politica lombardista, sebbene personalmente abbia sempre visto la dottrina etnonazionalista come prioritaria; infatti, l’etnonazionalismo presuppone, nel contesto padano-alpino, l’istanza indipendentista, ma non viceversa. Sappiamo, per l’appunto, che il separatismo europeo è solito sventolare lacere bandierine progressiste, a differenza del lombardesimo che è invece degna espressione etnonazionale del pensiero völkisch. Una comunità, una patria, un insieme di popoli omogenei coesi da identità e tradizione trovano il proprio fondamento nella natura e nella cultura, non certo nelle chiacchiere (o, meglio, nelle fanfaluche) della sinistra internazionalista che vede fascisti e razzisti in ogni dove.

Alla luce di quanto esposto era meritorio, da parte mia, un recupero integrale della dottrina lombardista – del resto da me forgiata – e un conseguente riavvicinamento agli storici sodali e al soggetto da me fondato, Grande Lombardia, erede del Movimento Nazionalista Lombardo (anch’esso frutto delle elucubrazioni e dell’azione sizziana). Attualmente GL è ibernata ma rimane l’unica associazione ideale nel panorama (meta)politico cisalpino, pur non appartenendovi più; i capisaldi della compagine sono quelli del sottoscritto, a partire da etnonazionalismo e panlombardismo. Unica differenza sta nel fatto che, nel tempo, ho abbandonato il ripudio del cristianesimo cattolico, optando per una conciliazione tra le due grandi componenti spirituali europee: la cristiana e la gentile (per quanto quest’ultima, oggi, sia inconsistente).

Precisiamo: non mi ritengo religioso e men che meno osservante ma le nostre radici sono indubitabilmente cattoliche, romane e ambrosiane. Per come la vedo, il cattolicesimo va preservato in senso tradizionale e preconciliare, prendendo le distanze dalla contemporanea deriva mondialista della Chiesa, e per quanto possa essere opera velleitaria la Lombardia dovrebbe adottare la visione integrista sganciandosi così dal Vaticano. Un cristianesimo latino sano condanna le contaminazioni giudaiche ed ecumeniste, così come la patetica tendenza al sincretismo buonista che grazie a Bergoglio ha subito un’impennata. Ricordiamoci che il Cristo è l’erede della solarità e dello spirito uranico indoeuropeo, e la rinascita della pietas continentale sta nella salvaguardia della tradizione, non certo nella difesa di un mellifluo monoteismo denominato abramitico (in sostanza, una concessione agli eretici, agli scismatici e soprattutto ad ebrei e musulmani).

La religione è comunque argomento secondario, ai fini politici e ideologici, e la vera svolta del mio personale credo sta nel ritorno alle origini lombardiste dure e pure, abbandonando l’italianismo, ancorché etnofederale, e riprendendo le fila del discorso interrotto nell’aprile 2014. La Lombardia, intesa come nazione storica permeata di schietta identità galloromanza cisalpina, non può dirsi Italia, in quanto figlia di una temperie etnoculturale che si colloca a metà strada fra Mediterraneo ed Europa centrale. L’Italia vera e propria è, invece, l’ambito peninsulare e insulare (Corsica e Sicilia) coeso dal dato italico-romano, romanzo orientale, puramente meridionale (nel quadro europeo) e influenzato dal mondo greco. Ritengo non si tratti di materia opinabile, anche perché lo stesso nome ‘Italia’ nasce nell’estremo sud ausonico.

Va da sé che il passo successivo al riconoscimento delle specificità lombarde, sia nei confronti dell’Italia che del resto d’Europa, riguardi l’indipendentismo, l’affrancamento identitario volto all’autodeterminazione delle genti padano-alpine, ancorché possa parere utopico. Nell’ottica di un’Europa delle vere nazioni, finalmente liberata dagli enti sovranazionali mondialisti, la Lombardia trova il suo spazio, ovviamente come realtà etnica allargata a tutti i popoli che possono dirsi cisalpini/lombardi; il punto di partenza è il bacino padano, cioè la Lombardia etnica, per poi giungere a tutto quanto il quadro settentrionale, che è la Grande Lombardia del Sizzi.

Lasciandomi alle spalle il periodo italianista, voglio intraprendere di nuovo il cammino völkisch, soprattutto per essere d’esempio ai più giovani, che giustamente anelano a quella intransigenza identitaria che passa per la riscoperta del patrimonio etnoantropologico natio. Non tornerò mai più indietro ma insisterò sulla bontà dell’etnonazionalismo, che a mio dire è l’unica ideologia capace di dare un senso profondo e rinnovato alle legittime aspirazioni patriottiche di popoli troppo spesso imprigionati in mere entità statuali, totalmente prive di connotati etnici e nazionali unitari. È questo il caso della Repubblica Italiana, espressione di un Occidente massificatore e standardizzante a guida americana che tiene completamente in non cale identità e tradizione. Riscoprire i primordi lombardisti è dunque basilare, e il mio augurio è quello di essere un modello positivo per tutti coloro che non piegano il capo di fronte all’omologazione di nazioni annichilite e umiliate da una globalizzazione inevitabilmente priva di valori, in quanto beceramente fondata sull’arido dato finanziario.

Presentazione

Paolo Sizzi

Salute a tutti voi, chi scrive è Paolo Sizzi, cultore di lombardità sulla rete ormai da 16 anni. Ho aperto questo nuovo spazio virtuale nell’autunno scorso, sentendo l’esigenza di riconciliarmi pienamente con le mie origini, nonché con la mia terra e la sua vera natura. Coloro che mi seguono avranno notato che ho rimosso gli articoli precedenti, dopo aver tenuto il sito privato in modalità provvisoria, contestualmente all’abbandono marzolino del vecchio “Cinguettatore”. Tale scelta deriva da motivi, per così dire, professionali, che mi hanno spinto ad una riconsiderazione della mia presenza sul web, accantonando per il momento questioni politico-ideologiche e, soprattutto, cambiando registro comunicativo. Non ho voluto, tuttavia, sacrificare Lombarditas, e si è deciso, dunque, di privilegiare il lato culturale dell’opera sizziana – sperando di fare cosa gradita ai lettori – a vantaggio di scientificità e imparzialità.

In questo blog, come anticipato nelle Informazioni, troveranno posto le classiche tematiche a me care, discusse dal 2006 a questa parte: storia, geografia, linguistica, dialettologia, araldica, onomastica, cognomastica, toponomastica, folclore, così come i “cavalli di battaglia” del sottoscritto, antropologia (fisica) e genetica delle popolazioni. Di politica, metapolitica e ideologia tratterò in altra sede; qui, allo stato dell’arte, si è scelto di dare degno risalto a tutto quello che concerne la cultura bergamasca e lombarda, dove ‘lombarda’ significa cisalpina, a partire dal nucleo fondante della nostra realtà etnica e nazionale, che è il bacino padano. Non mancherò di dare uno sguardo anche all’Italia e all’Europa.

Ho preservato gli articoli, scritti in tutto questo tempo, valevoli da un punto di vista culturale, e che per questo riproporrò senz’altro, con i dovuti aggiornamenti e miglioramenti. Essendo il frutto di un lavoro di studio e di ricerca, appare salutare un recupero del materiale più pregevole, aumentandone lo spessore scientifico con note, citazioni, bibliografia e/o sitografia. Il nuovo taglio assunto da questo giornale di bordo su internet, a differenza dell’impostazione originaria, pone maggior enfasi sull’erudizione, sebbene la divulgazione sia sempre stata l’intento principale dei miei scritti. Come ho più volte ricordato, a che pro darsi all’impegno ideologico e politico se non si sa nulla della storia del proprio territorio, della sua identità e del peculiare profilo delle genti che lo abitano? insomma, se non ci si conosce?

Oltretutto, si vuole raggiungere un duplice obiettivo: da una parte continuare la storia sizziana di trattazione etnoantropologica (segnatamente lombarda), dall’altra rendere affascinante, agli occhi soprattutto dei più giovani, la disamina di tutto quello che concerne la patria alpino-padana, una patria che Carlo Cattaneo definiva “artificiale” in quanto «immenso deposito di fatiche». Il pensiero del sottoscritto ormai è ben noto, e in attesa di tempi più propizi è giunto il momento di dare spazio alla cultura a tutto campo, senza per questo rinunciare alla discussione antropogenetica, che non verrà snaturata. Sarà per me un onore e un vanto riuscire a conquistare l’attenzione delle generazioni lombarde, in nome di quel sentimento d’appartenenza comunitario che è linfa vitale di ogni popolo.

Potremmo dire che questa è una novella, intrigante, tenzone poiché si vuole dimostrare come, al di là della visione politica lombardista – e quindi della personale prospettiva etnonazionalista – esista un insieme di genti etnicamente e storicamente lombarde ben differenziate nel quadro europeo, a partire dal confronto con la Penisola vera e propria, che è la primigenia Italia mediterranea, italica, romana e influenzata dal mondo greco. Il mio punto di vista non può, certamente, essere del tutto neutro, ma, conciliando le esigenze di cui sopra con la volontà di adottare un’ottica razionale, cercherò di illustrare, senza faziosità, la bontà del sentimento patrio in chiave grande-lombarda. Attenzione: la “Grande Lombardia” non è una velleità espansionistica dello scrivente, è semplicemente il nome impiegato per definire il contesto subalpino storico, in quanto sovrapposizione della Langobardia (Maior) alla (Gallia) Cisalpina. Non si parla certo di opinioni.

Avrò modo di citare diverse fonti documentarie utili a chi ha l’interesse e il piacere di approfondire quanto verrà trattato, perché lo scopo principale di questo spazio virtuale rimane quello di suscitare un desiderio di conoscenza con ricadute concrete sul sapere dei lettori. La grande sfida che riguarda il presente e il futuro dei nostri popoli concerne la salvaguardia del patrimonio tradizionale, mortalmente minacciato dalla società mondializzata, e questo dovrebbe essere un dovere trasversale da parte di tutti i lombardi, nello specifico, e degli europei, in generale. Se la lingua, la tradizione, l’identità, la mentalità, gli usi e costumi e, non da ultimo, l’etnia di una nazione muoiono a rimetterci non sono solo le fasce della società più avanti negli anni ma anche, e soprattutto, i più giovani e coloro che verranno. Avrà ancora un senso chiamare ‘Lombardia’ la Lombardia?

Anche per questa ragione, e non solo per quella palesata in apertura, appare utile avvicinare alle tematiche trattate coloro che sentono il bisogno di ampliare lo scibile in materia di lombardità – come da titolo di questo blog – poiché le Lombardie sono una ricchezza di ogni lombardo, e hanno il diritto di difendere le radici per alimentare un futuro roseo che passi per l’autodeterminazione dei propri virgulti. Naturalmente non rinuncerò mai alle mie idee e al mio retroterra ideologico e dottrinale, frutto del profondo legame col territorio orobico e padano-alpino, ma vorrei passasse il concetto che lo spirito d’appartenenza non è appannaggio di qualche movimento o partito (che, peraltro, nel tempo si è perso per strada). Ogni riferimento a via Bellerio è puramente casuale…

Lombarditas mira, quindi, al recupero di quel sano orgoglio lombardo che non significa odio, razzismo, discriminazione, bensì amore e rispetto, anzitutto per se stessi, per il proprio suolo natio, per la propria cultura; i lombardi possono dirsi etnia e nazione, come i sardi e gli italiani etnici. Togliamoci dalla testa l’idea che difendere l’identità sia un attacco nei confronti degli altri, poiché solo dalla difesa del rispettivo onore comunitario può nascere il riconoscimento di quello altrui. Qualcuno storce il naso perché parlo di ‘nazione lombarda’? Che dire, dunque, della Confraternita dei Lombardi in Roma, una compagnia religiosa creata per dare assistenza spirituale e materiale ai lombardi presenti nella capitale italica nel XV secolo, la cui denominazione seriore fu “Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo della Nazione Lombarda”? La fierezza per i relativi natali non può essere preclusa alle popolazioni europee, a differenza di quelle del Sud del pianeta: il rullo compressore della globalizzazione capitalistica è una minaccia per tutti gli uomini, senza distinzione.

Vi auguro buona lettura e buona discussione, invitando a mantenere, nei commenti, toni civili e rispettosi, proprio perché l’intenzione è quella di confezionare un prodotto di qualità che, anche nel confronto, possa rappresentare un’occasione di edificazione per tutti, in particolare, torno a dire, pei più giovani. I commenti riguardo ideologia e politica non sono banditi, ma vi raccomando di non andare fuori tema e di rispettare questa nuova veste contenutistica del blog. Prossimamente rifletterò sull’opportunità di riprendere qualche tematica di trattazione (meta)politica, anticipandovi che in cantiere c’è dell’altro, ma di questo parleremo poi. Sfruttare la dimensione educativa dello strumento internettiano, soprattutto oggi, è un’occasione da non lasciarsi sfuggire, eziandio per il giovamento di ciò che, spregiativamente, viene liquidato come localismo.

P.S.: mi potete trovare sui nuovi profili Twitter e Instagram, da cui, fra le altre cose, diffondo gli articoli del weblog. Attualmente sono account incentrati per lo più sulla divulgazione culturale, a mo’ di appoggio all’opera di Lombarditas. Parimenti, vi segnalo il canale Telegram omonimo nel quale pubblico, con cadenza settimanale, dei brevi video circa la natura delle Lombardie, affiancato dal nuovo canale YouTube. A quanti vorranno contattarmi o chiedere in merito ad approfondimenti e questioni varie, ricordo l’indirizzo di posta elettronica lombarditas@gmail.com.