14) Affrancamento linguistico della Grande Lombardia

Tutte le lingue parlate nella Grande Lombardia meritano adeguata tutela e promozione su base locale ma, per semplificare la comunicazione e la burocrazia tra tutti i granlombardi, la soluzione migliore a livello nazionale è eleggere il milanese classico volgare emendato a lingua ufficiale della nostra nazione, per via della sua purezza e della vicinanza all’archetipo padano. No a esperanto in tredicesimi, koinè senza storia, caos dialettale e minestroni multilinguistici alla svizzera (cioè di una patria inesistente). Ne consegue una de-italianizzazione linguistica della Grande Lombardia, attuata mediante il graduale abbandono del fiorentino letterario (l’italiano) e il recupero di ortografia, vocabolario, nomi, cognomi, toponimi originali, nel quadro di una rinnovata lombardizzazione del territorio nazionale. Scuola e università, a supporto di famiglia e comunità, avranno il compito di educare i giovani lombardi all’amore per le lingue della Lombardia, e all’apprendimento del meneghino, assieme alla riscoperta della nostra cultura e della nostra letteratura. L’ipotesi della koinè potrebbe essere valutata soltanto se fondata sul milanese classico volgare emendato, e animata da una spontanea presa di coscienza dei lombardofoni, come progetto di rivitalizzazione della lingua lombarda.

Capiamoci: ad oggi non esiste una lingua lombarda¹, bensì una famiglia linguistica lombarda, che è il gallo-italico, formata dalle diverse lingue lombarde (soprattutto come manifestazione culturale e spirituale della Lombardia etnica). Un tempo esisteva un’unità linguistica lombarda, popolare, che accomunava tutte le contrade padano-alpine, poi spezzata dall’affermarsi, sul continente, del veneziano e dalla diluizione toscaneggiante dei volgari cisalpini, fenomeni che hanno isolato il ladino (romancio, ladino in senso stretto, friulano). Il milanese è il principe degli idiomi lombardi, grazie alla natura linguistica centrale ed incontaminata dell’insubrico e, naturalmente, grazie al prestigio degli autori meneghini, alla codificazione e alla copiosa letteratura. È, insomma, la miglior espressione del mondo galloromanzo cisalpino, detto con il massimo rispetto per gli altri parlari: restante insubrico, orobico, emiliano, piemontese, romagnolo (la famiglia gallo-italica), ma anche ligure, veneto, retoromanzo. Ribadiamo che tutti gli idiomi cisalpini sono degni di salvaguardia ed impiego a livello locale, cantonale, ma serve unità, pure per quanto concerne la loquela, ed è per questo che noi lombardisti optiamo per la favella ambrosiana, assurta al rango di lombardo ufficiale.

¹ Nel Medioevo è esistita una koinè lombarda, padana, ma come volgare illustre, detto anche semplicemente scripta.

13) Suddivisione politica della Grande Lombardia

Per agevolare le esigenze dei territori è opportuna la suddivisione della Lombardia in entità amministrative superiori, quali i cantoni, e inferiori, quali i comuni. I cantoni sarebbero, a loro volta, suddivisi in distretti, con dei capoluoghi (tra cui, il principale, sarebbe quello cantonale). Mentre i cantoni rappresentano territori omogenei a livello geografico, etnico e linguistico – e aggiungerei, dunque, storico – i comuni rappresentano città o insiemi di paesi rurali accomunati da stesse necessità di gestione. No a cantoni-città di 10.000 abitanti e a comuni da 200 abitanti. Ricordiamo che la capitale amministrativa, economica e linguistica della Grande Lombardia sarebbe Milano, quella morale Pavia, e aggiungiamo che la suddivisione politica della nazione lombarda consterebbe di 14 cantoni della Lombardia etnica a cui ne vanno aggiunti altri 15 del restante territorio cisalpino, raggruppati in 9 regioni create per meri fini statistici e demografici. Le regioni in questione sarebbero: Transpadana occidentale (Insubria), Transpadana orientale (Orobia), Subalpina (Piemonte), Cispadana (Emilia fino al Panaro), Romagna, Liguria, Veneto, Rezia cisalpina (il Tirolo storico), Carnia e Istria.

La capitale (e capoluogo dell’omonimo cantone) Milano, ovviamente, necessita di palingenesi, rappresentata da una massiccia opera di ri-lombardizzazione. Gli altri capoluoghi cantonali dovrebbero essere i seguenti: per l’Insubria, oltre a Milano, Como, Novara, Locarno; per l’Orobia Brescia, Bergamo, Cremona, Sondrio; per il Piemonte Torino, Cuneo, Alessandria; per l’Emilia Parma, Modena, Piacenza; per la Romagna Bologna, Ravenna, Rimini; per la Liguria Genova, Nizza; per il Veneto Venezia, Vicenza, Verona, Belluno; per il Tirolo storico Trento e Bolzano; per Carnia e Istria Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone. Questi capoluoghi rappresentano altrettanti distretti, e sotto di sé ne hanno altri ancora, sicché i territori cantonali sono un insieme di città e paesi coesi da storia, identità cittadina e contadina (dunque comunale), lingua, geografia, cultura ed etnia. Siamo nettamente contrari al mantenimento di regioni e province all’italiana, perché spezzettano il continuum granlombardo/cisalpino e dissipano così l’orgoglio nazionale, fomentando sciocchi egoismi campanilistici, e cioè i regionalismi. Allo stesso modo, condanna di statuti speciali e autonomie regionali: la suddivisione cantonale sarebbe uno strumento blandamente federale, ma la nazione è solo una.

12) Forma di governo

Il futuro Stato granlombardo assumerebbe la forma di una Repubblica presidenziale, blandamente federale, fondata sui principi dell’etnonazionalismo, del socialismo nazionale e del comunitarismo. Capitale naturale, come abbiamo già visto, Milano, da secoli fulcro politico, economico, culturale e linguistico della Grande Lombardia, grazie anche alla propria centralità. Siamo, dunque, a favore di un etnostato lombardo, che eriga la sacra triade identitaria sangue, suolo, spirito a guida indiscussa della nazione. Al contempo, prendiamo le distanze dal modello federalista alla svizzera, dall’autonomismo (a colpi di statuti speciali) e dal regionalismo, poiché indebolirebbero la coscienza patriottica dei lombardi, che formano un’unica patria, ancorché distinta in tre forme di lombardità: etnica, etnolinguistica/culturale, storica. Non ci può essere spazio, nel progetto lombardista, per beghe campanilistiche e sterili orgogli micro-sciovinistici, pertanto dobbiamo puntare tutto sul nazionalismo etnico lombardo e sul comunitarismo, e cioè sullo spirito identitario e tradizionalista delle genti padano-alpine, accomunate da origini, etnia e destini. Lo Stato lombardo andrebbe a rappresentare la nazione lombarda, che è una sola.

È unica, e deve essere unita, forte e coesa, prima ancora di costruire un’entità statuale animata dall’identità etnoculturale panlombarda. Le sfide indipendentiste, infatti, si vincono uniti, non divisi da zuffe regionali, e deve essere chiaro a tutti i lombardi che la vera Lombardia è quella storica, la Grande Lombardia. Certo, il suo cuore è il bacino padano, la Lombardia etnica, ma tutti i popoli cisalpini possono dirsi lombardi e parte di un unico, grande gruppo patrio, dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone. La Grande Lombardia è una, scusate il gioco di parole, grande famiglia di genti accomunate dalle medesime radici cisalpine; per tale motivo la nazione ha bisogno di un solo Stato, non di decine di inutili staterelli, sul modello di quelli preunitari. Nessuno vuole negare il salutare orgoglio storico alle comunità padane, ancorché basato su meri apparati burocratici, non su nazioni, epperò la coscienza panlombarda va difesa e promossa, per riunire i lombardi sotto le comuni insegne patriottiche. Un blando federalismo cantonale, cioè macro-provinciale e rispettoso del passato comunale, è accettabile, ma attenti bene al decentramento, in un contesto tutto sommato omogeneo, e geograficamente ben definito: il rischio è quello di fomentare sciocchi egoismi e di disgregare la solidarietà comunitaria che unisce le Lombardie.

11) Indipendenza della Grande Lombardia

La Grande Lombardia ha pieno diritto di avere la sua sovranità, da raggiungersi con tutti i mezzi leciti possibili: sono infatti le nazioni, intese come comunità di persone unite da etnia, lingua, cultura e storia, a legittimare gli Stati, non viceversa. La lotta per l’indipendenza dei lombardi è dunque sacrosanta e andrebbe preceduta dalla creazione di una “macroregione” amministrativa (che in realtà è la nazione lombarda medesima) che associ ogni popolo lombardo alla battaglia per l’autoaffermazione della Lombardia etnica, e cioè del cuore della nostra patria. Sovente, gli statolatri tricolori si appellano all’art. 5 della loro amata Costituzione («La Repubblica è una e indivisibile») per delegittimare ogni possibile rivendicazione etnonazionalista e indipendentista di popoli che italiani etnici non sono, dimenticandosi come la stessa sia subordinata nei confronti del diritto internazionale (art. 10). Dato che l’Italia ha ratificato almeno tre trattati internazionali che affermano esplicitamente come «i popoli hanno sempre il diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno» (Atto finale della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, tit. A, art. 8), la richiesta di autodeterminazione granlombarda è perfettamente lecita, oltre che sensata.

Questo sia detto non per incensare il sistema globale che fagocita l’Italietta repubblicana, ma per fustigare chi si appella alla Costituzione, quando gli fa comodo, scordandosi del diritto all’autodecisione che spetta ad ogni vera nazione. Ed è questo il caso della Lombardia, che oltretutto non è Italia. Il punto di partenza, infatti, è sempre l’identità: non il danaro, le tasse e i servizi – per quanto importanti – ma l’aspetto etnoculturale che separa nettamente i lombardi dagli italiani. Del resto, la ricchezza lombarda è frutto della storia lombarda, e quindi della mentalità etnica e del lavoro padano-alpina. Il lombardesimo reclama, da sempre, il razionale diritto all’autoaffermazione dei granlombardi perché non sono Italia, per tutta una serie di motivi, già affrontati o che affronteremo, riassumibili, fondamentalmente, nella questione etnica e nazionale. E se la Grande Lombardia non è considerabile come Italia ha tutte le ragioni e le motivazioni immaginabili per battersi per la propria indipendenza. E dunque per avere un pieno riconoscimento della propria identità nazionale, che passa anche per sovranità e autorità. Poi, naturalmente, vengono le questioni fiscali, sicuramente importanti, che d’altra parte vengono solleticate anche dal malgoverno italiano. Ma il sangue viene prima dell’oro, e per tale motivo la Lombardia deve lottare per la libertà, e l’unità, di tutte le genti cisalpine, anzitutto rivolgendo sguardo e pensiero ai destini etnici e nazionali dei lombardi.

10) Religione

Piena libertà di professione di fede religiosa, purché il culto praticato non rappresenti una minaccia alla sicurezza e alla stabilità della nazione. Questo vale anche per i molti che si credono atei, salvo venerare il feticcio del progresso e prostrarsi di fronte al dogma dell’universalismo, rivelandosi ben peggiori di qualsivoglia bigotto. Riteniamo, ad ogni modo, che debba essere il popolo lombardo stesso a scegliersi una propria via spirituale, con la possibilità, naturalmente, di optare individualmente per agnosticismo o ateismo (a patto che quest’ultimo non diventi il fanatismo liberal e scientista che troppe volte è); il credo scelto, comunque sia, deve essere compatibile con il percorso di autodeterminazione che conduce all’indipendenza e all’etnostato, poiché la religione non deve mettere i bastoni fra le ruote alla politica e all’ideologia. Pensiamo che le questioni religiose e spirituali siano secondarie, essendo la nostra priorità la realizzazione etnica e nazionale della Grande Lombardia. Tuttavia, non assecondiamo certi deliri empi, soprattutto anticristiani, perché finiscono per fare il gioco del demone mondialista.

Per motivi storici e culturali, uno speciale riconoscimento va al cattolicesimo apostolico di rito latino (romano e, soprattutto, ambrosiano), senza disdegnare l’ipotesi di una Chiesa nazionale lombarda che la faccia finita con la Roma contemporanea, fagocitata dalle derive scatenate dal Concilio Vaticano II. Alla luce di ciò, nessun rapporto col papa e il Vaticano, fintanto che laggiù non disconoscano lo sciagurato prodotto del duo orobico-bresciano Roncalli-Montini. È interessante ricordare come il rito ambrosiano, un tempo molto più esteso, in ambito padano, di quanto lo sia oggi (arcidiocesi di Milano), sia espressione del cristianesimo latino occidentale di forte sostrato gallico, accomunato in questo al rito ispano-gallicano e, dunque, alla più ampia liturgia di origine celtica, diffusa in quei territori che mostrano una forte eredità spirituale di tale tipo. La futura Repubblica Lombarda potrebbe anche riconoscere ufficialmente il cattolicesimo ambrosiano come religione nazionale, tollerando – per ragioni identitarie – la rinascenza gentile indigena di marca preromana, gallo-romana e germanica. Messa al bando, invece, di tutti gli altri culti, soprattutto se ampiamente praticati da allogeni, assieme a tutta la paccottiglia new age.

9) Lotta al femminismo

Bisogna urgentemente porre fine alla contrapposizione dei sessi (che sono solo due e coincidono coi due generi) creata dal femminismo, perché sta portando seriamente la società occidentale al collasso socioculturale. Uomini e donne hanno, per natura, indoli, mentalità, predisposizioni e ambizioni differenti; cercare di uniformarle è del tutto controproducente. Il femminismo si spaccia per movimento d’opinione schierato dalla parte delle donne, ma questa è soltanto una miserevole menzogna. Esso, infatti, è il vero nemico del gentil sesso, poiché mira alla disgregazione della comunità riempiendo i crani delle donne di spazzatura liberal, progressista e relativista. La vera libertà della donna sta nella tradizione, e oserei dire anche nella società patriarcale: il rispetto degli innati ruoli di maschile e femminile è alla base dell’armonia comunitaria, oggi sempre più minacciata dai veleni propagandati dal pensiero unico e dagli abomini iridati. Ciò non significa bramare un modello da fondamentalismo islamico, oppure auspicare un ritorno a tempi ormai andati, ma semplicemente recuperare la reale identità sessuale e comprendere come sia la stessa natura a distinguere tra maschi e femmine, e non solo in chiave meramente genitale.

Non esistono un sesso superiore ed uno inferiore, perché uomo e donna sono diversi e complementari, e hanno pari dignità. L’uomo, per natura e cultura, per la civiltà medesima, è portato a determinati compiti, e così la donna, il che non equivale a mettere il primo su di un piedistallo e relegare la seconda a umili mansioni. Piuttosto, è il contemporaneo sistema occidentale, eretto su bestialità neomarxiste, che vuole spacciare per degrado e disagio la femminilità tradizionale, la maternità, la saviezza, la fedeltà all’uomo e quella necessaria obbedienza ai valori immortali della patria, del sacro, della famiglia. Insomma, è la moderna temperie pseudoculturale che dipinge a tinte fosche il ruolo muliebre tramandato nei secoli dalla nostra civiltà, come se essere mogli, madri e ancelle della nazione fosse qualcosa di perverso e degradante, un handicap. La donna è libera di fare ciò che vuole, come l’uomo, a patto che essa non si tramuti in un attentatore suicida che faccia a pezzi e trascini nel fango i principi più cari ad una comunità di popolo degna di questo nome. E lo stesso discorso vale per i maschi, a maggior ragione, essendo chiamati, oltretutto, ad essere assennate guide delle femmine, in determinati contesti. Se manca il rispetto per natura e tradizione scoppia il caos, a tutto vantaggio degli agenti internazionalisti nemici della civiltà europea.

8) Difesa della famiglia naturale

La famiglia naturale patriarcale fondata sul matrimonio eterosessuale (ovviamente) e monogamo di uomo e donna è alla base di ogni società sana, e proprio per questo sotto costante attacco da parte del sistema mondialista. Necessita quindi di una forte difesa che penalizzi le unioni di fatto e i divorzi, e consenta dunque uno sviluppo adeguato delle future generazioni. In mancanza di una (contenuta) prole biologica sì all’adozione di orfani europidi compatibili con la Grande Lombardia. No a propaganda omofila, teorie del “genere” e a pratiche di macelleria da laboratorio come oggetto di consumo e capriccio borghese. Il fecondo legame di maschile e femminile (i generi sono solo due e coincidono coi due sessi), rafforzato da fedeltà, rispetto, solidarietà e dalla contemplazione degli innati ruoli di uomo e donna, va tutelato e promosso, grazie anche alla garanzia della tradizione. La lotta del lombardesimo a individualismo, femminismo, omosessualismo, e a tutto ciò che mina le fondamenta della famiglia naturale e della solidarietà comunitaria, è sacrosanta.

I summenzionati corpi tossici compromettono il funzionamento, e dunque l’equilibrio e il benessere, della società. Va difesa senza sconti, in particolar modo, l’innocenza dell’infanzia, messa a repentaglio da tutte quelle aberrazioni, figlie di progressismo e capitalismo, sdoganate dalla debolezza e dalla putrescenza del pensiero unico occidentale. Dobbiamo proteggere i più piccoli dalla narrazione arcobaleno, combattendo contro la perversione delle unioni e dei diritti “civili” e contro lo scellerato progetto di affidare dei bambini a coppie omosessuali, passando magari per l’orribile pratica degli uteri in affitto, e dunque per la macabra compravendita di feti molto di moda tra ricchi invertiti. Esiste, peraltro, anche un nesso tra omosessualità e pedofilia, come si può evincere dagli scandali sessuali della Chiesa di Roma. La bioetica va bonificata dai veleni del modernismo, liberandola dalla dittatura del relativismo e del mercato, e cioè del capitalismo che riduce l’esistenza umana ad una merce, calpestandone la sacralità.

7) Ripristino dei valori etici comunitari

L’uomo è un animale sociale che non può vivere da solo, e al pari di ogni altro essere vivente ha come obiettivo massimizzare nel lungo periodo la trasmissione di geni il più possibile simili ai propri. Per questo bisogna invertire la rotta del contemporaneo Occidente bloccando il dilagare di individualismo, disonestà, affarismo, corruzione e di tutte quelle derive egoistiche tipiche delle società capitaliste che minano le fondamenta della solidarietà comunitaria compromettendo, a lungo andare, il funzionamento e, dunque, l’equilibrio e il benessere di tutta la popolazione. L’interesse della comunità nazionale lombarda (intesa come insieme di individui accomunati da medesima etnia, lingua, cultura, territorio e storia) deve essere l’obiettivo fondamentale e generale delle attività del settore pubblico, partendo dal presupposto che l’etnicità è l’elemento imprescindibile della patria e, di conseguenza, di uno Stato degno di questo nome. Le analisi genetiche fanno ritenere che la giusta scala di aggregazione sociale sia quella della razza; nella realtà entrano in gioco, tuttavia, altre variabili, perché noi siamo anche l’ambiente in cui viviamo e le informazioni non biologiche che abbiamo collettivamente ereditato. Fermo restando che, sia geneticamente che fisicamente, vi sono ben note differenze anche a livello di sottorazze.

L’individualismo è, dunque, nemico dei destini della nazione che solo abbracciando uno spirito comunitarista può porsi al riparo dai mortali rischi rappresentati dalla degenerazione del pensiero liberale (già di per sé un cancro) che cagiona egoismo, opportunismo e decadimento edonista su vasta scala. Il connubio nazionale e sociale è garanzia di successo per l’intera collettività lombarda, troppo spesso vittima – a livelli quasi patologici – delle seduzioni dell’arido profitto. L’evidenza empirica ha difatti dimostrato che, se in un contesto espansivo sono i comportamenti competitivi che generalmente favoriscono il successo e lo sviluppo della specie, nei contesti non espansivi (quali quelli cui siamo giunti, visto che abbiamo anche superato la capacità dell’ecosistema di sostenerci) sono i comportamenti cooperativi che generalmente favoriscono il successo. L’idea lombardista (molto centrata su ragione e natura), in materia di sistema sociopolitico, è quella di un’entità – un etnostato – che sappia regolamentare la vita comunitaria su principi di cooperazione e solidarietà, per l’appunto, in nome del senso d’appartenenza etnoculturale: senza di esso i legami sociali verrebbero meno, lasciando il posto alla disgregazione operata da fenomeni migratori, meticciato e società multirazziale.

6) Cultura e tradizioni

Difesa della cultura, delle tradizioni, del carattere nazionale della Grande Lombardia, di quella “comunità di popolo” che costituisce il mastice di uno Stato per davvero sociale, patriottico e, dunque, comunitario. Va eliminato il pernicioso culto del fatturato caro a molti, troppi lombardi, che è la fonte di ogni masochismo antinazionale. La ricchezza della Lombardia è il frutto plurisecolare di una mentalità del lavoro spiccatamente continentale, ma l’identità sovrasta il danaro. E l’identità lombarda, come quella di ogni altro popolo, passa per sangue, suolo, spirito, e quest’ultimo è il risultato dell’incontro fra i primi due; lo spirito è la cultura, il carattere, la mentalità, i valori e i principi, ed è ciò che anima il sangue sublimando il dato biologico. L’etnia è un elemento fondamentale nell’ottica lombardista, in senso diciamo pure razziale, ma deve essere sublimata da un luminoso spirito che corrobori appieno l’identità della comunità, altrimenti ci si riduce a del materialismo zoologico di stampo positivistico. Se uno è lombardo di stirpe ma completamente obnubilato dai disvalori della società capitalista e dei consumi sarà ben poco utile alla causa etnonazionalista, e ai destini della patria cisalpina.

Il lombardesimo esalta, razionalmente, il sangue, perché non si può essere lombardi senza retaggio cisalpino, però mette in chiaro che il sangue ha bisogno del suolo patrio e della civiltà, dello spirito, dell’insieme delle manifestazioni spirituali e culturali della Grande Lombardia. Dobbiamo preservare la nostra identità anche in senso culturale, dobbiamo cioè salvaguardare lingua, usi e costumi, tradizioni, abitudini, carattere e mentalità naturalmente, inclinazioni, folclore, arti, cucina, tutti elementi che contribuiscono alla definizione di etnia lombarda e di gruppo etnoculturale granlombardo. L’etnia lombarda è il fulcro dell’areale padano-alpino, la stratificazione identitaria del popolo cisalpino erede di Celto-Liguri, Gallo-Romani e Longobardi; il gruppo etnoculturale granlombardo, invece, si allarga all’intera Padania e comprende tutte le genti accomunate da una cultura che è tramite fra Europa centrale e mediterranea. Genti relativamente omogenee e soprattutto compatibili, tra di esse, discendenti della civiltà celtica, gallo-romana e longobarda, e cioè galloromanza cisalpina. Non tutte sono lombarde nel medesimo grado – vista la storia – ma condividono quel retaggio peculiare che caratterizza la civilizzazione del territorio compreso tra Alpi e Appennino lombardo, e dal cuore padano.

5) Immigrazione

La sovrappopolazione causata dall’immigrazione incontrollata sta portando la nostra patria al collasso socio-ambientale. Necessario quindi un blocco totale dell’immigrazione incompatibile, e conseguente rimpatrio degli allogeni. Nel novero rientrano anche immigrati europei non tollerabili (per ragioni etniche e culturali), italiani etnici, israeliti, genti nomadi. Il fenomeno più drammatico rimane quello dell’italianizzazione, e cioè della “meridionalizzazione”, che ha letteralmente travolto la Grande Lombardia, segnatamente occidentale, creando città infinite (la cosiddetta megalopoli padana) e riducendo a minoranza gli indigeni del cosiddetto “triangolo industriale”. L’immigrazione di massa è sempre un evento nefasto, cagione di quegli svariati mali che affliggono i nostri centri urbani, grandi o piccoli che siano: sovrappopolazione, come detto, inquinamento, cementificazione, disboscamento, multiculturalismo e società multietnica e multirazziale, ibridazione e meticciato, problemi socioculturali, criminalità e degrado. Insomma, piaccia o meno i flussi migratori smodati, per di più provenienti da aree agli antipodi della Lombardia, comportano distruzione, a partire dalla disgregazione e dalla cancellazione del tessuto etnoculturale originale di un dato territorio.

In Padania furono i sud-italiani ad aprire le danze, tramite un esodo scatenato da Roma con la complicità dei pescecani locali. Fenomeno che va di pari passo con il sistematico monopolio di posti chiave e impiego pubblico, a mo’ di forze d’occupazione di una terra, evidentemente, percepita come diversa dall’Italia etnica dagli stessi ausonici. Gli italiani salirono in 1-2 milioni, mescolandosi poi largamente con la popolazione locale, sicché gli individui di sangue italico si sono moltiplicati. E con essi penetrarono nella Cisalpina usi e costumi a noi estranei e, soprattutto, le mafie. Si aggiunsero, successivamente, immigrati di Paesi europei e non, con conseguenze disastrose sotto tutti i punti di vista. Ormai, in certe aree lombarde, gli indigeni sono minoranza in casa propria, grazie alle politiche romane (e dei loro ascari pirelloniani), alle ingerenze clericali e all’agenda mondialista, che vuole ridurre l’intera Europa ad un deserto di europei. La nostra posizione nei confronti dell’immigrazione è di netta condanna: non risolve i problemi delle aree più depresse della terra, aumenta quelli di chi accoglie e foraggia un sistema criminale che vuole spappolare i popoli nel tritacarne del cosmopolitismo. Ogni popolazione deve starsene nel proprio habitat, e in questo senso sarebbe stato molto più assennato riabbracciare i granlombardi all’estero.