Paolo Sizzi sulla religione

Sizzi, cioè chi scrive, è di formazione cattolica e nasce in una famiglia alquanto religiosa, che ha peraltro dato alla Chiesa due sacerdoti (e ce ne sarebbe anche un terzo, da parte materna, poi spretatosi). Il Nostro è cresciuto, dunque, immerso in un ambiente cattolicissimo e sino ai 24 anni è stato un credente, praticante e devoto, fedele alla causa cristiana, in virtù della propria educazione ma anche della propria spontanea affermazione. A partire dalla primavera del 2009, tuttavia, si è distaccato dalla Chiesa, maturando una visione del mondo decisamente etnonazionalista e ostile, di conseguenza, a tutto il sistema di valori cattolico, che certamente non è compatibile con una ideologia völkisch integrale.

Il 2009 è l’anno in cui è andato concretizzandosi il lombardesimo, dopo una gestazione principiata nel 2006, frutto di una radicale presa di coscienza etnonazionalista di Sizzi volta all’esaltazione razionale degli ideali di sangue, suolo, spirito, che sono la triade fondamentale su cui deve edificarsi una nazione degna di questo nome, come la Lombardia. Dal 2009 al 2019, anche durante il periodo italianista, Paolo ha portato avanti una visuale anticristiana, ostile alle religioni ma con simpatie culturali pagane, poiché era necessario sviluppare un’ottica che fosse estranea tanto ad un credo semitico di importazione mediorientale quanto alle fedi religiose in genere.

Dal 2019 ad oggi, invece, il sottoscritto ha cercato di conciliare la coerenza etnicista con un recupero identitario dello stesso cristianesimo cattolico, naturalmente in chiave preconciliare e rivestito di solarità indoeuropea, provando così a stabilire un connubio cristiano-pagano che rappresentasse le due grandi anime spirituali della nostra terra. Un’operazione certo non dettata dalla fede e dall’afflato religioso, che Sizzi non ha più, ma dal desiderio di tentare una conciliazione, per il bene della Lombardia medesima. Dopo quasi 5 anni ho deciso di lasciar perdere perché le incongruenze erano troppe e perché la coerenza völkisch impone altro. Direi che è stucchevole tollerare il cattolicesimo soltanto per via di una patina indoeuropea; a questo punto si recuperi direttamente il paganesimo.

Certo, l’idea della Chiesa nazionale ambrosiana, cattolico-pagana, non era un’intuizione da cestinare del tutto, anzi, avrò modo di riparlarne come soluzione culturale originale per dare un volto tollerabile alla religiosità padano-alpina. Tuttavia, il pensiero etnonazionalista, alla lunga, non può essere conciliabile con il credo in Gesù di Nazareth, poiché sono troppe le contraddizioni che turberebbero un compromesso di questo tipo. Nondimeno, Paolo non è religioso, non è credente e non ha esigenze spirituali (intese come rapporto con il trascendentale), né gentili né cristiane, e appare quindi utile promuovere nuovamente, e senza edulcorazioni, l’originale etno-razionalismo lombardista. Lo spirito esiste come insieme di elementi culturali, civili, caratteriali, mentali, artistici, intellettuali di un popolo, e in tal senso, giustamente, parlo sovente di sangue, suolo, spirito.

Tutto questo per dire cosa? Semplice: Paolo Sizzi prende le distanze da ogni religione, frutto della cultura umana, e dal divino, frutto dell’inventiva umana, perché intende rimettere al centro del dibattito quel fondamentale razionalismo emendato da ogni squallido elemento illuminista (dunque cosmopolita, egualitarista, modernista, laicista in accezione progressista e ateo in senso “acido”). Il razionalismo etnico del lombardesimo esalta la vera ragione, la cui culla è l’Europa, come strumento indispensabile per un’esistenza improntata ai valori etnici, razziali, patriottici, proprio perché la ragione depone a favore di quell’identitarismo antropologico e biologico senza il quale l’Europa stessa sarebbe perduta. Ed esalta il realismo, al di là di ogni credenza, mito o timore superstizioso.

La religione non ha più nulla da darci, e possiamo tranquillamente lasciarcela alle spalle. Questo è il caso, soprattutto, di un cristianesimo che nasce come corpo estraneo semitico, al pari di giudaismo e islam, e che è animato da un punto di vista e da una filosofia di vita universalisti, umanitaristi, antirazzisti in nome di un dio biblico, dunque levantino, che non ha nulla a che vedere con il nostro continente. Dio e dei non esistono, sono chiaramente il prodotto della mitologia e dei bisogni spirituali umani (fortemente intrisi di ignoranza, paura, ansia dell’ignoto e della morte), ed è sterile cercare di conciliare questi concetti con l’inconciliabile, e cioè con l’identitarismo etnico e il razzialismo lombardisti.

La religione, ormai, è un qualcosa che trova sbocco soltanto nel secondo/terzo mondo, dove cioè regnano miseria, povertà, oscurantismo, sovrappopolazione, superstizione, analfabetismo, degrado e infatti lo stesso cattolicesimo oggi galleggia grazie a fedeli provenienti in maniera schiacciante dal sud del globo. Può, forse, l’etnonazionalismo scendere a patti con qualcosa di simile, diametralmente opposto al pensiero völkisch? Ovviamente no. E allora il cristianesimo, fratello di ebraismo e islam e devoto di un dio mediorientale creato da popoli mediorientali, va abbandonato, senza se e senza ma. Ciò non significa perseguitare i cristiani o scristianizzare “satanicamente” la nostra società, ma consegnare finalmente alla storia il credo cattolico (nel caso lombardo), e la Chiesa.

Altresì, è la religione in genere che va abbandonata, perché oggi del tutto inutile e buona solamente per popoli sottosviluppati (e non certo bianchi). Troppo spesso la spiritualità diventa un ostacolo sul cammino identitario e davvero tradizionalista dell’uomo europide, e dunque sul percorso che conduce alla piena autoaffermazione, e direi proprio che sarebbe folle sacrificare la verità assoluta di sangue e suolo in favore della superstizione e del terrore verso la morte. Per di più a favore di un culto di importazione. Certo, abbiamo la gentilità, il paganesimo, che sarebbe sicuramente molto più coerente col lombardesimo essendo il frutto dello spirito indigeno, indoeuropeo, ma personalmente trovo anch’esso inutile, essendo il sottoscritto ateo.

Ma il mio ateismo è un ateismo identitario, tradizionalista, etno-razionalista, e non c’entra nulla con l’ateismo “convenzionale”, che è cioè ciarpame progressista degno dell’Illuminismo. Stesso discorso per il laicismo, quella tendenza a voler secolarizzare e scristianizzare la società per fare un favore a chi, in Europa, non dovrebbe starci nemmeno dipinto. Del resto, questo ateismo “convenzionale” è a sua volta una religione, una superstizione giacobino-massonica, perché del tutto irrazionale, dal momento che, come il cristianesimo medesimo, è votato all’universalismo, all’antifascismo, all’antirazzismo, proprio sulla base delle castronerie dei philosophes.

Concludendo, la mia opinione, sulla religione oggi, è negativa. La religiosità fa parte del nostro retaggio culturale e civile, nessuno lo nega, e la stessa identità lombarda è permeata di cattolicesimo, assieme alle radici pagane. Ma possiamo farne tranquillamente a meno, essendo ormai un problema che impedisce di affrontare di petto la questione che più ci sta a cuore: la totale realizzazione del progetto lombardista. Un lombardo può tranquillamente dirsi cattolico o gentile – ci sarebbe poi da discutere anche sulla stessa bontà iniziatica e spirituale della gentilità e, infatti, ne riparleremo – ma il lombardesimo prende nettamente le distanze dalla religione. Può tollerare una rinascenza pagana, in quanto culturalmente e ideologicamente compatibile col nazionalismo etnico, per chi proprio ha esigenze spirituali, ma il credo lombardista è votato all’unica verità indiscutibile, che è quella razziale.

Europa

L’Europa è la nostra grande famiglia, lo spazio continentale delle nostre origini e dei nostri destini. È la culla della sottorazza europide (o bianca) della razza caucasoide e rappresenta la naturale dimensione identitaria, in senso allargato, anche dei lombardi. Un serio discorso etnonazionalista non può prescindere dalla cornice imperiale europea, che idealmente si estende sino a Vladivostok, coronando il sogno confederale euro-siberiano. Siamo dunque europei, dopo essere cisalpini, a patto di non confondere la vera Europa con la sua caricatura burocratica che ha sede nel Benelux. Ed essere europei implica essere bianchi, europidi appunto, perché l’ambito razziale va sempre contemplato, in una con quello etnico. È vero, non possiamo non dirci europei, ma l’Europa che l’identitario coerente ha in mente non ha nulla a che vedere coi deliri tecnocratici e finanziocratici all’ombra degli stracci stellati, ed è bene che i valori etnicisti abbiano la meglio sulla chincaglieria giacobino-massonica che vede le radici europee nell’Illuminismo.

Non scherziamo, perché le reali radici del continente affondano nella fertile humus indoeuropea, che garantisce ad ogni vera nazione di avere una propria peculiare identità sancita dalla sacralità di sangue, suolo, spirito. La basilare triade del nazionalismo etnico rappresenta le fondamenta della nostra civiltà, una civiltà che per quanto possa dirsi di retaggio romano-cristiano è anzitutto il frutto delle glorie etniche ariane, recate nelle vene di ogni europeo. Siamo realmente la grande patria di quell’evoluzione e di quel progresso, da interpretarsi in senso positivo, che costituiscono il bene, la luce, la storia dell’umanità stessa, dove tale termine perde la nefasta connotazione egualitarista per assumere un significato squisitamente antropologico. Poiché, al di là di razzismi e suprematismi, resta il fatto che la culla della civiltà sia proprio l’Europa, senza la quale i secoli vissuti dal globo sarebbero trascorsi quasi del tutto invano: cultura, sapienza, scienza, filosofia, spiritualità, arte, guerra (sì, anche quella), tecnologia, sviluppo, benessere, genio e creatività portano il marchio della razza europide, e lo si dica specificando tranquillamente che vi è dignità anche nelle altre popolazioni del pianeta.

Genovesato, la porta della Lombardia

Quella che siamo soliti chiamare ‘Liguria’ è un territorio che, rispetto all’accezione ligure antica, appare molto ridimensionato, limitandosi all’area appenninica, ovviamente cispadana, e a quella costiera con l’immediato entroterra. In antico la Liguria comprendeva tutto il sudovest della Cisalpina e, nel Medioevo, indicava talvolta l’intero occidente padano, sulla scorta della romanità imperiale. La Liguria odierna, regione dello Stato italiano, sarebbe da chiamarsi, più correttamente, Genovesato, che è poi la terra della vecchia Repubblica di Genova. Allo stesso modo la lingua ligure odierna potrebbe tranquillamente chiamarsi genovese, proprio perché il significato contemporaneo di Liguria è qualcosa di artificiale, e parziale. L’eredità degli antichi Liguri, una popolazione fondamentalmente preindoeuropea ma con un forte superstrato ariano recato da genti assai prossime ai Celti, accomuna l’intera Padania occidentale, sebbene sia più forte nei territori “romani” dell’antica Liguria (che fu anche il nome di una regione augustea e, successivamente, dioclezianea).

Nondimeno, la Liguria è parte della Grande Lombardia, è una terra lombarda, e non solo perché nel Medioevo il capoluogo Genova era chiamato sovente, poeticamente, “porta della Lombardia”. La regione in questione riguarda delle popolazioni sorelle di quelle gallo-italiche propriamente dette (sebbene il ligure, linguisticamente, abbia tratti che lo inquadrano come idioma autonomo), legate al basso Piemonte e all’Emilia occidentale e comprendenti pure gli antichi abitatori del Nizzardo e di Montecarlo, così come della Lunigiana (e parte della Garfagnana). La lingua di Genova era, un tempo, molto più estesa ad ovest mentre, ancor oggi, travalica i confini regionali in direzione nord/nordest. Il lunense è, invece, una parlata a metà fra ligure ed emiliano, ma innestato su di un territorio fortemente ligure, in senso etnico.

Infatti, dovendo individuare una regione granlombarda ligure, per fini statistici e demografici, alla lombardista, oltre all’attuale ambito ligure al di fuori del bacino padano (alcuni lembi del Genovesato ricadono, appunto, nella Padania geografica e farebbero parte dei cantoni lombardisti a nord della Liguria costiera), prenderemmo in considerazione il Nizzardo, Montecarlo, Briga e Tenda all’estremo occidente, e la Lunigiana all’estremo oriente, tutte terre dalla storia ligure – anche in senso etnico e linguistico – che sono parte integrante della Grande Lombardia. La Liguria, diciamo convenzionale, è granlombarda, e per quanto non appartenga al dominio lombardo etnico è in tutti i sensi membro della Cisalpina. Viene spontaneo pensare al famoso, o famigerato, triangolo industriale.

Geografia continentale (non peninsulare), lingua gallo-italica (dai più ritenuta tale, pur avendo alcune peculiarità che la rendono originale), Romània occidentale, di clima costiero mediterraneo ma di aspetto parimenti montuoso, celtizzata e longobardizzata, antropologicamente padano-alpina: tutti questi elementi concorrono allo statuto granlombardo della Liguria, rendendola terra affratellata alle altre cisalpine. Etnicamente parlando le radici liguri sono liguri, scusate il giuoco di parole, con riferimento agli arcaici indigeni, celtiche (o celto-liguri; la necropoli di Ameglia ha restituito interessanti reperti gallici), gallo-romane e poi longobarde, ma deve essere esistito anche una componente etrusca, visto che Genova è di fondazione tirrenica, seppur di toponimo “lepontico”, e cioè neo-ligure, ariano.

E abbiamo poi la storia medievale, con un Genovesato alleato della Lega Lombarda e vera e propria porta della Lombardia, nel senso che Genova, anche come polo marittimo, costituiva e costituisce un imbocco in direzione della Pianura Padana, e nel Medioevo l’intera valle del Po era chiamata, giustamente, Lombardia. Il suddetto triangolo industriale, nella sciagura, ha contribuito ad irrobustire i vincoli con la capitale Milano e Torino. Non può esistere una Liguria slegata dal grosso della Padania, e per tale motivo fa parte della Grande Lombardia. Certo, ha una propria identità che per certi versi la smarca dalla Lombardia classica, ma la rivoluzione lombardista deve passare anche da e per quel territorio, sino a coinvolgere le contrade non ancora redente. Una Liguria indipendente non avrebbe alcun senso; una Liguria membro della Grande Lombardia, invece, si riconnetterebbe al proprio passato, verso un futuro di vera libertà identitaria.

La visione filosofica di Paolo Sizzi

Ho già avuto modo di discutere, su questo blog, circa la mia visione del mondo e il mio punto di vista filosofico, ma alla luce dei recenti sviluppi relativi al recupero del lombardesimo integrale ho deciso di riprendere la questione. Si tratta quindi di uno scritto, quello che vado a proporre, che vuole essere integrazione e rettifica parziale dei precedenti, per quanto concerne la questione metafisica e religiosa. Chiarisco subito che il sottoscritto, in questi anni, pur avendo mutato atteggiamento nei riguardi della spiritualità, è rimasto sostanzialmente lo stesso e cioè uno scettico, per quanto di formazione cattolica. Detto ciò, l’articolo non si focalizza solo su questo ma abbraccia a tutto tondo la visione sizziana.

Ho un approccio decisamente improntato al razionalismo, al realismo e ad una sorta di materialismo identitario che pur non credendo in alcunché di metafisico ritiene che si possa parlare di spirito, come insieme di elementi culturali, civili, caratteriali, mentali e artistici di un popolo. La ragione è il faro che deve guidare l’uomo europeo lungo il cammino della propria esistenza, ma senza sbocchi relativisti e nichilisti: l’esaltazione razionale di sangue, suolo e spirito è quanto contraddistingue il lombardesimo e, dunque, colui che l’ha plasmato, il qui presente.

Tale visione va sotto il nome di etno-razionalismo e, come anticipato, fa da sfondo alla stessa ideologia lombardista. Avremo modo di riparlarne. Esaltare razionalmente il sangue della nazione, il suolo patrio e lo spirito della propria gente significa rimettere al centro di tutto etnia e razza, fatto oggi più che mai cruciale, in un mondo piegato e piagato dalla globalizzazione. Serve infatti un vigoroso recupero di un identitarismo e un tradizionalismo che sappiano dare forma alle aspirazioni patriottiche della Lombardia e della vera Europa, anche per contrastare efficacemente tutto quello che è nemico dei connotati peculiari della nostra civiltà. Sizzi ritiene dunque basilare perseguire una logica etnonazionalista, che del resto è quanto lo caratterizza dal lontano triennio 2006-2009.

Da allora comincia ad abbozzarsi il pensiero definitivo di Paolo sul mondo, sull’uomo, sull’esistenza, sul senso della vita e sul significato dell’identità. Distaccandosi dall’ambito cattolico, che ha forgiato il giovane Sizzi, perciò dal contesto per così dire reazionario, ecco che il Nostro si avvicina a quella mistica del sangue che delinea il concetto di razza. Razza come subspecies biologica, nel nostro caso caucasoide europea, europide, ma razza anche come ulteriore suddivisione etnica, pensando alla Lombardia. Ed è chiaro che non si tratta soltanto di tassonomia biologica e antropologica, ma anche di specifica culturale, perché certamente il sangue ha bisogno del supporto dello spirito per ascendere. La lezione dei nostri padri indoeuropei non viene vanificata.

Ritengo che l’esistenza dell’uomo europeo, che si differenzia da quello di altre latitudini (e in questo c’è il ripudio di umanitarismo ed egualitarismo), debba concentrarsi sugli elementi identitari e tradizionali proprio per cercare di uscire dal marasma che attualmente sconvolge il nostro continente; un marasma di matrice progressista, ma pure liberale, in cui nulla ha più senso, a meno che alimenti la sconfinata epa del grande capitale e del sistema-mondo. L’uomo europeo, viene perciò risucchiato dal vortice mondialista e completamente svuotato, per venir poi rimpinzato di ciarpame modernista e anti-identitario volto alla celebrazione di tutte quelle nefandezze che sono state partorire dal ‘700.

Certo, Paolo non è affatto credente o religioso, o meglio, crede nel valore del sangue congiunto a quello del suolo, pertanto potrebbe parere che idealmente si ricolleghi per davvero ai “lumi”, ma non è assolutamente così. Partendo dalla fondamentale triade di sangue, suolo, spirito ecco che l’Orobico plasma una dottrina e un senso dell’esistenza volti a quanto di più prezioso abbiamo, e che è la cifra identitaria della Lombardia, dell’Europa, della razza bianca: non abbiamo bisogno di dei, religioni e paradisi – mere creazioni dell’uomo – sapendo che la ragione prima e ultima della nostra vita deve essere la realizzazione etnica e razziale dell’individuo e della sua comunità.

E questa dialettica individuo-comunità è fondamentale, poiché il primo non può sussistere senza patria, nazione, famiglia, e la seconda ha bisogno dell’individuo, degli individui, per poter essere considerata una collettività incentrata sui valori e i principi etnicisti. Come si sarà capito, insomma, Sizzi pone molta enfasi sui criteri di nazionalità, etnia e razza, proprio perché fondamentali al fine di edificare l’identità e la fisionomia antropologica e culturale di un popolo. Criteri che si basano sulla realtà, la concretezza, la materialità dell’essere popolo, patria, nazione, pur tenendo in considerazione ciò che chiamiamo spirito. Esso nasce dall’incontro di sangue e suolo e rappresenta tutti quegli elementi “umanistici” che contribuiscono alla formazione di una coscienza identitaria, e di uno spirito di appartenenza.

Lasciando dunque perdere la metafisica, e concentrandoci su razionalismo e realismo, abbiamo così l’opportunità di esaltare un materialismo identitario che il detrattore potrebbe chiamare zoologico ma che in realtà incarna il significato più intimo dell’essere uomini e donne, come parte di una comunità. Poiché la materia, quanto di concreto e visibile, sensibile, deve essere quella solida certezza su cui erigere l’edificio dell’etno-razionalismo, ben sapendo che possiamo fare a meno di tutte le speculazioni filosofiche astratte che non conducono a nulla, o che fanno parte soltanto di un passato che oggi non ha più nulla da dirci e darci.

D’altra parte, anche l’uomo è un animale, un essere vivente, e come tale ha diverse razze. Razze che si legano a concetti di civiltà, cultura e spirito per come lo abbiamo delineato, perché, pur essendo un animale, l’uomo può contare sulla ragione, sul linguaggio, sulla cultura, sulla civiltà appunto, che sono ciò che lo elevano dalla condizione ferina. Dobbiamo credere in ciò che è percepibile grazie ai nostri sensi, che si può spiegare e dimostrare scientificamente, e che può essere appunto compreso dal nostro intelletto: esistere allude alla possibilità di esperire, e di sperimentare, pertanto di conoscere. Parliamo, comunque sia, di un intelletto che, assieme ai gradi di civiltà, varia da popolo a popolo perché è inutile prenderci in giro con l’egualitarismo: le capacità logico-matematiche variano in base ad etnia e razza, e le genti della terra non possono essere livellate in nome di un assurdo relativismo antropologico.

Non esiste alcun disegno divino dietro l’universo, il pianeta, gli esseri, gli uomini, la vita, ed è certo il caso che ci ha voluti, qui ed ora, al mondo. Ma nonostante questo non dobbiamo affatto abbandonare i capisaldi di identità e tradizione poiché ci permettono di dirigere la nostra esistenza sulla retta via, che è quella che porta al coronamento etnonazionalista. La verità assoluta esiste, e discende dal sangue; e in nome di tale verità dobbiamo dare forma a tutto ciò che è liquido ed instabile perché l’uomo deve dominare la natura, grazie alla ragione, e avere così la facoltà di imprimere al globo un indirizzo finalmente razionale. Solo così la vita sarà degna di essere vissuta, esorcizzando la sua apparente assurdità, rimettendo al centro di tutto il dato antropologico (appunto come risultante di sangue, suolo, spirito) e lottando per la salvaguardia di ciò che può permetterci di divenire idealmente immortali, nel segno della comunità: la continuazione della stirpe.

Le ragioni di una battaglia

Tra 2019 e oggi ho cercato di conciliare la tradizione cattolica con l’ideologia lombardista, approdando all’idea di una Chiesa nazionale ambrosiana: un cattolicesimo lombardo, cioè, de-semitizzato, lontano da Roma e sublimato dal retaggio indoeuropeo della gentilità autoctona. Ho scritto diversi articoli, in merito a tale posizione, (vedi, ad esempio, i punti 14 e 15 del manifesto programmatico) e non ho nulla da rinnegare, nulla di cui vergognarmi, tanto che tali pezzi resteranno sul blog, a mo’ di percorso graduale verso la verità indiscutibile. Anzi, quanto vergato può offrire ancora spunti valevoli di riflessione, a chi, come me, si interroga su patria e spiritualità. Tuttavia, è giunto il momento di consegnare questi scritti alla storia, guardando al futuro, e non più al passato. O, meglio, guardando sì ad un ben preciso passato ma proiettandosi in un futuro che sia schiettamente e genuinamente identitario.

Ho infatti deciso di riabbracciare le posizioni spirituali del prisco lombardesimo, quello nato dal pensiero del sottoscritto nel 2009, completando il quadro del ritorno integrale alle origini. Ebbene, dichiaro ufficialmente che visione del mondo lombardista e cristianesimo, anche cattolico e ambrosiano, non sono compatibili, in virtù di un necessario ed impellente recupero della coerenza primigenia. I valori cristiani, l’universalismo, le radici semitiche, la Bibbia e il Vangelo, la filosofia di vita cattolica, nonché la Chiesa stessa, non possono in alcun modo conciliarsi col lombardesimo, essendo quest’ultimo etnonazionalista, razzialista, comunitarista, europeista in senso völkisch e votato all’esaltazione razionalista di sangue e suolo.

Razionalismo, esatto. Un razionalismo, diciamo pure ateo, che si coniuga con l’etnicismo dando vita all’etno-razionalismo, pilastro dell’ideologia lombardista. Perché la ragione, signori, deve essere il nostro faro, senza naturalmente esondare nello scientismo, nell’Illuminismo, nel giacobinismo e in quell’ateismo o laicismo progressisti che incensano, sulla falsariga del cristianesimo, il cosmopolitismo relativista, certo intriso di irreligiosità apolide ma francamente giudaizzante. Personalmente non mi ritengo credente, pur essendo di formazione cattolica e avendo alle spalle una famiglia religiosissima, ma non sposo in alcun modo il “pensiero” acido del satanismo o dell’empietà figlia del 1789. Mi dico ateo, non ateista, sebbene ritenga che la religione sia un retaggio del passato che si può tranquillamente abbandonare.

Nelle riflessioni di questi circa 5 anni, avevo ritenuto che la soluzione ideale al problema spirituale e religioso, relativo alla Lombardia, fosse l’edificazione di una Chiesa nazionale ambrosiana, depurata dal semitismo ed esaltata dalle radici gentili e ariane; una sorta di soluzione di comodo per conciliare le due anime dell’identitarismo nostrano ed europeo, in una con il ritorno all’indipendentismo e all’etnonazionalismo radicale. Ma, ora, credo che tale trovata sia di difficile applicazione, oltreché poco seria: non ha alcun senso preservare il cristianesimo cattolico se si sente la necessità di nobilitarlo con la gentilità. Tanto vale recuperare la seconda in toto, se vogliamo sul serio intavolare un discorso spirituale e religioso maturo e logico.

E, infatti, giungo alla conclusione che l’unica forma di religiosità accettabile, nel contesto lombardo e lombardista, sia il paganesimo, chiaramente ripulito dal lato pagliaccesco del neopaganesimo, dalle tentazioni anti-tradizionali (vale a dire di ripudio di valori sacri trasversali quali patriarcato, eterosessualità, monogamia, virilità, conservatorismo nel giusto) e da quelle sfumature “sataniche” che propongono un anticristianesimo demenziale che va a braccetto con ideologie antifasciste, libertarie, radicali. Il lombardesimo deve essere anticristiano, diciamolo tranquillamente e serenamente, ma solo ed esclusivamente nel seguente verso: rifiuto dell’universalismo, rifiuto dei principi evangelici, rifiuto delle indubbie radici mediorientali della religione di Cristo, rifiuto del clero (peraltro compromesso da omosessualità e, quindi, pedofilia).

Inutile prenderci in giro, signori: il nazionalismo etnico, il razzialismo, l’etnicismo biologico non sono compatibili con il credo cristiano coerente, a meno che si voglia davvero fare salti mortali rasentando il ridicolo, e il suicidio. Accettiamolo con molta calma, e smettiamola di inventarci Cristi e Madonne ariani, solari, europei. Innegabile che il cristianesimo, segnatamente cattolico, abbia abitato (o parassitato) strutture e modelli di origine gentile, greco-romana od orientale (indo-persiana), ma l’essenza della religione fondata dall’ebreo Gesù di Nazareth prende le mosse dalla Palestina, ha ereditato appieno il retaggio giudaico e mira ad un dio straniero – dal punto di vista europeo – che è lo stesso dell’ebraico e dell’islamico.

Uno può inventarsi tutto ciò che vuole, e può infilare il cattolicesimo nel letto di Procuste del neopaganesimo, ma se siamo disposti a tollerare la fede in Cristo soltanto per degli echi paganeggianti, rigettando (come feci io) il lignaggio mosaico e biblico, alla lunga avremmo a che fare con un’impresa patetica, tragicomica, assurda. Come dicevo, si fa prima a riconciliarsi con la gentilità, sebbene questa, oggi, sia pressoché inesistente e priva di tradizione e cammino iniziatico, ancorché esistano dei gruppi e dei movimenti che, rifacendosi ai culti tradizionali, tentano di rivitalizzare la fede negli antichi dei. Opera che, sinceramente, non mi interessa.

Epperò, ribadisco: l’unica forma di religiosità tollerabile deve essere la gentile, chiaramente contestualizzata nell’ambito lombardo. Un recupero, dunque, dei culti indoeuropei di Liguri, Celti, Veneti, Galli, Gallo-Romani, Longobardi, che siano assolutamente fedeli e leali con il lombardesimo e la nazione lombarda, e quindi con lo Stato granlombardo, e che non finiscano per impelagarsi con il ciarpame new age che puzza di femminismo, sessualità ambigua, degenerazione modernista varia. Capisaldi comunitari quali la società patriarcale, i legami eterosessuali e monogami, il tradizionalismo famigliare non si toccano nella maniera più totale. E va da sé, oltretutto, che tale gentilità non debba in alcun modo divenire teocratica e ostacolare l’etnonazionalismo panlombardo.

In una Lombardia ideale, libera, unita e sovrana, può esserci spazio soltanto per una religione, o un credo, che combatta la dissoluzione universalista, egualitaria, umanitaria, fatta propria appieno dal cristianesimo, che ha in odio i vincoli di sangue e i legami schiettamente identitari. L’unico culto tollerabile è un prodotto culturale e spirituale indogermanico ed europeo, etnicista e razzialista, creato dagli europei per gli europei, dai lombardi per i lombardi. Non si tratta, ovviamente, di perseguitare i cristiani o di scristianizzare in maniera blasfema il territorio, anche perché sarebbe ridicolo negare l’importanza dell’eredità cattolica, giunta sino a noi grazie ai nostri avi. Ma i nostri avi, prima di essere cristiani, erano gentili, non va dimenticato.

Do per scontato che la condanna del cristianesimo (cattolico, ortodosso, protestante e settario) sia percepita come parallela a quella di tutte le religioni vieppiù esotiche, prime fra tutte ebraismo e islam. Il lombardesimo primigenio esprimeva critica e condanna nei confronti del monoteismo abramitico e dei suoi valori ma non tanto per lusingare il paganesimo, quanto per una sete di coerenza e di radicalità che ponesse la Lombardia sopra ad ogni cosa, in nome dell’etno-razionalismo. Finalmente, il lombardesimo riabbraccia gli albori, puntando tutto su di un salutare integralismo etnico e razziale, prendendo le distanze dal cristianesimo e da ogni altro frutto culturale di matrice esotica. Il lombardesimo si attesta su posizioni atee e agnostiche, ma in un senso ben preciso e diversissimo, agli antipodi rispetto al punto di vista relativista: archiviamo la religione ritenendo accettabile soltanto quella davvero tradizionale, indigena, ma smarcandoci del tutto dalla spazzatura dei philosophes, cioè di coloro che avversavano il cristianesimo erigendo al suo posto un demoniaco feticcio egualmente universalista.

Lombardia

Se Bergamo è la mia piccola patria, la Lombardia è la patria vera e propria, la mia nazione, ciò che dà forma e volto alla dimensione etnica e, appunto, nazionale del sottoscritto e del suo popolo, il cisalpino. In un tempo in cui le vere nazioni vengono calpestate, rinnegate e obliate, lasciando spazio agli stati-apparato come l’Italia, recuperare il sentimento patriottico e lo spirito d’appartenenza è fondamentale, al fine di corroborare il profilo identitario del singolo e della collettività, facendo coincidere nazionalità e cittadinanza. L’idea di nazione, basata su sangue e suolo, assume connotati vieppiù cruciali nell’ottica dell’identitarismo, perché l’identità biologica e culturale è l’antidoto ai veleni mondialisti contemporanei. Una salutare filosofia di vita, dunque, deve edificarsi sulla nazione, che del resto è quanto ci permette poi di inscriverci nell’ambito continentale della grande famiglia europea. Bergamo, Lombardia, Europa, per quanto concerne me, nella consapevolezza che senza radici non può esserci presente e futuro, e non può esserci la volontà e l’auspicio di forgiare un pianeta migliore, ispirato ai valori etnicisti e razzialisti.

La nazione è quindi la Lombardia, dove per nazione intendiamo quell’insieme di genti unite e coese da etnia, lingua, cultura, usi e costumi, tradizioni in maniera determinante, di modo che possano sussistere spirito d’appartenenza e solidarietà nazionale, frutto delle comuni origini e del comune destino. E il concetto sizziano e lombardista di nazione passa per l’antropogenetica, non solo per la cultura e la politica, poiché senza sangue e suolo non è possibile parlare di patria; distinguere la nazione dallo Stato è giocoforza, essendo quest’ultimo un ente artificiale creato dall’uomo, per quanto retto – non sempre – da comunità d’intenti e patto raggiunto da genti consimili. Evidentemente non è questo il caso dell’Italia… Uno stato serio deve nascere da fratellanza, omogeneità, comunità, e la comunità è il collante naturale che legittima un apparato politico e burocratico, per quanto necessario. Crediamo che l’entità statuale sia basilare ma prima di ciò è basilare il concetto di nazione che, appunto, giustifica e legittima il concetto di Stato. La Lombardia deve avere uno stato, nessun dubbio a riguardo, uno stato che sia indipendente ed espressione dell’autoaffermazione nazionale, ma il primo, fondamentale, passo è sempre il riconoscersi nazione, per quanto oggi possa essere dormiente, nel caso lombardo.

Questione ebraica e lombardesimo

“Questione ebraica” è il termine, affermatosi nella storia, relativamente alle vicende degli ebrei in Europa e nel mondo, comprendente tutte le peripezie giudaiche e l’atteggiamento tenuto dai gentili nei confronti del popolo d’Israele. Abbraccia anche i pregiudizi, l’odio, l’intolleranza che hanno visto gli ebrei come bersaglio, e dunque il cosiddetto antisemitismo (vocabolo piuttosto ambiguo, considerando che gli ebrei contemporanei sono i meno semiti fra i semiti). Qui si vuole esprimere il punto di vista lombardista sulla faccenda, cercando di non indugiare in stereotipi e razzismo ma, anzi, di proporre soluzioni concrete al posto ebraico nel pianeta. Certo, saremmo ipocriti se dicessimo che andiamo pazzi per le genti ebraiche; tuttavia, vale la pena impostare un discorso serio e razionale.

Gli ebrei moderni non sono un popolo omogeneo, tutt’altro; molto probabilmente non possono nemmeno essere considerati un popolo unitario. Pur condividendo le radici semitiche, che affondano nel Levante, le popolazioni israelitiche contemporanee riguardano i gruppi europei (aschenaziti e sefarditi su tutti) e quelli nativi del Medio Oriente (i mizrahi), più altri minori come ad esempio gli ebrei di Bukhara, in Asia centrale. Ci sono pure popolazioni non ebraiche convertitesi all’ebraismo, ed è il caso dei falascia etiopi o, storicamente, dei Cazari steppici. A parte quest’ultimi, c’è comunque da dire che ha ancora senso parlare di ebrei, in chiave religiosa, e di giudei, in chiave etnica, perché seppur divisi in aggruppamenti diversificati essi condividono le origini mediorientali e la matrice semitica, per quanto diluita, nel caso europeo.

Il collante è religioso e culturale, ad esempio linguistico, anche se etnicamente vi sono, ed è chiaro, delle sfumature. Per tale ragione un aschenazita è differente da un sefardita, che a sua volta è differente da un ebreo nativo del Levante, nonostante vi sia comunanza religiosa, culturale e linguistica, pensando soprattutto a quanti risiedono nello Stato di Israele, o a quanti parlano lingue giudaiche. L’ebraico moderno è la lingua ufficiale dell’entità sionista, ed è un idioma che assieme a quello biblico ha influenzato altre lingue e dialetti riconducibili al mondo giudaico. Pertanto, culturalmente, gli ebrei esistono, ancorché la diaspora abbia certamente indebolito il concetto di etnia ebraica omogenea.

Anche l’ebraismo, inteso come religione, è fondamentalmente figlio dell’ebraismo medievale, e in questo senso una cultura ebraica, per quanto multiforme, esiste ed è attuale, e va ad intersecarsi con il sionismo e lo Stato ebraico, cioè Israele. Da un punto di vista etnico invece, di sangue, un popolo giudaico omogeneo non sussiste, ma naturalmente, come accennato poco sopra, esiste una matrice ebraica che accomuna tutti gli ebrei moderni, ed è più corretto parlare, a tale proposito, di giudaismo. Essere ebrei/giudei è un fatto anzitutto di sangue e, perlomeno i gruppi principali, condividono i padri, le origini e le radici bibliche, perciò l’antichità del Vicino Oriente. Ne consegue che pur non potendo discutere di un giudaismo omogeneo e compatto, è possibile affermare l’esistenza di un’etnia e di una nazione israelitiche, che trovano nei comuni antenati degli ebrei quell’unità biologica che conduce un ebreo di sangue a potersi definire membro di una schiatta, diciamo pure, biblica.

Come lombardisti non possiamo considerare parte dell’Europa gli ebrei, pur avendo, è il caso di aschenaziti, sefarditi o ad esempio degli italkim (ebrei italiani), in un certo qual modo, origini europee; il giudaismo è un fatto etnoculturale ascrivibile al Levante e crediamo fermamente che la naturale collocazione ebraica sia in Palestina e dintorni. Solo, non siamo favorevoli al sionismo qualora si tramuti in entità statuale israeliana, perché la Palestina appartiene al mondo nazionale siriano. La questione ebraica può essere tranquillamente appianata favorendo l’emigrazione degli ebrei d’Europa in Medio Oriente, oppure negli Stati Uniti d’America, loro terra d’elezione, ancor prima di Israele. Da etnonazionalisti riconosciamo infatti che il popolo, o i popoli, d’Israele siano intimamente collegati al ceppo semitico, per quanto, parzialmente, rimescolati con altre genti.

La Lombardia transpadana occidentale (Insubria)

Biscione visconteo

La Lombardia transpadana occidentale, o Insubria [1] etnica come la si potrebbe chiamare per comodità, è il fulcro della Grande Lombardia, il centro della nazione, suo cervello, cuore e motore.

‘Insubria’ deriva dal termine celtico, rafforzato, *suebro- ‘forte, violento’, riferito agli antichi celto-liguri Insubri [2]. Tale etnonimo passò poi ai Galli storici del IV secolo avanti Cristo (probabilmente Biturigi) che occuparono il territorio lombardo fino al fiume Oglio (a Bergamo, contrariamente a quanto si crede comunemente, si stanziarono proprio questi, e non i Cenomani, e il Bergamasco infatti venne inserito, dai Romani, con Milano nella Gallia Transpadana, e non nella Venetia con Brescia). Anche la Cultura di Golasecca andava dal fiume Sesia fino al Serio, altro corso d’acqua locale, in territorio orobico, dove si trovavano appunto i celto-liguri Orobi.

L’Insubria corrisponde all’antico territorio abitato fondamentalmente dai celto-liguri Insubri e Leponzi, e dopo Roma discretamente germanizzato dai Longobardi che si diedero come centri vitali Milano, Monza, e il Seprio (Pavia, la capitale, è situata nella fascia insubrica meridionale, influenzata dal mondo padano) e che più tardi corrisponderà al nerbo del Ducato di Milano.

Milano, la grande capitale della Lombardia etnica e della Lombardia storica, è da sempre il perno dell’Insubria, la città che ha plasmato il territorio circostante, da Lodi al Ticino. Socialmente, politicamente, culturalmente, linguisticamente.

L’area insubrica genuina è formata dalle terre di Milano, Lodi, Monza, Brianza, Lecco, Como, Legnano, Busto Arsizio, Varese, Novara, Intra e Pallanza (Verbania), Canton Ticino e Mesolcina (quest’ultimi, oggi, sotto la Confederazione Elvetica). La Svizzera inoltre comprende anche la valle del Sempione, essa pure parte insubrica del bacino del Po, come la restante regione lombarda. Noi lombardisti tendiamo inoltre a legare all’Insubria, intesa in senso statistico e demografico, Pavia, Valsesia, Vercelli e Biella.

Si tratta, come fulcro storico, di una regione piuttosto omogenea, sia etnicamente che culturalmente, con un solido sostrato proto-celtico/celto-ligure (Golasecca e Canegrate) e gallico (Insubres romani), corroborato dalla dominazione longobarda che ha profondamente inciso sul territorio, e poi dalla signoria dei Visconti, che sotto l’egida del germanico Bisson ha retto le sorti dell’Insubria ducale si può dire fino al 1500.

La romanizzazione, per quanto fondamentale in termini culturali e identitari, non stravolse il territorio, e portò ad una lenta assimilazione dell’elemento celtico nativo, che adottò spontaneamente i costumi latini. Questo, certamente, dopo i ben noti fatti bellici che contrapposero i Galli ai Romani, portando alla sconfitta e alla pacificazione dei primi.

L’area è omogenea pure linguisticamente perché la koinè milanese ha costituito un ottimo collante politico-culturale, anche se degni di nota sono pure il ticinese, il brianzolo, il laghee, il lodigiano e le parlate più occidentali influenzate dal piemontese.

Parimenti, Valtellina, Grigioni lombardofono e Pavese risentono degli influssi del milanese e le parlate di quei luoghi, i primi due soprattutto, sono classificate come lombardo occidentale (che nella terminologia dei moderni linguisti indica l’insubrico/cisbaduano). I dialetti di Pavia (eccetto quelli della Lomellina), invece, sono di transizione con l’emiliano. Un discorso simile si potrebbe fare con la Valsesia, stretta fra Piemonte e Insubria, fermo restando che il piemontese orientale mostra certamente alcuni fenomeni di transizione.

Volendo suddividere amministrativamente la Lombardia transpadana occidentale, che è poi la Lombardia etnica centrale di noi lombardisti (con l’aggiunta del territorio pavese e del Piemonte orientale), avremmo i seguenti ambiti cantonali, con relativi distretti:

  • Milano (Bassa Insubria), con Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia;
  • Como (Alta Insubria), con Lecco, Lugano e Varese.
  • Novara (Lebecia), con Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano.
  • Locarno (Leponzia), con Domodossola, Intra e Bellinzona.

Attenzione: il lombardesimo non propugna, nel contesto grande-lombardo, la creazione di vere e proprie regioni, bensì di cantoni, e loro distretti,  blandamente federati. Non siamo certo regionalisti, anche se riconosciamo tranquillamente l’esistenza di realtà storico-culturali, come la stessa Insubria in termini correnti (e poetici).

Non serve dunque un’insegna globale insubrica perché quella classica del Ducale visconteo (Aquila imperiale e Biscione), a mio avviso, è l’ideale stemma della Lombardia intera, emblema dell’etnostato cisalpino. I cantoni, invece, possono tranquillamente utilizzare le insegne delle loro città precipue (o dei territori storici), e dunque Croce di San Giorgio per Milano, bandiera sepriese a scacchi bianco-rossi per Como, Croce di San Giovanni Battista per Novara, bipartito rosso-blu ticinese per Locarno. Segnaliamo, comunque sia, la nota Scrofa semilanuta, uno dei simboli gallici della capitale lombarda.

La Croce di San Giorgio milanese, anche se non può vantare le origini e la storia della genovese (che ha inciso su quella d’Albione), ha un profilo autonomo, all’interno delle vicende medievali; emblema del comune di Milano, della Lega Lombarda, di moltissime città padane guelfe esprime la coscienza patriottica dei lombardi e il loro spirito d’appartenenza, mirabilmente sfociati nel giuramento di Pontida e, soprattutto, nella battaglia di Legnano. Unita alla Croce di San Giovanni Battista, ghibellina, e allo swastika camuno, appare quale ideale bandiera nazionale cisalpina.

Naturalmente abbiamo poi il Biscione e il Ducale viscontei, originari dell’Insubria, che costituiscono, il primo, il simbolo se vogliamo del popolo lombardo, del suo retaggio celto-germanico (essendo di ascendenze nordiche) e della sua cultura storica, il secondo, il miglior emblema possibile per la nazione lombarda, rappresentato da un quadripartito bianco-dorato in cui, alternandosi, troviamo l’Aquila del Sacro Romano Impero, latino-germanica, e il Bisson, blasone prima visconteo (ma in origine della città ambrosiana e delle sue milizie comunali) e poi sforzesco, indissolubilmente legato a Milano e alla Lombardia intera.

Per quanto riguarda invece la questione linguistica diamo qui una veloce carrellata dei principali dialetti occidentali – in realtà centrali – del lombardo: milanese (il lombardo per antonomasia), dialetti milanesi, legnanese, brianzolo, ticinese, ossolano, varesotto, bustocco, comasco, laghee, lecchese, lodigiano, novarese, lomellino e alcune parlate gergali. Inoltre, dobbiamo aggiungere le parlate della Valtellina e del Grigioni lombardo, in territorio orientale ma tassonomicamente insubriche.

Questione etnica. Il grosso della Lombardia transpadana occidentale è etnicamente celto-romanzo, gallo-italico, e le sue componenti principali sono la ligure arcaica, la celto-ligure, la gallica (insubrica), la coloniale italo-romana e quella germanica (Goti e Longobardi). A livello sub-razziale/fenotipico, predomina il tipo alpino assieme a quello atlanto-mediterranide, o meglio ancora padanide (dinaride + atlanto-mediterranide), con spruzzate nordiche qua e là, soprattutto in area prealpina e alpina. L’unica minoranza indigena è quella degli alemannici walser che si trovano nel nordovest del territorio.

L’Insubria tradizionale è racchiusa nel bacino imbrifero del Padus, zona tipicamente lacustre, ed è delimitata a nord dalle Alpi Lepontine, ad ovest dal Sesia, a sud dal Po, e ad est dall’Adda. Pavia, come abbiamo visto, è una via di mezzo tra Insubria e Padania (intesa qui come Emilia), rammentando che l’Oltrepò è da considerarsi cispadano in tutti i sensi.

È da sempre il motore della Lombardia, l’area economicamente più ricca e avanzata, animata da intraprendente spirito imprenditoriale perfettamente incarnato dai milanesi e dal Ducato che fu. Dal secondo dopoguerra, per via del boom economico e anche di sciagurate politiche romane, il cosiddetto triangolo industriale capeggiato da Milano è stato investito da milioni di sud-italiani che hanno, volenti o nolenti, stravolto il tessuto etnico e sociale del cuore etnico lombardo, soprattutto per arricchire i soliti noti, a scapito degli indigeni.

Tutte le immigrazioni di massa sono sbagliate, in particolare qualora comportino l’afflusso di realtà etniche e razziali incompatibili. Se l’Insubria oggi annaspa sotto il peso di smog, cemento, inquinamento e traffico “indiano” è anche per questo.

Assieme agli italiani meridionali, circa un milione di veneti si è spostato in territorio occidentale, uniti agli esuli istro-dalmati cacciati dal criminale Tito. Anche molti orobici cercarono fortuna ad ovest.

L’Insubria oggi è piuttosto malridotta e martoriata da una densità demografica mostruosa, dovuta a immigrazione selvaggia (da ogni dove), e dall’industrializzazione scriteriata, ed è un vero peccato perché il territorio insubrico è incantevole, tra laghi prealpini, fiumi, aree collinari, campi e pianure, risaie, e ovviamente Prealpi e Alpi.

La soluzione a questi guai, ovviamente, è l’indipendentismo. Prima ancora, il comunitarismo, che permette il recupero della solidarietà fondamentale, tra connazionali, al fine di riscoprire e dunque difendere le proprie radici.

Gli insubrici sono in via d’estinzione, e in talune zone purtroppo già estinti, anche per colpe proprie, si capisce. Dobbiamo promuovere serie politiche etniciste per far riguadagnare ad essi terreno, perché con la loro scomparsa parlare di Insubria non avrebbe più senso. E allo stesso modo, parlare di Lombardia e di Europa senza più i rispettivi autoctoni.

[1] In senso geografico può essere chiamata Insubria tutta la fascia prealpina e collinare della Regione Lombardia.

[2] L’etimologia viene suggerita qui.

Bergamo

Da questa sera, ogni venerdì, intendo proporre una breve riflessione, che potrei definire filosofica, su svariati argomenti cari allo scrivente. Ho individuato 10 aree tematiche che raccoglieranno le meditazioni, esposte con chiarezza e semplicità: Patria, Comunità, Natura, Stato, Benessere, Civiltà, Etica, Vita, Uomo e Metafisica. A loro volta, questi temi andranno sotto la categoria Salut Lombardia!, relativa alla rubrica omonima di ideologia lombardista e attualità inaugurata mesi fa qui sul blog. Tale iniziativa mi darà la possibilità di trattare tutto quello che la visione del mondo etnicista contempla, affinché lo sguardo sizziano possa spaziare con completezza sull’esperienza umana. Cominciamo con un doveroso tributo alla mia piccola patria, la Bergamasca. Essa, territorio a cui fa capo Bergamo, è la mia Urheimat, la terra delle mie radici e del mio lignaggio, fondamentale nell’ottica stessa dello sviluppo dell’ideologia lombardista. L’attaccamento di Sizzi all’Orobia dice molto sulla propria personalità, ed è segno di una saggezza identitaria che oggi si fa sfida ad un sistema corrotto e malato, il quale calpesta i principi più sacri alla nazione.

In una realtà dominata, purtroppo, dalla globalizzazione, serve davvero recuperare il sentimento patriottico, anzitutto relativo alla propria città di riferimento e al pertinente contado, la volgarmente detta “provincia”. Per i più un sintomo di grettezza e ristrettezza di vedute, provincialismo appunto, in quanto orgoglio particolarista che va contro l’andazzo mondialista dell’Europa occidentale; ma per chi ha davvero intelletto e, anche solo, buonsenso, rappresenta invece la dimensione più intima da riscoprire e valorizzare, per non perdere di vista chi siamo e, anche, dove andiamo. Passato, presente e futuro si intersecano facendo comprendere come non si possa vivere senza radici, pena l’alienazione. E la Bergamasca tradizionalista, con i suoi rustici e genuini valori, il suo paesaggio naturale, la sua ricca storia plurimillenaria è veramente il terreno ideale per il fecondo incontro fra uomo e ambiente, che dà vita al popolo. Già da qui si delinea l’orizzonte razzialista ed etnonazionalista di sangue, suolo, spirito. Il popolo bergamasco, a cui Sizzi fieramente appartiene, è l’incarnazione dell’anima più profonda della Lombardia etnica, decisiva ai fini lombardisti.