24 giugno: la Notte di San Giovanni

Croce di San Giovanni Battista

La  notte del 24 giugno si celebra il ricordo di San Giovanni Battista, personaggio naturalmente fittizio festeggiato per occultare le celebrazioni solstiziali che vanno dal 21 al 25 giugno, caratterizzate dai grandi falò notturni all’aperto, a simboleggiare il trionfo estivo della luce diurna del sole (come da tradizione astronomica indoeuropea), che però segna anche il suo lento declino a vantaggio delle notti che si allungano. Tali ricorrenze erano (e sono) molto sentite nel Nord dell’Europa, dove il 24 giugno è anche chiamato mezza estate, a ricordare l’antica data intermedia dell’estate nordica, nonché il principio dell’estate astronomica segnato dal solstizio del 21 giugno. La festività collegata al santo cattolico si celebra, anche in Padania e Italia (a Firenze, ad esempio), nella notte tra il 23 e il 24 giugno e ricalca, logicamente, le antiche celebrazioni pagane; la Chiesa l’ha ivi collocata non solo per scalzare la ricorrenza pagana assorbendola ma anche perché tale data cade sei mesi prima del Natale, altra festa palesemente pagana distorta e pervertita dai cristiani. Come il 24 giugno simboleggia la nascita del precursore di Cristo, così il 25 dicembre simboleggia quella di quest’ultimo. I falò, le luci, i fuochi pirotecnici, le luminarie sono tutte manifestazioni che trovano giustificazione nel nostro arcaico sostrato ariano.

Il santo, tra le altre cose, dà il proprio nome anche alla Croce imperiale, di origine medievale, della fazione storica ghibellina, che riprende la Blutfahne, bandiera da guerra del Sacro Romano Impero; allo stesso modo la classica Croce comunale di fazione guelfa prende il nome dal leggendario San Giorgio, una figura guerriera cara, come San Michele, ai Longobardi (ma anche il Battista era significativo nella loro devozione). Stiamo parlando di due simboli sì concepiti cristianamente (anche se il simbolo della ruota, il disco solare ariano, è una croce sovente inscritta in un cerchio, dalla valenza sacrale connessa all’astronomia e all’unione di terreno e uranico), ma che trasudano un potente significato storico che forse proprio nelle Lombardie raggiunge il suo culmine: nella Grande Lombardia, anello di congiunzione galloromanzo tra Mediterraneo e Mitteleuropa, tra romanitas italica e nordicismo germanico, le Croci medievali (e i loro significati) si incontrano e scontrano, e da questa dialettica principiata nel Medioevo vengono a formarsi la comunità etnoculturale granlombarda e il sentimento di appartenenza europeo, che proprio nel Sacro Romano Impero trova la sua concretizzazione. Alla faccia di chi oggi spaccia per Europa la sua negazione mondialista. La Croce di San Giovanni Battista è ancor oggi emblema del Piemonte e di importanti comuni granlombardi quali Pavia, Como, Novara, Lugano, Domodossola, Bormio, Asti, Cuneo, Mondovì, Susa, Aosta, Fidenza, Forlì, Vicenza, Treviso, Castelfranco, Ceneda. 

20-21 giugno: il solstizio d’estate – Notte di mezz’estate

Litha

Il 20-21 giugno (quest’anno 21) cade il solstizio d’estate, il giorno più lungo dell’anno (e di conseguenza la notte più corta, dell’anno). Nell’antichità precristiana i popoli arii festeggiavano con grandi falò sulle colline e i monti l’arrivo dell’estate, la stagione del sole, e protagonisti indiscussi erano il fuoco, la luce, il solare spirito indogermanico che scacciava le tenebre e le forze maligne. Dalla dirompente forza del sole, che segna il cammino dell’uomo di retaggio ariano, ecco la celebrazione della fertilità virile che feconda la natura portando ad un tripudio di fiori, di erbe, di frutti, di biondeggianti messi. Con l’avvento del cristianesimo, il solstizio e la sua celebrazione sono stati assorbiti dalla notte di San Giovanni (24 giugno), in cui la veglia nella notte più breve dell’anno viene accompagnata, per l’appunto, dai tipici grandi fuochi all’aperto dal valore purificatorio e apotropaico. Come per il solstizio d’inverno (paradossalmente, il 21 giugno segna l’inizio del declino del sole che rinascerà proprio nel periodo solstiziale del 21 dicembre) e gli equinozi, siamo di fronte ad una festività alquanto rurale e pastorale, impregnata di rustica indole agreste che riecheggia il mondo protoindoeuropeo, in cui l’ethnos esaltato dal contadinato entra in ancor più intimo contatto e simbiosi con la natura circostante.

Il solstizio d’estate segna l’inizio della “bella stagione”, la stagione del sole, del caldo, dei cieli luminosi, del bel tempo, della vita all’aperto, e non a caso ha sempre assunto un importante significato sacrale e comunitario presso i popoli antichi, sia pagani (vedi, ad esempio, la celebrazione di Litha nell’Europa settentrionale) che cristianizzati (ricordiamo la natività di Giovanni il Battista, 24 giugno, da cui la notte di San Giovanni o di mezza estate, particolarmente significativa in Iscandinavia ma presente anche in Padania). Il folclore è poi giunto sino ai nostri giorni, gettando un ponte tra gli antenati e i loro posteri. Le ricorrenze pagane erano volte ad esaltare il sole anche per rafforzarne l’azione benefica, essendo il solstizio d’estate l’inizio del lento declino del giorno a vantaggio della notte. Avevano, dunque, carattere propiziatorio e venivano vissute intensamente dai convitati che si tenevano per mano, recitando formule magiche, attorno ai grandi falò notturni accesi durante il periodo solstiziale estivo. Essendo il sole allo zenit al Tropico del Cancro, il 21 giugno, il solstizio sancisce il suo ingresso nel segno astrologico omonimo (in passato, l’astro precipuo, nel solstizio estivo, si trovava nella costellazione del Cancro, ma oggi, per via della precessione degli equinozi, non è più così).

Dottrina

Nel pensiero lombardista vi è la soluzione a tutti i problemi che affliggono la nostra vera nazione, la Lombardia, poiché il lombardesimo incarna alla perfezione l’unica dottrina possibile di riscossa per il popolo cisalpino. Educare, o rieducare, specie le giovani generazioni, all’amor patrio, al culto dei valori identitari e tradizionali, alla contemplazione dell’endogamia, contestuale al rifiuto dei fenomeni di meticciato, è oggi più che mai fondamentale, perché proprio dal nazionalismo etnico passa il riscatto di una terra pluriminellaria, la Padania, che appare condannata all’estinzione e alla distruzione. Questo ciò che vorrebbero farci credere i nostri nemici, il cui principale ruolo è instillare in noi l’odio per sé stessi, nonostante nulla sia davvero perduto. L’esempio portato dai lombardisti, e da tutti coloro che credono fermamente nella necessità di affrancare la popolazione dalla sudditanza italiana e mondialista, ci pone di fronte ad una scelta radicale: unirsi alle file dell’etnonazionalismo lombardo o continuare ad alimentare, volenti o nolenti, la propria rovina.

Nessun dubbio a riguardo, per quanto concerne Sizzi e i suoi: l’unica via praticabile da intraprendere conduce all’autoaffermazione della nazione lombarda, a partire da una estrema presa di coscienza in merito a quell’orgoglio e a quell’identità di cui ci parla il lombardesimo. Solo quest’ultimo può salvare la patria, perché nell’etonazionalismo sta tutto ciò di cui abbiamo bisogno, inclusa la sacrosanta lotta per la liberazione delle Lombardie da Roma, dall’Italia e da ogni altro baraccone cosmopolita ed internazionalista. La cultura militante è l’ancora di salvezza dei lombardi, che sin dall’erudizione debbono emancipare le proprie coscienze dall’occupante-invasore, acquisendo una novella consapevolezza relativamente alla vera e genuina identità storica nazionale. Cultura, dottrina, comunità, politica, civiltà: ogni elemento fondante del profilo identitario lombardo ci parla della necessità di liberarsi, sotto qualsiasi punto di vista, dal giogo straniero che non è più francese, spagnolo o austriaco, ma italiano.

11-12 giugno (1859): la liberazione delle Romagne (festa della Senonia)

Galletto e caveja

Tra 11 e 12 giugno 1859 crollava il dominio pontificio su Bologna, Ferrara e la Romagna, siglato dall’abbandono dei cardinali legati delle Romagne, che lasciavano le città precipue. Finiva così una plurisecolare tirannia di stampo spirituale capitolino-semitico su Emilia orientale e Romagna, che aveva condotto città preclare, dense di storia e di gloria patria, politica e artistica come Bologna, Ferrara e Ravenna, ad un ovvio declino culturale e materiale. In seguito alle vittorie franco-piemontesi di Palestro e Magenta, gli austriaci, sostenitori del governo pontificio, furono costretti a sgombrare Bologna e dintorni, permettendo così l’annessione dell’area al Regno d’Italia (che, per carità, fu anch’essa una sciagura, ma di natura diversa). Emilia orientale e Romagna divennero politicamente Italia, finendo dalla padella alla brace sotto molti aspetti, ma quantomeno liberandosi dal giogo pretesco. Tale data può, dunque, rappresentare per emiliani orientali e romagnoli una sincera festa popolare, fondata su basi storiche importanti, della Romagna in senso allargato (le Romagne, appunto, retaggio romano-bizantino contrapposto al longobardo): anche in questo la Boica terminale e la Senonia appaiono affratellate senza drammatiche fratture, seppur rimangano due entità distinte; il Sillaro è ancor oggi confine tra due ambiti etnoculturali affini ma con le proprie peculiarità.

Nella concezione lombardista, l’Emilia orientale è certamente Lombardia etnolinguistica e Grande Lombardia, ma si allontana dall’ambito propriamente lombardo etnico in quanto priva di una radicata eredità longobarda; in questo senso, infatti, il Panaro ha sempre costituito un confine anche etnoculturale tra Langobardia e Romandiola. Tuttavia, è utile ricordare che, sebbene con grande ritardo, i Longobardi riuscirono a conquistare Bologna e Ferrara, penetrando in profondità nell’Esarcato bizantino della Romagna. Posero, a San Giovanni in Persiceto (Bologna), un ducato, nel 728 per opera di Liutprando, lasciando anche – pare – una certa traccia genetica negli abitanti del territorio di confine, strappato ai Bizantini. Sfortunatamente, Bolognese, Ferrarese e Romagna finirono successivamente nell’orbita della Roma papalina, venendo assorbite dallo Stato della Chiesa. Sicuramente, la nefasta influenza dei preti cagionò, in questi territori, un certo radicamento della mentalità “rossa” e libertina, prima comunista e poi progressista, a mo’ di antidoto (sbagliatissimo) alla reazione delle tonache. L’unico antidoto, infatti, alle scorie pretesche degli eresiarchi ebraici è l’etnonazionalismo, l’identitarismo etnico, e quel tradizionalismo che affonda le proprie radici nella gentilità indoeuropea: nel segno dei Celti e dei Gallo-Romani, che uniscono Bologna alla Senonia e all’ager Gallicus di Pesaro-Urbino-Senigallia.

6 giugno: Belisama, matrona di Lombardia

Belisama-Minerva

Il 6 giugno, a mio avviso, potrebbe benissimo essere giorno dedicato a Belisama, matrona dell’Insubria (Lombardia transpadana occidentale) e della Cisalpina, il cui teonimo mostra una connessione con la radice protoindoeuropea *bel ‘luminoso, brillante, splendente’. Belisama, dea celtica delle Gallie preposta alle arti correlate al fuoco e compagna del dio della luce Belenos, fu associata dai Romani a Minerva in quanto dea delle arti utili e in un certo senso della guerra giusta (e qui ricordo che il 3 giugno gli antichi Romani celebravano la dea italica della guerra Bellona). Alla deità celtica era consacrato il biancospino, e con questo (e la famosa Scrofa semilanuta, uno dei simboli milanesi), secondo una leggenda, avrebbe indicato al condottiero gallo Belloveso il luogo di fondazione di Milano. Il tempio romano dedicato a Minerva, i cui resti sono stati rinvenuti sotto l’attuale Duomo meneghino, potrebbe essere sorto su di un santuario intitolato proprio alla divinità gallica, e a maggior ragione lo stesso toponimo milanese, di origine celtica e analogo ad altri toponimi delle Gallie, indicava la presenza di un ‘santuario di mezzo’ o di un ‘bosco sacro’. Tuttavia, la fondazione di Milano va posta nella prima Età del ferro, in periodo celtico golasecchiano, non nella seconda, ossia nell’epoca dei Celti lateniani, i Galli di Cesare. 

Si può optare per la data indicata, in merito alla luminosa ricorrenza di Belisama, non solo per Bellona, ma anche perché nel secolo della fondazione di Mediolanum (il VI avanti era volgare, per l’appunto, non più tardi) Beltane – festa celtica primaverile/estiva dei fuochi – cadeva intorno al 6 giugno. E giugno si conferma davvero festa della luce e del fuoco, dei falò, se pensiamo al solstizio d’estate. La Milano preromana svolgeva il ruolo di santuario confederale delle varie tribù celtiche lombarde del periodo golasecchiano, e oltre, tra cui Insubri, appunto, Orobi, Levi, Marici, Leponzi; gli omonimi gallici dei primi giunsero nella seconda Età del ferro, sulla scia di una forte affinità etnica. Altra interessante coincidenza è quella rappresentata dalla celebrazione della dea romana Carna-Cardea, alle calende di giugno o comunque in prossimità dell’antica festa celtica del fuoco di Beltane (tra maggio e giugno dunque), figura divina a cui era consacrato, proprio come per Belisama, il biancospino. Quando avete occasione di guardare la Madonnina del Domm, amici lombardi, riconoscete in essa Belisama-Minerva (l’alabarda!), non la fantomatica vergine ebrea di Nazareth, madre del falegname galileo che ha usurpato gli antichi culti tradizionali dei padri.

31 maggio (1027) – 3 giugno (1796): la festa del Tirolo storico/Rezia cisalpina

Aquila di San Venceslao

Il 31 maggio 1027 nacque il Principato vescovile di Trento, potentato politico medievale che includeva il territorio dell’odierno Trentino e, prima dell’egemonia della Contea del Tirolo, una buona parte di quello altoatesino, Bolzano inclusa. Durò circa otto secoli ed era compreso nel Sacro Romano Impero, come successore del ducato (o marca) di Trento, entità istituita dai Longobardi che giungeva sino a Sabiona, nel territorio di Chiusa in Val d’Isarco. Il Principato, e prima ancora il citato ducato longobardo, racchiudevano dunque, almeno in origine, anche il territorio primigenio del Tirolo, località il cui centro precipuo (cisalpino, notate bene), Castel Tirolo, ha poi dato il nome all’intera area storico-geografica. E anche la suddetta Sabiona, culla spirituale tirolese, è cisalpina. La germanizzazione medievale del settore altoatesino della Rezia meridionale segue, e di molto, la romanizzazione della zona, i cui indigeni originali sono i ladini, discendenti di Reti, Celti e Longobardi, di lingua retoromanza. Gli stessi tirolesi meridionali, germanofoni, non sono poi così dissimili dai ladini, essendo entrambi popoli di base celto-retica romanizzata, con la differenza della germanizzazione medievale dei primi cagionata da coloni transalpini di origine baiuvarica. Un po’ come accade per cimbri, mocheni e altre minoranze germanofone dell’arco alpino sudorientale. La Rezia cisalpina (Tirolo storico/Trentino-Alto Adige) è dunque un caposaldo della Grande Lombardia, nel nome dei comuni avi delle genti lassù stanziate e dello spazio geografico squisitamente subalpino.

In questo 31 maggio ravvedo la festa popolare dell’odierno Trentino-Alto Adige, ma vi è un’altra data simbolica che merita menzione: il 3 giugno, in ricordo degli eventi delle guerre napoleoniche del 1796. La mente corre subito alla resistenza tirolese, ad Andreas Hofer e alle iniziali vittorie degli insorti contro Napoleone, ma soprattutto alle feste solstiziali del mese di giugno e ai fuochi di San Giovanni. Nel Tirolo meridionale, infatti, è invalsa l’usanza dei falò del Sacro Cuore di Gesù, che assume una coloritura politica, in antico contro il Bonaparte e il laicismo francese, oggi contro Roma e l’Italia. La Chiesa celebra in questo periodo il Sacro Cuore e il Corpus Domini, con l’intento di cancellare le tracce pagane relative alle ricorrenze del solstizio d’estate che cade il 20-21 giugno. Al netto di inutili neofascismi italici e di secessionismi farseschi in stile Klotz (non esiste una nazione tirolese), mi faccio deciso assertore della lombardizzazione: assimilazione e recupero dell’elemento autoctono retoromanzo, corroborato dal trasferimento a sud delle Alpi dei romanci. Il mondo ladino è parte della Gallo-Romània cisalpina, ed è storicamente lombardo. Fino al Brennero (anche solo geograficamente) è Grande Lombardia; ergo, il germanofono che accetta la lombardità della regione e si integra giurando fedeltà a Milano è il benvenuto, mentre chi non ne vuole sapere è libero di spostarsi oltralpe, nella terra d’origine dei suoi (presunti) avi baiuvarici. I legittimi padroni di Trentino e Alto Adige sono gli indigeni storici celto-retici, romanizzati e germanizzati dai Longobardi, che si inseriscono nel quadro della Lombardia orientale/Triveneto. Gli immigrati ausonici e allogeni devono essere rimpatriati, ponendo fine al nazionalismo di cartapesta alla Tolomei e all’italianizzazione, che hanno peraltro riguardato tutta la Cisalpina.

Giugno – Iunius

Giunone

Giugno (Iunius), appena cominciato, è mese dedicato a Giunone, divinità della mitologia romana controparte dell’etrusca Uni e della greca Era, legata al ciclo lunare dei primitivi popoli italici. Dea del matrimonio e del parto, protettrice dello Stato e delle donne romane, moglie di Giove e perciò principale divinità femminile di Roma. Assieme al consorte e a Minerva formava la Triade Capitolina, emblema sacrale della grandezza e della potenza romane, patrona della “città eterna”. Anche protettrice degli animali – a lei sacro, ad esempio, era il pavone – viene spesso raffigurata nell’atto di allattare, tanto che l’attributo giunonico viene usato, sovente, per riferirsi ad un seno prosperoso. Il nome (latino Iuno) di questa dea dovrebbe derivare da una radice indoeuropea col significato di ‘giovinezza’, a sua volta connessa ad un’etimologia “vitale” intesa come energia di vita, forza generatrice, fertilità. L’intero mese di giugno veniva posto dagli antichi, per l’appunto, sotto la protezione di Giunone, e quindi in questo periodo quasi completamente estivo si celebravano festività principalmente rivolte alle donne, come i Matralia dedicati alla Mater Matuta (dea del mattino e delle nascite, attributo forse della Bona Dea, la Grande Madre dell’antico Lazio), cerimonia di arcaica origine agreste. Nel mese di giugno venivano festeggiate anche Bellona e Vesta, nonché Carna-Cardea alle calende.

Giugno, sesto mese dell’anno secondo il calendario gregoriano (quarto, infatti, in quello romano), presso l’emisfero boreale è il primo dell’estate e per questo motivo viene anche definito “del sole” (i Romani lo chiamavano, popolarmente, dies lampadarum): il 21 giugno, solstizio d’estate, è il giorno più lungo e luminoso dell’anno, di conseguenza con la notte più breve, ma anche il principio della lenta agonia del sole, che l’indomani si avvia lemme lemme verso il declino autunnale; esso segna al contempo l’inizio del raccolto, dei fagioli in particolar modo. Segni zodiacali di giugno sono Gemelli (sino al 20 del mese) e cancro (dal 21 in avanti), per via della precessione degli equinozi che porta il sole a transitare, oggi, al solstizio d’estate nella costellazione dei Gemelli. Probabilmente, per via della protezione di Giunone dea degli sposalizi, giugno è ancor oggi mese “caldo” dal punto di vista dei matrimoni, complice naturalmente il clima. Infine, suggestivo pensare a come il mese di giugno, consacrato dalla Chiesa cattolica al Sacro Cuore e al Corpus Domini, riecheggi la sunnominata Carna-Cardea, dea degli organi interni, in particolar modo del cuore.