L’intervista a “il Post”

Ol Pól (foto di Thomas Pololi)

Nell’estate del 2011, in piena temperie lombardista dei primordi, rilasciai un’intervista ad un giornalista indipendente, che poi la fece avere al noto quotidiano online sinistroide (e filo-americano) il Post, che la pubblicò il 12 luglio dello stesso anno. All’epoca avevo 26 anni e la fregola un po’ narcisistica di atteggiarmi a personaggio, il che può aver in parte inflazionato la bontà del  messaggio che volevo comunicare, e in cui ho sempre creduto: la fondamentale importanza, soprattutto in una temperie globalista, di difendere a tutti i costi identità e tradizione.

A quei tempi, essendo stato esponente del Movimento Nazionalista Lombardo, avevo tutto l’interesse di farmi pubblicità, sfruttando vari canali, e poco mi importava di come potevo venire raffigurato agli occhi dell’amorfa massa antifascista; del resto, il gioco di questa gente è quello di rappresentare gli identitari come pazzoidi e casi umani, è così da tempo: chi va contro la vulgata mondialista merita il pubblico ludibrio, una cosa che comunque ha anche i suoi vantaggi.

Personalmente ho sempre messo nome, cognome e faccia per diffondere ciò in cui credo, ed è quello che dovrebbe fare ogni patriota, per concretizzare la resistenza al sistema globale e globalizzante. Delle scomposte reazioni dei conformisti poco me ne cale; non mi ha mai preoccupato il giudizio altrui, pur riconoscendo di avere, in diverse occasioni, esagerato calcando la mano. Eccessivo zelo giovanile.

Naturale che gli avversari si occupino di te in maniera ferocemente critica o canzonatoria. Ma, se ti prendono in considerazione, vuol dire che, a tuo modo, fai pensare e in un certo senso fai anche paura ai benpensanti, e lo dimostra il fatto che sono stato sotto processo e condannato per ridicoli reati d’opinione (vilipendio del PdR e istigazione all’odio razziale, a mezzo blog).

La satira fa parte del gioco – sebbene il sottoscritto non sia certo un potente – e a differenza dei presidenti della Repubblica italiani non sono permaloso. A patto che non mi si diffami, ovviamente.

Le manifestazioni isteriche dei media, e del pubblico coi paraocchi in genere, sono sintomatiche dei riti apotropaici che la società buonista ancor oggi inscena per esorcizzare i fantasmi del passato, a dimostrazione che, nonostante il mare di ciarle retoriche con cui le istituzioni ci sommergono, non è affatto vero che la gente abbia sviluppato gli anticorpi necessari per combattere il “fascismo” e il “razzismo”. Di conseguenza, si ripescano tematiche di ottant’anni fa per far guardare da un’altra parte, sparigliando le carte in tavola col fine di impedire di capire dove stia il bene e dove il male.

Il sottoscritto, peraltro, tecnicamente non è né fascista né razzista, anche se fa comodo dipingermi così per, appunto, esorcizzare le proprie paure e banalizzare le tematiche scottanti che stanno a cuore ad ogni sincero nazionalista, e che solo i fessacchiotti di regime possono derubricare al rango di “deliri” di personaggi isolati e disadattati che “non trombano” (magari qualche bella meticcia sudamericana?). Curiosa l’ossessiva insistenza degli antifascisti sul “trombare” e lo “scopare”: sa tanto che ad andare in bianco siano loro…

Che dunque i perbenisti della vulgata antifascista e antirazzista continuino pure ad occuparsi ossessivamente di noi e a criminalizzarci; ci fanno solo un favore e le persone genuine e razionali valuteranno da sé dove stia la verità.

Nel luglio di una decina di anni fa, quindi, previo accordo telefonico, si presentarono a casa mia due tizi per intervistarmi e scattare qualche foto nell’agro brembatese (superiore), in cui felicemente vivo e che ha naturalmente condizionato la mia formazione. Nell’intervista, nonostante il cambio di registro e di prospettiva su alcune cose (maturando è giocoforza), dicevo ciò che potete leggere su questo blog; al netto di qualche esagerazione esibizionistica, io sono quello che emerge dall’articolo, al di là delle idee politiche: una persona rustica, schietta, genuina, vera, terragna, proba, fortemente attaccata al proprio sangue, al proprio suolo, al proprio spirito.

Signori, è ovvio: il giornalismo italiano (parlo dei media di regime) cerca di presentarti come un caso umano, lo scemo del villaggio, uno a metà strada fra un matto e un buffone, ma forse non lo sappiamo? Per questo dovremmo nasconderci e darci all’anonimato? Giammai, e ben vengano queste occasioni – a patto che non siano trappole – che permettono di esporci e di dire la nostra facendo valere le nostre ragioni. Spesso smentendo il prevenuto che ci troviamo davanti. Dipende, tuttavia, dalla serietà e dall’onestà dell’interlocutore: nei casi che vedremo nei prossimi articoli i giornalisti, se così possono chiamarsi, si sono dimostrati pessimi.

Superfluo dire, altresì, che io non sia un pazzo, un criminale e un cultore della violenza e quindi chi mi accusa di cose simili la fa fuori dal vaso, in cattiva fede, per portare avanti la sua patetica agenda di servo. C’è, infatti, la tentazione di dipingere l’etnonazionalista o il sovranista, il tizio di “estrema destra” insomma, come un pericolo pubblico, sulla scorta di qualche caso di cronaca d’oltreoceano (una realtà che nulla c’entra con l’Europa).

Ad ogni modo, l’intervistatore si mostrò gentile e ben disposto nei miei confronti, e devo dire che, nonostante qualche errore di trascrizione e qualche confusione, ha riportato fedelmente, nell’articolo, quanto ho avuto modo di dirgli all’epoca. Capiamoci: questo giornalista non era nella maniera più assoluta un mio ammiratore o un sostenitore della causa etnicista, anzi, e non era nemmeno neutro; la sua inclinazione antifascista era evidente (altrimenti dubito che il Post gli avrebbe pubblicato il pezzo).

L’intervista riguardò la mia biografia, il passaggio all’etnonazionalismo radicale come conseguenza del distacco dal cattolicesimo e dal pensiero cristiano, il Movimento Nazionalista Lombardo, la Weltanschauung sizziana e la passione per il sangue, il suolo e lo spirito, declinata anche in chiave antropologica e culturale.

Il titolo dell’articolo, “Non ho mai visto il mare”, nacque dalla mia dichiarazione di non essere mai stato in località marittime (pur avendo visitato Venezia nel 2004) e potrebbe celare qualche piccola malignità da apericena antifascista dell’autore, della serie: «Questo è un disadattato con l’apertura mentale di un talebano». In realtà, quel che volevo dire era che non ho mai vissuto il mare, e non ne sento il bisogno, essendo un lombardo coi piedi ben piantati per terra e amante di laghi, campagne, colline e montagne della mia patria. Naturalmente, il mare bagna anche la Grande Lombardia (Liguria, Romagna, Venezie) ma il suo nucleo etnico è squisitamente di terraferma.

In altre parole, alludevo alla mia idiosincrasia nei riguardi di quella mentalità italiana stereotipata incentrata su ‘o sole e ‘o mare; il mondo marittimo non fa parte della cultura e dell’esperienza padano-alpine, così come non fa parte della cultura alpina in genere. Ciò non toglie che, un domani, possa visitare le terre granlombarde o europee bagnate dai mari. Ma, di sicuro, non ho una mentalità “da spiaggia” e i miti melodrammatici e petalosi del “mare-che-apre-la-mente” e del “mare-che-unisce-i-popoli” mi provocano prurito alle mani.

La mia visione è un handicap? Direi proprio di no. Io so nuotare e non ho paura dell’acqua, ma al mare preferisco i miei fiumi, i miei laghi, le mie pozze orobiche alpine, i miei torrenti dagli antichi nomi indoeuropei. Anche questo è identitarismo.

Questa mitologia del mare, in chiave italiana, fa un po’ parte del lavaggio del cervello meridionalista operato da Roma, che prevede abbondanti dosi di pizza, spaghetti, sugo di pomodoro, esaltazione dell’olio d’oliva a scapito dei “barbari” derivati del latte e di sceneggiate napoletane assortite per farci credere tutti quanti uguali, da Bolzano a Pantelleria. L’Italia esiste, è innegabile, ma non comprende la Lombardia, che rispetto al centrosud e alle isole è un mondo a sé stante. L’appiattimento subculturale romanocentrico, attuato anche grazie agli esodi “interni” su vasta scala, ha tramutato lo Stato del tricolore in una grigia e tetra prigione di popoli disparati.

Ma il mare (inteso come Mediterraneo), notoriamente, è anche il simbolo del relativismo, dell’annientamento, dell’annullamento dell’individuo tra i flutti del nichilismo contemporaneo, e di un certo libertinaggio promiscuo ed edonista che vuole estirpare la moralità della tradizione per travolgere i popoli col conformismo, e dunque lo sprezzo o l’indifferenza per ogni vero valore degno di essere vissuto sino in fondo.

Non odio e non temo il paesaggio marino concreto, quello che riguarda le coste della stessa Grande Lombardia; stigmatizzo il “mare mentale”, null’altro che il dilagante nulla che invade la scatola cranica della moderna gioventù europea occidentale, e respingo lo stereotipo meridionaleggiante che vorrebbe tutti gli “italiani” appiattiti sul modello caricaturale del “terrone”.

Altro discorso è la sfera dei rapporti interpersonali, soprattutto col gentil sesso. Al giornalista dissi di non essere mondano, di non frequentare luoghi di divertimento di massa e di avere poche amicizie, preferendo la cultura alla “perdizione”; all’epoca (più di dieci anni fa) ammisi anche di non aver mai avuto relazioni concrete, snobbando l’idea del matrimonio in favore di un improbabile “sacerdozio laico e pagano del lombardesimo”. In questo passaggio sottolineai, in maniera fin troppo enfatica, la necessità di rieducare le masse lombarde, anche per prendere le distanze dalle fissazioni dei ventenni occidentali standardizzati.

Di acqua sotto i ponti ne è passata, da allora, e alla luce della vita vissuta e dell’esperienza maturata di sacerdozi, di qualsiasi forma, non voglio sentir parlare. Non ostenterò mai il mio privato (famigliare, sentimentale, lavorativo), coinvolgendo terzi, ma sarò ben felice di dare il mio contributo alla causa demografica, qualora ve ne siano le condizioni. Non ho mai vissuto la questione come un’ossessione.

Certo è che l’uomo qualunque di simpatie antifasciste e antirazziste, in una società ipersessualizzata e materialista fino al midollo, pensa che viaggiare in luoghi esotici, sguazzare in calde acque salate e copulare a tutti i costi sia la ricetta per non chiudersi in se stessi e diventare “nazifasciorazzisti”; ma, forse, qualche imbecille pensa davvero che se io frequentassi assiduamente il Mediterraneo, viaggiassi in lungo e in largo e diventassi un Casanova cambierei visione del mondo? Sarei l’uomo più miserabile della terra.

Insomma, sono le solite balle dell’armamentario sinistroide o liberale di chi vuole demonizzare gli identitari perché tendono ad uscire dal coro dei pecoroni di regime. E così, magicamente, chi sostiene il pensiero forte contro la debolezza del pensiero unico diventa psicopatico, frustrato, represso (magari omosessuale!), caso umano, incel, emarginato, potenziale stragista e chi più ne ha più ne metta.

Se è l’identitario ad evadere questi diventa nemico pubblico numero uno, se invece lo fa qualche scrittore “illuminato” è un atto d’amore per la cultura (quale?), e così ogni capriccio radical chic diventa una moda da imitare.

Nella nota intervista alle Invasioni barbariche (2012), di cui parlerò successivamente, dissi di ritenermi, provocatoriamente, un «disadattato volontario». Nella misura in cui ripudio le schifezze moderniste anti-identitarie e anti-tradizionaliste, lo confermo in pieno ancor oggi: non mi sento figlio di questi tempi di… buona donna, e non mi conformo in maniera supina agli usi e costumi occidentali, che hanno ridotto gli europei a larve che vivacchiano cibandosi della spazzatura proveniente dalla pattumiera transoceanica.

Chi ha voluto occuparsi di me, al di là dei propri intenti, per certi versi mi ha fatto un favore, garantendo visibilità alle mie idee e al movimento di allora. Vorrei spronare tutti quanti la pensino come me ad uscire allo scoperto e ad unirsi alla battaglia etnonazionalista, senza vergognarsi di nulla perché chi, su questa terra, si deve vergognare e sotterrare, è l’agente internazionalista della globalizzazione, che ci vuole tutti uguali, bastardi, plagiati, imbelli, sudditi, idioti, buoni solo per rimpinzare lo spaventoso ventre senza fondo del mercato, solleticando i bassi appetiti consumistici ed edonistici dell’occidentale.

I pennivendoli vogliono raffigurarci ora come pazzi scatenati ora come fenomeni da baraccone? Facciano pure. La verità è dalla parte degli identitari e sempre, quando sorge qualcuno con idee forti, nascono trasversali alleanze di mediocri per abbatterlo. Non dico sia il mio caso, per carità, non mi ritengo un genio o un eroe (anche perché, in passato, ho posto in essere poco proficui eccessi) ma è certamente quello di uomini rivoluzionari di indubbio acume ed indubbia levatura, che nella loro vita sono stati circondati solo da nemici insipidi. E solo l’alleanza in blocco di costoro ha potuto toglierli di mezzo.

Le onde del mare globalista, mondialista, pluralista, multirazzialista, relativista e nichilista che ci vogliono travolgere ed inghiottire, si infrangono sugli scogli della natura dura e pura e della ferrea volontà socialista MA nazionalista. Ovviamente in accezione etnica: il patriottismo italiano tricolore non è coerente nemico del cosmopolitismo, essendo l’inesistente Italia dalle Alpi alla Sicilia – realtà multinazionale – sottoprodotto di una temperie culturale giacobino-massonica che teneva in non cale sangue e suolo.

In tribunale per reati d’opinione

Tribunale di Bergamo

Ho esordito come autore di blog sulla fine di agosto del 2009, in qualità di lombardista della prima ora. Titoli “storici” degli spazi da me gestiti Il LombardistaLongobardo TiratorePaulus Lombardus e un blog recante il mio nome, precedente al famoso Il Sizzi dell’esperienza etnofederalista (chiuso per fare spazio a Lombarditas, collocazione virtuale definitiva del pensiero sizziano).

I siti lombardisti primigeni sono stati eliminati nel tempo (per via della persecuzione di cui divennero vittime) ma i contenuti culturalmente valevoli, trattati precedentemente, confluiscono nell’attuale spazio su cui sto scrivendo, riveduti e aggiornati.

Ammetto tranquillamente che quanto scrissi in passato (ormai una dozzina d’anni fa), per quel che concerne il lato ideologico, fu spesso viziato dall’eccessivo zelo propagandistico col risultato di vergare diverse castronerie che si sono tramutate in un boomerang: sulla base di alcuni articoli scritti fra il 2009 e il 2010 sono stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione e sei mesi di lavori socialmente utili per “istigazione alla discriminazione razziale” e “offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica”, con sospensione della pena respinta per non si sa quali motivi. La sentenza è stata confermata in appello e in Cassazione e ora dovrò svolgere un anno di affidamento in prova ai servizi sociali.

Da un punto di vista etico riconosco senza problemi i miei sbagli, perché è chiaro, mi feci prendere la mano e scrissi cose a tratti stupide, pesanti, aggressive e inutilmente provocatorie, ma una cosa è altrettanto certa: una legge come la Mancino è politica, ideologica e arbitraria (chi stabilisce cosa si può dire e cosa no, se la libertà d’espressione è garantita?) ed è a mio avviso sconcertante che qualcuno debba finire in tribunale, processato penalmente, per delle opinioni.

Nella Repubblica Italiana esistono già leggi specifiche che prevedono la repressione di reati d’istigazione a delinquere e apologia di reato. Perché dunque la cosiddetta “Mancino” (emanata nel 1993)? Per motivi politici, ovvio. Appare utile ricordare come la legge 25 giugno 1993, n. 205 prenda il nome dall’allora ministro dell’Interno ma fu fortemente voluta e stesa da due politici ebrei, Modigliani e Taradash.

Una cosa ancor più sconcertante è che sia stato condannato anche per “offesa all’onore e al prestigio del PdR” (che, tra l’altro, è il reato più grave), solamente per una frase ironica – decontestualizzata – nei riguardi del capo dello Stato dell’epoca, Napolitano: lo paragonai ad una vecchia comare partenopea petulante chiamandolo ‘Giorgiazzo’. Paragonato, attenzione, nemmeno attaccato direttamente. Se siamo tutti uguali – come i boiardi di Stato amano ripeterci ad nauseam – perché il presidente della RI dovrebbe essere al di sopra degli altri cittadini? Nel XXI secolo inoltrato ancora con la lesa maestà, pur vivendo in una repubblica?

Interessante notare come gli esponenti politici che commettano vilipendio (mi vengono in mente Bossi, Grillo e Storace, sempre in relazione a Napolitano, peraltro) non finiscano nei guai. Insomma, siamo alle solite, paghi solo se sei un comune cittadino che non conta nulla.

In tutto questo, mi sto ancora chiedendo dove siano le mie vittime visto che un reato, per essere tale, si presume ne abbia: deve fare del male a qualcuno o danneggiare qualcosa, direi. La verità è che i reati ideologici/politici (per di più a mezzo internet) non ledono niente e nessuno, mentre l’iter giudiziario – che dura ormai da ben 13 anni e rotti, e già questa è una pena – danneggia chi si espone con idee politicamente scorrette (sequestro di costoso materiale informatico o telefonico pulito, disagi famigliari, ricadute sociali, spese legali e processuali e via dicendo). Ripeto: ho sicuramente sbagliato nei toni, in certi contenuti, nello stile ma trascinare una persona in tribunale, finendo nel penale, per degli affari simili è decisamente spropositato, così come la pena che mi è stata inflitta. Forse qualcuno pensa realmente che io sia un criminale?

Sarebbe interessante conoscere anche le motivazioni di chi mi denunciò in blocco nel 2009, ossia gli studenti della sinistra universitaria bergamasca con la compartecipazione di un dirigente dell’ateneo, ma l’esito è scontato: l’antifascismo – che crede di aver vinto, 80 anni fa circa, una guerra – si proclama moralmente superiore a tutto e tutti, senza rendersi nemmeno conto di come sia divenuto, a sua volta, una dittatura. Chi si sottrae a questo regime diventa un reprobo da punire severamente; non solo, anche da esporre, periodicamente, al pubblico ludibrio indicendo campagne d’odio mediante gogna social. Se lo fanno i “fascisti” è un “attentato alla democrazia”, se lo fanno lorsignori è una “doverosa opera di sensibilizzazione socioculturale”.

Peccato che il sottoscritto sia innocuo, senza alcuna inclinazione violenta e aggressiva, incapace di fare del male gratuitamente a chicchessia, anche perché civile e morigerato. Notoriamente, ironia della sorte, i veri violenti sono nelle fazioni dei benpensanti “rossi” che si credono superiori perché eredi di coloro che aiutarono l’invasore angloamericano e titino, balzando sul carro dei vincitori.

Chi mi segnalò alla questura di Bergamo sapeva benissimo che non sono un soggetto pericoloso, ma la bava alla bocca della sinistra verso tutto quello che non coincide col suo assolutismo relativista (un ossimoro che rende bene l’idea dei “valori” progressisti) è risaputa, e così i tanto odiati “sbirri”, sputacchiati e spernacchiati durante le manifestazioni, vengono però invocati a gran voce e blanditi quando si tratta di dare la caccia ai “fascisti”, e si tramutano in eroi. Ci sarebbe anche da riflettere su come la magistratura raramente sia espressione del territorio lombardo, ma questo riguarda le annose magagne concorsuali e l’estrazione etnica peculiare di chi lavora nel pubblico impiego in generale.

Io ho sempre esposto il mio pensiero mettendo nome, cognome e faccia, perché detesto l’anonimato e non ho nulla da nascondere. Chi ti denuncia o segnala in massa, invece, la faccia non ce la mette e fa affidamento su leggine liberticide, volte a reprimere il dissenso verso le posizioni mondialiste tricolori. Leggine che sono il tributo italiano, od occidentale in genere, allo status quo e a coloro che manovrano gli stati-apparato ottocenteschi nell’ombra.

Gli antifascisti si credono tanto superiori ma hanno bisogno dei reati ideologici per mettere fuori gioco gli avversari. Gli piace vincere facile insomma, incuranti del fatto che ‘censura’ faccia rima con ‘paura’. Coloro che sporsero denuncia contro il Sizzi (per ragioni ideologiche, ripeto), senza nemmeno affrontarlo a viso aperto, non sono certo migliori di lui.

La Lega, in uno dei rari momenti di lucidità della sua dirigenza, anni fa raccolse firme proprio per abolire la legge Mancino, ma non se ne fece nulla. Qui, nell’Europa schiavizzata dalla Ue, più si va avanti e più spuntano come funghi leggi atte a stroncare il dissenso e il politicamente scorretto: le “mancinate”, il vilipendio di pezzi di stoffa giacobini e massonici, l’offesa alle cariche istituzionali come fossero intoccabili emanazioni divine, il negazionismo, l’omofobia, il sessismo, l’antisemitismo e l’antisionismo, i deliri in stile ddl Zan.

Credo che uno Stato bisognoso di inventarsi queste cose sia un’entità fragile e timorosa, incoerente coi suoi dogmi liberali e democratici. Che senso ha perseguitare e reprimere delle semplici idee, arrivando a rovinare chi le professa? Di cos’hanno paura a Roma?

Il problema della Repubblica Italiana è che è uno Stato senza nazione, in quanto espressione politica volta a rappresentare un popolo inesistente: l’italiano in senso artificiale, dalle Alpi a Lampedusa. L’Italia è schiava dell’atlantismo e questi sono i risultati; sanzionare idee, opinioni, libera espressione della gente comune è il pegno della sudditanza tricolore ai “vincitori” e ai (presunti) valori occidentali, che sono modellati sui capricci statunitensi.

Riconoscendo di aver, a suo tempo, sbarellato su alcune questioni (ma ero comunque ventenne) mi auguro che di leggi simili non ve ne sia più bisogno e possano venire abrogate, e che, se da una parte chi manifesta pubblicamente le proprie idee sappia farlo in maniera civile e razionale, dall’altra possa farlo in santa pace, senza l’angoscia di ritrovarsi la digos all’uscio il giorno dopo.

Che manéra scrìe zó ‘n toscà (artìcol vècc)

Bèrghem

Ripropongo un articolo in bergamasco che scrissi anni fa, in cui giustificavo l’uso del fiorentino emendato (l’italiano standard) per motivi essenzialmente di comprensione (altrui) e di praticità, nell’ipotesi di dover gestire uno spazio utilizzando solo il vernacolo orobico parlato dal sottoscritto (che ovviamente, essendo della provincia di Bergamo – metà scalvino e metà dell’Isola – non usa esattamente il bergamasco cittadino, sebbene nello scritto sia solito utilizzare, per convenienza, l’ortografia corrente del Ducato di Piazza Pontida).

Lo ripresento senza traduzione, perché comunque i locutori lombardi (cioè “gallo-italici”) non avranno alcun problema ad intenderlo. Il contenuto è un po’ duro e scabro e risente dei toni dell’epoca, ma il succo è sempre valido e più che mai attuale. La questione linguistica, in ottica lombardista, è fondamentale e la affronto con lo stesso piglio degli esordi: la Lombardia ha bisogno di una propria lingua nazionale, che in nessun modo può essere la lingua letteraria di Firenze (le cui radici letterarie affondano nel siciliano aulico medievale); il toscano, in Lombardia, è idioma straniero e la soluzione più razionale è promuovere il milanese classico volgare al rango di lombardo, accanto alla tutela degli idiomi locali.

L’italiano va gradualmente abbandonato de-italianizzando (ossia de-toscanizzando) la Lombardia. Assurdo e suicida che una terra romanza occidentale, prossima a quella galloromanza per antonomasia (la transalpina), accetti una lingua romanza orientale imposta da una esigua minoranza: il lombardo (col retoromanzo) è parente stretto di occitano, arpitano, francese (e catalano), mica dell’italoromanzo peninsulare. Avremo modo di riparlarne approfonditamente. Particolare è il caso veneto, ma se consideriamo che la “lingua veneta” non è altro che veneziano esteso ad una terraferma storicamente lombarda, caratterizzata da sostrato celtico e superstrato germanico (longobardo), non avrebbe senso escludere il cosiddetto Triveneto dal novero grande-lombardo, anche linguisticamente.

È noto che, nel Medioevo, Verona, Trento, Padova, Vicenza, Treviso (per non parlare della Transpadana ferrarese) fossero parte del continuum “gallo-italico” (soprattutto le prime due), spezzato dal dominio della Serenissima, e che esistesse addirittura una koinè lombardo-veneta, o meglio, lombarda e basta. Dante, nel De vulgari eloquentia, accosta la loquela di Brescia a quelle del Veneto continentale facendo intendere che avessero diversi tratti in comune. Anche il pavano di Ruzzante, il padovano rustico, si distingueva, in senso conservativo, dall’attuale loquela veneta. Del resto, Celti e Longobardi si stanziarono anche nella (Grande) Lombardia orientale – senza dimenticare il dominio visconteo esteso alle terre euganee – e lo stesso retoromanzo presenta un aspetto che, un tempo, doveva accomunare tutte le parlate padano-alpine.

Comunque sia, si pone anche una questione ortografica, risolta in parte dalla codificazione secentesca del milanese classico volgare; il compromesso tra grafia francese e toscana è sicuramente migliore delle astruserie contemporanee (stile Beretta o, appunto, Ducato di Piazza Pontida, ente folcloristico bergamasco), ma bisognerebbe studiare un sistema schiettamente lombardo, in linea col romanzo occidentale. Per quanto mi riguarda, rigetto ogni forma di esperanto, di koinè creata a tavolino oggigiorno e di imbastardimento toscaneggiante atto a rendere comprensibile agli italofoni non lombardi le nostre loquele, riducendole alla stregua di innocuo folclore da sagra della polenta.

Allo stesso modo rifiuto i goffi tentativi di plasmare pseudo-dialetti sovraprovinciali: per capirsi, bergamasco e bresciano sono idiomi transabduani molto affini ma con diversi elementi loro peculiari; se qualcuno crede che io possa mettermi ad usare un improbabile “lombardo orientale”, modellato sul bresciano, si è scolato il cervello, anche perché il prestigio storico, culturale e letterario della lingua di Bergamo, con tutto il rispetto per quella di Brescia, non ha paragoni nel resto della cosiddetta Orobia allargata (regione storicamente inesistente, oltretutto).

L’articolo che espongo qui sotto è reso con l’ortografia bergamasca moderna, che è poi l’unica in circolazione, utile per dare una sistemazione al bergamasco scritto. Ma, si capisce, andrebbe completamente rivista e basata, piuttosto, sull’ortografia classica meneghina. L’alluvione di accenti gravi e acuti (peraltro errati laddove si tratti di i e di u, accentate alla toscana), la sciocca Umlaut per rendere il suono turbato di o e u, le elisioni inesistenti e altre baggianate pensate appositamente per costringere il bergamasco nel letto di Procuste dell’italiano contribuiscono a ghettizzare la nostra lingua locale, rendendola illeggibile, “ostrogota” e parodistica. Un idioma lombardo va inquadrato in lombardo, non in toscano. Più avanti avrò modo di esporre le mie proposte di orobico emendato, per adesso portate pazienza.

Ergü a l’ pödrèss domandàs che manéra mé, che dighe de defènd identidà, tradissiù, e quinde lèngua, a scrìe mia zó in lombàrd, in bergamàsch, ma ‘n taià, in fiurentì netàt. A l’è öna quistiù resunada e sàa.  

Pröm de töt, gh’è de dì che te’ sö ü blògh in lèngua a l’è mia ü laùr de negót, de töcc i dé; a l’è öna bèla fadiga e mè èss bu, feràcc, e saì bé chèl che se scriv zó.

Ol rés-cc l’è chèl de scriv zó di stüpidade, de mes-cià sö i dialècc e, ‘n buna sostansa, de fà dét öna acada. Mè cognòssela bé la lèngua, prima de fà ü laùr dol zèner.

Mé dróe mia, de sòlet, ol bergamàsch de la sità, chèl clàssech, a dróe chèl de l’Ìsola, a sira de Bèrghem, fò d’ sura con dét öna quach scalvinada perchè mé pàder a l’éra de la Al.

Adèss, e sèmper quand che scrìe zó, sirche de droà ol bergamàsch clàssech, ma só bé che ergót de “cuntadì” a l’ me sgula fò de sigür.

A l’è ixé zùegn, a l’è tròp malfà tègn sö ü blògh in lèngua dol lögh perchè só mia de Bèrghem sità, parle ol dialèt bergamàsch dol Brèmb, disém, con di ótre inflüènse oròbeghe, e pò dòpo gh’è ach de dì che ol bergamàsch, compàgn de töcc i óter dialècc dol lombàrd, a l’ gh’arèss de bisògn de èss netàt, de fal deentà bèl ladì e desliberàl de töcc is-ce sacranòn’ de assèncc e di sporselade toscane e forèste.

Ma ol laùr piö malfà a l’è la zét che la me lès: quace i è chèi che i ghe rierèss a stam dré, a capì chèl che cönte sö e che scrìe zó, e a discüt? Zamò a i è póche i bergamàsch, figürémsem i óter lombàrcc. E i forestér?

Ché a s’ parla mia di mé bale de töcc i dé, baie sö laùr piö malfà e nessessare che la mé éta nüda e crüna.

E alura sirchém de fas capì de töcc, pò aca de chèi che i è mia lombàrcc, per pèrdei mia per istrada. Se de nò i cambierèss inderéss.

Ma a gh’è ön óter laùr: ol lombàrd prénsep a l’è ol milanés, mia ol bergamàsch, e chèl dialèt lé a l’ gh’arèss de deentà ol lombàrd, la lèngua lombarda öfessàla de töta la Lombardéa Granda e dol sò Stat.

Se a cognossès bé ol meneghì a pödrèss pensaga, de te’ ‘n pé ü blògh in lombàrd, ma l’è mia ixé e l’è mèi che a scriv zó ‘n milanés, per adèss, a i ghe pènse chì de Milà (sèmper ch’ i sìes amò iv, a s’ capéss). Se mia pròpe pròpe de Milà almànch de chèle bande lé (‘Nsübria).

Scrìe zó chèl artìcol ché ‘n bergamàsch per faga capì a töcc che a l’ mastèghe bé (a la mé cà a s’ dróa adóma oròbech), e perchè scriv zó negót negót in lèngua, söl mé “diare” ché, a l’ sarèss pròpe mia ol màssem; ma ad ògne mód sigheteró a scriv zó ‘n toscà (taià) con buna pas de la mé lèngua màder (che però, a l’ siès ciar, baie sö, defènde, protèse e só orgoiùs de iga ‘n dol sangh, fröt dol caràter e de la rassa de la mé zét).

E alura droém chèst pòta de taià (fiurentì leterare), la lèngua dol “nemìs”, che però a m’ cognòss töcc quancc, e che la aìda ‘n de cümünicassiù e ‘n de la batàia identidaria. Fém mia i ganasse quand che gh’è de mès i resù de la nassiù lombarda, s-cècc.

A l’è mia ötel seràs sö e teà i pucc col rèst dol mónd; adèss a m’ gh’à amò de iga a che fà co’ la Tàia, tatsichè mè per fórsa droà la sò lèngua per fà frötà i nòste sömésse cültürài e polìteghe. A l’ dighe mia adóma per mé, ma aca per ol MNL, i lombardés-cc e chèi ch’ i völ tecàs con nóter, per combàt cóntra ol töt insèma.

E ardì che mè partì pròpe de chì laurzì ché compàgn di blògh, di fòrüm, di récc sossài a la Léber di müs e compagnéa bèla, prima de rià a parlà de moimécc e partìcc. Chèst sö la rét a l’è ü bèl cap de adestramét.

Fat istà che i mé blògh a i è sèmper stàcc scriìcc zó in taià, se de nò nigü o gran póche persune i me sarèss stace dré, zét adóma de Bèrghem e d’öna sèrta età; che pò dòpo a l’è piö probàbel che chèi ch’ i parla e capéss ol bergamàsch, ma bé bé, sö la rét a i ghe sìes gnach, e magare i gh’à gnach ol compütadùr (o ‘l telefunì). A só dré a parlà di ècc, a se capéss.

I zùegn ol dialèt i la parla mia, o fòrse fòrse i böta dét öna quach parulina, o parolassa; a l’ manca ol bassì de letùr ch’ i parla lombàrd sö l’uèb, per adèss, e alura negóta sbrofade.

L’istèss resunamét me l’ fà pör cume Moimét Nassiunalést Lombàrd; per ol momènt se dróa ol toscà, ‘n de propaganda e ‘n de dutrina, ma a m’ sircherà pò ach de lauraga dré al milanés per fal deentà, cume ó dìcc piö sura, la lèngua di lombàrcc, ol lombàrd.

‘N che manéra? Vocabolare, gramàteghe, fonétega, ortograféa, töte ròbe de sgürà vià per bé perchè ol meneghì clàssech, chèl dol Mas e dol Pórta, ach se l’è orisinàl, a l’ sà ön pó tròp de Fransa e de Toscana (e ol bergamàsch clàssech a l’ sà ü petì de Enéssia). Parlém mia de chèl növ nöènt che a l’ sènt pò de terunade!

A l’ vegnerèss fò pròpe ü gran bèl laurà ma a l’ ne alirèss la péna. Per di órghegn de stampa dol töt in lèngua, però, adèss l’è tròp prèst, i tép a i è amò zèrb.

A l’è mia öna contradissiù nè! Me recomande! A s’ gh’à de parlà de Bèrghem, de Oròbia, de Lombardéa, de Tàia (pörtròp), de Öròpa e dol mónd (amò pörtròp) per fórsa ‘n fiurentì, se de nò a l’ và töt a fas ciaà de chèl frà! A l’è cume pretènd de baössà de ‘ndependènsa quand che i lombàrcc i pènsa de èss taià, padà, svìsser, ‘strìech o magare sitadì dol mónd.

Nóter lombardés-cc a m’ völ fà i laùr per bé; chì óter, che pötòst de droà ol servèl i droa la bògia, i passerà per di Se Gheàra de quàter ghèi o di leghés-cc patacù ch’ i gh’à a cör adóma la famusa cadréga.

Ol discórs a l’ val ach per ol lombàrd: prima de la lèngua gh’è la rassa e la tèra, pus la cültüra, ma se ü a l’ fà l’ contrare a l’ se trà la sapa sö i pestane perchè cültüra sènsa sangh, sènsa rassa, sènsa identidà a l’è compàgn dol fé e de la aca sènsa ‘l malghés.

Ol mé sògn a l’è chèl de droà ‘n töta la Lombardéa ol milanés cume lèngua öfessala, e de fà alì i nòs-cc dialècc ‘n di nòs-cc cantù sènsa ‘mpestài sö e mes-ciài per faga dét chissà che sbrògia, e ‘nsèma a chès-ce laùr ché fa sparì de ‘ntùren ol toscà e töte i parlade forestére (e chèi ch’ i la baia sö).

Mè daga ü bèl pessadù a ‘l taià e ri-mandàghel zó ai “bìscher” e ai “terù” (aé ‘nsóma, ai taià), chè l’è la sò de lèngua, ol dialèt dol latì piö pür (pus dol sardagnöl, perchè fàcc sö adóma de itàlech).

Nóter a m’ sè mia taià nassìcc ‘n de la Tàia, maseràcc dol mar vòst; a m’ sè lombàrcc nassìcc in de la Lombardéa Granda, tra i Alp e ‘l Penì, Öròpa de mès (piö o manch), tèra di Gai e di Longobàrcc. Per vèss piö pressìs a m’ sè l’anèl che ‘l zónta ol Mès al Mesdé.

Ol toscà l’è bu per imbrombà sö ‘l có de sbambossade, cöntà sö bale e scóndega ol vira a la zét lombarda; ixé i la dróa chì de Róma e i sò slapa-pé.

Nóter nò, a m’ dróa ol toscà perchè uramài i la cognòss e parla ol gròss di lombàrcc, e pròpe per chèsta resù ché me l’ dróa per dì sö la erità ‘n mès ai nòs-cc fradèi, amìs, nemìs, invasùr: nu a m’ gh’à mia pura de trà fò la stòria netada de töt ol rüt che i taià i gh’à bötat sura per sotrà ol delbù, e guarida de töt ol tòssech spandìt dol triculùr in dol nòst sàcher söl.

Ol vira a l’ ghe fà mal ai zacuì, ai massù, ai précc dol dé de ‘ncö , ai fassés-cc növ e a chì cóntra, ai mafiùs, a töcc chèi che, ‘nsóma, i ghe maia sura i menade triculurade.

Ma chi l’è de la banda dol bé, dol giöst, de la natüra a l’ gh’à de iga pura de negót e de nigü perchè la sacra e santa erità dol sangh, de la tèra e dol ispéret a l’è ‘nsèma a lü e al sò pòpül.

Chèsta l’è la missiù, de portà ‘nàcc, per bèfa, a partì de la lèngua di ocüpàncc.

Scrivere con questo sistema ortografico moderno, ad uso e consumo dell’italocentrismo, è assai faticoso e anche la lettura diventa farraginosa ed estenuante. Le grammatiche bergamasche del Mora e dello Zanetti (così come il vocabolario del Tiraboschi) adottano tale folcloristico metodo, e per quanto siano lavori pregevoli – nell’ottica di dare una sistemazione univoca alla lingua di Bergamo – restano incoerenti (con la filogenesi del lombardo) e prostrati di fronte all’inesistente superiorità dell’italiano, per giunta inquadrato come lingua nazionale di una terra, la Lombardia, che non è in alcun modo italiana.