10 febbraio (1947): il ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani

Martiri delle foibe

Il 10 di febbraio si celebra il Giorno del ricordo, in memoria dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. 10 di febbraio perché, nel 1947, tale giorno sancì il passaggio alla Iugoslavia di Istria, Quarnaro e della massima parte della Venezia Giulia storica, con i trattati di pace di Parigi. Stiamo parlando di territori geograficamente e storicamente granlombardi, dalle radici venetiche, celtiche, anche illiriche ma riconducibili all’ambito padano-alpino in virtù delle origini antiche, del dominio longobardo e dell’epopea serenissima. Territori sicuramente slavizzati, dal Medioevo, ma inscindibilmente legati al dominio naturale della Padania, Dalmazia a parte. Il Giorno del ricordo, sebbene trovata tricolore e italianista, commemora i martiri dei massacri delle foibe e gli esuli istro-dalmati; i primi ammontano a 11.000 persone, tenendo conto anche di quegli italofoni morti tramite esecuzioni e/o nei campi di concentramento titini, i secondi ad una cifra compresa tra i 250.000 e i 350.000 individui, costretti a lasciare le terre dei padri nelle mani insanguinate di Tito e dei suoi scherani. Quest’ultimi, pur dicendosi comunisti, vennero ampiamente spalleggiati dagli Alleati e risultarono poi, nel dopoguerra, non allineati, rompendo con l’Unione Sovietica e abbandonando il Patto di Varsavia. Sappiamo che la ricorrenza del 10 febbraio sia stata fortemente voluta dalla defunta Alleanza Nazionale, e da ambienti neofascisti, ideologizzando tali eventi funesti in chiave italofila, ma commemorare le vittime è sacrosanto, anche per ristabilire la verità storica: i martiri delle foibe e gli esuli non erano italiani (per lo più), erano dell’areale venetico (cioè Lombardia storica orientale), vittime della sterile contrapposizione fra regimi e ideologie incuranti del genuino dato etnico.

Il ricordo è doveroso, perché i nostri fratelli padano-alpini orientali si sono trovati sotto il fuoco incrociato dell’Italia fascista e della Iugoslavia comunista, in ispregio delle vere radici identitarie della Venezia Giulia storica. Un discorso che può essere fatto in maniera analoga per quella fetta di popolazione slava angariata dagli occupanti fascisti (campi di concentramento, politiche aggressive nei confronti di territori al di fuori del contesto “italiano”, occupazioni frutto di vittorie altrui), poiché è evidente che se un potere politico non è animato da serie rivendicazioni identitarie diventa un’usurpazione. Resta certamente il fatto che decine di migliaia di nostri connazionali granlombardi siano stati sterminati, in quanto “italiani”, dai partigiani titini e che a centinaia di migliaia siano stati costretti all’esilio, abbandonando terre legate da secoli alla Cisalpina, strappateci per il volere dei vincitori occidentali dell’ultimo conflitto. Prima del Regno d’Italia, infatti, vi fu la Serenissima, e prima della Serenissima vi fu la Romània etnolinguistica, in parte sommersa dalle migrazioni slave medievali. Il caso dalmata è di poco interesse (sebbene la presenza storica veneta sia indiscutibile, pensiamo anche solo a Zara), ma di sicuro l’Istria, Fiume, la Venezia Giulia in senso allargato rientrano nello spazio patrio, sono Grande Lombardia, e questo non deve essere mai scordato, facendolo presente soprattutto a quei nostalgici comunisti revisionisti che parteggiano per un porco funzionale agli Usa (Tito), minimizzando i massacri, le persecuzioni, le angherie subite dai connazionali. Ma, allo stesso tempo, va rammentato ai patrioti italici che l’italianità della Lombardia orientale è una buffonata, frutto di colonialismo regnicolo e fascista divenuto controproducente per gli stessi martiri. Non dimentichiamoci delle vittime dell’odio iugoslavo e della volontà alleata, non dimentichiamoci delle terre orientali irredente che andrebbero ricongiunte alla vera madrepatria, non in nome del pezzente imperialismo tricolore bensì della loro storia granlombarda.