29 maggio (1176): la battaglia di Legnano (festa nazionale della Lombardia etnica)

La battaglia di Legnano

Il 29 maggio 1176, nei dintorni di Legnano (Alto Milanese), l’esercito della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda primigenia, sgominava le truppe imperiali del Barbarossa, costringendo l’imperatore stesso a cercare rifugio nella fedele Pavia. Questa vittoria dei liberi comuni lombardi (non tutti, comunque, erano schierati dalla parte di Milano e della Lega) non era il frutto di alleanze padano-alpine ostili al Sacro Romano Impero, sebbene lo Staufer si fosse mostrato spietato nei confronti della capitale e degli alleati; nessuno metteva in dubbio l’autorità e la legittimità dell’organismo imperiale, ma si lottava per acquisire maggiore autonomia e sfuggire alla morsa dell’esoso fisco teutisco, i cui emissari taglieggiavano la popolazione. Tale ricorrenza è dunque la degna festa della Lombardia etnica, cuore della nazione cisalpina, senza però dimenticare che facevano parte della Lega anche città liguri, venete e romagnole, quindi granlombarde; è nel fulcro etnico padano che la Societas Lombardiae si formò e attinse le precipue forze militari di fanteria e cavalleria. Tuttavia, non va nemmeno scordato che diverse città erano invece fedeli alleate dell’imperatore (Como e Pavia, ad esempio) e ancora oggi troviamo traccia di questa dicotomia nelle differenti insegne comunali, dove la Croce di San Giorgio testimonia il credo guelfo e filo-papale e quella di San Giovanni, viceversa, il ghibellino e filo-imperiale.

La distanza temporale ci permette di inquadrare con serenità queste vicende storiche nell’ambito dell’orgoglio comunale lombardo, vedendo nel 29 maggio una data degna di rappresentare la festa della Lombardia etnica, essendo una tappa fondamentale nel cammino della presa di coscienza identitaria dei lombardi. Certo, nessuno nasconde che dopo Legnano l’ostilità campanilistica tra le varie città padane riprese (mi vengono in mente le sanguinose lotte confinarie tra la guelfa Brescia e la, prevalentemente, ghibellina Bergamo), eppure la Societas Lombardiae, Pontida, il mitico Alberto da Giussano, il carroccio rappresentano simboli ancor vivi e sentiti nella popolazione indigena, in quanto emblemi patriottici. Anche la retorica risorgimentale si è impossessata di Legnano come simbolo della resistenza “italiana” alle mire germaniche, pervertendola. Unica pecca, il fatto che dietro la militanza guelfa lombarda si nascondessero le oscure mene papiste della Chiesa, per quanto abbiano contribuito a ritardare di secoli l’innaturale unità italica. L’idea medievale di Italia, confusa con quella etnica di Grande Lombardia, prese forma di regno ancillare svuotato di significato, nonostante la Corona Ferrea dei re longobardi. Oggi, senza più bisogno di azzuffarsi tra opposte fazioni, celebriamo il 29 maggio come festa etnonazionale dei lombardi, e come sacrosanta rivendicazione indipendentista verso Roma. Senza tuttavia confondere il SRI con la RI.

11 maggio (1395): la costituzione del Ducato di Milano (festa del Ducale visconteo)

Il Ducale visconteo

L’11 maggio 1395 è la data della costituzione del Ducato di Milano, quando cioè Gian Galeazzo Visconti, già vicario imperiale e signore della capitale lombarda, ottenne il titolo di Duca di Milano mediante diploma imperiale di Venceslao di Lussemburgo (la celebrazione ufficiale della nomina risale al 5 settembre dello stesso anno, quando venne ratificata). Due anni dopo, il 30 marzo 1397, venne alla luce il Ducato di Lombardia. L’11 maggio 1395 il Visconti acquisì il diritto di inquartare il Biscione visconteo con l’Aquila imperiale, nella nuova bandiera ducale. Cosicché tale data può tranquillamente essere la festa del Ducale visconteo, vessillo tradizionale insubrico ed emblema grande-lombardo, nonché futuribile stemma nazionale dell’etnostato cisalpino. La descrizione araldica dello stemma del Ducato di Milano è la seguente: “inquartato, nel primo e nel quarto, d’oro all’aquila abbassata di nero, lampassata di rosso e coronata del campo; nel secondo e nel terzo, d’argento alla biscia d’azzurro ondeggiante in palo e coronata d’oro, ingolante un moro di carnagione”. Gli Sforza mantennero il Biscione visconteo, in quanto vanto di antica signoria e riconferma del ruolo di signori di Milano, volendo dimostrare di essere i legittimi successori dei Visconti. L’emblema dell’Aquila venne mantenuto come pegno di fedeltà degli Sforza all’imperatore del Sacro Romano Impero.

L’origine del Biscione è dibattuta, ma probabilmente è il risultato della fusione di due elementi: il primo è la vipera d’oro (o azzurra) adorata dai Longobardi, da essi portata come monile al collo (o appesa agli alberi sacri, come il famoso noce di Benevento), mentre il secondo sarebbe il simbolo di un moro sconfitto da Ottone Visconti in “Terrasanta”, durante la seconda crociata, consistente in un serpente che divora un uomo. In quest’ultimo caso, appropriandosi dell’emblema moresco e mutandone il significato, il Visconti mise in bocca al serpente (o drago) il saraceno, simboleggiando così la propria vittoria. Va citata anche una leggenda secondo cui il Biscione deriverebbe dal mitico drago Tarantasio, ucciso dal capostipite dei Visconti, bestia abitante lo scomparso Lago Gerundo, che terrorizzava il Milanese divorando bambini. Probabilmente questo mito si incrocia con quello di altri draghi acquatici padani o del basilisco, re dei serpenti dal letale sguardo presente nel folclore lombardo, come in quello europeo, nonché – per converso – con la vita che fiorisce dalla terra (la biscia è animale ctonio). L’Aquila imperiale, invece, è il simbolo degli imperatori germanici, mutuato dall’antica Roma imperiale, nello specifico dalle legioni romane che sfoggiavano il rapace come simbolo di Giove e della sua potenza. Tale uccello sacro passò da Roma a Carlo Magno e, in seguito, al Sacro Romano Impero.

Legge

La regolamentazione della convivenza nella comunità e in società necessita, logicamente, di una precisa legislazione che porti alla sistemazione di leggi ereditate dal nostro passato identitario, aggiungendone, qualora necessario, delle altre. Il rispetto del diritto implica un patto politico e di solidarietà tra simili, che nel caso della collettività lombarda riguarda gli indigeni padano-alpini. La nostra tradizione giuridica ci parla di consuetudini tribali ereditate dai Celti, che una volta assorbiti dall’orbita romana si sono adeguati agli usi e costumi, e alle leggi, dei conquistatori, integrandosi nell’organismo italico e adottandone la lingua, la cultura, la religione e le abitudini, non senza influenzare a loro volta, a livello di sostrato, l’impronta civile dei Romani. L’antichità cisalpina si compie nel segno di Roma e del suo impero, confluendo poi nel Medioevo barbarico, caratterizzato dall’importante retaggio longobardo sintetizzato, in senso sincretico, dal noto Editto di Rotari. Consuetudini, tradizioni e leggi di origine germanica, rimescolate alla latinità, che si perpetuarono sino al Rinascimento, passando attraverso la basilare fase della civiltà comunale e delle signorie.

Con i domini forestieri (Francia, Spagna, Austria, Venezia, Stato pontificio), la Grande Lombardia frammentata finisce per adattarsi a codici di origine straniera, non senza contributi locali di origine comunale e signorile e una riscoperta del diritto romano (giustinianeo), per poi approdare al Codice napoleonico e alla giustizia austriaca amministrata dal Regno del Lombardo-Veneto. Con la fase italianista, ecco lo Statuto Albertino sino all’approdo della Repubblica, allorquando si impose la Costituzione, venerata dagli antifascisti del tricolore. L’origine del diritto civile e penale italiano, intrecciati alla carta costituzionale, affonda così le proprie radici nel passato romano e napoleonico, confermando come l’Italia moderna sia soltanto uno stato senza nazione eretto in nome di una romanità di cartapesta e soprattutto del dominio transalpino incarnato dal giacobinismo (Rivoluzione, Napoleone, Risorgimento). Lo stesso fascismo, d’altra parte, fu un’appendice risorgimentale, tesa ad esaltare un finto popolo sotto l’egida di uno squisito simbolo rivoluzionario, il fascio littorio. La Lombardia deve affrancarsi dal giogo di Roma e dell’Italia e riscoprire le sue genuine radici, che non sono banalmente romane o cattoliche, ma anche celtiche e barbariche. Nonché gentili.

Le tre lombardità

Sizzi e il lombardesimo, spesso, ci parlano di tre forme di identità lombarda, di tre lombardità, che sono manifestazioni e declinazioni concrete del vero concetto di essenza identitaria cisalpina. Si tratta delle lombardità etnica, etnolinguistica e storica che coincidono con la Lombardia etnica, l’etnolinguistica e la Grande Lombardia, e cioè la Lombardia storica che abbraccia l’intera Padania geografica. Oggi, purtroppo, nel linguaggio comune la Lombardia è semplicemente la misera regione artificiale della Repubblica Italiana, un ente creato negli anni ’70 del secolo scorso che ha poco a che vedere con la realtà etnonazionale lombarda. Per tale ragione il lombardista ha il diritto e il dovere di diffondere la vera accezione della nostra comunità nazionale, della nostra patria, sconfiggendo le tenebre dell’ignoranza alimentate dal regime tricolore.

La lombardità etnica, che corrisponde alla Lombardia etnica, riguarda il bacino imbrifero del fiume Po e tutti i territori e le genti racchiusi da esso. Parliamo del fulcro della nazione lombarda, caratterizzato dalla stratificazione identitaria celto-ligure, gallo-romana e longobarda, dalla presenza delle lingue schiettamente lombarde e dall’azione storica unificatrice della Lega Lombarda e del Ducato visconteo. Il concetto di Lombardia etnica è stato promosso dal lombardesimo sin dagli albori, in quanto palcoscenico d’elezione dell’azione politico-culturale lombardista e cuore della nazione padano-alpina più profonda.

La lombardità etnolinguistica, che corrisponde alla Lombardia etnolinguistica, concerne l’intero ambito del cosiddetto gallo-italico (che poi è il vero lombardo moderno), dunque oltre alla Lombardia etnica anche l’Emilia orientale, la Romagna con San Marino, l’antico ager Gallicus e l’areale ligure (la regione odierna, la Lunigiana, Montecarlo e il Nizzardo). Il confine meridionale è dato dalla nota linea Massa-Senigallia – sebbene lo statuto del massese sia dibattuto – che coincide con lo spartiacque appenninico e con il limite sud-est della Romània occidentale. È quella che potremmo definire (Grande) Lombardia occidentale, fondata sulle radici galliche e sulla linguistica lombarda in senso allargato (in senso stretto è la lombardofonia dei linguisti).

Infine, la lombardità storica, che coincide con la Lombardia storica/Grande Lombardia, abbraccia tutta la Cisalpina ed è la sovrapposizione della Langobardia Maior (logicamente senza Tuscia) alla Gallia Citeriore, dalla geografia subcontinentale e anello di congiunzione storico fra Europa centrale ed Europa mediterranea. Interamente parte della Romània occidentale, pur essendo caratterizzata anche dal veneto moderno che non è una lingua di sostrato celtico (essendo forgiato sul modello del veneziano), è la terra del galloromanzo cisalpino, ossia gallo-italico col retoromanzo. A ben vedere, anche il ladino (in senso lato) può essere chiamato storicamente lombardo, e quindi il galloromanzo cisalpino non è altro che il ramo lombardo, padano-alpino, della Gallo-Romània.

La nazione lombarda nella sua interezza viene da noi chiamata, per comodità e per agevolare la comprensione, Grande Lombardia, con un troncone occidentale (quello etnolinguistico) e uno orientale (reto-veneto). Si dovrebbe poter parlare di Lombardia tout court, nella sua accezione squisitamente storica (nel Medioevo l’intero “nord” era chiamato Lombardia), segnalando la distinzione identitaria tra ovest ed est, ma il concetto delle tre lombardità aiuta a cogliere le precipue sfumature comunitarie della nostra patria, che conducono gradualmente al significato unitario della nazione. Forse parlare di Lombardia etnica potrebbe trarre in inganno, ma in realtà è utile per indicare il cuore continentale, terragno, della lombardità più profonda, che è comunque destinata ad abbracciare l’intera Padania come espressione etnoculturale del mondo storicamente granlombardo.

6 maggio (2011): la nascita del Movimento Nazionalista Lombardo

Il MNL

Il 6 maggio è la data astronomica intermedia tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate, che è quanto celebravano, ad esempio, i Celti con Beltane (Calendimaggio), festività che tradizionalmente cade il primo giorno del mese. Beltane si colloca all’opposto di Samonios, nel calendario astronomico, e mentre quest’ultimo è celebrazione incentrata sull’autunno, le tenebre, il mondo dei morti, il freddo che avanza, il riposo della terra, il primo è la festa della gioia, della luce, del fuoco, della fertilità, dunque della vita, in un momento dell’anno in cui le giornate si allungano a scapito della notte e la natura rifiorisce grazie al risveglio della primavera (e, di conseguenza, riprendono a pieno regime le attività agresti, grazie alle belle giornate). Per via della valenza sacrale, e astronomica soprattutto, ricoperta dal 6 di maggio, nell’anno 2011 nasceva, presso i boschi sepriesi della Froda (alto Varesotto), il Movimento Nazionalista Lombardo, soggetto fondato da Adalbert Roncari e Paolo Sizzi, e confluito successivamente in Grande Lombardia. Nasceva come laboratorio di idee etnonazionaliste a partire dal lombardesimo delineato dall’umanista orobico Sizzi nel biennio 2009-2010, e poi corroborato dall’esperienza scientifica dell’economista alto-insubrico Roncari.

Il MNL, seppur il punto di vista indipendentista venisse messo in secondo piano a vantaggio della cultura militante, delineò il nucleo fondante e fondamentale della Weltanschauung dei lombardisti: l’etnonazionalismo völkisch e il comunitarismo, grazie a cui è stato definito il concetto di Lombardia etnica, di Grande Lombardia e di lombardità, e di quello che potremmo chiamare etno-razionalismo: non fumose astrazioni metafisiche ma schietta e genuina natura di sangue e suolo (e cultura che li anima, chiaramente), su cui si innerva la ragion d’essere della patria alpino-padana, caratterizzata da tutta una serie di aspetti che la distinguono dalla vera Italia, che è il centrosud. E naturalmente il discorso si allarga fino ad abbracciare l’intero continente europeo. La battaglia, dopo la successiva esperienza di Grande Lombardia, viene portata avanti oggi da Nazione Lombarda, dove tematiche di primaria importanza sono la difesa etnoculturale dei lombardi, la salvaguardia del loro territorio, la promozione della totale autoaffermazione nazionale e del comunitarismo (emanazione etnicista del socialismo nazionale), l’aspra critica contro il semitismo culturale delle religioni abramitiche, l’orgoglio di appartenere alla grande famiglia indogermanica europide e la lotta contro ogni veleno mondialista, progressista, capitalista, nonché contro l’arido materialismo occidentale.

Dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone. Salut Lombardia!

1 maggio: Calendimaggio – Beltane

Beltane

Il primo giorno di maggio è una data densa di significati sacri, magici e simbolici. Veniva ricordato dai Romani con i Floralia dedicati a Flora (e maggio era dedicato a Maia e a suo figlio Mercurio), dai Celti con Beltane in onore di Belenos, dai Germani con la Notte di Valpurga e l’albero di maggio (che si collega all’albero cosmico di Wotan). Queste ricorrenze erano tutte accomunate dal trionfo della primavera sulle forze del male; dal sole, dalla luce, dal fuoco che sconfiggono le tenebre; dal rifiorire della natura simboleggiato dalle ghirlande di fiori e dagli alberi sacri venerati dagli Ariani dell’Europa centrale; dalla celebrazione della fecondità sia delle donne che del bestiame (maggio = Maia = maiale); dalla celebrazione, dunque, dell’amore e della fertilità con balli, canti e anche orge. Tali usanze sono, successivamente, sfociate nei riti primaverili dell’Europa medievale, che per quanto concerne la Padania riguardano principalmente la rustica festa di Calendimaggio, molto cara ai territori di tradizione celto-ligure e appenninica.

Lo speciale legame tra la natura e i popoli antichi ritorna anche nel famoso palo della cuccagna, che è una evoluzione dell’albero di maggio (introdotto probabilmente proprio dai Germani, a sud delle Alpi). Il retaggio celtico è invece forte lungo l’arco alpino, dove si possono trovare residui di antiche tradizioni caratterizzate da falò sulle alture, ghirlande infuocate lanciate dai pendii, canti e balli tra innamorati, omaggi floreali al gentil sesso e tanto baccano, che proprio come nella Notte di Valpurga serve a scacciare le “streghe” e le altre forze delle tenebre. Il fuoco benedice e purifica il bestiame, ma anche le persone, cosicché sia animali che uomini venivano invitati ad attraversare corridoi infuocati come buon auspicio. Beltane si svolgeva in onore del dio proto-celtico della luce Belenos e della sua compagna Belisama, dea del fuoco (e qui si intravvede anche quella salutare complementarità sentimentale e sessuale, relazionale, tra uomo e donna).

Maggio – Maius

Floralia

Il mese di maggio (Maius), terzo mese dell’anno nell’antico calendario romano (successivamente il quinto dopo aprile), prende il nome da Maia, dea della fecondità e del risveglio primaverile della natura, e madre del dio Mercurio (la cui venerazione era legata proprio al mese di maggio). Il teonimo di Maia è collegato al latino maius, maior cioè ‘più grande, maggiore’, alludendo, sicuramente, al concetto di crescita, e fors’anche al fatto che la divinità fosse la madre di Mercurio, e quindi più grande di lui a livello generazionale; ricordiamo, comunque, che maggio era mese propizio per placare le ombre inquiete dei lemures, ossia dei defunti antenati, dei maiores. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio si tenevano i Floralia, una delle feste più licenziose dell’antica Roma, con cerimonie orgiastiche e sfrenate di tema pastorale; nello specifico, Calendimaggio (1 maggio) è giorno dedicato a Flora, dea italico-romana della primavera, dei boccioli, della rifioritura, delle piante utili all’alimentazione come i cereali. La Chiesa spazzò via queste celebrazioni con il culto (molto incentrato sui fiori e le ghirlande, vedi il rosario) della Madonna, appropriandosi, come sempre, di un bagaglio culturale di origine pagana.

La figura di Flora si incrocia con quella suddetta di Maia, mitica madre di Mercurio che dà il nome al mese di maggio, come già ricordato (e al maiale, poiché in onore di Maia veniva sacrificata una scrofa gravida ogni primo giorno di maggio), ed è anch’essa connessa alla fecondità e al risveglio primaverile della natura, e che in origine si identificava con la Bona Dea, divinità femminile dei campi (suggestivo, peraltro, come il consorte fosse il dio del fuoco Vulcano, un elemento, il fuoco, che nel passaggio tra il 30 di aprile e il primo giorno di maggio riveste un ruolo fondamentale nei rituali di origine ariana). Nei riti celebrati in onore di Flora, la donna e la sessualità assumevano un ruolo centrale e si sovrapponevano alla tematica della fecondità dei campi, dato che si pensava che stimolando la fertilità muliebre (e la sessualità umana, logicamente) con la celebrazione sacra si poteva stimolare anche quella vegetale. Ecco perché la nudità femminile era tema ricorrente dei Floralia. Una curiosità: in epoca imperiale si celebravano, soprattutto a maggio, i Rosalia (o Rosaria), festa delle rose, una commemorazione dei defunti da cui l’usanza di porre fiori sulle tombe. Facile intuire donde provenga il rosario e la dedicazione cattolica del mese in questione alla Vergine Maria… Maggio si apre con il sole nel segno del Toro, e termina con il suo ingresso in quello dei Gemelli (dal 21 del mese).