Uno sguardo alla genetica padano-alpina

Avrò modo, più avanti, di discorrere approfonditamente dell’aspetto antropologico e genetico della nostra nazione, la Grande Lombardia, ma penso che già da ora sia il caso di fare una panoramica sul profilo biologico della Padania, in termini di genetica delle popolazioni. Due settimane fa avevo trattato di antropologia fisica, riassumendo il quadro che caratterizza il volgarmente detto “nord” e, per completezza, è giusto ricordare anche ciò che concerne il nostro ADN. La Cisalpina è una realtà antropogenetica tutto sommato occidentale, in pari con Iberia e Francia meridionale; presenta, tuttavia, aree periferiche che scolorano in direzione settentrionale e meridionale: nel primo caso, parliamo dell’arco alpino, specie orientale, nel secondo delle Romagne, che si avvicinano all’ambito tosco-mediano (soprattutto toscano).

Ciò che balza anzitutto all’occhio è la netta frattura che separa la Lombardia storica dall’Italia etnica, con la parziale eccezione della Corsica e della Toscana. La Corsica, parte del mondo italo-romanzo profondamente legata alla Toscana, ha un aspetto genetico che si colloca a metà fra la Liguria e la Tuscia, e può essere definita centrosettentrionale (anche se di influsso sardo, che la rende molto conservativa); un discorso che vale pure per i toscani, in particolare settentrionali, sebbene caratterizzati da un maggior influsso romano di tipo imperiale che al di là dell’Appennino può riscontrarsi solo nei romagnoli. Tra Padania, Corsica ed Etruria ritornano spesso gli stessi cognomi e gli stessi aplogruppi paterni e materni (di marca occidentale), sintomo di un certo legame etnico, tuttavia affievolito da altri elementi identitari.

C’è comunque da dire che lo spartiacque appenninico fa effettivamente da barriera, anche per i geni, e questo riguarda proprio la romanizzazione: vi sono commistioni di taglio levantino recente che nella Padania non compaiono, a differenza dell’Italia etnica, seppur i nostri antenati abbiano conosciuto la colonizzazione degli antichi Romani (e dunque l’afflusso nella valle del Po di genti italiche, magnogreche ed egeo-anatoliche). Esiste una discreta componente repubblicana e imperiale nell’ADN autosomico cisalpino, accanto al prevalente sostrato preromano (ligure, retico, etrusco, celtico, gallico) e ad un contenuto superstrato nordeuropeo veicolato soprattutto dai Longobardi (a seconda delle zone, può anche arrivare ad un 25%). Chiaro che quest’ultimo dato contraddistingua in particolar modo le aree alpine, corroborate da geni germanici (o slavi) recenti.

Come dicevo, la vera e propria frattura genetica “italiana” concerne la Cisalpina nei riguardi del centrosud, soprattutto del meridione. Se la prima segue la scia dell’Europa occidentale, collocandosi ai livelli iberici e occitani (con tendenze centroeuropee), il secondo risulta prossimo alla Grecia: la Toscana si attesta a livelli albanesi, l’area mediana appare vicina alla Grecia continentale e il sud finisce tra Peloponneso e isole greche, con le frange estreme proiettate verso il Mediterraneo più orientale (alcuni calabresi ricordano da molto vicino i ciprioti). Non solo, perché i sud-italiani si mostrano affini a maltesi ed ebrei europei, soprattutto aschenaziti, segno evidente di una natura genetica che potremmo moderatamente definire euro-levantina.

La variabilità biologica a sud delle Alpi non ha eguali in Europa e testimonia, come moltissimi altri campi, l’inesistenza di una nazione italiana dal Brennero a Lampedusa. Granlombardi, italiani etnici e sardi (ricordiamo, infatti, il classico isolato della Sardegna, che la rende unica) non appartengono alla medesima etnia e questo vale prima di tutto per il sangue. Con la sunnominata parziale eccezione di corsi e toscani, noi padano-alpini potremmo definirci strettamente imparentati – anche per vincoli genetici – con i popoli della penisola iberica, della Francia centromeridionale e, in parte, dell’arco alpino e dei Balcani settentrionali. Ma con gli italiani, specie del mezzogiorno, non abbiamo davvero nulla a che fare, e nemmeno romanizzazione e meridionalizzazione postbellica hanno cambiato le cose: noi siamo un popolo della sezione meridionale dell’Europa occidentale, figlio di Celti, Romani e Longobardi, mentre l’Italia etnica si situa nell’Europa sudorientale, grazie alla netta impronta greca e grecula che caratterizza anche il centro (con l’elemento italico via via assottigliatosi e sommerso dal preponderante strato del Mediterraneo orientale).

La questione simbologica

Razza viscontea

Parlando di simboli, insegne, stemmi, bandiere, vessilli vari, la Lombardia può fregiarsi di un nutrito armoriale che all’occorrenza fornisce emblemi di tutto rispetto e di sicuro prestigio.

La sua bandiera storica potrebbe essere la milanese Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco, nonostante personalmente non nutra molta simpatia verso di essa in quanto simbolo precipuamente genovese e legato al cristianesimo.

Però è chiaro: essendo vessillo plurisecolare legato alla Lega Lombarda, alla battaglia di Legnano, ai liberi comuni lombardi che si contrapponevano all’Impero e alla sua insegna di guerra con croce bianca in campo rosso (Croce di San Giovanni Battista o Blutfahne, nel caso appunto del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica), è degna di nota e considerazione, anche se francamente, a mio modesto parere, è più indicata per il comune di Milano e il cantone lombardista che prende il nome dalla capitale, dato che da lì proviene. Fermo restando che la suddetta Croce di San Giovanni ricorre spesso come emblema delle città storicamente ghibelline.

La Croce di San Giorgio è il simbolo per antonomasia delle crociate, e per qualcuno anche il vessillo della “vera croce”, basti pensare a certi dipinti in cui il Cristo risorto la impugna.

Insomma, la Croce milanese può prestarsi a varie interpretazioni, ma al di là di tutto è senza dubbio un’insegna storica panlombarda, nonché stemma di città come la citata Milano, Lecco, Varese, Alessandria, Novi, Acqui, Alba, Vercelli, Ivrea, Reggio, Mantova, Bologna, Padova e ovviamente Genova, per un motivo o per un altro legate a Milano e alla Lega Lombarda.

E proprio Padova, Bologna e soprattutto Genova l’hanno come simbolo; le prime due in onore della Societas Lombardiae, la terza perché genitrice di tale bandiera, o per lo meno storicamente genovese innanzitutto e poi milanese, lombarda, inglese (sebbene la leggenda voglia che tale vessillo sia di origine longobarda e, nel caso milanese, inizialmente insegna vescovile poi passata al municipio). Ci sono anche teorie bizantine, a riguardo del capoluogo ligure.

Pure la sunnominata Croce di San Giovanni Battista appartiene storicamente alla Lombardia, perché insegna di quelle città fedeli all’imperatore quali Novara, Domodossola, Como, Pavia, Lugano e poi anche Aosta, Cuneo, Asti, Fidenza, Vicenza, Treviso, Ceneda.

Queste due tipologie di croci, a sud delle Alpi, sono tipiche della Pianura Padana e sintomatiche dell’antica contrapposizione tra guelfi e ghibellini. E lo stesso cromatismo bianco-rosso è un simbolismo spiccatamente cisalpino, che lega la nostra terra al resto dell’arco alpino.

Ad ogni modo, le mie simpatie vanno innanzitutto al Biscione, el Bisson, emblema dei Visconti, della Milano ducale, della Lombardia longobarda e pagana, uno splendido simbolo assieme all’Aquila imperiale del Sacro Romano Impero (ovviamente retaggio romano delle legioni, passato in eredità alla Germania). Ritengo questa insegna – il noto Ducale visconteo – degna bandiera del popolo lombardo.

La vipera azzurra è un simbolo sacro per i Longobardi, si ricollega ai miti celtici dei draghi d’acqua padani (tra cui il drago Tarantasio del Lago Gerundo) ed è anche un segno guerresco perché l’omino che ingolla, in origine, era moro. Questo, si dice, perché i Visconti l’avrebbero “scippata” ai musulmani di Palestina, durante le crociate, invertendone il significato apparentemente ctonio, dovuto alla vita che nasce dalla bocca del serpente. Probabilmente una leggenda, per quanto suggestiva, dacché il Biscione è un elemento araldico di sicura origine insubrica.

Tuttavia, è interessante constatare un certo sincretismo simbologico nell’attuale Bissa, o comunque la possibilità di una lettura ampia, frutto della stratificazione identitaria lombarda.

La Lombardia regionale occidentale (Insubria vera e propria) si fregia anche della famosa Scrofa semilanuta, simbolo della Milano gallica di Belloveso, mentre la Lombardia regionale orientale (cosiddetta Orobia) ha il nobile Swastika camuno, che non è la castrata rosa pirelloniana ma una vera e propria croce solare ariana, scavata in diverse incisioni nelle rocce della Val Camonica, millenario emblema solare della nostra gente che accomuna tutti gli europei grazie al loro retaggio indoeuropeo.

Pure lo Swastika è un prestigioso segno di riconoscimento identitario della terra padano-alpina, e non a caso è stato da me scelto come simbolo del lombardesimo, integrato nell’ipotetica bandiera nazionale della Grande Lombardia: fusione delle due Croci bianco-rosse padane con al centro, appunto, la vera “rosa” camuna.

Ad arricchire il quadro simbologico identitario, ecco la Razza viscontea, araldico motivo dei Visconti, che consiste in una raggiera gialla e rossa, che rappresenta il Sole Invitto, avente nel mezzo uno scudo vagamente tedesco argenteo contenente il Biscione azzurro coronato, un simbolo formidabile, ariano, pagano, terragno (per quanto, al solito, inflazionato dalla cristologia); la sunnominata Aquila latino-germanica, nera, ad una testa, parimenti coronata e su sfondo dorato, emblema classico della continuità imperiale romana ereditata dal mondo teutonico, a cui la Lombardia storica si ricollega; e naturalmente la ruota solare, il disco solare nero, schietta e perentoria insegna indoeuropea, banalizzata dal cristianesimo ma senza dubbio di filiazione pagana, che per noi rappresenta l’intera Europa e il suo retaggio ario.

Ci sarebbe anche la sacra tripartizione cromatica bianco-rosso-nera della parimenti tripartita società indoeuropea, ma per approfondire vi rimando alla più dettagliata pagina in materia di panoplia identitaria ed etnonazionalista di tutte le Lombardie, non solo di quella regionale.

Il piatto, ad ogni modo, è davvero ricco e la Lombardia in fatto di simboli non ha nulla da invidiare a nessuno, ed è chiaro sintomo di identità, di tradizione, di più che lecite aspirazioni all’autodeterminazione indipendentista, chiaramente su basi etniche, in virtù di una storia e di una civiltà, parte del cuore europeo, senza eguali.

La ruota solare, impreziosita dal cromatismo indoeuropeo, che ideai per i movimenti lombardisti, è il risultato dell’incontro fra la Croce di San Giorgio, la Croce di San Giovanni e il disco solare ariano, un’integrazione che riassume in sé il significato etnico della Lombardia: cisalpina, romano-germanica, indoeuropea.

I simboli, le bandiere, i colori, degni di rispetto e considerazione perché ammantati di sacri rimandi, sono sempre imbevuti di spirito guerriero, proprio per il fatto che la civiltà europea è stata plasmata dalle guerre. E la tradizione europea stessa passa proprio per le armi, che ci hanno garantito di poter ereditare un formidabile patrimonio che tutto il mondo ci invidia.

La concreta risposta alla funerea barbarie universalista figlia del giudeo-cristianesimo, del giacobinismo, del marxismo e dell’attuale mondialismo capitalistico e affaristico, è la simbologia tersa, solare, fulgida, retaggio di tutta Europa, destinata a concretizzarsi nella lotta identitaria per la salvaguardia del nostro lignaggio etnico, spirituale, nazionale.

Se essere lombardi ed europei, di stirpe indogermanica, ha ancora un senso per noi, è giunto il momento di farci valere per non soccombere di fronte al dilagante relativismo, frutto eziandio, e nemmeno troppo paradossalmente, dell’assolutismo cristiano basato sull’unico dio straniero di matrice semitica, e sulla sua opera di desertificazione e di castrazione delle genti continentali.

Natalità

In una Grande Lombardia invasa e colonizzata, prima dai sud-italiani e poi da tutti gli altri allogeni, è fondamentale, assieme al blocco dell’immigrazione e al sistematico rimpatrio, recuperare un minimo di vigore demografico per poter garantire alla nazione un futuro il più possibile roseo. Da lombardisti siamo i primi a denunziare la spaventosa sovrappopolazione storica – peggiorata dai flussi migratori – che affligge la Padania, ma è chiaro a chiunque che avanti di questo passo i lombardi si estingueranno, e non solo nel cosiddetto triangolo industriale; è necessario pertanto ricominciare a fare figli, nel pieno rispetto dell’endogamia, anche se per attuare ciò sia urgente una rivoluzionare culturale e sociale che passi per il comunitarismo. Dall’educazione sessuale ai costumi giovanili, dai valori famigliari al culto patriottico del focolare domestico: in un’Europa occidentale ipersessualizzata, viene del tutto a mancare la coscienza riproduttiva, o limitata ad un solo figlio in tarda età. E questo a fronte dei ritmi selvaggi del terzo mondo, e degli immigrati da esso provenienti, refrattari ad ogni idiozia progressista.

Non così nella Padania, oggi ridotta a succursale del mondo anglosassone che assorbe a guisa di spugna la mentalità affaristica e consumistica facendosi plagiare dalla società dell’edonismo. Pancia piena, portafogli pieno, bagaglio delle futilità stracolmo ma spirito sempre più svuotato e isterilito, con il collasso dei principi identitari come primissima conseguenza. Quando vengono a mancare quegli ideali eroici che animano un’etnia e una nazione, restano soltanto le macerie postmoderne di una civiltà un tempo prospera ed esemplare, che solo la palingenesi etnonazionalista potrebbe risuscitare. Una Lombardia senza lombardi è il trionfo del sistema-mondo e della sua tristissima appendice peninsulare, il sistema-Italia, responsabili della pietosa condizione di identità e tradizione in terra cisalpina. I gaglioffi ridono, sentendo parlare di sostituzione etnica, ma come dovremmo definire quanto accaduto nella Lombardia storica occidentale, dove gli indigeni sono stati rimpiazzati – anche per le proprie colpe, è chiaro – da alloctoni di mezzo mondo? L’italianizzazione, di fatto, ha inaugurato le danze macabre del pluralismo genocida.

La questione etnica

Zampognari in Brianza (Giovanni Segantini)

Si sarà capito che per il sottoscritto il concetto di nazionalità, distinto da quello di cittadinanza, è rigorosamente determinato dallo ius sanguinis, essendo lo ius soli un’autentica buffonata progressista ed universalista, preso singolarmente. Il lombardista crede nell’azione combinata dei due diritti, e dunque in una cittadinanza identitaria che aderisca alla nazionalità.

Di conseguenza, un individuo è lombardo (ed europeo) se lo è per sangue e per suolo, e poi chiaramente per spirito; questo non è razzismo suprematista, questa è la natura delle cose, poiché la biologia non è fuffa. La questione culturale viene dopo, perché non basta parlare lombardo o mangiare lombardo per potersi a tutti gli effetti dire cisalpini.

Nello specifico, crediamo che un individuo possa fregiarsi dell’etnonimo di lombardo se ha almeno i 4 nonni, biologici ed europidi si capisce, cognominati alla lombarda, e in alcune zone è un autentico miracolo, credetemi. In aggiunta, residenza famigliare in Lombardia almeno dal 1900.

L’etnia è lombarda e dovrebbe esserlo pure la nazionalità: la nazione italiana estesa alla Padania non esiste, e quindi la nazionalità italiana allargata in maniera spropositata è una mascherata. Non concepisco nella maniera più assoluta una nazionalità basata su sciocchezze burocratiche e politiche, un qualcosa di artificiale, specie se confuso con l’arida cittadinanza degli stati di ispirazione giacobina.

La cittadinanza razionale, dunque, deve fondarsi su severi criteri nazionali, proprio perché la Grande Lombardia è una nazione, a differenza del fantozziano Stivale. A maggior ragione, non sono una nazione gli Usa, il cui intento è quello di ridurre l’Europa ad una loro fotocopia e succursale (cosa che in parte è già), anche quando si parla di nazionalità e di cittadinanza. Lombardi ed europei si nasce, non si diventa, il che non significa che tali popoli siano superiori agli altri. Significa, però, che la Cisalpina è una grande patria storica e che l’Europa è la nostra famiglia imperiale, aventi una ben precisa identità antropologica e genetica. Altrimenti possiamo pure cambiare i nomi delle nostre realtà etniche e tramutarle in bordelli cosmopoliti e multirazziali. Proprio come l’America.

Uno dei principali problemi della Lombardia etnica e storica, a partire da quella regionale, è la sovrappopolazione (10 milioni di abitanti su di un territorio di quasi 24.000 km², relativamente alla baracca del Pirellone) il che impone, al fine di preservare popolo e ambiente, di bloccare l’immigrazione e rimpatriare gradualmente buona parte dei puri allogeni che abbiamo in casa. Discorso che vale eziandio per i sud-italiani.

I lombardi devono riprendere a fare figli, ma è forse più importante cominciare a far rientrare nelle rispettive terre chi qui non ci dovrebbe stare. Ogni popolo, infatti, sta bene a casa propria. L’alternativa è il collasso: immigrati, cemento, inquinamento sono una miscela esplosiva. Credo sia nota ai più la disastrosa situazione di Milano e del suo hinterland, ma è ormai un’ossessione regionale quello del culto del capannone e del centro commerciale.

La popolazione della Padania andrebbe, in futuro, drasticamente ridimensionata, se vogliamo avere un destino eco- ed etnosostenibile, pure per una faccenda di sussistenza, preservazionismo ed equilibrio nel rapporto uomo-natura. Raggiungendo così parametri qualitativi alti, in termini di vita e di benessere. Si capisce bene il perché delle simpatie lombardiste verso endogamia, controllo delle nascite, aborto nei casi limite, eugenetica preventiva, fermo restando che la Lombardia abbia senza dubbio bisogno di rinsanguare la propria esanime schiatta.

C’è in ballo il nostro avvenire e non c’è cristianesimo militante o laico che tenga nella lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione dei nostri sacrosanti diritti etnonazionalisti. Oppure l’identitarismo etnico è lecito solo ed esclusivamente se si tratta di popoli del sud del mondo?

Chiaramente, andrebbero rimpatriati gli allogeni veri e propri, extra-europei, ma andrebbe contenuta drasticamente anche l’immigrazione europea, fissando un tetto massimo che non preveda ulteriori arrivi, sulla base della compatibilità etnica; non me ne vogliano gli italiani, ma come detto poco sopra sarebbe parimenti il caso di promuovere il ritorno in patria di loro peninsulari. L’etnia lombarda va preservata, recuperata e tutelata perché sempre più minacciata di estinzione, soprattutto nell’area occidentale. Non basta parlare solo di cultura, perché la lombardità presuppone un ADN padano-alpino.

Non ne ho mai fatto una banale questione pecuniaria, per quanto lavoro e denaro possano essere importanti, ma eminentemente etnoculturale e territoriale, il che nobilita la mia battaglia e quella comunitarista, finalizzate all’indipendenza della Grande Lombardia.

Non sono soltanto ragioni etniche e culturali, per l’appunto, sono pure ambientali, perché la sovrappopolazione e l’immigrazione selvaggia cagionano inquinamento, cementificazione, urbanizzazione smodata, traffico congestionato da terzo mondo, avvelenamento del suolo, dell’aria, della flora, della fauna, delle acque, dei beni artistici e naturali, del nostro habitat insomma, dell’umo in cui affondano da millenni le nostre lombarde radici.

Lasciamo dunque perdere il progressismo, il liberalismo, il cristianesimo, l’universalismo e il mondialismo, nonché il pietismo e il capitalismo, ma anche quell’untuoso indipendentismo di matrice marxista o libertaria, europeista, il cui motto è roba del tipo “veneto è chi il veneto fa”. L’indipendentismo deve andare di pari passo con l’etnonazionalismo, sennò rischia di ridursi a ridicole battaglie micro-sciovinistiche ed egoistiche, dettate da tracotanza affaristica, e nemmeno da identitarismo genuino. Il campanilismo, e il regionalismo, sono nemici mortali delle nostre istanze.

Il sangue non è acqua, il suolo non è un mordi e fuggi da società dei consumi, lo spirito inteso come lingua, cultura, identità, tradizione non è flatus vocis; questa triade è ragione di vita per ogni degno lombardo, orgoglioso delle proprie origini, dei propri natali, della propria patria cisalpina ed europea, culla della civiltà plasmata dai nostri arii progenitori.

L’indipendentismo promosso dal lombardesimo è lotta razionale per l’autoaffermazione del nostro popolo, basata sui principi e sui valori etnicisti: non si tratta, infatti, di separatismo alla catalana, di secessionismo alla leghista o di “handipendentismo” liberal caro a certe latitudini europee, e malato di antifascismo, concerne il sacrosanto affrancamento, anzitutto, del sentimento identitario che unisce le genti cisalpine, la cui identità etnica e storica non esitiamo a definire lombarda.

Un serio cammino all’insegna dell’identitarismo völkisch si chiama comunitarismo, e contempla culto, oserei dire scientifico, della terra, della stirpe, dello spirito come vitale scintilla culturale della gente nostrana, ispirato all’azione indipendentista. Perché la Padania non è Italia e merita a pieno titolo l’autodeterminazione, contro il giogo statolatrico di una nazione artificiale, che spetta ad ogni vero popolo europeo.

L’azione politica, è pacifico, deve essere inoltre accompagnata da quella metapolitica, e anticipata dalla cultura militante, perché altrimenti ci si continua a comportare come automi indottrinati dal sistema-mondo e completamente privi di solide basi etnoculturali. E nulla, pertanto, può davvero cambiare, come ha dimostrato il fallimento dello stesso leghismo, un fenomeno privo di mordente genuinamente identitario.

Bisogna avere calma, cautela, pazienza, costanza, perseveranza, senso della misura e del reale, un pizzico di furbizia (cosa in cui i cisalpini non eccellono, si sa) evitando le indecenti banalizzazioni, operate da Bossi e compagnia e loro replicanti, che non hanno fatto altro che inficiare ragioni sacrosante.

Le associazioni da me fondate, il Movimento Nazionalista Lombardo e Grande Lombardia, hanno rappresentato nel loro piccolo l’unica via da percorrere, per quei lombardi desiderosi di promuovere serio comunitarismo etnico su suolo lombardo, contemplando, ovviamente, la soluzione politica indipendentista. Esse hanno gettato un seme, e sono certo che il futuro, grazie anche al lombardesimo, potrà essere roseo. Nulla, signori, è perduto.

Certo, non dobbiamo giocare a fare i politicanti, o i generali senza esercito, ma divenire sempre più esempio per i nostri connazionali, affinché si riscuotano dal torpore e seguano la via dell’identità, scongiurando la dissoluzione coloniale favorita dallo status quo tricolore.

Che forse ci vergogniamo di essere lombardi? Abbiamo davvero il cervello così lavato e ridotto ad omogeneizzato dai nostri nemici, che si spacciano per sedicenti amici?

Ricordatevi che il senso di appartenenza è innanzitutto etno-razziale: dobbiamo dunque tutelare e preservare il nostro retaggio caucasoide europeo, la nostra specificità nazionale ed etnica, nonché il nostro patrimonio fisico e genetico.

Prima il sangue, poi il suolo ed infine lo spirito con tutte le sue manifestazioni. La coscienza linguistica, la cultura, la tradizione sono importantissime, ma il dato biologico è il carburante delle battaglie etnonazionaliste. Sebbene sia chiaro: senza spirito che lo corrobori, il sangue rischia di ridursi a mero fluido.

Ad ogni buon conto, il resto viene dopo. Politica ed economia incluse. Ma ciò, chiaramente, non significa rinunziare ad una visuale a tutto tondo che permetta al patriota lombardo di esprimersi su di ogni argomento. La dottrina lombardista consente una visione del mondo completa, andando a toccare qualsiasi ambito della nostra esistenza.

Ma se non c’è la sacrale triade etnicista e razzialista, che fa di un insieme di individui un popolo conscio di essere nazione, è inutile blaterare di soldi, welfare, pensioni, politiche sociali, progresso e sviluppo. Non è possibile ragionare sempre ed esclusivamente in termini di ordinaria amministrazione.

Siamo uomini, non banchieri, mercanti, strozzini, o preti.

E da uomini e donne davvero liberi dobbiamo vivere un’esistenza piena in nome di identità e tradizione, senza le quali la vita non sarebbe che un mucchio di banalità materialistiche e animalesche, seppur importanti.

Sesso

È chiaro che il sesso ricopra un ruolo assai importante nelle dinamiche relazionali della comunità, anche se il suo valore eminentemente riproduttivo ha perso quella centralità che aveva un tempo, in particolare in Europa. Oggi, in una società ipersessualizzata che perverte soprattutto il corpo femminile per veicolare bassi appetiti consumistici, i rapporti intimi appaiono più che altro alla stregua di intrattenimento ludico occasionale e promiscuo, spesso mordi e fuggi, isterilito da un edonismo che liquida maternità e paternità come zavorre patriarcali intollerabili. Se il retaggio sessuofobico semitico, promosso dal cristianesimo, poco aveva a che fare con lo spirito gentile europeo (si parla di eterosessualità, logicamente), va da sé che il suo opposto, l’orgia di erotismo e passione distorti cavalcata dal capitalismo, non sia migliore, in un Occidente che peraltro incensa a piene mani la pornografia e tollera la prostituzione. Questo discorso vale anche per quelle tizie che decidono di mettersi in vetrina su internet, a pagamento, lucrando su guardoni e maniaci dell’autoerotismo.

Come lombardisti siamo dell’idea che vada riscoperta la funzione procreativa dei rapporti sessuali, pensando in particolar modo alla drammatica situazione demografica della Grande Lombardia, senza necessariamente condannare da bigotti il divertimento fine a se stesso. Chiaro, sarebbe preferibile vivere la sessualità a guisa di legame carnale inserito in una piena relazione, progettando un futuro famigliare, ma non vogliamo ficcare il naso nelle camere da letto dei lombardi. Ripeto: parliamo di eterosessualità. Circa l’omosessualità il nostro atteggiamento è di rifiuto ed esecrazione, visto che oggi, oltretutto, ha assunto un significato anti-identitario e anti-tradizionale strumentalizzato dal sistema. Non condividiamo la posizione del cristianesimo, e non critichiamo la contraccezione (a patto che non comporti soluzioni abortive): è evidente che non si possa avere amplessi solo ed esclusivamente per riprodursi, per di più solo all’interno del matrimonio. Però, naturalmente, siamo a favore di una visione valoriale del sesso, che lo ripulisca e preservi dalla degenerazione contemporanea (e commerciale) promossa dall’Occidente materialista e che lo inglobi nella dimensione comunitaria, anche come mezzo di esaltazione endogamica.

Antropologia e identità: il caso cisalpino

L’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni, dunque lo studio del profilo biologico e razziale di una o più etnie e nazioni, rappresentano un caposaldo nell’ottica identitaria del lombardesimo, poiché l’identità dei lombardi riguarda anche e soprattutto il sangue. Un aspetto etnico cisalpino esiste e sussiste pure in termini antropologici, per quanto oggi si faccia di tutto per ridurre il concetto di etnia a qualcosa di meramente culturale, e innocuo. Ma è logico come la definizione di un’appartenenza comunitaria venga determinata da ciò che siamo biologicamente, essendo animali fatti di carne, ossa e sangue. E, naturalmente, di ADN. Coltivare, perciò, scibile antropogenetico permette di conoscersi, conoscere gli altri e comprendere la più che legittima vocazione indipendentista della Grande Lombardia.

Chi sa di antropologia fisica e genetica, non può ignorare la realtà dei fatti, e cioè che la Cisalpina sia un mondo a sé, rispetto all’Italia etnica, segnatamente meridionale. È chiaro come la luce del sole che le differenze nette che passano tra noi cisalpini e gli italiani riguardino pure la natura etno-razziale, dunque biologica, dell’identità continentale e peninsulare-insulare, perché i nostri popoli sono figli di geografie, climi, latitudini, etnogenesi, storie, stratificazioni demiche affatto diversi. Fa sorridere che taluno ritenga le differenze “interne” frutto di mera cultura, o di cucina (sic!), quando la cosiddetta Italia è l’ambito più eterogeneo d’Europa.

L’aspetto fisico delle popolazioni a sud delle Alpi varia sensibilmente da area ad area: oltre alle, evidenti, diversità di pigmento (pelle, capelli, occhi, peluria), vanno prese anzitutto in considerazione quelle craniologiche e antropometriche, e infatti statura, massa corporea e dimensione del cranio differiscono palesemente da settentrione a meridione. Mentre in Padania si fanno sentire gli influssi continentali, centroeuropei, che vanno a caratterizzare ulteriormente (specie lungo l’arco alpino) una popolazione di base sudoccidentale affine a francesi meridionali e iberici, ma con una craniometria decisamente mitteleuropea-balcanica, nell’Italia etnica predomina l’elemento mediterraneo, spesso con una sfumatura “greca”.

Il nord, dove più e dove meno, presenta un profilo intermedio tra continente e Mediterraneo nordoccidentale, includendo per certi versi Toscana e Corsica (comunque parte settentrionale dell’Italia etnica) che si avvicinano alla Romagna, all’Emilia e alla Liguria. L’area mediana, caratterizzata da mare e Appennini, fonde il precipuo strato mediterranide con componenti alpinoidi e dinaroidi, scolorando in direzione meridionale, dove alcuni elementi arcaici si mescolano al principale dato antropologico del sud, che è ovviamente quello mediterraneo: l’Ausonia, con la Sicilia, è il luogo d’incontro fra le correnti ibero-insulari e quelle greco-anatoliche. Sardegna, come sempre, isolata, anche se da un punto di vista fenotipico ricorda molto la penisola iberica meridionale e il mezzogiorno italico.

Abbiamo poi la genetica, che non fa altro che consolidare l’aspetto identitario corroborato dall’antropometria, con una Cisalpina essenzialmente sudoccidentale, in pari con Francia meridionale e Iberia, tendente ai popoli alpini e dei Balcani settentrionali; una Toscana intermedia fra nord e centrosud, con la Corsica (che risente comunque di un input sardo); un’Italia etnica mediana e meridionale di carattere sudorientale, ai livelli dei greci, che si fa sudorientale estremo nel caso del mezzodì, portando i suoi indigeni a rassomigliare profondamente agli isolani ellenici, ai maltesi, agli ebrei europei e, negli individui borderline, ai ciprioti. Checché ne possano pensare i nordicisti meridionali, il marcato elemento levantino, antico e recente, è una limpida realtà dei territori a sud della Toscana.

Avrò modo di offrire una rassegna dettagliata circa la facies antropologica e genetica della moderna “Italia”, pubblicando diversi articoli in materia, ma a tutti coloro che hanno occhi per vedere (e leggere) è ovvio come gli italiani, dalle Alpi alla Sicilia, non siano reali, soprattutto in chiave etnica. Nessuno nega che esistano differenze interne nella Grande Lombardia – soprattutto pensando alla dicotomia Alpi-pianura – ma sono nulla al cospetto della drammatica eterogeneità della Repubblica Italiana. Drammatica non perché la ricchezza identitaria sia indecente, ma perché, automaticamente, liquida tutte le fole retoriche sui “fratelli” che esistono soltanto nella testa dei patrioti tricolorati, denunziando l’assurdità dell’unità risorgimentale e lo statuto artificiale della pseudo-nazione peninsulare.

La questione linguistica

Carlo Porta

La mia visione politica della vera Lombardia, quella etnica e storica, è dunque etnonazionale ed indipendente, libera dall’Italia ed inserita nel più ampio quadro identitario della confederazione euro-siberiana

L’etnonazionalismo è doveroso, per una patria plurisecolare come quella lombarda, al fine di preservarne il carattere comunitario e di affrancarlo dalla statolatria italico-romana che ci affligge, e che conosciamo ormai tutti benissimo, sperimentandola quotidianamente sulla nostra pelle.

In Lombardia, a proposito di identità, si pone una questione linguistica.

Che lingua usare nelle nostre terre, accanto – inizialmente – all’idioma franco toscano, per garantire la conservazione della specificità culturale cisalpina?

Da tempo penso che l’ideale, a livello ufficiale e nazionale, sia l’adozione del milanese classico, volgare, emendato dagli influssi forestieri (cioè italiani), essendo la variante lombarda più prestigiosa, codificata e conosciuta; è anche il gallo-italico più centrale, immerso nel cuore della Padania, miglior candidato storico ad assurgere a lingua di tutti i granlombardi. Questo, è chiaro, non esclude che, essendo la Lombardia relativamente variegata, si possa far sì che ogni territorio avente una precisa koinè istituzionalizzata (come, ad esempio, il bergamasco cittadino nella provincia orobica) la mantenga e la utilizzi a livello locale, come veicolo espressivo per la difesa del proprio retaggio.

L’italiano, idioma imposto alla popolazione cisalpina dalla scuola, dalla televisione e dai media, dalla burocrazia romana e ovviamente dalla politica, venne adottato in epoca moderna anche dalle corti lombarde per via del prestigio dei suoi modelli letterari, ma non è altro che la lingua italo-romanza di Firenze. Emerse, nel Medioevo, come il più illustre dei volgari “italiani”, dominando successivamente il panorama culturale della penisola grazie alla fama delle “tre corone” gigliate Dante, Petrarca, Boccaccio e anche diversi autori lombardi contribuirono al suo rigoglio (vedi Alessandro Manzoni su tutti). Resta però il fatto che il fiorentino letterario sia una loquela straniera, in terra padano-alpina, poiché la nostra nazione appartiene alla famiglia linguistica galloromanza allargata, al pari di occitano, arpitano, catalano, francese.

Vero, in Padania si parla il veneto, che non è una lingua esattamente gallo-italica, ma con un proprio peculiare carattere. Oggi deve molto all’influsso di Venezia sul continente (e il veneziano si avvicina al toscano), ma un tempo, come testimonia lo stesso Dante nel suo De vulgari eloquentia, i veneti erano ritenuti lombardi e usavano un eloquio assai simile al lombardo canonico. Lo stesso dicasi del retoromanzo, il ladino in senso lato, che al pari del gallo-italico è considerato galloromanzo. Anzi, questa sottofamiglia alpina presenta aspetti ancor più conservativi dei vari dialetti padani, purtroppo via via annacquati dall’influenza dell’italiano.

Da un mero punto di vista sociolinguistico, le lingue locali parlate in Lombardia vengono definite dialetti; questo non perché, come qualche idiota pressapochista crede, siano derivate dall’italo-toscano (cosa falsissima) ma per via del loro uso eminentemente orale, ristretto perlopiù agli anziani e limitato ad alcune sfere rustiche della quotidianità. Il fiorentino divenuto italiano, nella distorta idea nazionale di Italia, ha primeggiato, garantendosi il predominio letterario e culturale, e di conseguenza gli altri volgari riconosciuti sono arretrati adattandosi alla situazione locale.

Verrebbe, perciò, da chiedersi se, ad oggi, esista una vera e propria lingua lombarda, naturalmente unitaria. La risposta è no, perché il panorama linguistico della Grande Lombardia, e della Lombardia etnica, è frammentato, non foss’altro per il condominio di gallo-italico, veneto e ladino (romancio, ladino dolomitico, friulano). Si può dire, senza dubbio, che esista una famiglia linguistica lombarda, e cioè gallo-italica, storicamente estesa al retoromanzo: il galloromanzo cisalpino, dunque. E, in questa famiglia, a far la parte del leone c’è, con tutta evidenza, il meneghino, logico candidato a divenire il lombardo tout court.

Adottare il milanese classico volgare, emendato – anche ortograficamente – dai toscanismi, in qualità di lingua nazionale della Grande Lombardia non sarebbe un’operazione all’italiana, come le malelingue vanno cianciando: non si tratta, infatti, di imporre nella Padania una lingua straniera (cioè italo-romanza o altro), bensì di agire con salutare buonsenso identitario adoperando un idioma nostrano, cisalpino, non snaturato quale l’attuale veneto, pure per semplificare la burocrazia, l’amministrazione, l’istruzione e l’informazione. L’impiego del milanese/lombardo andrebbe di pari passo, localmente, con quello della variante indigena più prestigiosa, evitando il caos vernacolare.

Una lingua lombarda unitaria, oggi, non esiste, ma con la nobiltà della Milano incontaminata è del tutto possibile. Nel Medioevo è esistita una koinè padana, colta, la cosiddetta scripta, ma si trattava chiaramente di un esperimento letterario privo della robustezza genuinamente volgare, presentando essa tratti sovradialettali limati ed ingentiliti. Sono, invece, esistiti diversi volgari, predecessori dei moderni dialetti, quali milanese e bergamasco ad esempio, che non avevano nulla da invidiare, in fatto di dignità linguistica e letteraria, al toscano. Questo nonostante la bocciatura dell’italo-centrico Alighieri (la cui madre, ricordiamo, era cisalpina, di Ferrara).

Le lingue locali sono una ricchissima ed inestimabile fonte culturale per il nostro Paese, la Lombardia, da tutelare, difendere, preservare, tramandare e non da stroncare come fece l’ottusa politica fascista, ma pure l’attuale regime figlio della temperie partigiana e americana, incarnato da roba come il Pd.

L’identità verace sta sulle scatole a tutti quelli che vogliono forzatamente livellare, per una ragione o per un’altra, la cultura dei legittimi popoli, e proprio per questo noi dobbiamo salvaguardarla e trasmetterla di generazione in generazione.

Logicamente, bisogna anche capire che a livello nazionale la lingua ufficiale e letteraria deve essere una sola, nella misura in cui la Lombardia storica è una sola, altrimenti si rischia di incorrere nel minestrone multilinguistico alla svizzera.

L’italiano andrà gradualmente abbandonato. Esso nasce come volgare del capoluogo toscano, Italia etnica e Romània orientale, ed è estraneo alla tradizione linguistica genuina della continentale Cisalpina, area neolatina occidentale. Certo, non possiamo ignorare il fatto storico che, da secoli, il fiorentino sia divenuto, in parte, patrimonio letterario anche della Grande Lombardia, e che ormai sia la vera lingua materna di tutti i lombardi. Ma ciò non cambia la verità genetica di un parlare che non nasce nella nostra nazione. Anche gli irlandesi, purtroppo, parlano più inglese che gaelico, ma questo non li rende connazionali degli albionici.

Le loquele autoctone delle plaghe a sud delle Alpi sono tutte romanze, seppur diversificate dai fenomeni di substrato e superstrato, e le più prossime al latino sono sardo e toscano. Ma il patriottismo tricolore si basa su un concetto artificiale di romanità e latinità che, assieme al cattolicesimo, riguarda peraltro una buona fetta dell’Europa. E la lingua italiana, come detto, è un prodotto culturale toscano, per quanto esteso nei secoli all’intera “Italia”.

Noi lombardisti siamo convinti che la lingua di Milano, classica, rappresenti il lombardo per antonomasia, e debba dunque divenire lingua nazionale. Qualche bello spirito preferisce baloccarsi con improbabili koinài create a tavolino nel XXI secolo, mischiando le varianti occidentale ed orientale del lombardo regionale, dando vita ad una sorta di mini-esperanto che confonda le carte in tavola invece di chiarire la situazione. Meglio la naturalità all’artificio, soprattutto a proposito di identità. Oltretutto, il cisabduano è più simile al piemontese orientale o al piacentino, che all’orobico, ulteriore sintomo di una mera creazione italiana come la Regione Lombardia.

La vera Lombardia è quella etnica (bacino del Po) e storica (la Cisalpina), e ‘gallo-italico’ è, a ben vedere, sinonimo di ‘lombardo’. Il concetto di dialetti lombardi contemporanei è una forzatura, che grossomodo ricalca i confini regionali, e non rispecchia le varie affinità tra parlari padani. Esiste, pertanto, un lombardo ristretto e uno allargato: il primo coincide con milanese, bergamasco, bresciano, ticinese, novarese, cremonese ecc. mentre il secondo abbraccia tutto il gallo-italico. Ma la prima accezione ha poca logica, poiché esiste un serio discrimine tra insubrico e transabduano, ed è più che altro dettata da motivi di comodo.

Sarebbe consigliabile che tutti i veri lombardi, e cioè i cisalpini a partire da quelli occidentali, prendessero confidenza col milanese e lo studiassero in quanto, certamente, idioma schiettamente lombardo, rispetto agli altri, che subiscono diverse influenze per via della loro posizione geografica. Il Piemonte risente di francese e ligure; l’Orobia del veneto; l’Emilia e la Romagna subiscono il toscano, come la Liguria; le altre regioni granlombarde non sono, ovviamente, gallo-italiche. Tuttavia, per assurdo, il padano primevo aveva un profilo similare a quello del retoromanzo, quindi guardiamo con una certa simpatia al ladino.

Nelle scuole della Lombardia il “dialetto” andrebbe assolutamente insegnato, assieme alla storia linguistica della nostra nazione e delle varie province e territori storici. Scuole, ovviamente, liberate dal tricolore, in cui l’italiano ceda il posto al milanese/lombardo.

Un processo, per ovvie ragioni, graduale, principiando da una fase iniziale di bilinguismo, ma che promuova da subito la riscoperta e l’uso del morente idioma locale. Le nostre loquele sono la ricchezza culturale più evidente e significativa, all’interno del patrimonio identitario padano-alpino, e non possiamo permettere che vengano a mancare. Un popolo senza la propria lingua non ha futuro, e non può essere in alcun modo rappresentato concretamente da un mezzo espressivo straniero.

Il milanese, tra le varianti subalpine, ha una tradizione prestigiosa e ben attestata, fior fior di autori, di opere, di vocabolari e ha una fonetica e un’ortografia precise e normate, in quanto stabilmente codificato (si parla della versione classica). È conosciuto da tutti i lombardi, quantomeno di fama, ed è sicuramente il miglior prodotto della famiglia linguistica lombarda per via della sua centralità e purezza.

Milano è il perno della Lombardia, nostra capitale indiscussa, e tutte le aree storicamente influenzate dalla sua potenza sono certamente di pertinenza lombarda: l’Insubria, l’Orobia, il Piemonte, l’Emilia, vale a dire la Lombardia etnica. Forse, il discorso potrebbe farsi più complicato nelle Romagne, in Liguria e, ovviamente, nel Triveneto, oltre che nelle terre abitate dalle minoranze storiche, ma siamo dell’idea che l’adozione del milanese a lingua panlombarda costituisca un’occasione imperdibile, sulle ali del patriottismo e dello spirito unitario cisalpini. Fermo restando che nessuno si sognerebbe di chiedere ai granlombardi, specie periferici, di abbandonare i propri usi, costumi, tradizioni e idiomi. Il lombardesimo può tranquillamente conciliarsi col tollerabile particolarismo locale, in un’ottica di blando federalismo cantonale. E questo sebbene la nostra posizione su alcuni fenomeni, come il venetismo e la moderna “lingua” veneta, sia fortemente critica.

Contadinato

Le radici della Lombardia affondano nell’ubertoso passato agreste dei nostri padri, quando esisteva ancora un rapporto intenso con la nostra dimensione più intima, che è quella rappresentata dalla natura. Il mondo contadino era il custode di identità, tradizione, lingua, permeato di rustici richiami alle origini e a quella purezza, oggi quasi del tutto perduta, che scandiva le relazioni sociali, la vita comunitaria, l’armonia famigliare. Era un mondo incontaminato, per quanto estremamente cristianizzato e bigotto, e la sua lezione arriva ai nostri giorni, in una temperie in cui sangue, suolo e spirito vengono sistematicamente calpestati per far spazio alla “civiltà” del progresso, della tecnologia, del benessere (apparente) diffuso. La Lombardia odierna, segnatamente nel suo cuore insubrico, soffre tragicamente per i colpi letali assestatile dal feticcio dello sviluppo, che comporta arricchimento e miglioramento delle condizioni di vita (su taluni versanti) ma al contempo immigrazione di massa, dittatura della società dei consumi, globalizzazione e impoverimento identitario e tradizionale: il prezzo della modernità capitalista, pagato salatamente dal popolo indigeno, alla lunga si rivela disastroso ed insostenibile.

Proprio per questo, oggi, occorre un recupero del contadinato e delle virtù contadine, che caratterizzarono i nostri antenati, nell’ottica dell’affermazione di un salutare comunitarismo fondato su razza, etnia, nazione. Non siamo ipocriti: l’età contemporanea occidentale permette, senza dubbio, delle comodità che possono essere sfruttate anche in direzione identitaria, ma tutto quello che presuppone degrado, degenerazione, relativismo, ripudio di valori patriottici, idolatria del danaro e spregio della tradizione va risolutamente condannato. Il ripristino della comunità contadina, innestata nell’ambito del comunitarismo, va di pari passo con la promozione dell’econazionalismo e, dunque, di una società rigenerata grazie ad un ambientalismo patriottico che renda lo sviluppo eco- ed etno-sostenibile, proiettandoci in un futuro in cui i posteri possano beneficiare di un habitat bonificato, di un’agricoltura biologica e di un allevamento non più industriale. La qualità della vita dipende da ciò che mangiamo, dall’aria che respiriamo, dall’acqua che beviamo ma, soprattutto, da quel che decidiamo di insegnare ai nostri figli.