La gentilità: alle radici dell’Europa

Ormai il punto di vista lombardista sulla questione religiosa e metafisica è chiaro: la linea ufficiale è l’etno-razionalismo, e cioè l’unione di etnonazionalismo e razionalismo, poiché la patria viene prima di ogni cosa, e la ragione è il faro che ci deve guidare lungo il cammino della nostra esistenza. Il lombardesimo crede fortemente nel valore della natura, della scienza, della razionalità, inquadrando lo spirito come dato umanistico e culturale di un popolo, frutto dell’unione comunitaria delle “anime” degli individui, e concependo una forma di materialismo assennato, al netto delle esagerazioni giacobine, che metta al centro di tutto il valore del sangue e del suolo, dunque di etnia e razza.

Il lombardista reputa la religione fatto alquanto secondario, e non intende perdersi in dispute circa l’aria fritta e il sesso degli angeli. Tendenzialmente, l’ottica è dunque atea e/o agnostica, distaccandosi comunque dalle posizioni squallide e banali del relativismo e del progressismo, ed è chiaro che l’etno-razionalismo riassuma alla perfezione la nostra visione del mondo, laica ma non laicista in senso “acido”. Detto questo, come già avemmo modo di affermare, nulla ci impedisce di simpatizzare per i veri culti tradizionali dell’Europa, che sono quelli pagani, assai preferibili al monoteismo semitico che ha generato lo stesso cristianesimo. Comprendiamo i bisogni spirituali che il popolo lombardo potrebbe avere – per quanto una rieducazione atea sia l’ideale -, e per tale ragione sosteniamo una soluzione gentile.

Il paganesimo ci parla della più intima essenza del nostro continente, dei nostri padri, della genuina identità indoeuropea che anima le nostre nazioni. A differenza del giudeo-cristianesimo, o dell’islam, esso ha una stretta connessione con il sangue e il suolo – e per noi questo elemento è basilare – e ripudia le fole universaliste, egualitariste, umanitariste. Solo il paganesimo può essere un accettabile mezzo spirituale, che assecondi le mire del lombardesimo e contribuisca a rafforzare il credo e la fedeltà alla Grande Lombardia, una terra ariana le cui radici celtiche, gallo-romane e longobarde depongono a favore del culto primigenio.

Siamo d’accordo: la nostra identità è anche cristiana, cattolica, e certamente abbiamo ereditato un importante patrimonio culturale e spirituale dall’evangelizzazione. Tuttavia, il cristianesimo non coincide con gli obiettivi del nazionalismo völkisch, e resta pertanto un corpo estraneo, incistato nell’Europa, volto all’adorazione di un inesistente dio ebreo, del suo sedicente figliuolo e di un mondo profondamente alieno all’ethos indoeuropeo. Per quanto la religione di Cristo sia rimescolata con elementi di origine pagana, è inutile prendersi in giro: essa è un prodotto del Medio Oriente, sorella di giudaismo e maomettismo.

Alla luce della matrice ebraica, della vocazione universalistica, e della natura parassitaria della Chiesa (lo avremo alfine imparato, dopo circa 2.000 anni!) è d’uopo recidere il nefasto legame che ci congiunge ai culti del deserto, anche per via di una morale da masochisti che mortifica la solarità ariana e gli attributi eroici della prisca Europa. Il cristianesimo? Incompatibile con etnonazionalismo e lombardesimo, sebbene radicato nel nostro territorio. Ma, pur non sposando una traiettoria anticristiana in chiave empia, siamo dell’idea che il cattolicesimo vada abbandonato, considerando, oltretutto, la mortale connessione con Roma, sostituendolo, per chi ne senta l’esigenza, col paganesimo. I lombardi possono soddisfare, grazie alla riscoperta e alla rinascenza della gentilità, l’ipotetica sete di spiritualità, e il lombardesimo può contare su di un valido alleato etnicista che non tradisca mai la patria. La religione, mero prodotto culturale dell’uomo, diviene tollerabile soltanto se promuove la coscienza patriottica e comunitaria, e non mostra vincoli di sorta con un pensiero estraneo alla schietta civiltà aria.

Suddivisione cantonale della Grande Lombardia

Credo sia cosa utile e, si spera, gradita presentare la ripartizione amministrativa lombardista della Grande Lombardia indipendente, che come sapete segue criteri cantonali. Scenderemo nel dettaglio, allegando una cartina esplicativa, disegnata da Adalbert Roncari, ed elencando entità cantonali e loro distretti, con tanto di emblemi realizzati dallo stesso Roncari e da una militante, su indicazione di Paolo Sizzi, che qui ci limiteremo a descrivere. Vale la pena ricordare che, secondo il lombardesimo, il concetto di regione non sussiste più, se non per meri fini demografici e statistici, poiché fomite di regionalismi e poiché gli preferiamo, come detto, quello di cantone, sulla base delle vicende storiche delle città padane precipue e dei relativi comitati/contadi. Ma un criterio importante è dato anche dai confini naturali, specie idrografici, impiegati per conferire forma concreta alla suddivisione politica. Illustreremo per prime le entità amministrative della Lombardia etnica, che è il cuore della Lombardia storica, e via via tutte le altre.

Cartina cantonale della Grande Lombardia

Lombardia subalpina (Piemonte, in giallo):

  • Canton Turin (Taurasia), con i distretti di Torino (capoluogo), Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Canton Coni (Bagiennia), con i distretti di Cuneo (capoluogo), Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Canton Lissandria (Ambronia), con i distretti di Alessandria (capoluogo), Asti e Acqui.

Lo stemma di Torino è la bandiera crociata con croce bianca in campo blu, orlata d’oro, risalente all’assedio francese del 1706; quello di Cuneo è l’insegna storica del Marchesato di Saluzzo, d’argento al capo d’azzurro; quello di Alessandria, parimenti, riprende il simbolo del Marchesato e del seguente Ducato del Monferrato, d’argento al capo di rosso.

Lombardia cispadana (Emilia, in rosso):

  • Canton Parma (Marizia Orientale), con i distretti di Parma (capoluogo), Fidenza e Fiorenzuola;
  • Canton Moddena (Boica Occidentale), con i distretti di Modena (capoluogo), Reggio e Carpi;
  • Canton Piasenza (Marizia Occidentale), con i distretti di Piacenza (capoluogo), Voghera e Tortona.

Lo stemma di Parma è la nota bandiera crociata, con croce blu in campo giallo; quello di Modena è il bipartito giallo-blu del comune omonimo; quello di Piacenza è il bipartito rosso-bianco del comune piacentino.

Lombardia transpadana occidentale (Insubria, in azzurro):

  • Canton Milan (Bassa Insubria), con i distretti di Milano (capitale della Lombardia e capoluogo), Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia (capitale morale della Lombardia);
  • Canton Comm (Alta Insubria), con i distretti di Como (capoluogo), Lecco, Lugano e Varese;
  • Canton Noara (Lebecia), con i distretti di Novara (capoluogo), Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano;
  • Canton Locarn (Leponzia), con i distretti di Locarno (capoluogo), Domodossola, Intra e Bellinzona.

Lo stemma di Milano è la Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco; quello di Como lo scaccato bianco-rosso del Seprio; quello di Novara la Croce di San Giovanni Battista, bianca in campo rosso; quello di Locarno il bipartito rosso-blu del Ticino.

Lombardia transpadana orientale (Orobia lato sensu, in verde):

  • Canton Bressa (Alta Cenomania), con i distretti di Brescia (capoluogo), Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Canton Bergom (Orobia), con i distretti di Bergamo (capoluogo), Crema, Clusone e Zogno;
  • Canton Cremona (Bassa Cenomania), con i distretti di Cremona (capoluogo), Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Canton Sondri (Vennonezia), con i distretti di Sondrio (capoluogo), Tirano e Chiavenna.

Lo stemma di Brescia è il bipartito bianco-azzurro del comune omonimo; quello di Bergamo il bipartito d’oro e di rosso del municipio bergomense; quello di Cremona il fasciato bianco-rosso del comune cremonese; quello di Sondrio riprende il bianco e l’azzurro della bandiera comunale sondrasca, inquartandoli.

Veniamo ora ai restanti ambiti cantonali della Grande Lombardia, dopo aver passato in rassegna quelli della Lombardia etnica.

Lombardia genovese (Liguria, in marrone):

  • Canton Sgenoa (Ingaunia), con i distretti di Genova (capoluogo), Savona, Rapallo, La Spezia e Massa;
  • Canton Nizza (Intimilia), con i distretti di Nizza (capoluogo), Sanremo e Imperia.

L’insegna di Genova è la classica Croce di San Giorgio, orlata d’oro; quella di Nizza è un fasciato bianco-azzurro che riprende le onde presenti nel simbolo nizzardo (a partire da quello della Contea omonima), sotto all’aquila rossa e ai tre monti.

Lombardia romagnola (Romagne, in arancione):

  • Canton Bologna (Boica orientale), con i distretti di Bologna (capoluogo), Imola, Ferrara e Comacchio;
  • Canton Ravenna (Romagna), con i distretti di Ravenna (capoluogo), Cesena e Forlì;
  • Canton Rimin (Senonia), con i distretti di Rimini (capoluogo) e Pesaro.

Il simbolo di Bologna è, anche in questo caso, la Croce di San Giorgio, orlata di blu; quello di Ravenna è il troncato giallo-rosso della bandiera tradizionale romagnola; quello di Rimini riprende lo scaccato, parimenti giallo-rosso, del blasone dei Malatesta.

Lombardia tirolese (Rezia cisalpina, in blu):

  • Canton Trent (Anaunia), con i distretti di Trento (capoluogo), Cavalese e Cles;
  • Canton Bolzan (Tirolo), con i distretti di Bolzano (capoluogo), Merano, Bressanone, Brunico e Silandro.

Lo stemma trentino riprende quello del Principato vescovile di Trento, con le tre bande orizzontali porpora-bianco-porpora; quello di Bolzano la bandiera bianco-rosso-bianca a strisce orizzontali del comune di Bolzano, con un cromatismo che rimanda alla Contea del Tirolo.

Lombardia veneta (Veneto, in rosa):

  • Canton Venezzia (Venethia), con i distretti di Venezia (capoluogo), Chioggia, Padova, Treviso e Rovigo;
  • Canton Visenza (Cymbria), con i distretti di Vicenza (capoluogo), Bassano e Schio;
  • Canton Verona (Euganea), con i distretti di Verona (capoluogo), Bussolengo, Legnago e Villafranca;
  • Canton Bellun (Catubrinia), con i distretti di Belluno (capoluogo), Pieve di Cadore, Conegliano e Castelfranco.

Lo stemma di Venezia, tramite le bande orizzontali giallo-rosse, riprende la bandiera storica della Serenissima, caratterizzata soprattutto dal Leone di San Marco; quello di Vicenza allude al blasone a strisce orizzontali giallo-verdi dei da Romano (Ezzelini), signori medievali di Vicenza originari del suo territorio; quello di Verona è la nota bandiera crociata con croce gialla in campo blu; quello di Belluno, di nero al capo d’argento, riprende il blasone dei da Camino, casata trevigiana che esercitò il proprio potere fra Treviso e il Cadore.

Lombardia giuliana (Carnia e Istria, in grigio):

  • Canton Triest (Istria), con i distretti di Trieste (capoluogo), Pola e Fiume;
  • Canton Gorizzia (Julia), con i distretti di Gorizia (capoluogo), Aidussina e Tolmino;
  • Canton Udin (Carnia), con i distretti di Udine (capoluogo), Cividale, Gemona, Cervignano e Tolmezzo;
  • Canton Pordenon (Friuli), con i distretti di Pordenone (capoluogo), Maniago e Portogruaro.

Simbolo di Trieste è lo spiedo da guerra, “alla furlana”, bianco in campo rosso; quello di Gorizia il troncato giallo-azzurro tratto dalla bandiera della provincia; quello di Udine il tradizionale scudo bianco-nero della nobile famiglia dei Savorgnan; quello di Pordenone riprende i colori della bandiera pordenonese, rosso-bianco-rossa a bande verticali.

Presentiamo qui, a mo’ di esempio, l’insegna cantonale del Canton Milan – e Milano è la capitale storica della Lombardia etnica e della Grande Lombardia -, per dare un’idea di come siano stati concepiti gli stemmi. Potete reperire gli altri sul profilo Instagram di Paolo Sizzi.

Canton Milan

Ovviamente, le città alpino-padane hanno anche altri simboli, che non sono stati da noi impiegati poiché gli stemmi dei cantoni devono essere semplici e immediati. Gli emblemi peculiari di ogni centro restano patrimonio comunale, naturalmente inscritto nella più ampia realtà cantonale. Il nostro intento, pensando anche alla stessa suddivisione amministrativa di una Grande Lombardia indipendente, è quello di dare degna rappresentanza a tutte le genti cisalpine, dalla politica alla simbologia, nel novero di un etnostato sicuramente unito, coeso e forte ma aperto a blande forme di federalismo, appunto, cantonale. Nulla di paragonabile alla Confederazione Elvetica, fortunatamente, poiché la Lombardia esiste ed è una nazione, dal Monviso al Nevoso e dal Gottardo al Cimone, mentre la Svizzera vera e propria è giusto un cantone alemanno, per quanto dilatata all’inverosimile sino ad inglobare territori granlombardi.

Famiglia

La famiglia è la cellula base della società e costituisce la concretizzazione dei dettami comunitari, grazie al proseguimento della stirpe. Una stirpe che deve essere endogamica, biologica, europide e, nel nostro caso, lombarda, vera e propria ricchezza per la comunità nazionale. Va da sé che la reale, e unica, famiglia sia quella naturale benedetta dalla tradizione patriarcale, formata da padre (che è un uomo), madre (che è una donna) e possibilmente prole; un nucleo che si regge sui rapporti eterosessuali, monogami ed endogamici, coronati dal matrimonio e dalla sconfitta del calo demografico. Oggi l’armonia famigliare è turbata dalla propaganda arcobaleno, che cerca di affermare le devianze e le pagliacciate omofile, ma anche da una società sempre più consumistica ed edonistica che colpisce la comunità al cuore, demolendo le salutari relazioni tra uomo e donna. Viviamo in un mondo occidentale vieppiù liquido, instabile, informe dove la perversione viene sdoganata come normalità, e natura e tradizione vengono sepolte sotto l’asfissiante coltre del fantomatico progresso.

Occorre preservare e difendere la famiglia, incentivare la natalità, proteggere i legami eterosessuali ed endogamici dalle grinfie del relativismo sradicatore, se davvero vogliamo avere un futuro. Il benessere della nazione passa anche per la famiglia, e non è possibile immaginare un sano sviluppo senza il prosperare del focolare domestico. La propaganda iridata, foriera di aberrazioni contro natura e ostili alle tradizioni, si unisce alle campagne pro aborto, all’esaltazione del divorzio, alla sovversione degli innati ruoli di maschile e femminile e alla sciagurata emancipazione sessuale delle donna, con la quale le femmine occidentali sono state drogate e traviate in nome di una fasulla libertà che demonizza il patriarcato. E proprio il patriarcato è il garante dell’ordine e dell’armonia famigliari, poiché uomo e donna non sono la stessa cosa, sono diversi, e nella loro complementarità sta il successo dei destini comunitari. Condanniamo dunque gli abomini che corrompono la salubre normalità, e fanno violenza sull’innocenza dei bambini, rigettando il ciarpame progressista e riabbracciando la tradizione.

Possiamo non dirci cristiani?

In diversi articoli ho espresso approfonditamente la visione lombardista in materia di religione e di cristianesimo, ma credo non sia peregrino riprendere la questione nello spazio del mercoledì sera. Il lombardesimo critica e condanna la fede in Cristo, giustamente ritenuta un corpo estraneo nel contesto europeo, e ne prende le distanze anche per via della sua concezione del mondo: universalismo, fratellanza globale, umanitarismo, egualitarismo, anti-particolarismo sono tutti quanti principi inconciliabili con la visione völkisch e proprio per tale ragione riteniamo indesiderabile la preservazione della spiritualità giudeo-cristiana. Perché, fra l’altro, c’è anche questo piccolo particolare: il cristianesimo è emanazione del giudaismo. Puerile negarlo.

Alla luce dell’estraneità della suddetta religione nei confronti della più intima essenza del nostro continente, che è indoeuropea, ci poniamo il seguente interrogativo: possiamo non dirci cristiani? La risposta del lombardesimo a tale quesito è del tutto affermativa, dacché pur avendo un’Europa cristianizzata quasi da 2.000 anni resta il fatto incontrovertibile che la storia della civiltà patria si sia evoluta nonostante il cristianesimo, che ha certo monopolizzato e polarizzato le energie, le forze e le risorse degli europei per diversi secoli ma che non ha potuto sopprimere la solarità ariana del continente bianco. La civiltà europide non è cristiana, è indoeuropea, e la religione di Cristo si è potuta insinuare in Europa parassitando, abitando, la stessa gentilità.

Sì, perché se ci pensate il cristianesimo ha assorbito, pervertendoli, svariati elementi culturali e spirituali di matrice pagana, non da ultimo il pensiero filosofico greco, e sulle ali della romanità imperiale è assurto a nuovo assolutismo, senza perdere le proprie radici semitiche. La nostra cultura, è vero, risente del cristianesimo, ed è innegabile che la tradizione dei padri sia stata pure cristiana; bisogna essere onesti, anche alla luce del patrimonio letterario, artistico, morale che ha permeato, e in parte permea ancora, la mentalità europea. Ma nonostante questo non va perso di vista il fatto che senza Indoeuropei, senza Grecia e senza Roma, senza la spiritualità celtica e le spade germaniche o slave lo stesso cristianesimo, cattolico, ortodosso o protestante che sia, non sussisterebbe.

Epperò si tratta, appunto, di un pervertimento delle vitali energie europidi, che nascono pagane, non giudeo-cristiane, e per quanto lo stesso concetto di Europa si associ storicamente a quello della fede in Cristo non si può negare che l’evangelizzazione abbia rappresentato una forza estranea al continente, un prodotto d’importazione di origine mediorientale, ancorché paludato di nobili vesti indogermaniche, concepito da ebrei ellenizzati, e da loro esportato nel cuore dell’Impero romano, e da lì al resto delle plaghe bianche. Inutile e patetico negare l’evidenza, pena contorsioni e salti mortali francamente ridicoli, sebbene animati spesso da buone intenzioni e da elucubrazioni non del tutto campate per aria.

L’Europa incarna un mondo e un concetto troppo sacri per venire insozzati dalla cultura semitica. Se siamo ciò che siamo lo dobbiamo ai padri indoeuropei, alla civiltà dell’antica Grecia, alla romanizzazione (quella positiva, non l’imbastardimento levantineggiante), e dal punto di vista cisalpino al sangue e allo spirito di Liguri, Celti, Etruschi, Reti, Veneti, senza dimenticare l’apporto germanico medievale, primariamente longobardo. Certo, siamo stati cristianizzati, e la tradizione pagana è stata soppiantata – sopravvivendo sotterraneamente – da quella delle sottane pretesche, ma badate bene che il cristianesimo, specie cattolico e ortodosso, ha potuto farsi largo in Europa associandosi alle radici gentili, per sedurre gli indigeni. Sicché la Chiesa ha prosperato per secoli sfruttando il sostrato pagano, e grazie ad esso è rimasta a galla, fra una bufera e l’altra. D’altronde, il cristianesimo è un parassitismo di schemi, modelli e retroterra che cristiani, cioè diversamente giudaici, non sono, e se gli levate l’afflato indoeuropeo il castello crollerebbe.

Da qui il tentativo disperato degli identitari cristiani – che sotto sotto si vergognano della propria fede, altrimenti abbraccerebbero senz’altro la matrice giudaica e levantina, e il Vangelo, abbandonando stucchevoli autoconvincimenti razzistici – di conciliare l’essenza dell’europeismo (etnoculturale) con l’eresia ebraica di Gesù, ma, come ripeto spesso, se devo tollerare il cattolicesimo, oggi peraltro ridotto a costola del mondialismo, per via di echi pagani, faccio prima a recuperare in toto il paganesimo, genuina ed originale espressione dei veri culti tradizionali d’Europa. La gentilità è sepolta, ufficialmente, da circa 2.000 anni? La si può tranquillamente ripristinare. La religione, dopotutto, è fatto secondario, nonché mero prodotto dell’immaginazione umana, non vale la pena lambiccarsi il cervello per essa. Il punto fondamentale è che può essere tollerata e promossa solo ed esclusivamente se non si tramuta in una zavorra antinazionale, come nel caso del cristianesimo.

La Lombardia subalpina (Piemonte)

Drapò del Piemonte

Da lombardista considero come Lombardia occidentale Piemonte e Valle d’Aosta, mentre la Lombardia occidentale moderna sarebbe la cosiddetta Insubria.

‘Piemonte’ è soltanto un coronimo, un nome geografico, non un etnonimo, e il territorio che esso designa, dal Medioevo sino al Risorgimento – cosiddetto -, è stato ritenuto parte della Lombardia storica, assieme alla regione lombarda attuale, Liguria, Emilia, Svizzera “italiana”, con il resto della Padania [1].

Uno dice: pure la Valle d’Aosta? Perché annetterla al Piemonte? Perché rientra nel bacino idrografico del Po, è cisalpina e non è altro che una valle con una cittadina, Aosta; è oltretutto decisamente piemontesizzata, in particolare nel settore meridionale. Se poi ci fate caso, vi sono franco-provenzali, diluiti, sia nell’area aostana che nella provincia torinese, e cioè nelle vallate occidentali, tra cui Susa.

Ridare questo cantone alpino, secolarmente legato alla Subalpina, al dominio francese, che già detiene territori granlombardi come Nizzardo, Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio? Assolutamente no. Aosta rimane con noi, unita al Piemonte perché folle tenerla sotto forma di ente regionale, per di più autonomo, e ce la si può accattivare col blando federalismo cantonale [2]. Sono altresì conscio della forzata “meridionalizzazione” di quella valletta, e infatti penso che il territorio andrebbe fatto respirare, per così dire, a vantaggio degli indigeni, favorendo il rientro delle famiglie ausoniche finite lassù.

La suddivisione amministrativa lombardista della Subalpina sarebbe la seguente:

  • Torino (Taurasia), con Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Cuneo (Bagiennia), con Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Alessandria (Ambronia), con Asti e Acqui [3].

Ricordiamo che il lombardesimo non crede nelle regioni storiche, e infatti propone un modello cantonale. Si parla di Insubria, Orobia, Emilia e Piemonte come mere entità a fini statistici e demografici, senza alcun riconoscimento; per tale ragione abbiamo trattato di Vercelli, Biella e Valsesia a proposito dell’Insubria, perché fra l’altro aree di transizione. Ad ogni buon conto, al Piemonte spettano, come rammentato, anche Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio, lembi di territorio padano, dal dopoguerra sotto la Repubblica Francese, destinati al distretto di Susa.

Classico simbolo subalpino è il Drapò sabaudo, che riprende la Croce di San Giovanni Battista con un tocco di blu Savoia, da abbandonare in favore della bandiera crociata dell’Assedio per Torino, dell’insegna storica del Marchesato di Saluzzo per Cuneo e di quella del Marchesato del Monferrato per Alessandria.

Le minoranze ivi presenti sono la franco-provenzale a nordovest e la walser a nordest; ci sarebbe anche quella occitana nel settore sudoccidentale, ma spesso si tratta di piemontesi che parlano provenzale. L’occitanismo cisalpino è un pretesto per fare gazzarre di sinistra anti-identitarie, condite dal solito cosmopolitismo antifascista. Nell’area meridionale estrema le genti di Taurasia [4] e liguri si sovrappongono, ma l’idioma subalpino viene parlato anche in brandelli di Regione Liguria, che sono parte del territorio geografico padano.

In Piemonte vi sono anche delle residue comunità ebraiche, e così in Emilia, bassa Regione Lombardia e Milano. Eccetto Torino e Milano si tratta ormai di poche unità, spesso mescolate e secolarizzate. Siamo dell’idea, tuttavia, che vadano restituite alla Palestina, come gli zingari all’India.

Nella vera Lombardia occidentale si parla piemontese, che comprende torinese e cuneese (ad ovest), astigiano, langarolo, roerino, monferrino, alessandrino (a sud); vi sono inoltre le loquele influenzate dal lombardo [5] dei linguisti come vercellese, biellese, valsesiano, novarese orientale, lomellino occidentale (ad est), ed infine citiamo il canavesano parlato ad Ivrea e suo territorio (a nord). In Valle d’Aosta c’è il patois valdostano, che è franco-provenzale, e si usa anche il francese (oltre al toscano).

Decenni fa in Piemonte c’era una minoranza che in breve non lo è più stata, vale a dire quella sud-italiana; Torino è diventata la terza città meridionale della Repubblica Italiana, grazie (si fa per dire) all’affarismo e alle politiche economiche targate Valletta-Agnelli che hanno letteralmente farcito di migranti, specie calabresi, la città sabauda. La Subalpina ospita, assieme a Liguria, Insubria-Orobia ed Emilia, ormai milioni di individui di origine ausonica, che hanno comportato con il loro esodo un ovvio sconvolgimento del tessuto etno-sociale originale, pagato, come sempre, dalla povera gente. La colpa a monte non è tanto degli immigrati “meridionali” quanto dei soliti affaristi indigeni che, ieri, sfruttavano i sud-italiani e oggi i moderni migranti. Agli esodi si sono aggregate le mafie che hanno fatto affari d’oro nel triangolo industriale (con la complicità della corruzione di taluni autoctoni, va detto).

Ai simpaticamente detti “terroni”, passatemi il termine scherzoso, si aggiunsero, in misura minore, veneti (soprattutto lagunari), friulani, emiliani orientali, romagnoli, esuli istro-dalmati sfrattati dai criminali titini e ovviamente gli immigrati più recenti provenienti da tutto il globo, che sovente rappresentano un grave problema in termini di delinquenza e degrado. Essere identitari, e indigeni, in Piemonte è ormai una medaglia al valore.

L’autoctono è di stampo celto-ligure, gallo-romano e longobardo. Forte in Piemonte il tipo alpinide, che implica una statura mediamente più bassa, rispetto ai vicini (vedasi le carte antropometriche di Ridolfo Livi), ma più diffuso è anche il tipo ligure, l’atlanto-mediterranide. La parte meridionale della regione subalpina risente molto del sostrato ligure antico e alcune zone che costeggiano il confine meridionale sono un embricarsi di piemontesi e genovesi, in senso storico (pensiamo all’Oltregiogo).

Per converso, il biondismo in area prealpina e alpina, e in zone come il Canavese, è sensibilmente più radicato, rispetto alla Regione Lombardia, grazie ad infiltrazioni nordiche storiche, anche se comunque di statuto periferico.

Le qualità terragne piemontesi sono però in pericolo di vita – se non direttamente trapassate – perché sempre più patrimonio di pochi, annacquate dallo sciagurato Risorgimento e triturate da un mondo industriale, come quello Fiat, orientato decisamente verso gli States più che verso l’Europa.

Il periodo italianista (2014-2021) non ha indebolito la mia convinzione riguardo la questione “meridionale” nella Cisalpina – perché decisamente orientato all’etnofederalismo – ed è poi riemersa con prepotenza nel contesto del ritorno alle origini plumbee: penso che, al pari degli altri immigrati, coloro che qui emigrarono nel dopoguerra dovrebbero rientrare nella terra dei padri, anche perché la Padania occidentale sta nettamente naufragando nel cemento, nell’inquinamento e nella sovrappopolazione. Se si vuole sopravvivere, cari miei, bisogna rivedere un bel po’ di cose.

Va da sé che sarebbe molto più assennato promuovere il rimpatrio degli ausonici piuttosto che continuare ad incentivarne la migrazione, affinché, peraltro, riprendano possesso dei territori sud-italiani abbandonati, oggi trasformati in colonie di alloctoni extraeuropei. Il sud della Repubblica Italiana può rialzarsi soltanto camminando con le proprie gambe, e anche per tale motivo l’indipendenza della Grande Lombardia potrebbe essere una ghiotta occasione di rilancio per l’Ausonia tutta.

Si è voluto creare uno stato tricolore, già di per sé scellerato, sfruttando la condizione depressa delle terre e delle genti sud-italiane col risultato di spalmare in lungo e in largo clientelismo, assistenzialismo, nepotismo, familismo, abusivismo e mafie, e tutto quel bizantinismo tipico di Roma e dintorni. Avrebbe avuto molto più senso settentrionalizzare il centrosud, piuttosto che il contrario. Ma questo non ci importa. Ci sta a cuore, molto più realisticamente, l’autodeterminazione della Lombardia, che deve andare di pari passo con quella dell’Italia etnica, affinché la repubblica venga rottamata e ogni popolo a meridione delle Alpi abbia il proprio etnostato.

Note

[1] In epoca post-carolingia era Lombardia soprattutto la porzione occidentale della Cisalpina.

[2] Fermo restando che l’area andrebbe comunque lombardizzata, per rinsaldare i legami cisalpini e rafforzare la coscienza granlombarda. I franco-provenzali, gli arpitani, sono il frutto di migrazioni medievali, come ogni altra minoranza storica del nostro territorio.

[3] Senza Tortona, destinata al Canton Piacenza, assieme a Voghera.

[4] Impieghiamo il termine ‘Taurasia’ come etnico del Canton Torino, ma può essere sinonimo di ‘Piemonte’. Deriva, ovviamente, dai celto-liguri Taurini, il cui etnonimo riecheggia, secondo alcuni, il celtico tarvos ‘toro’.

[5] Per noi il lombardo coincide col gallo-italico.

Comunità

L’individuo riscopre la sua più intima essenza solo all’interno delle dinamiche comunitarie, poiché la società in cui viviamo deve imparare a ragionare in termini di collettività e non di anarco-individualismo. L’Occidente contemporaneo mira alla distruzione, alla disgregazione, delle comunità nazionali, segnatamente europee, solleticando i più bassi istinti dell’essere umano: materialismo zoologico, consumismo, edonismo, egoismo e affarismo, e tutto quello che contribuisce all’eradicazione del sentimento patriottico e dello spirito d’appartenenza, che sono garanzia di vero benessere per la terra natia. Ed è proprio facendo leva sugli egoismi personali che il destino delle nazioni appare segnato, perché sostituendo il bene comune con i capricci individualistici vengono liquidati i diritti sociali del popolo. Da qui la farsa dei “diritti civili”, e cioè la soddisfazione egocentrica di minoranze fintamente discriminate che nel mondo occidentale divengono lobby intoccabili. Colpire al cuore la comunità significa promuovere la sciagurata mentalità liberale e libertaria – e liberal – che dietro l’odio verso lo Stato cela, in realtà, l’odio per la nazione e l’allergia nei riguardi dei vincoli comunitari.

Il lombardesimo vuole mettere al centro il comunitarismo, dunque l’orgoglio patriottico che, facendosi unione di intenti fra tutti i membri della collettività, esalti la nazione e affronti le sfide della globalizzazione in maniera vincente, condannando lo status quo in nome di sangue, suolo, spirito. Una comunità nazionale è una grande famiglia etnica e culturale, dove ogni individuo può ritrovarsi e godere della più intima dimensione naturale dell’uomo, che è il contatto con la natura; infatti, l’econazionalismo concilia il comunitarismo con l’ambientalismo al fine di preservare l’habitat naturale senza sacrificare il profilo etno-razziale del popolo. Anzi, difendere l’ambiente significa difendere la nazione, e viceversa, perché sangue e suolo sono inscindibili. L’individualismo, invece, incensa acriticamente la presunta realizzazione del singolo, anteponendo le bizze personali all’autoaffermazione patriottica. Da lombardisti non possiamo che stigmatizzare l’individualismo, soprattutto anarcoide, perché al di sopra di ogni cosa sta la nazione, e quindi la comunità etnoculturale. Tutti noi dobbiamo concorrere alla salute – non soltanto materiale – collettiva che passa anche per un robusto identitarismo völkisch.

Le comunità lombarde all’estero

Mercoledì scorso abbiamo passato in rassegna le comunità lombarde storiche presenti all’estero, frutto cioè di fenomeni coloniali medievali e rinascimentali che hanno portato genti lombarde a popolare territori extra-cisalpini. Oggi, invece, parleremo dei recenti fenomeni migratori riguardanti i lombardi, dall’800 in poi, segnatamente per quanto concerne una presa di coscienza identitaria che passa, ad esempio, per la lingua: gallo-italica, veneta, retoromanza. L’orgoglio e il senso d’appartenenza linguistici rappresentano un modo concreto di tramandare la propria identità, in questo caso in contesti esotici, lontano dalla madrepatria alpino-padana. Naturalmente, i lombardi all’estero possono essere benissimo rimescolati con geni indigeni, pur avendo una coscienza lombarda, e questo problema è un ostacolo ad un possibile rientro in patria degli oriundi.

Anni fa carezzavo l’ipotesi di una sorta di scambio, tra lombardi all’estero e allogeni: rimpatriare quest’ultimi richiamando gli emigrati nostrani. Ma la questione, per l’appunto, è delicata perché tali cisalpini all’estero potrebbero presentare commistioni esotiche, minando il concetto fondamentale di sangue. Allo stesso modo, se emigrati o nati all’estero, sono manchevoli del suolo patrio. Circa lo spirito, tuttavia, potrebbe esserci una coscienza identitaria che, nei fatti, si concretizzi grazie all’idioma nativo, e questo è sicuramente un dato positivo. In una Grande Lombardia sovrappopolata, comunque, non ci sarebbe spazio per oriundi rimescolati, perché la priorità è bloccare l’immigrazione e rimpatriare a tappeto. Una situazione diversa sarebbe il compromesso “retico” fra Cisalpina e mondo tedesco: i romanci scendono a sud delle Alpi, mentre i germanofoni cisalpini prendono la via teutonica (qualora non siano disposti a giurare fedeltà alla Grande Lombardia, lasciandosi assimilare).

Venendo al dunque, e considerando i fenomeni migratori che hanno portato alla formazione di comunità lombarde all’estero (tralasciando, dunque, l’emigrazione generica, senza conseguenze identitarie), per quanto concerne i gallo-italici (e cioè i lombardi etnici e gli altri cisalpini della Lombardia etnolinguistica) avremo una presenza sensibile in Sudamerica (Argentina e Brasile) soprattutto per quanto riguarda il lombardo grossomodo regionale, il piemontese e il ligure e l’interessante caso della comunità trentina di Å tivor, nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina; in questa circostanza si parla di trentini di tendenze linguistiche venete (Valsugana), mentre altri trentini “lombardo-veneti”, in senso parimenti idiomatico, sono presenti in Brasile. Nell’Agro Pontino laziale, in epoca fascista, si stabilirono, fra le altre, comunità emiliano-romagnole, e così in Sardegna (ferraresi).

I veneti sono senza dubbio la comunità granlombarda all’estero più numerosa, anche perché moltissimi di loro si spostarono internamente alla Cisalpina, verso ovest (triangolo industriale) e verso nord (Alto Adige); da vecchie stime lombardiste, concludemmo che tra veneti puri e “spuri” nella Lombardia etnica ci potessero essere circa un milione di individui, di origine orientale. Orbene, troviamo comunità venete, e venetofone, recenti in Brasile, Argentina, Messico e Romania; in Sudamerica e Centroamerica si costituirono varianti linguistiche venete, come il famoso talian, ma ciò accadde anche in Romania, Tirolo meridionale e – a livello storico – nella Venezia Giulia (vedi Trieste, Gorizia, Istria, nonché Dalmazia e Montenegro) e in alcune località friulane, come Udine. Ma i veneti emigrarono pure, durante il Ventennio, nell’Italia etnica (Toscana e Lazio) e in Sardegna, per via delle vaste opere di bonifica delle paludi. Esistono comunità di lingua veneta eziandio in Australia. Le cifre aumentano se consideriamo, fra gli altri, gli esuli giuliano-dalmati, presenti in maniera nutrita nella stessa Lombardia etnica.

Per quel che riguarda, invece, i retoromanzi (ladini, romanci, friulani), va fatto un discorso analogo a quanto sopra, e specialmente nel caso del Friuli ricordiamo le mete europee (Francia e Belgio, ad esempio), americane (Canada, Usa, Argentina, Brasile), australiane e sudafricane, senza contare i carnici emigrati internamente verso ovest (triangolo industriale) e nell’Italia etnica (Agro Pontino, Roma), o in Sardegna (Arborea, come per i veneti). Per chiudere rammentiamo l’immigrazione interna alla Padania, soprattutto in direzione est-ovest, con veneti, friulani, istro-dalmati, emiliani orientali, romagnoli ed orobici (pensiamo al fenomeno secolare dell’emigrazione bergamasca) verso le più prospere – un tempo – regioni della Grande Lombardia occidentale.

Abbiamo, insomma, considerato non il fenomeno generico dell’emigrazione granlombarda all’estero, bensì l’espatrio con conseguente formazione di comunità padano-alpine in loco, cementate da lingua, usi e costumi, cucina, tradizioni. Resta la problematica etnica: gli individui trasferitisi sono granlombardi? Se di sangue intatto, grazie all’endogamia comunitaria, certamente, per quanto ormai nati all’estero. Seppur integri appaiono però sradicati e un loro eventuale rientro, atto a sostituire gli allogeni rimpatriati, potrebbe rappresentare una grana a livello di densità demografica, che nella Cisalpina raggiunge valori folli. È però chiaro: meglio gli oriundi degli alloctoni, e un parziale ritorno alla madrepatria (dei soggetti etnicamente compatibili) può essere valutato.

La Lombardia cispadana (Emilia)

Torino, Statua al fiume Po

La Lombardia meridionale tradizionale, che comprende parte della Val Padana, riguarda i territori di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. Nella visione lombardista che ho teorizzato, i due Oltrepò, pavese e mantovano, sarebbero da assegnare all’Emilia, per motivi linguistici e geografici.

E, infatti, la vera Lombardia meridionale comprende i territori cispadani sino al Panaro, inclusi gli Oltrepò e il Tortonese. Per ragioni di influssi culturali le aree di Tortona, Voghera, Piacenza e Suzzara sono le prime ad essere associate alla Transpadana; nel caso del Piacentino si tratta soprattutto della parte centrosettentrionale della provincia, perché quella restante è di influenza ligure. Tuttavia, venendo a parlare di suddivisione cantonale della Lombardia etnica, in questo caso della sezione cispadana, anche le zone tendenti alla Liguria rientrano nel dominio etnico.

La Lombardia meridionale tradizionale, in senso allargato, comprende dunque Tortona, Voghera, l’Oltrepò pavese, Piacenza (fino all’angolo nordoccidentale della provincia di Parma, zone come Busseto, Fidenza e Salsomaggiore), Pavia (con la Lomellina, Vigevano, tendenti al Piemonte), Lodi, Cremona, Casalmaggiore, Mantova e l’Oltrepò mantovano. La Lombardia meridionale lombardista, invece, racchiude tutti i territori a sud del Po, sino almeno al confine orientale costituito dal corso del fiume Panaro.

Grande protagonista delle vicende meridionali è il Padus che dà il nome alla Pianura Padana e che costituisce una frontiera naturale, sebbene non troppo severa viste le reciproche influenze, fra Transpadana e Cispadana. Il vero confine meridionale della Grande Lombardia corre lungo lo spartiacque appenninico, che poi coincide con l’isoglossa Massa-Senigallia.

Il termine ‘Padania’, che non è un etnonimo e si presta a mille inflazioni e banalizzazioni politiche, può essere un utile coronimo da impiegare per definire fondamentalmente l’Emilia, che è il fulcro della Val Padana, della pianura dell’Eridano, per dirla in chiave mitologica. Come sappiamo, l’Emilia deve il suo nome latino alla via che collega Piacenza a Rimini, costruita da Marco Emilio Lepido, console romano. ‘Padania’ può comunque essere un sinonimo geografico di Cisalpina.

La Lombardia medievale inglobava tutta la Padania, specie quella occidentale, dunque Insubria, Orobia, Piemonte, Liguria ed Emilia (basti pensare alla città di Reggio, che prima della sciagurata unificazione tricolore si chiamava Reggio di Lombardia), e il lombardesimo ricalca pertanto l’etnogenesi medievale del popolo lombardo, a partire dal contesto etnico, cioè del bacino padano. Oggi, conservare le specificità regionali classiche appare poco utile, poiché fiacca il nazionalismo lombardo; per tale motivo puntiamo sui cantoni, dunque sui contadi storici, anche perché sovente i toponimi delle regioni sono privi di significato etnoculturale (vedasi ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’).

Ci sarebbe poi la Romagna, storicamente distinta dall’Emilia ma non certo remota da essa, soprattutto pensando a Bologna e Ferrara (che il lombardesimo è propenso ad associare alla prima). Linguisticamente si può dire che vi sia un continuum tra Emilia orientale e Romagna, ma la tendenza si può registrare a partire dall’area orientale del Parmense, dove non per caso principia l’assenza delle vocali turbate. C’è pure da aggiungere che diversi linguisti parlano di dialetti emiliano-romagnoli.

A livello miseramente amministrativo, allo stato dell’arte, la Lombardia meridionale comprende le province di Pavia (contigua a quella di Lodi, città fortemente legata alla capitale longobarda, alleata fedele del Barbarossa e in lotta con Milano), Cremona (a cui va tolto il Cremasco ma non l’area di Soresina) e Mantova (a cui andrebbe Casalmaggiore, oggi sotto Cremona e senza Suzzara e l’Oltrepò).

In termini lombardisti, invece, la suddivisione amministrativa ideale della Cispadana ragionata, in cantoni e distretti, sarebbe la seguente:

  • Parma (Marizia Orientale), con Fidenza e Fiorenzuola;
  • Modena (Boica occidentale), con Reggio e Carpi;
  • Piacenza (Marizia Occidentale), con Voghera e Tortona.

La sciocca distinzione tra (Regione) Lombardia ed Emilia banalizza la vera accezione etnica di Lombardia, che riguarda anche il territorio piemontese. Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, tradizionalmente meridionali – ma non cispadane -, appartengono a domini distinti: Pavia e Lodi al contesto insubrico, Cremona e Mantova a quello orobico, anche se zone di transizione (eccetto il Lodigiano).

Insegne cantonali di queste province sono la croce parmense blu su sfondo giallo, il bipartito giallo-blu modenese e il bipartito rosso-bianco piacentino. Menzioniamo, comunque, anche la Croce di San Giovanni Battista pavese, lo scudo crociato giallo-rosso lodigiano e la Croce di San Giorgio (con aquile imperiali nere) mantovana.

La Bassa della Regione Lombardia è area ibrida, per così dire, e vi sono influenze reciproche con l’Emilia. Il Po non è un’opinione, e viene adottato anche da noi lombardisti come confine fra Transpadana e Cispadana, ma ribadiamo che entrambe, almeno fino al Panaro nel caso meridionale, sono Lombardia etnica.

I dialetti della famiglia linguistica lombarda, cioè gallo-italica, parlati in queste terre sono quelli classicamente considerati emiliani: tortonese, oltrepadano, piacentino, parmigiano, reggiano, modenese a cui va senz’altro aggiunto il mantovano, specie dell’area oltrepadana. Il pavese è ibrido insubrico-emiliano e il cremonese orobico-emiliano , mentre il lodigiano è piuttosto cisabduano [1]. L’area casalasco-viadanese è mantovana, ricordiamo.

Gli influssi milanesi sul Pavese sono assai forti e lo orientano più verso Milano che verso l’Emilia, e infatti il territorio di Pavia (senza Lomellina e Oltrepò) rientra nel Canton Milano (Bassa Insubria). E, allo stesso modo, anche il Lodigiano è milanese, mentre Cremonese e Mantovano (senza Oltrepò) si associano nel Canton Cremona (Bassa Cenomania).

Tortonese, oltrepadano e piacentino, invece, hanno influssi transpadani che si notano bene, ad esempio, nella presenza delle vocali turbate di origine celto-germanica Å“u e u e di altri fenomeni, anche a livello di lessico e di costrutti fraseologici. Ma rimangono parlate cispadane, “emiliane”.

In fondo, queste aree, come il resto di Lombardia odierna ed Emilia, hanno conosciuto le medesime popolazioni: Liguri, Celto-Liguri, Galli, Romani, Longobardi (giunti tardi nel Bolognese e nel Ferrarese).

Quel che separa Transpadana e Cispadana, oltre alla geografia, è l’antica impronta etnoculturale emiliana, di tendenza italica, villanoviana e dai più forti influssi etruschi (vedasi l’Etruria padana), che oltre il Po giungevano sino a Mantova (ivi si trovava l’emporio del Forcello) [2]. Ricordiamo, ad ogni modo, gli Anamari, o Anari, tra Piacenza e Parma, popolazione forse celto-ligure.

Nella Regione Lombardia meridionale trovarono spazio Liguri (tra cui Levi e Marici ad occidente, ma anche a sudovest del Fiume), Celto-Liguri, Galli (Insubri, Boi, Cenomani) ed alcuni generici influssi proto-italici, villanoviani e quindi etruschi, soprattutto a Cremona e Mantova.

Forte la romanizzazione delle terre meridionali, come dimostrano centuriazioni e rete viaria, e le svariate colonie dedotte (tra cui Cremona, Pavia, Lodi, Piacenza, Fidenza ad ovest). La colonizzazione romana fu fitta e portò, sicuramente, ad un drastico ridimensionamento dell’elemento gallico, anche se la romanofilia esagera palesemente nel cianciare di massacri ai danni dei nativi. Peraltro, un bel termine per definire la Lombardia etnica meridionale potrebbe essere ‘Boica’ [3].

Gli Etruschi, spesso inquadrati come invasori levantini, erano il risultato della sedimentazione locale di più popoli: autoctoni mediterranei [4], “Italici” indoeuropei (protovillanoviani e villanoviani) e, forse, una tarda classe dominante di egeo-anatolici [5]. Stando ai più moderni studi genetici, pare tuttavia che gli Etruschi fossero geneticamente indistinguibili dai Latini, senza apporti levantini sospetti. Fu la romanizzazione a recare geni recenti originari del Mediterraneo orientale nelle aree tirreniche, andando ad intaccare il genoma indigeno.

I Liguri, invece, erano prevalentemente autoctoni mediterranei, sebbene fortemente indoeuropeizzati (celtizzati, in particolar modo). In antropologia fisica, il cosiddetto tipo ligure è l’atlanto-mediterranide, ossia un fenotipo mediterraneo fortemente dolicocefalo, alto, robusto e più chiaro di quello basico, progressivo per usare un termine caro a certi ambienti antropogenetici amatoriali.

I Longobardi fecero la loro parte, fino a Spilamberto segnatamente, e colonizzarono sensibilmente l’area appenninica tosco-padana (si può rintracciare un curioso picco di biondismo nella Lunigiana settentrionale).

La Lombardia meridionale presenta un aspetto sub-razziale atlanto-mediterranide, alpinide o padanide, ossia, come abbiamo già visto, risultante dall’incrocio tra tipo ligure e quello adriatico (dinaride). Un’area certamente più mediterranea della Lombardia transpadana. Anche gli Etruschi tardi, i coloni romani e i Bizantini hanno contribuito, e lo si vede nella componente genetica anatolico-caucasica che si fa più marcata varcando il Po a sudest (specie se si parla della zona ferrarese). Si tratta comunque di componenti secondarie, non di ceppo predominante. Geneticamente parlando, la Padania si colloca globalmente nell’Europa sudoccidentale [6], assieme a Iberia e Occitania, a differenza dell’Italia etnica che ha un maggiore input sudorientale, in particolar modo nel meridione.

La Lombardia amministrativa di mezzogiorno, per così dire, fa degnamente parte della Lombardia transpadana, anche per via dei determinanti influssi signorili milanesi. Zone come Pavia, Lodi e Cremona hanno sempre orbitato attorno alla capitale lombarda, e questo si fa sentire parimenti a livello linguistico ed etnico.

Del resto, pure una città come Piacenza è decisamente più legata a Milano che a Bologna, e le influenze ambrosiane arrivano sino ad Alessandria e Vercelli, in Piemonte, i cui stemmi sono copia di quello milanese, marca della Lega Lombarda come tutti gli altri scudi crociati, col Sangiorgio, della Cisalpina. Ma eguale importanza ricopre il negativo di tale vessillo, che è la croce ghibellina di San Giovanni Battista, forte in Piemonte, Insubria, Ticino, e presente qua e là in tutta la Padania.

Una mentalità “lombarda” imprenditoriale, industriale, liberale (ma non lo dico certo con vanto, anzi) contraddistingue l’Emilia nordoccidentale nei confronti del resto della regione e la accosta proprio alla Regione Lombardia meridionale, tanto che per certi versi, come abbiamo visto, può esserne una sua propaggine.

Il mondo emiliano stereotipato è fatto di tortellini, salumi, formaggi, motori, vino, cantautori, spirito dissacrante, comunismo e sindacalismo, e capite bene che una città come Piacenza tenda a sottrarsi da questo contesto, virando sul mondo transpadano.

Ma da un punto di vista linguistico, e nonostante i ben noti influssi, il piacentino è certamente più emiliano che cisabduano, al pari di tortonese e oltrepadano, e così a livello geografico essendo cispadano. Per questo manteniamo, come confine amministrativo cantonale, il grande fiume delle pianure.

Possiamo dire che esista una Lombardia al di qua del Po e una al di là, adottando il punto di vista milanese [7], ma sono entrambe parte del medesimo contesto etnico, e della medesima nazione, la Grande Lombardia.

Note

[1] Alcuni dialettologi affermano l’esistenza di un lombardo della bassa Regione Lombardia, da Pavia a Mantova, ma è soltanto una suddivisione di comodo.

[2] A sud del Po, civiltà quali le terramare (che avevano comunque propaggini transpadane), il protovillanoviano e il villanoviano si inscrivono, tradizionalmente, nel contesto italico ed etrusco, dove per ‘italico’ si intende comunque una fase protostorica ed embrionale, non storica.

[3] I Galli Boi devono il loro etnico o ad una derivazione “bovina” oppure ad una guerriera; nel secondo caso, vedi l’ipotesi formulata da Pokorny. In rete si parla del celtico bogos ‘distruggere’, ma non ho trovato validi riferimenti al riguardo.

[4] Imparentati coi Reti e locutori dell’etrusco, fossile linguistico preindoeuropeo.

[5] Vedasi anche la fase finale orientalizzante della civiltà etrusca.

[6] Si consideri, comunque sia, che più si procede verso nord e verso est, nel contesto padano-alpino, e più aumenta la tendenza centro-europea.

[7] I concetti correnti di Transpadana e Cispadana sono, in realtà, il frutto della visione romana.

Tradizione

Dal rispetto per identità e tradizione passano la salute e la forza di una comunità nazionale, orgogliosa delle proprie radici e dei propri padri. Se l’identità riassume i valori fondamentali veicolati dal sacrale binomio etno-razziale di sangue e suolo, ecco che la tradizione rappresenta i principi e gli ideali dello spirito, non solo religiosi ma anche culturali, civili, folclorici. Naturalmente, parlando di tradizione, non viene contemplata la fede cristiana che, per quanto radicata nel territorio lombardo ed europeo, è comunque frutto d’importazione del monoteismo desertico targato Abramo, Isacco e Giacobbe, e per tale ragione il lombardesimo rifiuta le fantomatiche origini giudeo-cristiane del continente. Il filone tradizionale dello spirito europeo è quello ariano, giunto sino a noi nonostante la perversione operata dal credo in Cristo, ed è il nostro vero lignaggio, ciò su cui si fonda la civiltà dell’Europa; d’altra parte, se il cristianesimo può avere un fascino è solo ed esclusivamente per la patina indoeuropea, non certo per il grosso semitico di quella religione. Non possiamo non dirci cristiani? Una colossale frottola: casomai, non possiamo non dirci figli della solare eredità che nasce nell’Est steppico, grazie alla quale tutto acquisisce un significato unico, benedetto dall’arianesimo.

La nazione lombarda ha bisogno della tradizione, a patto che non esondi, come detto, nel ciarpame clericale. Il cristianesimo, come ebraismo e islam, rappresenta un corpo estraneo incistato nel continente europeo, e va rigettato. Esso è incompatibile con la genuina civiltà europide, ed è un ostacolo lungo la via dell’autoaffermazione identitaria delle reali nazioni bianche, tra cui la stessa Grande Lombardia. Se da un lato il credo religioso è fatto intimo e privato, dall’altro deve essere accettato dal lombardesimo e, quindi, dal nazionalismo etnico; in tal senso solo la spiritualità pagana di origine ariana può essere tollerata appieno, perché compatibile con lo spirito (e con il sangue) europeo e mezzo che veicola i valori völkisch, a cui il pensiero lombardista si ispira. Il monoteismo abramitico, oltre ad essere alieno nei riguardi del cuore della nostra identità, incarna disvalori universalistici, e cioè la sovversione che alimenta anche il mondialismo: il dio semitico non è altro che il prodotto di un globalismo avanti lettera, acerrimo nemico del sangue, del suolo e dello spirito delle nazioni europidi. Pertanto, la tradizione contemplata dal lombardesimo è di ispirazione pagana, e soprattutto votata alla salvaguardia dei classici principi tradizionali del comunitarismo nostrano di ogni tempo.

Le comunità storiche lombarde all’estero

A volte mi si chiede un parere circa quelle comunità linguistiche storiche granlombarde ubicate al di fuori della Grande Lombardia, frutto di emigrazioni antiche. In modo particolare, mi viene posta la domanda a proposito della loro lombardità, e cioè se possano essere ritenute al pari delle popolazioni indigene della Padania. Considerando che stiamo parlando di comunità radicate da secoli in terre straniere e che, dunque, è stato inevitabile un rimescolamento con le popolazioni locali, direi che la mia risposta al quesito è tendenzialmente negativa, anche perché si tratta dei discendenti di individui sradicati secoli fa dalla Lombardia storica. Sarebbe perciò alquanto azzardato ritenere gli eredi delle colonie storiche lombardi al pari dei lombardi.

Ma quali sarebbero, oltretutto, queste colonie lombarde antiche all’estero? Presto detto: i lombardi di Basilicata (Potenza) e Sicilia (Enna, Messina, Catania, Siracusa); i liguri coloniali, tabarchini, di Sardegna (Carloforte e Calasetta), Corsica (Bonifacio) e Monaco; i veneti coloniali della Venezia Giulia storica (Istria, Quarnaro, Carso), della Dalmazia (Zara, Spalato, Sebenico, Ragusa) e dell’Albania Veneta (tra Montenegro e Albania). Si prendono qui in considerazione gli spostamenti medievali e rinascimentali, non recenti, frutto di sollecitazioni politiche, come nel caso dei lombardi dell’Italia meridionale, chiamati da Normanni e Svevi per rafforzare la latinità di aree ibride; di fenomeni coloniali legati all’espansionismo marinaro di Genova e Venezia; di altri tipi di trasferimento, come nel caso dei pescatori liguri – dapprima stanziati a Tabarca, in Tunisia – di Sardegna e dei coloni sempre liguri giunti in territorio monegasco.

Quelle suesposte sono comunità sicuramente fiaccate dal tempo ma ancora pressoché presenti. Parlando di domini marittimi, genovese e veneziano, c’è da dire che diverse comunità storiche sparse per il Mediterraneo sono oggi scomparse, assieme naturalmente alle lingue da esse impiegate. Per tale motivo si tratta di ligure e di veneto coloniali, poiché idiomi esportati dai colonizzatori e trapiantati in territori stranieri. Nel caso del gallo-italico (o lombardo, secondo l’accezione medievale del termine che riguardava l’intera Cisalpina, e che include il ligure) potremmo anche citare Briga, Gondo e Bivio (Confederazione Elvetica), un tempo linguisticamente lombardi; le isole liguri, cioè ancora galloromanze cisalpine, presenti nel Nizzardo (ancor oggi sopravvivono a Briga e Tenda, ma come naturale estensione del Genovesato) e in Corsica (Ajaccio e Calvi), rammentando che per taluni studiosi l’influsso idiomatico genovese si estendeva sino al nord della Sardegna; San Marino, che è un brandello di Romagna, anche a livello di loquela; l’area anconetana del Conero, dove vi è una piccola sacca gallo-italica, exclave in contrada italo-romanza.

In quasi tutti gli ultimi casi, tuttavia, non si può parlare esattamente di colonie storiche lombarde, bensì di territori un tempo lombardi oggi appannaggio di altre nazionalità. Per meri motivi geografici, come lombardisti, escludiamo pure quegli ambiti etnolinguisticamente granlombardi che però ricadono in domini geografici differenti: è il caso di Madesimo, di Livigno, di San Candido e di Tarvisio, e così le citate Briga e Bivio, svizzere, comunque ormai prive di viva lombardità. Ricordiamo, eziandio, che il quadro cisalpino include, anche in contesto di parlate, settori di confine con l’Italia: la provincia di Massa-Carrara (soprattutto la Lunigiana), alcune frazioni montane del Pistoiese, la Romagna toscana, l’intera Valmarecchia e, naturalmente, l’ager Gallicus (Pesaro-Urbino, fino a Senigallia, antica capitale senone), che è fascia di transizione gallo-picena.

Giustamente, nella coscienza storica e linguistica, le colonie gallo-italiche di cui discutiamo vengono chiamate lombarde (andrebbe fatto anche per quelle liguri di Sardegna, Corsica, Nizzardo; il caso veneto, come sappiamo, è diverso), poiché la Lombardia medievale, cioè quella genuina, riguardava l’intero “nord”, segnatamente la sua porzione occidentale. Si prendano in esame i lombardi di Lucania e Sicilia: tale etnonimo designava coloni di estrazione piemontese, ligure ed emiliana, dunque storicamente lombarda, e questo fa mirabilmente capire come il dominio grande-lombardo concerna tutta la Padania.

Tratteremo delle migrazioni lombarde moderne a parte, e tornando al quesito d’apertura, ribadiamo la risposta lombardista: queste colonie, sopravvissute – inevitabilmente “contaminate” – sino ad oggi, possono effettivamente dirsi appieno lombarde, dunque paragonabili all’antica madrepatria? Riteniamo di no, soprattutto venendo a parlare dei “lombardi” dell’Italia etnica meridionale, rimescolati con geni sud-italiani. È chiaro che un lombardo è chi ha genetica lombarda, e nel caso delle colonie ciò diventa proibitivo. I tabarchini di Sardegna, fondamentalmente, sono liguri anche in termini genetici, ma hanno comunque assorbito una piccola percentuale sarda. Consideriamo altresì che un individuo è pienamente lombardo se radicato in Lombardia almeno dal 1900, e cresciuto in un ambiente culturale cisalpino. Insomma, sangue, suolo e spirito, come sempre. Guardiamo con curiosità all’espansione medievale e rinascimentale dei granlombardi, ma i loro eredi non possono dirsi compiutamente granlombardi.