Una (vecchia) riflessione sul tricolore

In un vecchio articolo del 2017, che ora ripropongo con doverose chiose ed integrazioni, trattai delle suggestioni italiche e ario-romane del tricolore italiano, riprendendo alcune considerazioni fatte a partire dal 2014, anno della svolta italianista. Non è tutta farina del mio sacco; è, più che altro, una riflessione condotta sulla scorta di quanto scritto da altri, fra cui Georges Dumézil e Renato Del Ponte, noti studiosi tradizionalisti del mondo indoeuropeo.

Suggestioni, appunto. All’epoca, volendo dare una pennellata di nobiltà e di aulici rimandi all’idea di Italia che propugnavo, concepii il cosiddetto “Tricolore Italico del Sangue”, una versione tradizionalista e paganeggiante della bandiera italiana che potete trovare qui sotto, in due varianti:

Quadrato con aquila dorata
Rettangolare con aquila nera

Anche altri identitari rielaborarono il vessillo tricolore (la Societas Hesperiana, ad esempio) con soluzioni analoghe, cercando di dare una veste aristocratica e accattivante ad una bandiera che, in realtà, è estremamente prosaica. La vera storia del drappo italiano non ha nulla a che vedere con Indoeuropei, Italici, Romani ma, in quel periodo, al sottoscritto piaceva dare un’inclita insegna alla propria visione di Italia etnofederale. Fra gli altri che cercarono di nobilitare il tricolore italiano val la pena ricordare Mario Enzo Migliori e Adriano Scianca.

Forse, l’unico tentativo storico apprezzabile, in questo senso, fu la bandiera da combattimento della Repubblica Sociale Italiana, con la sua aquila col fascio littorio fra gli artigli, un simbolo che al sacro animale latino unisce l’emblema romano repubblicano per antonomasia, di origine etrusca.

La bandiera dell’ottocentesco stato italiano e della Repubblica Italiana non è nulla di speciale e, soprattutto, di originale. Non è altro che la brutta copia del più noto tricolore parigino della Repubblica Francese, che ha fatto da modello a svariate bandiere contemporanee, europee e non; si tratta, dunque, di un panno di origine giacobina e molto caro in ambienti massonici, un po’ come la bandiera messicana che lo ricorda da molto vicino.

D’altra parte, il tricolore italiano, come quello francese, rappresenta un’entità statuale senza nazione, un mero baraccone politico e burocratico, e non può che essere, dunque, qualcosa di piatto, triste e spoglio. Artificiale e senza storia e identità, senza radici. Per queste ragioni, cercando di proporre una visione etnonazionale italica, tentai anche di dare forma ad una bandiera che potesse avere una simbologia di tutto rispetto, sebbene avulsa dalla realtà (e da ciò che frullava nella testa di chi concepì il tricolore nostrano). Una cosa, comunque, va detta: non è un emblema ausonico.

La sua versione originale, cispadana (1796-’97), presentava bande orizzontali con il rosso sopra, il bianco al centro, il verde in basso e con una forma piuttosto quadrata; nel mezzo della striscia centrale bianca v’era un turcasso, ossia una sorta di faretra, contenente quattro frecce a simboleggiare il sodalizio di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio di Lombardia, le città repubblicane dalla cui unione nacque, appunto, la Repubblica Cispadana. Era questa un’emanazione dell’occupazione francese del Bonaparte, che portò il vento giacobino, rivoluzionario, anche al di qua delle Alpi.

Un’altra bandiera italiana degna di menzione è quella del Regno d’Italia del 1805-1814: rettangolare, con un rombo bianco al suo interno, su sfondo rosso, contenente a sua volta un rettangolo verde con l’aquila napoleonica, che non è altro che un’aquila imperiale romana sul trespolo con le saette di Giove fra gli artigli, emblema delle legioni romane. Innegabili i suggestivi echi romani, ma anche e soprattutto il puzzo massonico… Per quanto il giacobinismo primigenio sia, a suo modo, una specie di antesignano di fascismo e nazionalsocialismo – in opposizione al parassitismo antinazionale reazionario – non possiamo dimenticare come Illuminismo e Rivoluzione francese (con le sue scempiaggini egualitariste) siano l’inizio della fine della civiltà europea.

Qualche paragrafo sopra dicevo che, nonostante tutto, il tricolore italiano è un vessillo indiscutibilmente padano. Esso sta sul gozzo ai duosiciliani, con le loro litanie anti-risorgimentali sul Piemonte razzista e colonialista e, sebbene vi sia un nesso tra il rosso-bianco-verde italico e il blu-bianco-rosso transalpino (dove il blu e il rosso sono colori di Parigi e il bianco della monarchia francese), nel caso cisalpino si può leggere un cromatismo lombardo: il bianco e il rosso sono colori classici delle croci padano-alpine dei liberi comuni medievali, a partire dall’insegna di Milano (Croce di San Giorgio guelfa, Croce di San Giovanni Battista ghibellina), mentre il verde è colore visconteo di gusto ghibellino, reimpiegato per le uniformi della Legione Lombarda napoleonica.

Relativamente alla questione del cromatismo e dei suoi aristocratici echi, partiamo col dire che, simbolicamente, i colori “italiani” vengono accostati di volta in volta al paesaggio peninsulare, alle virtù teologali, alle suggestioni dantesche circa Beatrice (con tanto di speculazioni “rosacrociane” e vetero-massoniche), a generici sentimenti di amore e di patriottismo; ognuno può vederci i significati che più gli aggradano, ma in questo caso sembrano piuttosto normali interpretazioni che possono ritornare in contesti diversi da quello italiano. Quel che, invece, sottolineavo io all’epoca, come altri prima di me (Dumézil e Del Ponte su tutti), è il valore simbolico ancestrale, di questo peculiare cromatismo, che permette di stabilire dei paralleli fra di esso e le tripartizioni cromatiche dell’antichità, in particolar modo ariane.

Il modello di partenza è rappresentato dalla bandiera della Tradizione canonica (ne esiste anche una versione cattolica): rosso-bianco-nero a strisce orizzontali. Alcuni la confondono con la similare bandiera tedesca del Reich germanico (che ha però il nero sopra) o con l’eguale cromatismo di evoliana e guenoniana memoria: nel caso di Evola rispecchierebbe nigredoalbedo e rubedo della tradizione ermetico-alchemica, nel caso di Guénon la tripartizione in spirito, anima e corpo dell’uomo, posizioni che comunque si intersecano nel contesto delle dottrine tradizionali dell’Occidente, presentandosi nelle varie culture di estrazione indoeuropea. Epperò la bandiera sunnominata, traendo comunque spunto dalle posizioni dei due studiosi, unisce elementi del sacro con un occhio di riguardo alla suddivisione in caste tipica degli antichi Ariani, che in India perdura, andando a rappresentare un vessillo che vuole essere emblema dell’umano e della sua natura in mensanima e corpus.

Il rosso è il colore del cuore e della scintilla vitale, dunque dello spirito luminoso e solare che secondo gli antichi albergava appunto in quell’organo, che si pone in cima in quanto segno superiore di forza virile, razionale, “cerebrale”, centrale anche nel corpo umano; il bianco, sotto il rosso, è simbolo di anima e mente, della luna che non brilla di luce propria ma viene rischiarata dalla fondamentale luce del sole, un colore “femminile” e simbolo di passioni, pensieri ed emozioni, regolate dal cuore-cervello; infine il nero, in basso, la parte corporea e materiale dell’io, il livello inferiore collegato al ventre, ai visceri, ai genitali.

Una tripartizione, questa, che non solo trova precisi riferimenti nella tripartizione della società, cominciando dal sacro, dal pantheon ariano (sacerdoti, guerrieri, agricoltori-artigiani), ma rispecchia anche quei principi cosmici rappresentati dal sole, dalla luna e dalla terra, cosicché all’astro per antonomasia corrisponde lo spirito, al satellite terrestre l’anima, al nostro pianeta il corpo. Potete trovare maggiori informazioni qui.

Dumézil ha studiato il cromatismo indoeuropeo a partire dalla suddivisione in caste della società ariana, che rispecchierebbe la concezione religiosa e le divinità stesse degli Indoeuropei. Egli sostiene che al cromatismo tradizionale bianco-rosso-nero corrisponda la tripartizione sociale in sacerdoti-guerrieri-contadini/lavoratori (del resto, il 3 è numero basilare presso i popoli indogermanici) e dunque la triade divina che ritorna in diversi culti tradizionali precristiani come quello italico-romano (Giove, Marte, Quirino), germanico (Odino, Thor, Freyr), celtico (Taranis, Esus, Toutatis), indo-ario (Mitra, Indra-Varuna e gli Asvin) ecc.

Tali divinità erano preposte a particolari funzioni che venivano rispecchiate dalla società degli uomini indoeuropei, così ad esempio Giove, il dio padre celeste, trovava un parallelo nella casta sacerdotale romana; Marte, dio della guerra, nella classe degli aristocratici-guerrieri; Quirino, dio delle curie e delle arti liberali, nel ceto dei produttori (contadini, artigiani, lavoratori), probabilmente, questa, arcaica reminiscenza dei culti preindoeuropei legati alla fertilità e a figure di divinità femminili.

Il sistema delle caste in India è ancor oggi esemplare, per illustrare il concetto: alle quattro classi sociali (bramini, kshatriya, vaishja, shudra = sacerdoti, guerrieri, commercianti, contadini e facchini), rigidamente separate ed ereditarie, corrispondono il colore bianco della spiritualità luminosa, il rosso del sangue e del fuoco, il giallo dell’oro e il nero della terra; infine i fuori casta, cioè i paria, gli impuri. Si pensa che questa stratificazione sociale introdotta dagli Arya rifletta anche la suddivisione etnica tra conquistatori indoeuropei e sottomessi dravidici.

La suesposta strutturazione sociale tripartita, correlata alla sfera della religione, collega così alle divinità triadiche basilari (e alle loro funzioni incarnate dagli uomini) il bianco (Giove/clero), il rosso (Marte/guerrieri), il nero (Quirino/produttori). Essa non corrisponde pienamente a quanto detto circa la bandiera della Tradizione, ma ispirò in me alcune riflessioni riguardo il tricolore italiano. Ripeto, stiamo parlando di anni fa, e queste dotte elucubrazioni lasciano il tempo che trovano, non avendo riscontri nella vera natura della bandiera italiana. Le ripropongo, come detto in apertura, con le necessarie chiose.

L’attuale tricolore è troppo artificiale, asettico, privo di attrattiva dettata da identitarismo e patriottismo: bandiera anonima e disadorna, replica di quella francese. Naturalmente, le strisce orizzontali si confonderebbero con la bandiera ungherese, ma la versione originale dell’insegna italica era a strisce orizzontali e nata ben prima di quella magiara (1796-’97, 1848 la seconda), di foggia differente e con un simbolo nel mezzo. Il tricolore rinnovato si meriterebbe, infatti, anche un simbolo da porvi al centro, che ovviamente non riguarda la ruota dentata repubblicana inventata settant’anni fa.

Come potete leggere qui, o in questo articolo, i colori rosso, bianco e verde erano presenti nell’ethos ariano dell’antica Roma per i motivi triadici già citati, in riferimento sia alla pietas che alla società, ma anche per questioni ludiche (le fazioni del circo), etniche (le tribù alla base di Roma, ossia RamnesTities e Luceres e quindi Latini, Sabini ed Etruschi) e ancora sacrali (Giove, Marte, Venere-Flora che si collegano a Quirino per ragioni relative alla fecondità). In questa tripartizione cromatica italico-romana, il verde sostituisce il nero, o anche il blu scuro, ma parimenti rappresenta la terra, il suolo, il lavoro agreste; inoltre, è interessante e suggestivo constatare come la livrea del picchio verde, animale totemico dei Piceni (ramo italico umbro-sabino) sia rossa, bianca e verde.

Questo “Tricolore Italico del Sangue” che avevo in mente incarnava anche dei precisi valori patri riferiti alla “nazione” e alle aree che la compongono. Ecco ciò che scrivevo 5 anni fa:

il numero tre ritorna ancora perché tre sono le macro-aree italiane, nord, centro, sud; il colore rosso posto in cima rappresenterebbe il nord, la Grande Lombardia, e le sue qualità storiche: la nobiltà del sangue, il fuoco della solarità alpino-padana (e dei suoi rituali), la guerra e i cavalieri (Celti, Romani, Goti, Longobardi, liberi comuni e signorie nel quadro del SRI, fino all’epopea risorgimentale, al fascismo e alla RSI, nati nel settentrione), il motore-cervello d’Italia, cuore economico e imprenditoriale del Paese; il bianco, luminoso, posto nel mezzo, rappresenta il centro Italia, la culla della cultura italiana da latinità e romanità alla lingua di Firenze, la sede dell’anima, della religio patriottica, della maestà dei Cesari, la Saturnia tellus che fu faro di civiltà per tutto l’Occidente; il verde, in fondo, rappresenta il sud, l’energia selvaggia della natura incontaminata (anche dei terremoti, purtroppo), della foresta e delle montagne ma anche del ruralismo che ormai sopravvive più nell’appendice agricola del meridione che nel centronord, segno che, sta bene il progresso e lo sviluppo, ma non ci si deve dimenticare delle proprie radici, per rimanere connessi col nostro habitat e la natura che lo circonda: dunque la potenza ctonia dell’elemento terrestre, del suolo.

Chiaramente, questa tripartizione non andava interpretata rigidamente perché la risultante bandiera simboleggiava la triade di sangue, suolo, spirito che valeva per tutta la realtà nazionale (di allora), dalle Alpi alle isole maltesi, dalla Corsica al Quarnaro. Pertanto sia al nord che al centro, come al sud, questa suddivisione andava intesa integralmente, per quanto si possano stabilire alcuni collegamenti, come suggerivo.

Assieme a tale cromatismo, e nell’ordine illustrato, calzava la foggia quadrata del vessillo, come nell’originale, a ricordare il solco quadrato tracciato con l’aratro secondo il classico rituale ariano delle fondazioni sacre, delle città italiche e non, come di Roma, e nel mezzo, sovrapposto, un simbolo patriottico emblema storico d’Italia, quale l’aquila imperiale romana insegna delle legioni. Le immagini che ho postato all’inizio presentano, difatti, nella striscia bianca centrale, questa versione di rapace.

L’aquila è simbolo uranico per eccellenza, e il centrosettentrionale B(u)onaparte la elesse a propria insegna, sgraffignandola dall’antichità italica. Tale simbolo è legato a doppia mandata all’Italia (quella vera, il centrosud) e assieme al lupo (altro animale totemico spiccatamente italico e romano), incarna i più arcaici aspetti dell’ethos, relativi alla patria plasmata dalla romanitas.

Il cromatismo rosso-bianco-verde (o simili) ritorna spesso anche in altri vessilli provenienti da terre indoeuropee come Irlanda, India, Persia-Iran, Kurdistan, Tagikistan, pure Ungheria per quanto sia una nazione di lingua uralica, poiché la storica Pannonia, come i suoi vicini, venne caratterizzata da diverse invasioni indogermaniche. Credo meriti una considerazione pure l’azzurro sabaudo, colore legato, oggi, soprattutto alle “nazionali” sportive, ma presente anche nelle insegne repubblicane, ad esempio presidenziali.

Storicamente legato a Casa Savoia, dovrebbe essere un simbolo mariano collegato al manto della Vergine, insegna della casata savoiarda utilizzata durante la battaglia di Lepanto; compare, infatti, anche nella bandiera del Piemonte, il Drapò. Dumézil offre una diversa suggestione, sostenendo che a Roma, un altro colore accostato al rosso-bianco-verde era il ceruleo, dunque l’azzurro, e difatti a Costantinopoli v’erano le fazioni del circo dei Verdi e degli Azzurri, sicuramente, assieme ai giochi del circo, retaggio antico-romano. In tutta onestà, pensando ad un colore “nazionale” italiano, all’azzurro preferivo il nero, soprattutto pensando a cosa quell’azzurro ha rappresentato per l’Italia (lo sfacelo dei Savoia) e rappresenta oggi (l’idolatria del pallone).

Ho ripreso questo articolo perché, all’epoca italianista, l’idea di rivisitare il tricolore italiano per dare un volto etnonazionale (e federale) alla patria mi piaceva particolarmente. Tuttavia, come dicevo, si tratta soltanto di suggestioni latine, gentili, romane, senza alcun dato concreto in ciò che è la vera storia della contemporanea simbologia peninsulare. E questo la dice lunga sull’inane opera di conciliare la visione etnicistica con ciò che è per davvero l’Italia, da una prospettiva lombardista. Lasciamo, dunque, la leggendaria “terra dei vitelli” ai suoi legittimi proprietari (i centromeridionali), cari lombardi, e occupiamoci di casa nostra.