22-28 marzo: la celebrazione del Sanguem

Dioniso-Orfeo crocifisso

Nell’antica Roma, tramite culti frigi sbarcati prima in Grecia e poi nell’Italia etnica, si festeggiava il Sanguem, ricorrenza pagana sanguinolenta in onore della Grande Madre Cibele e di Attis, divinità ad essa associata. Questi, con la sua morte e resurrezione, simboleggiava il ciclo vegetativo del rinnovamento primaverile, e le festività connesse erano celebrate – segnatamente – tra il 22 e il 28 marzo, subito dopo l’equinozio di primavera, proprio come la Pasqua. Attis viene talvolta accostato al tracio Dioniso, altro dio che muore e risorge offrendo il proprio corpo e il proprio sangue (rappresentato dal vino), nonché ad Adone, Osiride, Mitra, Marduk ecc. La resurrezione di Gesù Cristo non è nulla di originale (celebrata in primavera, peraltro): “secondo un mito Dioniso-Libero venne crocifisso e sulla testa gli venne posta una corona di rami, morì e resuscitò dalla morte nell’equinozio di primavera, praticamente a Pasqua. Inoltre nacque il 25 dicembre da una vergine e venne deposto in una mangiatoia. Fece parecchi miracoli tra i quali trasformare l’acqua in vino. Tra i suoi appellativi spiccano: l’unto, il re dei re, il redentore, il salvatore, il dio degli dei”. (fonte)

La figura, probabilmente inventata, del Nazareno è un insieme di credenze e profezie vetero-testamentarie mescolate ai ruoli taumaturgici e soteriologici ellenici come quelli di Asclepio, Eracle e dello stesso Dioniso (oltre che a deità orientali come l’ariano Mitra). Dioniso, a sua volta, si associa ad Orfeo (e all’orfismo), che in un curioso pendaglio del IV secolo viene presentato crocifisso. Durante le sacre funzioni in onore di Bacco, il sangue era rappresentato dal vino e il corpo dal pane, una iconografia eucaristica che è stata poi adottata dai cristiani. D’altronde, nascere da una vergine, morire crocifisso (o fatto a pezzi dalle menadi = sparagmòs) e risorgere dopo tre giorni non è certo prerogativa del Cristo, l’ultimo arrivato di tante altre figure mitologiche analoghe dell’antichità. Lo stesso Attis, la cui morte era simboleggiata da un tronco di pino – il legno tagliato evoca la croce di Gesù -, resuscitava il 25 di marzo, in corrispondenza dell’equinozio primaverile e dunque del gioioso periodo di luce che diventa più lungo di quello del buio, e la sua rinascita veniva celebrata negli Hilaria, da cui tra l’altro nacque l’usanza del pesce di aprile. Chissà come mai l’Annunciazione si celebra proprio in quel giorno (Cibele, strettamente collegata ad Attis, era anche madre degli dei)…

20-21 marzo: l’equinozio di primavera – Ostara

Ostara

Il 20-21 marzo (quest’anno 20) cade l’equinozio di primavera, che segna astronomicamente la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, e che assieme al 23 settembre, equinozio d’autunno, è l’unico giorno dell’anno in cui la durata del giorno e della notte si equivalgono. Questo dì coincide con Ostara, festa che nel mondo germanico celebra la rinascita, la fecondità, la rigenerazione della natura, in onore della dea Eostre (che ricorda, pure etimologicamente per via delle allusioni alla luce e al fuoco, Vesta), il cui nome allude all’Est, dove sorge e rinasce ogni giorno il sole, e la luce, per l’appunto. Ad Eostre è associata la lepre, per la velocità con cui si riproduce, e da qui nasce il famoso coniglio pasquale. Anche nella celebrazione di Ostara il fuoco ha un ruolo centrale, ed è facile intuire come la Chiesa, al solito, si sia appropriata di usanze precristiane confuse alla cianfrusaglia della Pasqua ebraica (si pensi ai riti della veglia pasquale, al cero, al fuoco, all’acqua, alla nascita, alla luce che vince le tenebre, la vita che trionfa sulla morte).

Pure le uova pasquali rimandano ad Eostre, e dunque ad Ostara, in quanto venivano decorate e regalate come simbolo di fertilità e rinascita (si veda anche il mitico concetto di uovo cosmico, presente in varie civiltà antiche). Ancor oggi nei Paesi germanici, Ostara coincide con la Pasqua cristiana (inglese Easter, tedesco Ostern), e tutti i simboli tradizionali pasquali, slegati dal giudaismo, sono ovvi rimandi pagani. La Pasqua celebra la morte e resurrezione di Gesù Cristo, ma cos’è questo se non un simbolo ovvio della rinascita primaverile della natura, dopo l’apparente morte invernale? La contrapposizione tra fuoco, luce, resurrezione, vita, fecondità da una parte e freddo, tenebre, morte, sterilità e aridità dall’altra non è nulla di cristiano, perché riflette un sentire comune dell’uomo indoeuropeo in simbiosi con il ciclo naturale delle stagioni, che è un ciclo stagionale di morte e di rinascita scandito astronomicamente dal sole. La Chiesa ha assimilato Ostara alla Pasqua, la cui data è mobile ma cade la domenica (soledì) successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, ovviamente perché ricalca le antiche celebrazioni precristiane che i diversamente rabbini si erano ripromessi di cancellare.

18 marzo (2020): il ricordo delle vittime del Covid-19

Monumentale di Bergamo

I sud-italiani in fuga da Milano, e che cantavano e strimpellavano dai balconi durante il confinamento; le politiche e le restrizioni del governo giallo-rosso di Giuseppe Conte, dal predominante carattere ausonico, che si faceva beffe della Padania ferita, colpita al cuore; l’abnorme numero di necrologi della stampa locale; il lugubre corteo dei mezzi dell’esercito tricolore in quel di Borgo Palazzo, a Bergamo, sede dell’antica corte regia franco-longobarda; i militari russi che sanificavano gli ospizi delle valli orobiche e bresciane, bandiere moscovite al vento… Sono già passati 5 anni dal fosco periodo in cui infuriò il coronavirus, morbo cinese d’importazione globalista, segnando profondamente la memoria della nostra gente. Bergamo, Brescia, Crema, Cremona, Lodi, Piacenza, le città più flagellate dal contagio, in un’emergenza sanitaria spacciata per “nazionale” (in senso italiano) che riguardava fondamentalmente il cuore della Cisalpina. Tutti ricordiamo quella terribile fase della storia recente padana, e per quanto media, politica, multinazionali, enti mondialisti e alta finanza ci abbiano marciato, strumentalizzando il dolore della gente per imporre misure draconiane a uso e consumo del sistema, è indubbio che in quel marzo del 2020 si sia registrata un’altissima mortalità in certe aree, rispetto agli anni precedenti. Sirene spiegate, campane a morto, onoranze funebri prostrate non furono di certo un’invenzione.

La generazione dei nostri vecchi è stata messa a durissima prova dagli eventi di quel periodo, e moltissime famiglie, ad esempio, dell’orobica Val Seriana hanno pianto uno o più cari che se ne sono andati, in situazioni drammaticamente complicate e compromesse dai rigidi protocolli sanitari (taluni mettono sotto accusa la condotta stessa del personale sanitario, vedi intubazione). Molto inchiostro complottista è stato versato, a cominciare dai mesti convogli militari che dagli ospedali bergamaschi partivano alla volta di altri forni crematori granlombardi, per via del collasso di quello cittadino, per poi giungere alle campagne vaccinali e alla natura del vaccino stesso, approntato per contrastare il covid, ma per chi non è addetto ai lavori il rischio di avventurarsi in sentieri alternativi comporta impantanarsi in tesi ridicole. Resta il fatto, è chiaro, che lo status quo abbia usato il pretesto della crisi per aumentare il controllo delle persone spaventandole, restringere le libertà individuali, discriminare chi, legittimamente, ha rifiutato di vaccinarsi, il tutto per portare quattrini nelle casse dei soliti noti. Andavano tutelate le fasce più deboli e gli anziani, come nel caso della prevenzione anti-influenzale, ma si è preferito coartare, in maniera sotterranea, con provvedimenti dispotici benedetti dalle alte sfere. Trasformando il coronavirus nella peste bubbonica. Oggi, ricordare chi morì tra inverno e primavera del 2020, nel fulcro della nazione lombarda, è doveroso e sacrosanto, come ogni altro evento luttuoso che ha interessato la nostra comunità, con un avvertimento: il benessere materiale e spirituale dei lombardi passa per la libertà da Roma, dall’Unione Europea e dal sistema-mondo.

17 marzo: la (vera) festa del papà

Liber Pater

Il 19 di marzo si celebra la festa convenzionale del papà, intitolata a San Giuseppe, padre putativo di Gesù Nazareno. In realtà, tale ricorrenza, risente profondamente dei Liberali romani in onore di Liber Pater, dio italico della fecondità agreste e maschile e del vino (un sostituto “edulcorato” di Bacco), Liberali che si tenevano il giorno 17 di marzo. Facile intuire, dunque, la consueta usurpazione cattolica, che colloca la celebrazione di San Giuseppe a pochissima distanza temporale da quella di Libero, cristianizzando la festa del papà che affonda le sue radici in una festività pagana. Il legame tra il 17 di marzo e il 19 è limpido, e tra l’altro, coi Liberalia, gli adolescenti romani diventavano simbolicamente adulti indossando la toga virile. Liber è dunque un dio agreste, andato a rimpiazzare i culti di Bacco che il senato romano aveva soppresso, per via della loro sfrenatezza orgiastica, ma conserva i tratti del dio del piacere, dell’ebbrezza e dei vizi.

Compagna di Libero è Libera, che presiedeva alle ragazze come il consorte ai ragazzi, e anch’essa veniva festeggiata il 17 marzo; questa coppia divina incarnava anche gli attributi sessuali maschili e femminili, e quindi la fecondità dell’uomo e della donna, ma pure la fecondità dei campi, che in quel giorno riposavano. Il vino (e la viticoltura), come nei baccanali, è al centro della celebrazione, e Liber ne è il protettore, colui sotto cui si gusta in primavera il vino novello. I Liberali avevano una forte connotazione agreste e rurale, venivano in origine celebrati in campagna, ed erano caratterizzati da libagioni, scherzi, maschere, grossolanità e volgarità festose; si cantavano inni a Libero offrendogli sacrifici ed esaltando la sua valenza virile, nonché la sua forza fecondativa. Ma Liber Pater, come illustra il suo nome, era anche il dio della libertà e dei diritti del popolo, in contrapposizione alla condizione servile e al potere oppressivo, patrono della plebe che si libera estaticamente (mediante il vino). I Liberalia si tenevano a ridosso dell’equinozio di primavera, in quanto feste del risveglio primaverile e del rinnovato ciclo di fertilità agricolo.

13 marzo: el Tredesin de Marz

Tredesin de marz

Nella foto riportata sopra potete apprezzare la nota pietra del Tredesin de Marz, situata nella chiesa milanese di Santa Maria al Paradiso, associata al culto di San Barnaba. Questa pietra forata dai caratteristici 13 raggi, in realtà, è un antichissimo simbolo solare di origine celtica, deturpato dai primitivi cristiani milanesi che vi conficcarono nel mezzo una croce, che in principio doveva ricoprire un’importante valenza in termini cultuali e astronomici. El Tredesin de Marz è il ricordo del primo diffondersi del cristianesimo a Milano per opera dell’annuncio di San Barnaba, e rappresenta ancor oggi la tradizionale festa della primavera e dei fiori milanese. Chiaramente, in origine, tale ricorrenza era del tutto pagana e sgraffignata dal cuore celtico di Medhelan. La pietra sunnominata si trovava inizialmente, con tutta probabilità, in una radura, esposta alla venerazione degli antichi Celti insubrici; San Barnaba, durante la sua predicazione, collocò nel foro centrale una croce di legno andando così a violare l’originaria valenza di questo testimone del paganesimo gallico milanese. Il tredici di marzo è dunque la festa meneghina del cambio di stagione, della primavera, dei fiori, della rinascita della flora, e proprio per questo, da tradizione, si attendeva tale giorno per tagliare i capelli ai bambini, affinché potessero ricrescere forti, sani e belli.

Oggi tale ricorrenza, venendo meno la coscienza identitaria dei milanesi indigeni, è ben poco sentita dalla popolazione, ma rappresenta comunque una celebrazione delle origini celtiche di Milano e dell’Insubria, da riconnettersi all’avvento della primavera e, dunque, ai culti uranici dei nostri avi indoeuropei, affatto sensibili ai richiami del legame ancestrale tra riti agresti, astronomia, sacro e natura incontaminata. La valenza della pietra incisa, col suo foro centrale e i suoi tredici raggi (tredici come il tredici di marzo), potrebbe essere quella di antichissimo simbolo solare che poteva fungere da calendario, da meridiana, da mappa celeste, da strumento astronomico. Tra l’altro, la pietra del Tredesin ricorda da vicino il celebre Sole delle Alpi, un simbolo celtico – ma anche ligure e longobardo – che rappresenta l’armonia, il ciclo stagionale, i ritmi della vita, la gioia di vivere dei popoli indoeuropei (Celti, soprattutto), la simbiosi tra uomo e natura e, naturalmente, come molti altri emblemi di tradizione ariana, il precipuo degli astri, il sole. Cosicché il tredici di marzo potrebbe anche essere la festa di tale noto simbolo, inflazionato dai leghisti, che non vedrei male come ipotetico emblema di una sorta di Chiesa nazionale ambrosiana, trasmutata in senso gentile, veicolo materiale della rinascita spirituale granlombarda.

La realtà etnica italiana

Chi segue il lombardesimo sa per certo che secondo Paolo Sizzi la vera Italia etnica è il centrosud, senza Padania e Sardegna. Per la verità, Sizzi si ispira al genuino concetto di italianità, che è l’unico possibile, grazie al quale è evidente come in nessun modo i territori cisalpini possano dirsi italici/italiani. Ce lo insegna la storia, ma anche e soprattutto l’antropologia, unita alla linguistica, alla cultura, all’identità e naturalmente alla genetica, oggi fondamentale. Se può avere un senso parlare di Italia e di nazione italiana, lo si deve fare riferendosi alla vera penisola, dall’Appennino in giù, includendo Corsica, Sicilia e Malta che sono inscindibilmente legate alla parte continentale appenninica, proiettata nel Mediterraneo.

Alla luce di ciò non è esatto affermare che l’Italia non esista, perché essa esiste, a patto che la si intenda, per l’appunto, come realtà etnica peninsulare e insulare (non sarda). Gli italiani, quelli veri, sono gli indigeni mediterranei di quella terra chiamata, in epoca romana, Italia Suburbicaria, le cui radici etniche sono etrusche, italiche, greche e greco-romane, con un apporto antico e imperiale di taglio levantino e contributi – talvolta minoritari – di popoli medievali quali Bizantini, Mori e Saraceni, Longobardi, Normanni, coloni cisalpini e balcanici. Si tratta pertanto di una nazione meridionale/sud-orientale, nel contesto europeo, con un etnonimo che nasce nel profondo sud calabrese.

Lo stesso nome ‘Italia’ esprime un concetto etnoculturale, storico e civile a cui la Padania è totalmente estranea, e in parte lo sono anche Toscana e Corsica. ‘Italia’ è la fusione di elementi greci/magnogreci – italioti – con quelli “indigeni” italici, osco-umbri, ed è ulteriormente arricchita da un tocco recente del Mediterraneo orientale, risalente all’epoca tardo-imperiale romana; Roma estese il concetto, in epoca augustea, sino allo spartiacque alpino, per motivi strategici e militari, ma è chiaro che si tratti di un prodotto d’importazione che non riguarda intimamente le origini dei nostri popoli.

E, dopotutto, cosa sarebbe la stessa accezione di cultura italiana, che la retorica patriottarda vuole forgiata nei primordi addirittura dalla medesima Roma antica? L’idioma di Firenze, la romanità di cartapesta, il cattolicesimo untuoso della Roma contemporanea, il sentimentalismo melodrammatico alla mediterranea e la massa informe di stereotipi fondati sulle caratteristiche negative e caricaturali dei sud-italiani, allargate, senza alcun senso, alla Cisalpina (sicuramente per via dei massicci esodi “interni” del dopoguerra). Perché anche l’idea nobile ed elevata di italianità, tanto cara agli sciovinisti, resta un qualcosa la cui matrice è tosco-capitolina, che non appartiene quindi al mondo granlombardo, la cui natura è essere anello di congiunzione fra Europa centrale ed Europa mediterranea.

Oppure, ci si appropria di fenomeni storici che oggi diremmo centrosettentrionali, includendo le terre mediane e meridionali, e la mente corre ai liberi comuni, all’Umanesimo, al Rinascimento, o ai fenomeni letterari e artistici che trovarono terreno fertile in Padania e Toscana, specie negli ambienti di corte. Per non parlare della rilevanza politica “italiana” dell’età contemporanea, che esclude totalmente il mezzogiorno (per quanto, si capisce, non vi sia alcunché di positivo e degno di nota negli sciagurati fenomeni che seguirono l’avvento della Rivoluzione francese e di Napoleone).

Perciò, cari amici, l’unico significato razionale di Italia, italiani e italianità esclude la Grande Lombardia, poiché riguarda in tutto e per tutto i popoli peninsulari e insulari, di lingua italo-romanza, estrazione mediterranea, prisca romanità (vi ricordate il Rubicone?), importante influsso greco e antiche e consolidate radici italiche. E gli Italici erano solo due gruppi, latino-falisco e osco-umbro, nelle loro sedi storiche schiettamente italiane. A partire dall’etnico, la poetica Ausonia non è cosa… nostra, e rispediamo più che volentieri al mittente ogni malata fantasia che veda lo Stivale fantozziano allungato sino al Brennero. L’identità è una cosa seria, astenersi buffoni tricolori.

7 marzo: la festa delle donne

Giunone Lucina

Alle calende di marzo (primo giorno del mese), presso gli antichi Romani, cadevano i Matronali, ricorrenze in onore di Giunone come Lucina, protettrice delle nascite e dei bambini. In tale celebrazione gli uomini facevano doni a mogli e madri, ottenendo lode e onore, soprattutto dalle compagne. Le donne erano solite fare dei voti, presso il tempio di Giunone Lucina a Roma, per la gloria dei mariti, proprio all’inizio dell’anno sacro romano, che coincideva con la ripresa delle attività militari; gli uomini ricambiavano, appunto, con dei doni, celebrando anche le nascite. I Matronali erano una festività che rivisitava la cerimonia privata del matrimonio, che veniva così ripetuta all’inizio dell’anno nuovo (il quale, come sappiamo, cominciava in marzo): ai presenti dei mariti rispondevano le lodi e le gratificazioni delle mogli. Il 7 di marzo, invece, a conclusione delle celebrazioni matronali, si tenevano gli Iunonalia, feste sempre in onore di Giunone, che devono sicuramente aver ispirato la moderna ricorrenza laica dell’8 marzo, festa della donna. Le calende di tutti i mesi erano consacrate al culto di Giunone, specialmente quelle di marzo che prendevano il nome di femineae kalendae.

Volendo individuare una festa delle donne (e delle donne come mogli e madri), eccola qui; una buona occasione anche per celebrare ciò che rende donna una donna: l’identità sessuale, il parto, la maternità, la femminilità, la sua complementarità al maschile, che è diversità, non certo inferiorità. Ma nemmeno ipocrita e ideologica parità di genere. Alla faccia della sovversione moderna che considera ormai una disabilità la visione naturale e tradizionale del gentil sesso, una taccia figlia del bieco patriarcato e via di queste sciocchezze progressiste. Che poi, mi chiedo cosa vi sia di progresso concreto nelle sparate della sinistra mondialista… Un’altra interessante ricorrenza centrata sul femminile cade il 31 di marzo (sempre tale mese): la festa della dea Luna, personificazione romana del satellite terrestre, complemento femminile alla personificazione maschile dell’astro solare, il Sol Invictus presso i Romani (ma anche il precedente, e autoctono, Sole Indigete, associato al radioso Apollo). Sembrerebbe che il carattere muliebre delle celebrazioni del mese di marzo derivi dal ruolo di mediazione svolto nel conflitto tra Romani e Sabini dalle stesse donne vittime del celebre ratto.

Il dualismo Carnevale-Quaresima

La veggia

Le celebrazioni della Quaresima (come della Pasqua) trovano riscontro nei lontani riti indoeuropei della morte e resurrezione delle divinità antiche, connessi ai culti agresti: si tratta delle feste del fuoco, tra inverno e primavera. Nel periodo in cui la terra sembra morta (nel riposo invernale), si passa ai primi tepori della primavera, durante i quali si assiste alla rinascita progressiva della natura. Il fuoco che si sprigiona dagli sterpi del falò, o da un pupazzo di legno (la lombarda veggia di mezza Quaresima, ad esempio), è un ricordo forte del fuoco sacro rituale, che doveva fugare ogni malanno dalle sementi nascoste sotto terra e propiziare l’abbondanza del raccolto. La Quaresima segue il Carnevale, oggi ridotto a mascherine, bambinate, stelle filanti e schiuma da barba spruzzata sui muri (o in faccia a ignari passanti), ma che trova precedenti significativi nelle Dionisie greche e nei Saturnali romani, espressione del bisogno di un temporaneo scioglimento degli obblighi sociali e delle gerarchie per fare spazio al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza orgiastica. Un disordine rituale temporaneo in vista di una solenne restaurazione ed esaltazione dell’ordine permanente, di derivazione divina. Nota bene: queste ricorrenze vanno di pari passo con i ritmi agresti stagionali, rappresentando l’intimo legame dell’uomo antico con la natura e gli astri del firmamento, suggellato dal sacro e dalla tradizione.

Il significato simbolico dell’antitesi tra Carnevale e Quaresima è da ricollegare all’antitesi distruzione-rigenerazione (vedi anche morte e resurrezione del Cristo), che si esprime nel mito dell’eterno ritorno e dei cicli cosmici. Una contrapposizione in cui il Carnevale trionfante finisce per morire, con tanto di celebrazione del suo funerale, in una sorta di parodia della passione di Gesù: il trapasso dalla gioia della vita alla fredda solitudine della morte. È anche interessante notare le anticipazioni di questo dualismo nel periodo dell’Avvento (che ricalca i Saturnali), di Capodanno e dell’Epifania, dove l’atmosfera orgiastica si alterna al perentorio richiamo alla sobrietà, al rigore, alla purificazione. I riti di accensione del fuoco segnano le fasi di transizione lungo l’anno solare, e fanno parte del bagaglio culturale di antichissime tradizioni indoeuropee pagane, prima che cristiane. Nei periodi di passaggio dell’anno si sono, da sempre, svolte cerimonie atte a purificare ed espellere i demoni del passato, celebrando il nuovo che ri-nasce sconfiggendo il vecchio: e cos’è la Pasqua cristiana se non questo, ossia il trionfo luminoso della primavera, della vita che si rigenera, abbattendo il passato invernale con la morte apparente della natura? Gli intermezzi carnascialeschi mimano il caos della fine, che precede la grande palingenesi e l’avvento dell’ordine – trascendente – assoluto. Come sempre, dietro la patina abramitica dei periodi “forti” dell’anno liturgico, si può ancor oggi intravvedere l’originale matrice ariana, presente in moltissime ricorrenze ecclesiastiche del calendario cattolico romano. 

Marzo – Martius

Marte

Il mese di marzo (Martius), primo mese dell’anno nell’antico calendario romano (successivamente il terzo dopo febbraio), è dedicato al dio italico e romano Marte, dio della guerra e della protezione armata della terra (in età arcaica era anche dio del tuono, della pioggia, della fertilità), e in relazione con la pratica italica del ver sacrum. Era ritenuto antenato del popolo romano, per tramite dei suoi figli Romolo e Remo. Il teonimo Mars, parente dell’osco Mamers, pare derivare da un antico latino *Maworts, che potrebbe significare ‘colui che piega/trasforma il combattimento’, o comunque sia riferibile ad un etimo da riconnettersi alla sfera bellica; un’altra ipotesi lo vuole apparentato col nome del dio etrusco Maris (accostabile al latino mas, maris ‘maschio’?), il dio ragazzo. Preposto alla seconda funzione dell’ariana tripartizione studiata dal Dumézil, ossia appunto quella militare, Marte presta il suo nome al mese di marzo in quanto, generalmente, le guerre iniziavano in tale mese (assieme alle attività agresti e alla navigazione). Il primo giorno di marzo era così il Capodanno sacro romano, in cui veniva rinnovato il fuoco di Vesta, dea del focolare domestico.

Presso gli antichi Ariani, infatti, il primo giorno del periodo marzolino segnava, con l’avvento della primavera, l’inizio dell’anno sacro (e non a caso settembre, ottobre, novembre, dicembre prendono tali nomi a partire da marzo); così era anche presso gli antichi Veneti, talché il Capodanno veneziano (more veneto, da cui il folclorico ciamar Marzo) cade l’1/3. Il fuoco sacro della dea Vesta era custodito dalle sue sacerdotesse (vestali) nell’omonimo tempio romano, a testimonianza di un antico culto indoeuropeo del fuoco, dunque del sole. Indovinate un po’ chi lo estinse, nel 391 era volgare…  Il mese di marzo è, quindi, mese dedicato a Marte e Vesta, sebbene la divinità tutelare, nell’antichità romana, fosse Minerva. Il periodo in oggetto è caratterizzato dall’equinozio primaverile, in cui la durata del giorno e della notte finalmente si equivalgono, dopo il freddo e buio periodo invernale, e le attività agricole a cui il mese era preposto consistevano nel predisporre i tralicci di vite, potare e seminare il grano primaverile. Marzo era pregno di ricorrenze religiose, per via della sua valenza di primo mese dell’anno, in cui la celebrazione di Marte, in quanto dio della guerra, era mirata alla sua esaltazione di guardiano dello Stato e dell’agricoltura, in associazione con il ciclo della vita e della morte. Le attività belliche e rustiche si chiudevano in ottobre, e con esse terminava la stagione di Marte, con altre celebrazioni. Marzo si apre con il sole nel segno dei Pesci, e termina con il suo ingresso in quello dell’Ariete (dal 21 del mese).