
Il Settecento, che con l’89 segnò la fine convenzionale dell’età moderna, è stato il secolo della massoneria, delle rivoluzioni, del giacobinismo, dell’avvento di Napoleone e dei cosiddetti “lumi”, dell’Illuminismo.
Proprio l’Illuminismo ha segnato il declino dell’idea genuina di Europa, spedendola nella fossa scavata a suo tempo dal giudeo-cristianesimo, sebbene, paradossalmente, le due dottrine non siano certo compatibili se non nel loro empito universalista anti-identitario.
In comune hanno appunto l’odio per l’Europa e le sue vere radici, e oggi ce li troviamo alleati contro l’identità e la tradizione nella grande guerra scatenata contro di noi dal mondialismo.
Naturalmente, quello che un tempo si chiamava Illuminismo oggi si chiama marxismo, comunismo, progressismo, liberalismo, antifascismo mentre il giudeo-cristianesimo continua a prosperare nel cattolicesimo postconciliare, un cattolicesimo castrato e ancor meno europeo di prima, tendente al protestantesimo.
Con l’Illuminismo prese piede anche il cosiddetto ebraismo internazionale; no, non voglio dare adito ad alcun complottismo antisemita, ma è chiaro che sull’onda dei “lumi” gli ebrei non solo promossero la loro uscita dai ghetti ma auspicarono anche un movimento globale, apolide, cosmopolita da loro coordinato e sfociato poi nel marxismo, nel sionismo come forma di imperialismo ebraico, nel bolscevismo, nel distruttore relativismo sessantottino (vedi Scuola di Francoforte), e naturalmente nelle svariate forme di affarismo capitalistico. Il fiuto per gli affari è una peculiarità storica giudaica, non dobbiamo prenderci in giro occultandolo: ma è una peculiarità frutto anche delle condizioni in cui la Chiesa costrinse gli israeliti, perseguitandoli per le balle sul deicidio, salvo sfruttarli per i propri interessi a danno altrui (vedi usura).
I “lumi” attuarono una vera e propria rivoluzione borghese, sulle ali della massoneria, e cioè della mafia per così dire radical-chic dei salottini buoni del Settecento, che portò non soltanto (magari fosse solo quello!) alla liquidazione dell’oscurantismo cattolico ma anche al sovvertimento innaturale delle istituzioni tradizionali, al terremoto relativista, al cieco fanatismo progressista, e allo sdoganamento del pluralismo a scapito degli indigeni, tartassati col mito del “buon selvaggio”.
L’Illuminismo, che per qualcuno rappresenta addirittura la nascita – o la rinascita – dell’Europa (nonostante in realtà ne sia la pietra tombale), portò alla formazione degli Stati Uniti, entità apolide senza storia e nazione partorita da intrighi massonici, alla Rivoluzione francese con annessi e connessi (stati giacobini, bandiere giacobine, sanguinari tiranni giacobini che tradirono, fornicando con la borghesia, dei legittimi sentimenti anti-tirannici e antimonarchici), al giacobinismo appunto precursore di socialismo marxista e comunismo, al bonapartismo, al rovesciamento dei valori tradizionali ed identitari, all’ipocrita triade Liberté, Égalité, Fraternité, che oggi come ieri inganna il popolo facendo gli interessi delle classi che vivono di rendita sulle sue spalle, e delle cosiddette “minoranze”.
Il Settecento illuminista plasmò i mostri ideologici che oggi terrorizzano la società civile con la loro becera dittatura relativista e anarcoide: ci si è sbarazzati della Chiesa per finire nelle fauci del nuovo assolutismo laicista e ateo, ma al contempo anti-europeo.
Il suddetto fosco periodo storico, insomma, pose le basi dell’attuale rovesciamento totale di valori del continente europeo, e di tutto quello che gli appartiene genuinamente, a partire dal sangue, dal suolo, dallo spirito.
I veleni d’oltralpe raggiunsero anche la progredita Lombardia, ma andiamo con ordine.
Eravamo rimasti alla Milano austriaca di Maria Teresa, che stava perdendo tutti i suoi possedimenti storici, sebbene liberata dal giogo spagnolo.
Con essa, nel 1760 entrarono in vigore il catasto e il nuovo sistema tributario.
Nella Lombardia asburgica giunse anche la rivoluzione industriale, principiata nell’Europa nordoccidentale sul finire del ‘700, ed esplosa nell’800, che rese la nostra regione la più sviluppata della fantomatica Italia, alla vigilia dello scellerato 1861, checché ne dicano certi fanatici duosiciliani; la Lombardia è sempre stata nei secoli, seppur tra alti e bassi, un’area geografica, a stretto contatto col cuore del continente, ricca, evoluta, redditizia, fertile e abitata da genti laboriose. Anche se coi loro difetti, si capisce.
Quattro anni dopo, nel 1764, ecco che la tormenta illuminista, foriera di rivoluzioni borghesi, frammassone e giacobine, investì ufficialmente la Lombardia austriaca con la pubblicazione del famoso libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene e del primo numero del periodico letterario e scientifico dei fratelli Verri, Il Caffè, che durò fino al 1766.
C’è da dire che il nazionalismo moderno prese le mosse dalla Rivoluzione francese del 1789; i bisogni di autodeterminazione nascono certamente da lì, ma sono stati traditi, pervertiti, snaturati dall’infida ottica borghese e, ovviamente, non erano nulla di etnonazionalista, come si può intendere oggi, si capisce. Ma in questo senso sta a noi, nella contemporaneità , aggiustare il tiro, ed evidenziare che il nazionalismo ha senso solo se è etnico. Altrimenti è tifoseria da stadio, o peggio ancora patriottismo di cartapesta alla francese e all’italiana (che è sottoprodotto giacobino del primo).
Nel 1765 Francesco III d’Este, duca di Modena e Reggio e governatore lombardo fino al 1771, ottenne in feudo da Maria Teresa la città di Varese.
Nel 1790 la popolazione lombarda, regionale, che all’inizio del secolo era poco più di un milione di residenti, toccò i 2.150.000 abitanti.
Nel 1796 finì il primo periodo dell’occupazione austriaca di Milano e di parte della Lombardia: il giacobino Napoleone Bonaparte, un corso di origine ligure-toscana, al comando delle truppe francesi rivoluzionarie, sconfisse gli austriaci a Lodi, e il 15 maggio entrò in Milano.
Un anno dopo si costituì la Repubblica Cisalpina, germe dell’artificiale Italia unita, comprendente l’attuale Lombardia occidentale (con la Valtellina e i contadi), quella orientale liberata dalla Serenissima (anch’essa liquidata dal Bonaparte), l’Emilia inquadrata nella Repubblica Cispadana, più il Polesine. Capitale del nuovo stato fu Milano; sua insegna il tricolore, certamente ispirato a quello ben più noto francese, ma a strisce orizzontali (e ideato prima di quello ungherese) e coi colori della Croce di San Giorgio e della divisa della Legione Lombarda (verde), un colore ghibellino e visconteo, peraltro, che si rifaceva alle uniformi della milizia cittadina milanese.
Nel 1801-1802 la Cisalpina diventò la primissima Repubblica Italiana, sempre con capitale Milano; Napoleone presidente, Francesco Melzi d’Eril vicepresidente.
A Milano, nel 1803, venne aperta la Pinacoteca di Brera; nel 1776 era stata inaugurata invece l’Accademia di Belle Arti, su progetto del Piermarini, che poi ottenne la cattedra di architettura.
Nel 1805, Napoleone, proclamato primo imperatore dei francesi, ricevette nel Duomo di Milano la corona di re d’Italia, auto-investendosi, indegnamente, con la nobile Corona Ferrea dei re longobardi. Viceré, Eugenio di Beauharnais.
Nell’ottobre del 1813 il Bonaparte venne sconfitto a Lipsia e nell’aprile 1814 il Regno Italico cadde; il 20 di quel mese venne ucciso dalla folla milanese inferocita il ministro delle Finanze Giuseppe Prina.
Napoleone fu per la Grande Lombardia una figura scellerata: giacobino malato di grandeur francese, senza essere peraltro transalpino, pose fine a potentati cisalpini storici e stimolò l’innaturale unificazione del finto Paese dalle Alpi alla Sicilia, e il fiorire di un orgoglio patrio artificiale (per quanto le sue creazioni politiche subalpine fossero null’altro che entità dominate dalla Francia). D’altra parte, l’idea moderna di Italia è una copia di quella francese.
Della caduta del Bonaparte se ne approfittò l’Austria, che istituì il Regno Lombardo-Veneto il 12 giugno del 1814.
La Restaurazione smantellò nel 1815 le istituzioni del Regno Italico; Milano è capitale del Lombardo-Veneto assieme a Venezia, e diviene residenza del viceré austriaco.
Il Congresso di Vienna avrà anche restaurato i potentati cattolici e reazionari smantellando le istituzioni giacobine napoleoniche (e questo fu un bene), però riportò ordine, autorità , disciplina, eliminando provvisoriamente i nefasti influssi della Rivoluzione francese. Certo, in un’ennesima forma di cattività straniera ai danni della nazione lombarda.
Lungi da me esaltare l’Impero austro-ungarico, un’accozzaglia antinazionale di popoli disparati, percorsa da venature ebraiche. Tuttavia, va riconosciuto che quello austriaco, per quanto liberticida lo si dipinga, fu un buongoverno, anche se occupante, e seppe sfruttare le innate capacità dei lombardi garantendo un certo benessere e sviluppo, nonché qualità mitteleuropea.
Nel 1817 Stendhal notò come la Pianura Padana fosse la più fertile d’Europa, fonte plurisecolare di ricchezza, abilmente irrigata e navigabile per mezzo di canali.
Nel 1818 venne introdotta l’istruzione elementare obbligatoria.
Si costruirono strade, infrastrutture, edifici di pregevole fattura architettonica, ma non mancarono cospirazioni anti-austriache di nobili e alto-borghesi, nel triennio 1821-1824.
Cesare Cantù, fondatore dell’Archivio storico lombardo, si trasferì da Como a Milano nel 1838, ove lavorò alla stesura dei 35 volumi della sua Storia universale, fino al 1846.
Nello stesso 1838, imponenti bonifiche in Lomellina e nelle valli ostigliesi.
Dal 1839 al 1846 uscirono importanti pubblicazioni come lo scientifico-culturale Politecnico di Carlo Cattaneo e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, ma soprattutto la Lombardia si dotò di ferrovie, omnibus a cavalli, illuminazione a gas e di un’efficace rete viaria regionale (Milano-Monza e Milano-Treviglio aprirono la fase delle grandi linee ferroviarie).
Con l’Austria la Lombardia prosperò e mise sapientemente a frutto i propri talenti, la propria creatività , il proprio spirito imprenditoriale, e la propria laboriosità .
Chiaro, mancava però la libertà vera, quella etnonazionale, mancava una Cisalpina unita ed indipendente, che il citato Cattaneo auspicava federata alla penisola.
Arrivò, purtroppo, l’unità d’Italia, frutto, come sappiamo, della volontà di pochissimi ai danni di milioni di persone, in primis padano-alpine. Massoneria, rigurgiti giacobini, ingerenze giudaiche e straniere, cricche di intriganti d’ogni sorta concorsero alla creazione del Regno d’Italia sabaudo; la liquidazione del potere temporale pontificio, che fu solo apparentemente una vittoria, rappresentò il crollo di quella diga che, per secoli, nonostante tutto, aveva impedito la nefasta unificazione. Certo, contribuendo a tirarci in casa il forestiero.
Decine di migliaia di granlombardi furono costretti a versare il proprio sangue per l’Italia, dai primi moti alla “grande guerra”, passando per le guerre di indipendenza (cosiddette), e a loro dobbiamo rispetto. Non così per l’idea fasulla di patria che li mandò al macello, a combattere contro le potenze centrali, in nome di una nazione artificiale straniera messa malamente in piedi per ragioni geopolitiche dai potentati borghesi occidentali.
