Mani orobiche sulla Lega Europa

Ebbene sì: a distanza di 61 anni dall’ultimo, e fino a ieri unico, trofeo vinto dall’Atalanta (la Coppa Italia 1963), ecco che i nerazzurri orobici si portano a casa la coppa della Lega Europa, dopo aver battuto per 3 reti a 0 il Bayer Leverkusen. Un traguardo storico, per il pallone bergamasco, ormai abituato a palcoscenici europei grazie alla gestione di Gian Piero Gasperini, tecnico subalpino di Grugliasco. Per la verità l’Atalanta non è nuova ad esperienze di respiro europeo, pensando soprattutto agli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ma la vera rivoluzione è certamente stata attuata grazie al canuto allenatore ex Genoa, a Bergamo dal 2016. Il calcio è pura futilità ma, come molto altro, sa divenire orgoglio cittadino e vale la pena parlarne. La squadra atalantina, negli ultimi anni, ha ingaggiato svariati giocatori stranieri, anche allogeni (non europidi), e se questo le ha garantito di potersi misurare con società titolate di prestigio internazionale, dall’altra parte ha comportato una de-bergamaschizzazione della rosa, perdendo i connotati di fucina di talenti nostrani (tranne rarissime eccezioni). È il destino di chi vuole giocarsela in Europa, ed essere competitivo, in un panorama calcistico mondializzato che ha in non cale le radici etniche e razziali, preferendo milioni, pubblicità, diritti televisivi.

Infatti, la fresca vittoria in Lega Europa è derivata dalla tripletta di un calciatore negride di etnia yoruba, Ademola Lookman, certo provetto ma ben poco lombardo… Per carità, il trionfo fa piacere, rende orgogliosi, entusiasma e gratifica – soprattutto chi segue l’Atalanta da quando navigava nei bassifondi della massima serie tricolore e della B, e non chi si è scoperto atalantino solo ora -, porta il nome di Bergamo sul tetto sportivo del continente, ma ha un retrogusto amaro e induce romanticamente a rimpiangere le formazioni ben più rustiche degli anni ’90. Personalmente, pur essendo felice per la conquista di questo trofeo, resto dell’idea che l’Atalanta abbia perso la ghiotta occasione di divenire l’Atletico Bilbao cisalpino, dimostrando che si può vincere e convincere anche senza imbarcare forestieri. Probabilmente sono un sognatore ed è per questo che ho nostalgia della Dea che fu, cioè quella della mia giovinezza: di certo meno vincente, e senza palcoscenici internazionali (per quanto l’Italia sia una nazione straniera), ma solidamente ancorata alla terra bergamasca. E il diporto dovrebbe, dopotutto, essere proprio questo, una palestra di fierezza patriottica, preferibilmente in chiave granlombarda.

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