Una riflessione sulle pandemie

Poco più di quattro anni fa, sul proscenio mondiale, balzò agli onori delle cronache il contagio da coronavirus (dunque la Covid-19), che in breve monopolizzò le nostre esistenze proiettandoci in una quotidianità fatta di restrizioni, quarantene, confinamenti, mascherine, vaccini. Il morbo è sicuramente esistito, inutile negarlo, ma di certo la propaganda di regime lo ha cavalcato per imporre misure draconiane, che fecero il paio con le leggi liberticide contro idee, opinioni, ideologie politiche. Un po’ come all’indomani dell’11 settembre 2001, quando con la scusa del terrorismo ogni occasione fu buona per limitare la libertà delle persone, a tutto vantaggio delle angherie governative.

Devo dire che all’epoca dei fatti, nel 2020-2022 fondamentalmente, non mi esposi troppo sulla questione (non molto avvincente, oltretutto), per una semplice ragione: non sono un medico, un addetto ai lavori, perciò il rischio di parlare a sproposito era sempre dietro l’angolo. Allo stesso modo, non sono un sostenitore delle teorie complottiste, per quanto sia evidente che la politica mondiale ci abbia marciato, sul coronavirus, terrorizzando la gente per indurla alla mite obbedienza. Attenzione: è chiaro che il virus abbia mietuto vittime, anche e soprattutto in Padania (Orobia, nello specifico), ed inizialmente è stato senza dubbio sottovalutato; ha però rappresentato una vera minaccia solo nei confronti di anziani e soggetti debilitati (ve li ricordate i bambini immuni?), e forse sarebbe bastato tutelare le fasce a rischio invece di estendere obblighi indiscriminatamente.

La pandemia ha colto tutti impreparati, colpevolmente, si pensava che nel XXI secolo non vi fosse più il pericolo di un dilagare di un morbo su scala continentale e planetaria, nonostante nel recente passato vi fossero state delle avvisaglie: l’aviaria, la suina, la Sars, l’allarme ebola dell’estate 2014, epidemie peraltro principiate (e poi esportate sulle ali di viaggi, migrazioni, globalismo) in Paesi del terzo mondo, o dell’Asia. Circa il Covid-19 se ne sono dette di tutti i colori, ma pare che l’antefatto abbia avuto luogo in Cina; come da tradizione, l’Europa è stata colpita da una “peste” di importazione, a tutta evidenza nata nell’immenso carnaio mongolide.

Le costumanze barbare asiatiche, in materia di allevamento e cibo, può essere la cagione dei vari coronavirus, anche se in molti hanno pensato di scorgervi un esperimento di laboratorio finito male, e sfuggito al controllo dei medici. Il resto l’ha fatto la globalizzazione, quella che farcisce l’Europa di allogeni, seduce i bianchi con il turismo verso mete esotiche, ci regala parassiti alloctoni che colpiscono flora e fauna locali, ci allieta con le pandemie e, naturalmente, riduce il nostro continente a colonia anodina delle superpotenze globali, specie gli Usa. Ricordo ancora come, nel febbraio-marzo 2020, gli antirazzisti si affannassero a coccolare i cinesi, sperticandosi in lodi nei riguardi dell’internazionalizzazione. La stessa che avrebbe poi condotto la sanità lombarda quasi al collasso, spazzando via intere generazioni e dando vita a situazioni tragicamente grottesche.

Le campagne vaccinali hanno avuto un senso? Torno a dire che, forse, sarebbe bastato vaccinare i più fragili e anziani, vedi influenza stagionale. Come ho già detto non sono un medico, ma a tutta evidenza il coronavirus non è la peste bubbonica, anche se non voglio entrare nel merito di questioni scientifiche e tecniche che solo chi sa di medicina può trattare senza inanellare sfondoni. E riaffermo che non condivido le tesi del complotto, soprattutto quelle più spinte e assurde. Gli stati sul libro paga del mondialismo ci fregano alla luce del sole, non hanno bisogno di agire nell’ombra, ed è comunque chiaro che le case farmaceutiche straniere lucrino su medicinali e vaccini. Non per niente io sono sinceramente convinto del fatto che una Lombardia indipendente debba sganciarsi anche dal carrozzone globale targato Onu – e dunque dalle multinazionali apolidi – perché solo così può sconfiggere davvero la globalizzazione, con ipotetiche future pandemie annesse.

Lombardia futura

Dal satellite

Quale futuro per la nostra amata nazione?

Oggi la Lombardia tramutata in regione artificiale dello stato italiano, e priva dei suoi restanti territori etnici e storici, versa in condizioni critiche per colpa del sistema-Italia e del sistema-mondo che l’hanno ridotta ad una babele, barbaricamente sovrappopolata, inquinata e cementificata.

Avanti di questo passo non ci può che essere l’ecatombe di quel che rimane del nostro povero popolo, soprattutto nelle zone peggiori che ruotano attorno alle grandi città come Milano, Brescia, Monza e Bergamo.

Del tutto inutili partiti e movimenti d’opinione di matrice vetero-leghista o autonomista, perché la loro attenzione cade esclusivamente su questioni economiche e sociali che alla lunga risultano banali, piccole piccole, irritanti, come se il problema globalista si riducesse a faccende pecuniarie e di benessere materiale; non serve a nulla quel soggetto politico che se ne frega del sangue e del suolo, dello spirito della nostra patria, appiattendo tutto sul piano del capitale. E poi, ovviamente, l’autonomismo è soltanto una farsa propagandistica e finanziaria: la vera Lombardia ha bisogno di indipendentismo.

Diversamente, l’accento va posto proprio sul problema etnico, ambientale e culturale della Lombardia, che ogni giorno che passa viene lentamente divorata dagli agenti internazionalisti del cosmopolitismo genocida, dell’egualitarismo, del terzomondismo, del pietismo, del capitalismo sfrenato, del progressismo, del liberalismo dei neo-con e degli schiavi dell’eresia giudaica vaticana.

Calci nel sedere a chi ci consegna nelle grinfie del mondialismo, svendendoci per denari imbrattati dal sangue del nostro innocente popolo, macellato dai burattinai dello status quo; tenetevi il vostro progresso, la vostra ricchezza, la vostra democrazia, la vostra tecnologia se questi comportano la distruzione della terra cisalpina e l’inesorabile genocidio dei granlombardi, sacrificati dai sacerdoti abramitici sull’altare del moloc finanziocratico, in nome dei peggiori disvalori modernisti tutti basati sul culto del soldo, sul consumismo, sull’edonismo, sul rovesciamento dell’ordine e della moralità di stampo indoeuropeo (di quella cristiana ce ne freghiamo altamente).

Non ci può essere alcun roseo futuro per la Lombardia, avanti di questo passo.

Si prefigurano scenari desolati e desolanti in cui a farla da padrone saranno gli allogeni, gli squali, i rossi contemporanei, i banchieri, e tutte le marionette del politicamente corretto e dell’ideologia woke sul libro paga della sovversione universalista, dunque gente come i preti postconciliari.

La nostra nazione, anche solo nella sua versione monca, sarà letteralmente sbranata dall’industrializzazione selvaggia, zavorrata dall’immigrazione incontrollata e dal dilagante meticciamento, avvelenata dall’inquinamento di ogni tipo e dalla cementificazione, oppressa dallo squilibrio demografico rappresentato da milioni di immigrati che schiacciano quella che oggi è ancora maggioranza, ma un domani? Che poi, in certe zone insubriche, maggioranza non è più.

La Lombardia, come il resto dell’Europa avanzata, finirà stritolata dal “progresso”, e non solo nelle città e nei loro hinterland, ma anche nelle loro province, financo nei territori collinari, montani, selvaggi, oggi incontaminati quasi del tutto. Ma ancora per quanto?

Se continueremo a lasciarci prendere pel naso dall’Italietta repubblicana, dallo stellato panno della Ue, degli Usa, di Israele, dalla Chiesa e dal cristianesimo e da ogni nefasta ideologia relativista, il nostro destino apparirà inevitabilmente segnato, e per la Lombardia sarà la fine: ogni traccia di identità e tradizione sparirà col suo popolo e lo stesso suolo patrio cambierà nome e connotati per sempre, ridotto a succursale delle agenzie apolidi che spacciano globalizzazione per benessere eco- ed etno-sostenibile.

Nel medesimo modo anche Lega Italia, leghe patacca e finti indipendentisti servi della Ue e dei suoi principali scagnozzi contribuiscono al genocidio (o auto-genocidio?) lombardo, perché ormai totalmente disinteressati alla questione etnica, e tutti indirizzati alle ben più comode e quiete mene economiche; la Lombardia deve assolutamente liberarsi da Roma ma cambiare bandiera senza cambiare, parimenti, la condizione delle genti, equivarrebbe comunque a rimanere tra gli artigli dei nemici atlantisti e mondialisti. Diffidate di chi vi spaccia autonomie e secessioni, prive di autoaffermazione identitaria, per libertà, poiché la stirpe viene prima dei quattrini.

Non mi stancherò mai di dirlo: più urgente dell’azione politica è quella culturale, dottrinaria, filosofica, metapolitica, in chiave lombardista, perché solo così abbiamo l’opportunità di rigenerare, in direzione völkisch, la res publica. Una politica lombarda che la faccia finita col cialtronesco fenomeno leghista e, soprattutto, con quella stucchevole concezione fascio-nazionalista, in senso tricolore, spesso e volentieri veicolata dagli allogeni italiani. La Lombardia non è Italia, Roma è una capitale straniera, ed è tempo di battersi, senza più equivoci, per l’affrancamento identitario, tradizionale e comunitario delle plaghe alpino-padane.

Solo con una salutare rieducazione dei lombardi alla presa di coscienza etnicista, specie dei più giovani, si può pensare seriamente di salvare il salvabile sconfiggendo i diuturni nemici delle vere nazioni, perché anche se tutto pare contro di noi nulla è perduto finché vi saranno lombardi e lombarde pronti a combattere per la vittoria e la salvazione di sé stessi e della comunità nazionale cisalpina.

Ci sono centinaia di associazioni che si occupano di (innocua) cultura, ambiente, flora e fauna, beni artistici, cibo, volontariato ecc., ma ce ne fosse una che si batte per la cosa più importante di tutte: la consapevolezza di avere nelle proprie vene sangue lombardo, con tutte le ovvie implicazioni in termini di spirito d’appartenenza.

Eh no, sarebbe “razzismo”, perché chi comanda ci vuole divisi, rimescolati, smemorati, privi di identità e tradizione, senza lingua e cultura, e dunque deboli e sradicati: solo l’identitarismo etnico, dunque l’etnonazionalismo, avversa il mondialismo e i suoi diabolici scherani.

Insubrici, orobici, emiliani, piemontesi, uniti a romagnoli, liguri, tirolesi, veneti, friulani, giuliani (in una parola cisalpini) fanno tutti parte della medesima inclita nazione, che è la Grande Lombardia; appartenervi non è mica una vergogna sapete? O preferite davvero svendere una delle regioni storiche che è parte del cuore della civiltà europea per lasciarvi lavare il cervello dalla retorica e dalla propaganda italianiste, incentrate su caratteristiche che appartengono solo ed esclusivamente agli italiani etnici, al centrosud?

Non siamo italiani, svizzeri, austro-ungarici, francesi periferici, tedeschi di serie B, bensì lombardi e abbiamo il diritto, ma soprattutto il dovere, di combattere a spada tratta contro ogni nemico che ci impedisce di realizzarci e di liberare la Lombardia dal giogo forestiero, pseudo-nazionale o internazionale che sia, il quale alla lunga ci conduce alla tomba per sfinimento.

Viva l’Italia? Ci può stare, ma senza di noi, per il semplice fatto che non siamo italiani (se non, purtroppo, politicamente, ad oggi); l’attuale stato italiano rappresenta soltanto la Saturnia tellus, e dunque il centrosud genuinamente italico, e nella Cisalpina ha posto in essere una sorta di occupazione e colonizzazione, a scapito dell’elemento indigeno. A Roma sanno benissimo che la Padania non sia sorella della penisola, ma a certe latitudini fa indubbiamente comodo poter mungere l’antica Gallia a sud delle Alpi…

Vogliamo essere lombardi in tutto o per tutto o continuare a fungere da muli che pensano solo a sgobbare e a fare soldi, in nome del catastrofico mito del fatturato?

Se la Lombardia si vuole salvare ha unicamente una via, da dover percorrere, ed è quella dell’etnonazionalismo, logicamente indipendentista, che mediante comunitarismo e pensiero völkisch, nonché razionalismo mai sganciato dal Blut und Boden, si batta per l’autodeterminazione etnica del popolo lombardo, magari all’interno di una sacrosanta cornice confederale euro-siberiana, la nostra grande famiglia imperiale. Una nazione è un insieme di popoli relativamente omogenei e compatibili, e non si può negare che dopo 4.000 anni di storia esista una nazionalità padano-alpina plasmata dal Mediterraneo settentrionale, dalle Alpi, dagli indoeuropei Celti e Veneti, dalla romanità assorbita dai Galli di Cesare, e infine dai Longobardi del Regno. Da cui la Lombardia medievale, storica.

Quella suindicata è una via irta di ostacoli, certo, ma quale cammino che valga la pena di battere non lo è?

Ciò che è facile il più delle volte è anche fallace; ciò che invece è difficile è meritevole di essere affrontato e di essere domato, grazie ad una incrollabile fame e sete di verità, libertà, sicurtà. I separatismi alla leghista, farseschi e meramente dettati da questioni economiche e di welfare, si macchiano di meretricio progressista o liberista. Ma qui non si tratta di separare alcunché, dal momento che la nazione lombarda non è il nord di un bel nulla.

Lottiamo per una Lombardia lombarda, non italiana o europea in senso artificiale, libera da Roma e da ogni altro ente mondialista. Solo così potremo garantire ai nostri figli e ai posteri un avvenire radioso fatto di identitarismo, tradizionalismo, nazionalismo etnico, sotto l’egida della vera Europa dei popoli, delle reali nazioni indoeuropee, che non è la caricaturale Europa degli stati-apparato ottocenteschi, o dei francobolli libertari cari a leghisti e “handipendentisti”.

Lombardia aria, gentile, unita in tutte le sue parti, e ovviamente europide, fino alla vittoria e alla palingenesi patriottica!

Mare

L’ambiente marittimo interessa anche la Grande Lombardia: Liguria, Romagna, Emilia orientale, lagune venete e friulane (con le coste giuliane). Al di là dell’ambito ligure, l’Alto Adriatico presenta un aspetto distinto da quello tipicamente mediterraneo e si smarca, infatti, dal contesto ambientale peculiare dell’Italia etnica e delle isole; per tale ragione l’impatto col mare dei granlombardi differisce da quello degli italiani, e la Cisalpina rimane una terra subcontinentale. La Grande Lombardia è, prevalentemente, terragna: planiziale, collinare, prealpina, alpina, appenninica. Senza dimenticare i grandi laghi che contraddistinguono il cuore padano, e che hanno contribuito a plasmare l’identità etnoculturale degli indigeni. Salvo per le zone suddette, periferiche, il mare è qualcosa di estraneo, nei confronti del panorama lombardo, e la nostra indole non è caratterizzata da una storia marinara; il fulcro identitario cisalpino si staglia su di un orizzonte continentale, e anche per tale ragione il sottoscritto ritiene l’elemento marino, non solo estraneo, ma pure l’emblema di un mondo straniante latore di valori ben poco völkisch.

Taluno si ricorderà della mia famosa intervista targata 2011, “Non ho mai visto il mare”, in cui delineavo il mio attaccamento e radicamento nella terra orobica e lombarda e, assieme a ciò, la presa di distanze sizziana da tutto quello che si ricollega all’ambito marittimo, a livello mentale, caratteriale, valoriale, soprattutto se il mare in questione è il Mediterraneo (parlando di Europa, logicamente). L’apertura mentale, l’incontro fra popoli e culture, l’ibridazione, l’annullamento di identità e differenze, il dissolversi dell’individuo nel marasma multietnico, la promiscuità da spiaggia, gli scenari esotici, il naufragio degli ideali e delle virtù terragni sono alcuni degli aspetti da me sempre esecrati e che sono intimamente correlati al caos che imperversa da millenni a certe latitudini. Il lombardesimo non è animato da spirito talassocratico, e non a caso non ha alcuna simpatia nei confronti della Repubblica di Venezia, o di quella di Genova, realtà storiche periferiche, rispetto al nucleo etnico della Grande Lombardia. Il mare è un elemento naturale che riguarda anche la Padania ma che, certamente, non ne permea le radici identitarie più genuine e profonde.

Il fenomeno della “pillola rossa”

In questi anni non mi sono mai soffermato sulle teorie della cosiddetta redpill, o sulla fenomenologia incel, che negli ultimi tempi hanno preso piede anche nel contesto italofono. Parliamo di un argomento che, ormai, conoscono tutti, su internet, dunque credo sia superfluo spiegarlo nel dettaglio; si tratta, tuttavia, della solita cianfrusaglia d’oltreoceano, di cui potevamo tranquillamente fare a meno, soprattutto considerando l’alluvione di paranoiche terminologie anglosassoni. Certo, c’è da dire che molti di coloro che si considerano “redpillati” hanno preferenze identitarie, tradizionaliste, anti-antifasciste, sebbene mi paia di capire che il focus dei loro interessi riguardi le donne e le dinamiche relazionali. Non escludo che tra di essi vi possano essere simpatizzanti lombardisti e indipendentisti, comunque sia.

La “pillola rossa” propone una lettura cinica, disincantata e pessimista – a tratti complottista – della realtà, portata avanti segnatamente da quanti si definiscono, o vengono definiti, celibi involontari, incel (anche questa una categoria nata nell’ambito nordamericano); essa contrasta la visione da “pillola blu” (termini mutuati dal film Matrix, con una vaga ispirazione platonica), che è quella delle apparenze, del perbenismo, della finzione, del romanticismo da riviste patinate, dei media asserviti, e che riguarda tutta la società, non solo la questione del rapporto uomo-donna. Eppure, nei vari ambienti redpillati, tale faccenda assume un’importanza centrale, sproporzionata, forse viziata dal risentimento e dalla frustrazione di chi si sente escluso dal mercato sessuale e sentimentale.

La redpill condanna risolutamente il femminismo, e su questo non possiamo che essere d’accordo. Il femminismo è un cancro progressista, un veleno da estirpare, ed è una delle cagioni della disgregazione di famiglia, comunità, nazione, e della morte della tradizione e del patriarcato. Sembra, tuttavia, che gli incel diffondano tesi misogine, e anche questo rischia di disgregare ulteriormente la comunità, scatenando inutili guerre tra sessi (che sono solo due, ricordiamolo). Capiamoci: la portata dell’odio verso il genere femminile dei celibi involontari, o dei “brutti”, non è paragonabile all’astio femminista nei confronti degli uomini, infatti gli incel non fanno alcun danno concreto. Almeno in Europa.

Oltreoceano si sono macchiati di stragi, ma l’America, si sa, è la patria della follia e della stupidità, al di là di colori politici, ideologici, sociali. Il vero rischio della pillola rossa è quello di esacerbare gli animi e di diffondere disfattismo, per quanto, sovente, le teorie redpillate sappiano descrivere con realismo la condizione di uomini e donne occidentali contemporanei. Innegabile che la martellante campagna femminista, unita a quella liberal e antifascista, cominciata negli anni ’60 del secolo scorso, abbia fatto danni incalcolabili nelle menti delle donne europee: troppo spesso la figura femminile si fa veicolo di sovversione valoriale centrata su relativismo, edonismo, consumismo e materialismo, con ricadute nefaste sulla stessa natalità, il tutto in nome di capricci e pretese di eterne principesse Disney. Ma, fortunatamente, esistono ancora femmine sane e integre, dotate di coscienza patriottica, perciò non si può generalizzare colpendo indiscriminatamente il gentil sesso bianco, componente fondamentale della società.

È vero, convincere le donne di essere uguali agli uomini, anche a livello sessuale, ha comportato inevitabilmente l’aumento di separazioni, divorzi, aborti e, si capisce, il calo demografico. La sedicente emancipazione sessuale ha indotto le ragazze a credere di poter fare le dongiovanni in gonnella, fino a 40 anni, ritardando così la maternità, con rischi per la salute del figlio (unico). Sempre che lo abbiano. Il femminismo vede la maternità come una zavorra patriarcale, ovviamente se si tratta di europei. Se la questione riguarda il terzo/quarto mondo, nessun problema: non solo gli extra-europidi possono far figli come conigli, ma anche emigrare in massa verso l’Europa, andando così a sostituire i vecchi e sterili nativi. La soluzione a questo sfacelo, ciononostante, non sta nella misoginia, nel risentimento di chi va in bianco da una vita, nel rancore del “caso umano”: sta nel recupero di identità e tradizione, che non passa soltanto per il rinsavimento della femmina, ma pure nella ritrovata virilità del maschio, oggi sempre più in crisi, poiché le donne senza guida non possono far altro che tralignare.

Lombardia attuale

Regione “Lombardia”

Con il disastro bellico, l’Italia perdette Briga e Tenda, Nizzardo e Corsica (occupati), Monginevro, Valle Stretta, Moncenisio, Venezia Giulia storica, Dalmazia e gli altri territori sudorientali occupati.

Nel “nordest” vi fu l’abominevole fenomeno delle foibe, frutto delle perfide politiche genocide di Tito, e il conseguente drammatico esodo istro-dalmata verso l’attuale Repubblica Italiana.

Il finto Paese italiano era tra gli sconfitti, nonostante il vigliacco voltafaccia di monarchia, regio esercito e partigiani, e nonostante, in una maniera veramente maramaldesca e inutile, avesse dichiarato guerra all’ex alleato giapponese, prostrato poi dalle atomiche americane.

L’Italia aveva confidato troppo nella Germania, e d’altro canto non aveva certo le forze per sobbarcarsi un conflitto divenuto mondiale, e lo stesso Giappone era remoto per poter contare su suoi concreti aiuti durante le operazioni belliche; la guerra divenne planetaria e l’Asse si trovò a fronteggiare il mondo intero, stretta com’era tra alleati (e loro colonie) e sovietici. La sconfitta fu inevitabile, e stupisce comunque la resistenza tedesca durata cinque anni, cinque anni in cui dopotutto non aveva potuto contare su camerati valevoli. Si aggiunga che sia Hitler che Mussolini di guerra sapevano poco o nulla, e i loro capricci costarono caro a Germania, Italia ed Europa.

Nel 1946, nel referendum istituzionale del 2 giugno, tra monarchia e repubblica a spuntarla fu quest’ultima, anche grazie alle massicce preferenze lombarde, e granlombarde, in direzione repubblicana; i lombardi, memori dello sfacelo sabaudo durante il periodo di guerra, votarono al 64,1% contro la monarchia.

Purtroppo si trattò di una repubblica plasmata da partigiani, democristiani, rossi, liberali e tutti gli altri tirapiedi del blocco occidentale e (meno) orientale, ossia dei vincitori, e ancor oggi ne avvertiamo le conseguenze, dato che lo stato italiano è sempre più uno strumento dei capricci atlantisti degli Usa, alleato di Israele e pedina del mondialismo anti-identitario, nonché ente vieppiù svuotato di sovranità dalla franco-tedesca Unione Europea (già Comunità Europea). Del resto, parliamo di una finta nazione.

Il dopoguerra fu anche il periodo del boom economico, che interessò soprattutto la Padania, portando a quegli esodi “interni” sud-italiani che hanno stravolto il tessuto etno-sociale originario delle terre cisalpine occidentali. In parte, questo sviluppo fu certamente cagione degli aiuti americani, ma ben poco importa: quelli prima distruggono e poi si lavano la coscienza col Piano Marshall, avente il solo scopo di legare a sé ancor di più i destini degli europei dell’ovest. Il progresso moderno lombardo era comunque in atto ormai da secoli, frutto della nostra storia.

Negli anni ’50 e ’60 del Novecento, Milano si arricchì di edifici, infrastrutture, aziende, complessi industriali, servizi.

Venne inaugurata anche la stagione del terrorismo nero e rosso (etichette di comodo per coprire misfatti governativi internazionali) con l’attentato di piazza Fontana del dicembre ’69. Da ricordare, parimenti, quello di piazza della Loggia a Brescia, nel maggio del ’74. Atti terroristici che fecero decine di vittime e centinaia di feriti.

Nel 1970 nacque la Regione Lombardia, parziale raggruppamento di genti lombarde manchevole, anzitutto, di VCO, Novarese, Ticino, Grigioni lombardo e, volendo, Tortona, Piacenza e il Trentino occidentale, ossia i restanti territori etno-linguisticamente lombardi, in senso stretto. Sua insegna una ridicolizzazione commerciale delle incisioni rupestri camune, la famosa “rosa”, che in realtà sarebbe meglio rappresentata dallo swastika rinvenuto, fra gli altri, nei siti di Sellero e Paspardo. Ma si sa, il politicamente corretto impazza, e come simboli tradizionali della Lombardia centrale ci sarebbero pure il Ducale visconteo e la Croce di San Giorgio.

Vennero anche inaugurati parchi naturali come quello del Ticino, primo parco fluviale europeo, nel 1974. Altre aree protette di questo tipo sono quelle di Colli di Bergamo, Alto Garda bresciano, Alpi Orobiche bergamasche, Alpi Orobiche valtellinesi, Groane, Mincio, Serio, Adda, Adamello, Oglio, Pineta di Appiano Gentile e Tradate, Valle del Lambro.

Un ulteriore, molto meno nobile, primato è quello che inaugurò la stagione dei disastri ecologici europei: la fuoriuscita di diossina dalla Icmesa di Seveso, nel 1976.

Nel 1987 vi fu l’alluvione della Valtellina, classico caso “italiano” di dissesto idrogeologico, una piaga che affligge anche la Cisalpina.

Nel 1992 nacquero le province di Lecco e Lodi, che “rubarono” territori a Como, Bergamo e Milano, e andarono ad unirsi agli enti di Milano, Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, Pavia, Sondrio, Varese (già staccatosi da Como in precedenza); nel 2004 è stata istituita invece la provincia di Monza e Brianza, a svantaggio di quella milanese. Un processo alquanto ridicolo, quello dello scorporo di province storiche, in quanto invece di dare adito al campanilismo, la Lombardia dovrebbe tornare ad essere Grande, includendo tutte le sue plurisecolari terre, cominciando dal novero etnico padano.

Gli anni ’90 proseguirono l’impetuoso sviluppo della regione: l’aeroporto di Malpensa (nato nel ’48) divenne internazionale (vedi anche il progetto Malpensa 2000), quello di Orio al Serio (rinato nel ’70 come aeroporto civile) si irrobustì e vennero discussi progetti di grandi opere infrastrutturali come la BreBeMi e la Pedemontana (il cui impatto ambientale è ovviamente drammatico), poi in parte attuati. Il traffico autostradale lombardo è quello più intenso d’Europa.

L’altra nota dolente è la spaventosa sovrappopolazione di questo ente regionale (densità di 418,85 ab./km²!), già minato da cemento, inquinamento, traffico, aria irrespirabile, conseguenza dell’esodo meridionale e della più recente immigrazione allogena. L’area transabduana, ma anche la città di Brescia, sono un inferno.

Risultato? Oggi, su 10 milioni e rotti di abitanti della Lombardia regionale, alcuni non sono nativi, o comunque ibridati.

La regione del Pirellone è uno dei quattro motori europei (assieme a Baden-Württemberg, Catalogna e Rodano-Alpi), nonché estremità meridionale della cosiddetta “Banana blu”, dorsale economica e demografica che dalla Val Padana, attraversando il territorio dell’antica Lotaringia, culmina nell’Inghilterra meridionale.

Siamo indubbiamente un’area ricca, prospera, industriosa, fertile, avanzata e dalla grande tradizione imprenditoriale, i cui sforzi, economicamente parlando, vengono premiati; anche in materia di sanità, benessere, servizi, agricoltura, artigianato si è sicuramente ben messi. La Lombardia attuale è la regione trainante dello stato italiano, assieme al “nordest”, ma sarebbe anche ora di far camminare l’Italia etnica con le proprie gambe. Anche per questo l’indipendenza della Lombardia storica deve essere una priorità, per i lombardi.

Credo si dovrebbe pensare, peraltro, ad un rientro dei sud-italiani stabilitisi nella Padania, perché hanno svuotato le proprie aree d’origine per sovraffollare quelle cisalpine, specie del noto triangolo industriale.

Inutile dire che, al contempo, l’immigrazione allogena vada fermata con tanto di rimpatrio perché essa giova solo a chi la sfrutta, non certo agli indigeni, e nemmeno agli allogeni oserei dire, in quanto sradicati e catapultati in realtà straniere. Con le conseguenze che tutti conosciamo.

Nel 2005 è nato il nuovo polo fieristico Rho-Pero, parte del sistema della Fiera di Milano. Nel 2015 si è invece tenuta l’Esposizione Universale a Milano, tra maggio e ottobre, una grande vetrina intercontinentale per la capitale e la Lombardia ma anche, ahimè, una grande fonte di lucro per personaggi non molto cristallini.

Nel 2017 si è svolto un referendum per l’autonomia della regione, in cui il SÃŒ ha trionfato con una percentuale del 95,29%. Ovviamente, il voto popolare è rimasto senza esito, e del resto l’autonomismo applicato ad un ente inventato da Roma è paradossale, un inutile pannicello caldo.

Tre anni dopo, la Lombardia regionale fu al centro dell’emergenza coronavirus, morbo d’importazione asiatica che infuriò particolarmente nelle zone orientali e meridionali, cagionando una strage di anziani. La gestione demenziale della politica, di fronte alla crisi, per quanto inedita ed inaspettata, andò ad accrescere l’infausta portata di un fenomeno virale alimentato dalla stessa globalizzazione.

Nel 2026 sono previsti i Giochi olimpici invernali Milano Cortina, occasione interessante per mostrare al mondo il vero volto della Lombardia, offuscato dalle magagne italiane che agli occhi dei forestieri accomunano tutto il territorio della Repubblica Italiana.

Purtroppo, la Milano di oggi identitaria non è, e come tutte le altre metropoli europee presenta gravissime lacune in materia di preservazione etnoculturale. Si aggiunga che, a differenza di altre, presenta pure le suddette tare italiane, spalmate in lungo e in largo dalla sciagurata azione della politica romana, che passano anche per quella fastidiosa mancanza di coscienza etnica, culturale, tradizionale, linguistica, territoriale e ambientale tipica invece delle realtà germaniche, ad esempio alpine.

Le uniche manifestazioni di “orgoglio” lombardo, al di là delle innocue iniziative folcloristiche di provincia, sembrano essere quelle clericali, in una regione in cui l’unico dato identitario ufficiale è quello cattolico, che identitario di certo non è, soprattutto in epoca postconciliare.

Ma se ci pensate la Lombardia è stata proprio stritolata dal centralismo romano post-risorgimentale, con tutti i suoi bravi stereotipi sull’Italia mediterranea e meridionale, e naturalmente rintronata da bibbie, rosari, madonnine e santi inventati di ogni forma e colore. Le bianchissime province lombarde sono (o erano) l’anticamera del Vaticano, a sua volta un organo del mondialismo.

Al leghismo, fiorito negli anni ’80, va il merito di aver sollevato la questione “settentrionale”, poi banalizzata nel tempo con tutta una serie di pagliacciate propagandistiche culminate nella trovata elettorale della Padania bossiana, presto rinnegata per poter banchettare a Roma, complice il berlusconismo. Il fatto è che anche i lombardi, notoriamente grandi lavoratori, ma poco propensi alle attività umanistiche lasciate totalmente in mano agli italiani, hanno le proprie responsabilità, avendo ceduto le redini del processo risorgimentale. Un processo nefasto, sfuggito alla classe dirigente cisalpina, e a breve tramutatosi nella tomba della Padania stessa. Ricordiamoci che se la criminalità e il malcostume sud-italiani hanno da noi attecchito è perché hanno trovato terreno fertile, per quanto restino prodotti d’importazione dell’esodo da sud. Per non parlare di Tangentopoli, con svariati protagonisti locali.

Cavalcando “Mani pulite” e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, con susseguente nascita della Seconda, la Lega Nord è riuscita a sfondare politicamente senza però ottenere nulla di concreto perché appiattitasi sulla linea dell’altro fenomeno nato in Lombardia, ossia il forzismo azzurro di Silvio Berlusconi, il controverso personaggio per vent’anni sulla cresta dell’onda, certo lombardo ma velenosamente intriso di italianità.

Umberto Bossi, lombardissimo come il Cavaliere e, nella sua fase calante, parimenti controverso (vedi alla voce “cerchio magico” ausonico), oltre che da sempre ben poco lucido, si è inventato la farsa del secessionismo, come detto rinnegata per far posto alle ricche prebende dell’occupante romano. Bossi, prima di Salvini, ha tradito la causa, preparando il terreno alla contemporanea Lega italianista.

La Lombardia etnica e storica – non la creazione italiana del 1970 – non ha alcun bisogno di farse propagandistiche: essa necessita di un robusto etnonazionalismo, che possa sbocciare nella piena autoaffermazione della nazione cisalpina. Dobbiamo poter respirare a pieni polmoni in senso identitario, e ciò è possibile soltanto divenendo indipendenti dall’Italia. Esatto, indipendenza, non secessione, poiché il concetto di secessione presuppone una separazione da un ente nazionale davvero unitario.

Il lombardesimo, alla luce di ciò, è nazionalismo etnico alpino-padano votato alla piena libertà della Grande Lombardia: non siamo il nord di nulla, poiché popolo unico, originale ed espressione di una realtà identitaria europea senza eguali, con una storia gloriosa ed esemplare. Lasciamo perdere la zavorra leghista, o identitari cisalpini, ed impegniamoci tutti quanti per una nazione lombarda libera, e cioè comunitaria, e sempre più europea. Attenzione, ho detto europea; nessuna allusione, dunque, all’Unione “Europea”, negazione mortale della nostra civiltà, esattamente come il patriottismo italiano esteso sino alle Alpi.

Terra

Abbiamo già parlato della Terra, intesa come pianeta, e della terra, intesa come suolo patrio. Vale però la pena riprendere quest’ultimo aspetto, perché intimamente correlato all’esistenza degli esseri viventi e, nello specifico, dell’uomo. Questi, grazie al legame identitario col suolo, corroborato dal sangue, da individuo anonimo che asseconda i propri istinti egoistici diventa membro attivo della comunità nazionale, perciò parte integrante di una collettività che non annulla il singolo ma, anzi, lo esalta in quanto necessario alle sorti della patria. Chiaro, il popolo viene prima dell’individuo, ma non si tratta di massificare, omologare, annientare le persone come entità, bensì di inserirle armoniosamente in un consesso identitario che si faccia motore patriottico e tradizionalista. La terra, dunque, è elemento basilare, in quest’ottica, e per tale ragione degno di tutela, preservazione, valorizzazione, soprattutto in un mondo occidentale sul viale del tramonto che oltre ad aver perso l’anima sta inesorabilmente perdendo la forza e la salute. La distruzione della natura, unita all’inquinamento pestilenziale di molte contrade europee, ruba il futuro alle giovani generazioni e avvelena chi le ha precedute uccidendo la memoria.

Il rapporto con il territorio, sia in accezione etnoculturale che ambientale, va salvato dalla mostruosa devastazione operata dagli agenti internazionali, funzionale all’affermazione della dittatura globalista con conseguente morte delle comunità nazionali, dei veri Paesi d’Europa. Difendere l’ambiente va di pari passo con la conservazione etno-razziale, culturale, linguistica, antropologica, genetica, ed è soprattutto il continente bianco a soffrire maggiormente per via della barbarie mondialista: il concetto politico-ideologico di mondo ammazza quello naturale e biologico di pianeta Terra, e di elemento terra, estirpando le radici, calpestandole e dandole in pasto al più bieco relativismo. Pare che solo i popoli del terzo/quarto mondo abbiano diritto alla lotta identitaria, quando in realtà è per l’appunto la nostra povera Europa a subire le più gravi conseguenze dell’agenda cosmopolita e globalista, la quale prevede anche la dissoluzione della collettività razziale, etnica e nazionale e ogni forma possibile di inquinamento ai danni dell’ambiente in cui viviamo e che ci circonda. La terra è la nostra dimensione vitale, al netto delle inutili masturbazioni metafisiche, e senza di essa, possibilmente integra o quasi, il domani delle nazioni europidi si tinge di nero. In tutti i sensi.

Ambientalismo? Econazionalismo!

Noi lombardisti abbiamo particolarmente a cuore le sorti ambientali della terra granlombarda, poiché comprendiamo appieno quanto sia importante coniugare l’istanza etnicista con quella ecologista. Tuttavia, non ci uniamo al coro dei pecoroni “verdi”, degli ambientalisti da salotto e dei guitti stile Greta Thunberg, perché questa gente ha completamente in non cale il carattere etno-razziale dei popoli europei, e propone una difesa della natura su basi progressiste e antifasciste. Senza mordente etnonazionalista, l’ambientalismo si riduce ad una inutile pagliacciata, come dimostrano ampiamente i personaggi pubblici che fanno gli ecologisti, a parole, soltanto per alimentare una sciocca moda occidentale che è figlia del pensiero liberal.

Proprio per questo motivo il lombardista crede fermamente nell’unione di sangue e suolo e, dunque, nella necessità di far procedere l’ambientalismo sugli stessi binari dell’identitarismo etnico. In tal modo propugniamo l’econazionalismo, che è il patriottismo conciliato con l’ecologismo, dacché non è pensabile difendere il suolo senza difendere il sangue. A che giova battersi per la tutela dell’habitat se ci si dimentica del popolo indigeno che lo abita? O forse vale solo per gli indios? I cosiddetti verdi condannano cementificazione, industrializzazione selvaggia, deforestazione, inquinamento, avvelenamento dell’aria senza capire che ignorare la portata del problema migratorio e della sovrappopolazione è semplicemente demenziale, oltre che miope e pericoloso. I selvaggi ritmi riproduttivi degli altri continenti, e la conseguente invasione dell’Europa, stanno alla base degli sfracelli che esperiamo quotidianamente.

Diventa sterile occuparsi soltanto di flora e fauna, e paesaggio, ignorando clamorosamente i destini della nazione. Se riteniamo dannosa l’introduzione di specie alloctone, che va a scapito di quelle autoctone, perché sorvolare sulla portata esiziale dei flussi migratori, essendo peraltro di massa? L’Europa è stata investita da un’alluvione di popoli del terzo mondo, che va a peggiorare un quadro già reso problematico dalle nefaste ricadute del culto del progresso e dal pazzesco calo demografico europide. Gli sciagurati credono che accogliere allogeni sia una soluzione alle nostre grane, quando in realtà è soltanto un modo imbecille di aumentarle a dismisura.

Sembra che solo le genti del sud del mondo abbiano il diritto all’autodeterminazione, alla difesa etnica, alla preservazione delle proprie caratteristiche biologiche e culturali. Gli europei paiono condannati inesorabilmente all’estinzione, e guai a ribellarsi: razzismo, nazismo, fascismo, suprematismo sono le tipiche accuse rivolte al continente, qualora avesse sussulti d’orgoglio tesi a preservare l’autoctono patrimonio antropologico. E nemmeno si parla di colonialismo, badate bene, ma di salvaguardia delle nostre terre. Però si sa, l’Europa è destinata al tramonto e al tracollo: da culla della civiltà, viene oggi ridotta a centrale del male discriminatorio. Figuratevi, poi, se il discorso etno-razziale si allarga a quello relativo a sesso, orientamento sessuale, capacità psicofisiche…

Il maschio bianco eterosessuale, “cis” e abile, peggio ancora se cristiano o gentile, è stato la colonna portante della civilizzazione occidentale. Nell’età contemporanea, invece, è assurto a nemico pubblico numero uno dei “diversi”, e di tutto quel ciarpame che viene definito “woke”. Allo stesso modo, l’ambientalismo viene privato della salutare fierezza identitaria, che consente di tutelare l’ambiente assieme al popolo indigeno, castrando l’orgoglio patriottico. Un baluardo, questo, contro ogni tipo di barbarie globalista, non a caso demonizzato e criminalizzato da tutti coloro che si genuflettono di fronte al sistema-mondo. L’econazionalismo è la soluzione alle questioni ambientaliste, in quanto schierato dalla parte di sangue e suolo e avversario mortale delle flatulenze socialdemocratiche e liberali, che appestano l’aere, invece di bonificare e sanare.

Lombardia regia

RSI

Successore dell’ammazzato Umberto I, fu il re schiaccianoci, Sciaboletta, ossia il deforme Vittorio Emanuele III, uno dei personaggi più squallidi che lo stato italiano abbia mai concepito.

Il progresso lombardo crebbe, nonostante agli inizi del XX secolo si registrassero ondate di agitazioni contadine nella pianura (1902), e altri massicci scioperi si avessero nel 1904 e nel 1906.

In quello stesso anno nacque a Milano il sindacato Cgil, assieme ad altre industrie: la Dalmine, l’Alfa (poi Alfa Romeo) e la Pirelli.

Nel 1908 venne aperta la galleria ferroviaria del Sempione, mentre a Sesto San Giovanni furono completati i primi grandi impianti della Falck e della Breda; nel 1912, invece, a Varese, la Macchi cominciò a produrre aeroplani.

L’Italia in quegli anni faceva parte della Triplice Alleanza assieme ad Austria-Ungheria e Germania; nel 1914, in seguito all’attentato di Sarajevo, la prima dichiarò guerra alla Serbia spalleggiata dalla seconda, all’oscuro dell’Italia: una violazione dell’alleanza.

La dichiarazione di guerra austriaca scatenò la Prima guerra mondiale e l’Italia, nel 1914-’15, scelse la neutralità.

Gli interventisti però cominciarono a farsi sentire, spronando ad approfittarne per attaccare l’Austria e riprendersi i territori “irredenti” ancora sotto il suo controllo. Si giunse così al Patto di Londra, del 26 aprile 1915, siglato fra Italia e Triplice Intesa (Regno Unito, Francia, Russia) e all’entrata in guerra di questo finto Paese il 23 maggio seguente.

Il fronte italiano (1915-1918) costerà oltre 600.000 morti (nonché bombardamenti aerei austriaci su Milano e Brescia), ma condurrà ad una vittoria tricolore da burletta contribuendo alla dissoluzione di un impero, quello austro-ungarico, multietnico, cattolico e da tempo traballante, stravolto dai legittimi nazionalismi dei popoli oppressi da quell’elefantiaco ente senza identità.

Come sappiamo, però, la vittoria italiana fu di poco momento e “mutilata” perché si ottennero Trentino e Alto-Adige, Venezia Giulia, Zara ma non Fiume e la Dalmazia settentrionale, promessi dal Patto di Londra. Assieme a ciò non si ottennero degne compensazioni coloniali e altri territori di strategico interesse italiano (soprattutto gli storici possedimenti adriatici della Serenissima) finirono altrove.

L’Italietta fu così fregata dalle democrazie borghesi occidentali e dagli americani di Wilson.

Nel 1919, in Padania e Toscana, si scatenarono gli eventi del cosiddetto Biennio rosso, cagionati dalla crisi economica postbellica: si registrarono in Lombardia 445 scioperi industriali e 6 agricoli, cui parteciparono rispettivamente 500.997 e 132.122 lavoratori.

Il 23 marzo di quell’anno, Benito Mussolini, già socialista interventista e direttore de Il Popolo d’Italia, fondò a Milano, nel palazzo degli Esercenti di piazza San Sepolcro, i Fasci italiani di combattimento, che seppero sfruttare abilmente la situazione del primo dopoguerra, così gonfia di risentimento per l’irredentismo frustrato. In esso confluirono sindacalisti, futuristi, arditi, reduci, socialisti, rivoluzionari.

L’ideologia di questo precursore del Partito Nazionale Fascista era contraddistinta da nazionalismo, irredentismo, “terza via” anti-reazionaria ma anche anti-progressista, e compì il primo passo verso la rivoluzione fascista che caratterizzò l’Italia durante il Ventennio mussoliniano.

Mussolini però sfruttò anche il malcontento borghese e padronale in chiave anti-socialista e il 15 aprile del ’19 squadre fasciste assaltarono la sede dell’Avanti!; lo squadrismo venne altresì impiegato per soffocare le rivolte operaie e agricole, colorandosi così di tinte reazionarie. Una situazione che durò dal 1919 al 1924.

Nel 1921, la popolazione regionale lombarda risultava essere di 5.204.013 residenti, di cui 701.431 a Milano, 98.094 a Brescia e 62.687 a Bergamo.

Nell’agosto del 1922, a Milano, venne proclamato uno sciopero generale; squadre fasciste occuparono Palazzo Marino esautorando l’amministrazione comunale socialista.

Nel 1924 venne inaugurata la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo; seguirono la Milano-Brescia e la Milano-Torino.

Il fascismo prese il potere nel 1922 con la Marcia su Roma, e per un ventennio ebbe in pugno l’Italia.

Fu una rivoluzione mancata, sotto certi aspetti, perché non liquidò né la monarchia sabauda né la Chiesa cattolica (nello specifico il Vaticano), e anzi, se le tenne buone per poter governare in santa pace; il nazismo in Germania non ebbe certo di questi problemi.

Il fascismo fu una continuazione autoritaria del Risorgimento, e il suo principale obiettivo fu quello di “fare gli italiani” rendendo grande l’Italia. Propositi cialtroneschi, che non hanno nulla a che vedere con le vere patrie e l’etnonazionalismo, e infatti il Littorio si pose in continuità con giacobinismo, bonapartismo, nazionalismo di cartapesta ottocentesco. La nazionalizzazione e la socializzazione del Paese, teorizzate dal sansepolcrismo, in parte riuscirono, pur scontrandosi con le solite influentissime logge di potere, dimostrando che Mussolini al di là di tutto seppe essere uno statista. Per quanto, chiaramente, al servizio di un ideale patrio artificiale.

Per certi versi, comunque, il periodo fascista più luminoso fu proprio quello successivo alla caduta del regime nel 1943, ossia il periodo della Repubblica Sociale Italiana, quando cioè il fascio non ebbe più in mezzo ai piedi re e papa e altre mafie, e si trovò a comandare l’Italia centrosettentrionale (con il sud nelle mani del traditore Sciaboletta e degli angloamericani), nel contesto dell’alleanza con la Germania hitleriana.

I tromboni antifascisti amano liquidare il biennio salodiano come stato-fantoccio dei tedeschi; in realtà fu un avanzatissimo progetto di socializzazione, purtroppo ostacolata e non attuata per via degli eventi bellici.

L’onta dell’Italia furono i Savoia e i loro tirapiedi (Badoglio), non Salò e chi ci volle credere fino alla fine, nonostante la guerra fosse ormai perduta.

Tornando al Ventennio, nel 1935 venne aperto a Linate (Milano) l’aeroporto Forlanini; nello stesso anno venne inaugurato il Parco nazionale dello Stelvio, a cavallo fra Lombardia regionale e Trentino-Alto Adige.

Nel 1936, Mussolini annunciò a Milano, in Piazza del Duomo, l’alleanza con la Germania di Hitler, parlando di “asse Roma-Berlino”. Alleanza che nel 1939 divenne Patto d’Acciaio.

L’alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo sarebbe potuta divenire la realizzazione di un’Europa diversa, né capitalista né bolscevica, dunque indipendente sia dagli Usa che dagli influssi comunisti dell’Urss, ma la guerra precipitò le cose che andarono come sappiamo. Fermo restando, comunque sia, che Italia e Germania non sono nazioni.

Nel settembre 1939 il Terzo Reich invase la Polonia; inizialmente l’Italia restò neutrale ed entrò in guerra nel giugno 1940, pensando che ormai la vittoria tedesca fosse cosa fatta.

La Seconda guerra mondiale fu una catastrofe per l’Italietta, impreparata com’era ad affrontarla e avendo in parte dissipato le proprie forze nell’avventura coloniale e in Spagna; Mussolini, che come Hitler non aveva certo la stoffa del comandante militare, commise svariati errori che vennero pagati salatamente, aggravati dall’inettitudine degli ufficiali ma in parte riscattati da alcuni episodi di coraggio dei soldati italiani, mandati a morire per dei capricci del duce.

L’Italia avrebbe dovuto starsene fuori da quella guerra, nonostante con essa poté, più che altro grazie all’intervento dei tedeschi, riconquistare provvisoriamente Nizzardo, Corsica, Dalmazia e rafforzare il controllo sull’Albania, oltre che su altri territori non italiani.

Nel 1943 gli scioperi di marzo bloccarono molte fabbriche di Torino e Milano, evidenziando il malcontento popolare per la dura situazione economica e l’opposizione operaia al regime fascista; i bombardamenti aerei, alleati, di agosto provocarono a Milano numerose vittime e gravissime distruzioni. La Lombardia fu in quegli anni messa a ferro e fuoco dai sedicenti paladini della libertà angloamericani, che bombardarono ripetutamente Milano, Brescia e alcune aree industriali della Bergamasca, mietendo migliaia di vittime. L’atto terroristico alleato più grave fu certamente la strage di Gorla, Milano, dove il 20 ottobre 1944 perirono 184 bambini di una scuola elementare.

Dopo la caduta del fascismo e la liberazione tedesca di Mussolini imprigionato sul Gran Sasso, nel settembre (23) del 1943 nacque la Repubblica Sociale Italiana, che occupò la porzione centrosettentrionale del dilaniato Regno d’Italia, morto l’8 settembre dello stesso anno. La sede di alcuni ministeri venne fissata a Salò; Mussolini risiedette nella villa Feltrinelli di Gargnano.

Il sud della penisola, invece, finì nelle mani degli alleati e rimase in quelle di Vittorio Emanuele III, il traditore fuggito a Brindisi, mentre la situazione precipitava, per salvarsi la pellaccia assieme a Badoglio e agli altri galoppini sabaudi, voltagabbana saliti sul carro del vincitore.

L’esperienza di Salò fu suggestiva, nonostante tutto, perché sembrava riproporre l’antico Regno Italico medievale, concentrato nel centronord e inquadrato nel Sacro Romano Impero, che per l’occasione assumeva le fattezze del Terzo Reich nazista.

Il settentrione fu anche caratterizzato dalla lotta partigiana, di varia natura, non solo rossa, un fenomeno assai ingigantito e strumentalizzato che finì ovviamente per fare il gioco degli alleati e dei comunisti stranieri, e non per riscattare un presunto orgoglio nazionale italiano; questi perse la faccia con l’8 settembre ’43 e quel che ne seguì, ripetendosi nella squallida macelleria di Piazzale Loreto.

Nel gennaio del ’44 il Comitato di Liberazione (?) Nazionale si trasformò in quello dell’Alta Italia, assumendo, in clandestinità, poteri di governo straordinario del nord. In marzo si ebbero nuovi scioperi più accentuatamente antifascisti ed anti-tedeschi nelle fabbriche milanesi e lombarde; il 13 luglio vi fu un durissimo bombardamento aereo su Brescia; in dicembre, ultimo discorso pubblico di Mussolini al Lirico di Milano.

Il 2 marzo ’45 altro grave bombardamento aereo su Brescia. Nella terza decade di aprile, l’intera Lombardia venne “liberata”: la farsesca insurrezione di Milano, con tanto di occupazione della città da parte delle brigate partigiane (migliaia di “infazzolettati” dell’ultim’ora, praticamente), iniziata la sera del 24, si concluse il 26.

Il 28 aprile Mussolini e altri esponenti del governo targato RSI (acronimo di SRI) vennero fucilati tra Giulino di Mezzegra e Dongo, nel Comasco.

Il giorno successivo i loro cadaveri (tra cui quello di una donna, Claretta Petacci, che nulla c’entrava) vennero esposti al pubblico ludibrio della folla inferocita a Piazzale Loreto, Milano, certamente una delle pagine più desolanti del fenomeno resistenziale, cosiddetto, che immortalò impietosamente non tanto coloro che penzolavano da quel famigerato distributore di benzina, quanto quella pezzente italianità di cartapesta che regolarmente si schiera dalla parte del più forte.

In realtà, fra l’altro, l’Italia non venne liberata da alcunché perché col 25 aprile passò integralmente sotto il controllo e l’occupazione diuturna americani, che la riempirono di basi militari, anche Nato.

Il fasullo Paese italico, dalle Alpi alla Sicilia, è specchio dell’entità statuale che lo rappresenta, e certamente i governi succedutisi dal 1861 ad oggi, salvo – più o meno – la parentesi fascista, sono stati (e sono ancora) ostaggio dei potentati stranieri. La parziale assoluzione del fascismo non è dettata da ragioni patriottiche (l’Italia non esiste), ma dal fatto che nel Ventennio Roma seppe esibire un briciolo di indipendenza, soprattutto nei riguardi della Babilonia occidentale.

Ma, a parte questo, anche a livello interno la politica “nazionale” deve scontrarsi con le ingerenze e gli interessi di soggetti estranei che un tempo potevano essere i Savoia e che continuano la tradizione con l’onnipresente Chiesa cattolica, per quanto agonizzante, e con altre cricche nemmeno troppo occulte (mafia, massoneria, minoranze varie).

La situazione si può risolvere solo ed esclusivamente promuovendo una robusta presa di coscienza etnica e culturale del non essere italiani, con particolare riferimento ai granlombardi, che non è un’invenzione leghista ma la naturale identità di tutti coloro che, autoctoni, popolano la Padania, dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone.

Universo

Un tempo, sulla scorta della religione cattolica che pretendeva di piegare l’intera società europea a uso e consumo dell’oscurantismo, si pensava che la terra fosse al centro dell’universo, ivi collocata da Dio, e che l’uomo fosse il signore indiscusso della stessa e del cosmo. Un pianeta, attorno a cui ruotava il sole (sostenevano in nome della Bibbia), e una galassia modellati a immagine e somiglianza dell’essere umano, riflesso del Padreterno, dove l’umanità rappresentasse la dimensione fondamentale e precipua di tutto il “creato”. La secolarizzazione ha eliminato dalla vita civile tutte queste balle, confinandole alle sagrestie, grazie anche all’innovazione scientifica e tecnologica che ha ridimensionato la portata del cristianesimo e dei suoi fratelli abramitici, elevando la razionalità a misura del rapporto fra uomo e universo. Non si vuol qui affermare che le rivoluzioni intellettuali abbiano sortito soltanto effetti positivi, anzi; sappiamo tutti benissimo come sviluppo e (sedicente) progresso cagionino anche alienazione, spersonalizzazione e dittatura scientista. Ma, nel III millennio era volgare, è ormai assodato che la ragione sia la guida dell’uomo, e che il metodo galileiano abbia cambiato, prevalentemente in meglio, le nostre vite.

Nell’ottica lombardista, il pensiero razionale è fondamentale, soprattutto se confrontato col ciarpame metafisico. Il globo è un pianeta finito dalle dimensioni finite, al pari degli altri corpi celesti del sistema solare, e lo stesso universo non è certamente infinito. Non vi è alcun disegno divino o soprannaturale dietro il cosmo, e tutto è il frutto del caso e del caos. Le nostre conoscenze sono ovviamente limitate, e la scienza, per sua stessa definizione, non ha certezze assolute, mettendosi sempre in discussione e sviluppando una visuale che passi necessariamente per l’esperimento e il vaglio accurato degli elementi naturali in nostro possesso. È, ad ogni modo, chiaro che l’esistenza umana, e animale, non obbedisca ad alcunché di trascendente, e che l’evoluzione sia un normale processo di adattamento all’ambiente circostante, per fini riproduttivi e di sopravvivenza. La visione del mondo ideale è quella dettata dalla ragione, specie-specifica dell’uomo, e dopo i colpi mortali inferti alle religioni – soprattutto fanatiche – dall’avvento del moderno metodo scientifico è davvero il caso di concepire universo, terra e vita su di essa come qualcosa di assolutamente naturale, slegato da ogni fola irrazionale e mitologica.

Repubblica o monarchia? Il pensiero lombardista

Il lombardesimo, fondamentalmente, opta per una forma di governo di ispirazione repubblicana, che sia alla base di un etnostato granlombardo presidenziale. L’opinione di Sizzi e Roncari, in merito, è sempre stata chiara: no alle monarchie, in quanto prodotto anacronistico di una forma di parassitismo che pone al di sopra del popolo una dinastia, o comunque una classe dirigente di estrazione nobiliare (sempre che tale aggettivo, oggi, possa avere ancora un senso), in nome di fole religiose o mitologiche. Lo stato, anzi, l’etnostato lombardo deve essere retto da un’aristocrazia in senso etimologico, un governo repubblicano dei migliori, in cui i politici chiamati a rappresentare la patria siano stati formati e forgiati in specifiche accademie.

Noi siamo da sempre allergici al binomio trono e altare, perché foriero di sfruttamento, oscurantismo e idea distorta di tradizione, messa al servizio di pochissimi a danno di moltissimi. Ma questa posizione non è giacobinismo, tutt’altro, è un repubblicanesimo basato sul sangue e sul suolo, che inquadri lo Stato come strumento al servizio della nazione, senza potere parassitario giustificato da vecchiume che nulla ha a che spartire con popolo, etnia e patria. La nostra idea di politica è laica, nazional-sociale, comunitaria, volta all’esaltazione razionale della stirpe cisalpina, che è la vera ricchezza di un ipotetico, e auspicabile, organismo statuale indipendente da Roma.

Prendiamo le distanze dal corrente concetto di democrazia, che non è altro che prostituzione antifascista in favore dell’alta finanza, del libero mercato, del sistema capitalista. È la nazione a giustificare uno stato, non viceversa, e anche per questo non vediamo di buon occhio una soluzione monarchica, dove le sorti della patria rischierebbero di venir messe in secondo piano rispetto ai privilegi di una casta, il cui unico merito sarebbe il pedigree nobiliare. Ma noi lombardisti crediamo nel valore del sangue, non del blasone, e siamo ostili al termine ‘suddito’, riferito al popolo. Così come siamo ostili a ciò che puzza di religione, specie se giudeo-cristiana, dal momento che la metafisica non può reggere il confronto con la verità etno-razziale.

Il vero problema della Rivoluzione francese fu la sua impronta borghese, che sviò la popolazione transalpina instradandola sui binari del cosmopolitismo, del laicismo (e non della laicità) e del progressismo. Il giacobinismo viene da noi condannato non certo per l’opposizione a preti e teste coronate, ma per il fatto che divenne in breve tempo funzionale a quel concetto di universalismo in base al quale la patria viene ridotta a stato, e cioè a qualcosa di artificiale cementato da egualitarismo, disprezzo di identità e tradizione, umanitarismo pezzente che calpesta le radici.

La soluzione al moderno marasma globalista non sta nell’innalzare troni e nell’insediarvi degli sfruttatori che si rifacciano ad un mitico passato, ma nell’erigere etnostati che diano un volto etnonazionale e razziale alla cosa pubblica, in nome di principi repubblicani e laici slegati da ogni zavorra “neo-giacobina”. Siamo a favore del presidenzialismo, del sistema unicamerale, di una visione economica corporativista, temprata dal comunitarismo. Non vorremmo indugiare troppo nel federalismo, per quanto si possa riconoscerne una forma blanda a livello cantonale, poiché siamo zelanti fautori di uno spirito unitario che anteponga agli interessi particolaristici il benessere della nazione lombarda. Vogliamo una repubblica granlombarda presidenziale, etnonazionale, comunitaria, lontana da ogni tentazione monarchica o teocratica.