L’unità di lingua padano-alpina

Prima che le lingue lombarde occidentali venissero diluite dall’azione di logorio esercitata, a partire dal Basso Medioevo, dal toscano, e prima che nel continente, ad est, irrompesse il veneziano, modificando inesorabilmente le parlate del Veneto, esisteva un’antica comunità e unità di lingua che legava i due tronconi della regione cisalpina. Come confermano le ricerche di studiosi quali Giovan Battista Pellegrini e Geoffrey Hull, il comune sostrato gallico – su latino volgare parlato nell’area padana – unito al superstrato longobardo, plasmarono delle loquele omogenee in tutto il nostro territorio nazionale granlombardo, tanto che le moderne etichette di gallo-italico (e ligure), retoromanzo e veneto avevano ben poco significato. Sussisteva un blocco piuttosto omogeneo che oggi sopravvive nel fossile ladino (romancio-dolomitico-friulano), profondamente legato alla Gallia Transalpina e alla Svizzera romanza, e non ancora annacquato dagli influssi esterni di lingue di ceppo differente: come detto, il fiorentino letterario e il veneziano, che col loro prestigio letterario e/o politico finirono per modificare sensibilmente la situazione linguistica della Cisalpina.

L’azione di disturbo del toscano trasformò lo schietto galloromanzo lombardo occidentale in gallo-italico, adottando in età recente l’italiano come lingua tetto, mentre l’approdo della parlata di Venezia nel resto del Veneto, sulle ali della Serenissima, scalzò il carattere galloromanzo del continente, allineando le parlate euganee all’ambito lagunare. A salvarsi da questi fenomeni fu il retoromanzo, che ancor oggi testimonia l’antica unità linguistica, i prischi caratteri delle lingue “padanesi” e il carattere incontaminato di un lombardo alpino non sottoposto a toscanizzazione. Lo stesso veneziano, pur essendo loquela romanza tutto sommato occidentale, esula dal genuino contesto galloromanzo, poiché influenzato da elementi analoghi a quelli italoromanzi cui fa capo il fiorentino letterario, un po’ come l’odierno ligure. Resta magistrale la lezione di Hull, cui rimandiamo, che dimostra appieno un comune destino linguistico di Gallia Cisalpina e Transalpina, sino a Medioevo inoltrato, compromesso più tardi dal prestigio degli idiomi di Firenze e di Venezia. Ma non del tutto.

19 luglio (1747): la battaglia dell’Assietta (festa del Piemonte/Taurasia)

La morte di Belle-Isle

Il 19 luglio del 1747 si combatté la battaglia dell’Assietta, in Val Chisone (Piemonte), tra il Regno di Sardegna sabaudo di Carlo Emanuele III e il Regno di Francia di Luigi XV. Fu un episodio della Guerra di successione austriaca, in cui il Piemonte era alleato degli austriaci contro gli eserciti franco-spagnoli, che miravano alla conquista della Padania. La battaglia fu vinta dai piemontesi agli ordini di Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, e secondo la leggenda fu decisiva la resistenza del Conte di San Sebastiano, che rifiutando di ritirarsi pronunciò la famosa espressione subalpina bogia nen, “non ti muovere”, passata a designare i soldati piemontesi e lo stesso popolo della Lombardia etnica occidentale. Le truppe austro-sabaude, 4.800 soldati, sconfissero così 40.000 francesi guidati dal Conte di Belle-Isle, che perì in battaglia. Tale ricorrenza, giustamente, è ancor oggi celebrata dai piemontesi ed è degnamente la festa popolare dello stesso Piemonte (anche detto Taurasia, utilizzando l’antico toponimo di Torino, dal sapore etnico, in riferimento agli avi celto-liguri Taurini).

Il 1747 fu anche l’anno in cui il barone von Leutrum (generale tedesco al servizio dei Savoia e popolare personaggio celebrato dai subalpini come Barôn Litrôn) respinse vittoriosamente un assalto franco-spagnolo al Ponente ligure, mentre gli austriaci assediavano Genova. Il fatto d’arme più noto a cui il von Leutrum prese parte fu però l’assedio di Cuneo, nel 1744, in cui questi liberò la città da francesi e spagnoli, e che gli valse la riconferma a governatore della città e della sua provincia. Sono vicende belliche, queste, che possono essere accostate all’atto eroico di un altro grande personaggio popolare del Piemonte, che è Pietro Micca, il quale nel 1706 sacrificò la sua vita nella difesa di Torino facendo saltare in aria una galleria, al fine di impedire ai francesi che assediavano la capitale sabauda di penetrare nella cittadella. L’assedio terminò con la vittoria austro-piemontese dei soldati del principe Eugenio di Savoia e del duca Vittorio Amedeo II, e la conseguente sconfitta franco-spagnola. Ancor oggi, il 7 settembre (che nel 1706 significò lo scontro finale tra sabaudi e transalpini), viene celebrato un Te Deum di ringraziamento presso la Basilica di Superga, fatta costruire dai Savoia a ricordo della vittoria.

La Gallo-Romània

L’ambito linguistico padano-alpino, che ovviamente è romanzo a livello globale, ricade senza alcun dubbio nella Romània occidentale, segnatamente di estrazione gallica. Se il galloromanzo canonico riguarda gli idiomi dell’attuale Francia, allargandosi include anche la Padania e la Catalogna, e nel primo caso si intende l’insieme gallo-italico e la famiglia retoromanza. Sino a Medioevo inoltrato, la Cisalpina era ancora considerata parte della Gallia e il legame linguistico e culturale con l’area transalpina francese e svizzera era certamente più forte di oggi. In antico esisteva una schietta unità idiomatica fra il troncone occidentale e quello orientale padano, poi frammentata dall’intromissione continentale del veneziano e l’azione erosiva esercitata dal prestigio del toscano sui volgari lombardi. Un fenomeno comunque distinto dalla cosiddetta scripta lombardo-veneta, che rappresentava una koinè illustre e letteraria. Il galloromanzo cisalpino, incarnato da gallo-italico e retoromanzo (ma senza veneto), fa parte della Romània occidentale e si stacca nettamente dal vero e proprio dominio italo-romanzo che fa capo all’italo-toscano.

Il grande equivoco dei “dialetti” padano-alpini figli del fiorentino letterario è una colossale idiozia figlia dell’ignoranza o della retorica patriottarda, ma che non ha alcun riscontro scientifico. Il termine ‘dialetto’ riferito agli idiomi lombardi ha senso – oggi – solo in chiave sociolinguistica, o al più per indicare le varianti locali della lingua lombarda intesa come sottofamiglia linguistica del contesto neolatino ovest. Il gallo-italico, a ben vedere, è storicamente lombardo e lombardo sarebbe anche il retoromanzo, non solo in virtù dell’antica unità teorizzata da studiosi come Hull ma anche dell’inconsistenza dell’etichetta “ladina”, già stigmatizzata dal Pellegrini. I ladini (romanci, dolomitici e friulani) sono lombardi quanto gli altri cisalpini, proprio perché l’unica, vera accezione di Lombardia è quella storica, ed etnoculturale, e ingloba l’intero dominio geografico della Padania. Padania che è poi Lombardia, appunto, e che da un punto di vista linguistico è solo ed esclusivamente Gallo-Romània cisalpina.

Visione del mondo

Prima della politica vengono cultura e, soprattutto, visione del mondo, che in ambito lombardista non può che essere di matrice etnonazionalista e völkisch. I pilastri su cui si innalza il lombardesimo sono sangue, suolo e spirito, i principi cardine razzialisti che guidano ogni serio identitario granlombardo, andando ad influenzarne il pensiero e l’azione politica. Diciamo sempre che non avrebbe alcun senso portare i lombardi alle urne se prima non si insegna loro che non sono italiani perché etnia, popolo e nazione a sé stanti, da proiettare in una schietta ottica di indipendenza, di libertà da ogni oppressore anti-identitario. Per quanto l’impegno politico sia fondamentale resta il fatto che occorre per prima cosa una coscienza affrancata da ogni catena ideologica nemica della nostra vera patria, altrimenti la militanza risulterebbe sterile e sulla falsariga del leghismo, vecchio e nuovo. Per tale ragione ecco che il lombardesimo mette in chiaro come la Weltanschauung del nazionalismo etnico, in chiave cisalpina, sia la linfa vitale della vera rivoluzione nazionale e sociale che attende la Grande Lombardia.

In caso contrario, capite bene che ogni tentativo si rivelerebbe fallimentare, come la stessa lezione bossiana insegna, proprio perché verrebbero a mancare le solidissime basi della dottrina etnicista e razzialista, faro che rischiara le tenebre dell’attuale temperie globalista. Avere una visione del mondo e della vita in linea con le ragioni völkisch permette di non compiere passi falsi e di non ripercorrere gli errori di chi, prima dei lombardisti, ha goffamente tentato di porre una questione identitaria nel novero “settentrionale”; e, infatti, solo la rivoluzione del lombardesimo rappresenta la vera libertà per le genti lombarde, chiamate a riscuotersi dal torpore non soltanto per ragioni fiscali ma anche e soprattutto etniche, linguistiche, culturali. L’economia e il benessere procedono dall’etnia, e per l’appunto la plurisecolare ricchezza padano-alpina dipende dagli innati valori insiti nel nostro ADN continentale. Non essendo alcunché di parassitario, lo sviluppo cisalpino si lega inscindibilmente alla nostra natura identitaria, che affonda le sue radici sino all’epopea dei Celti.

10 luglio (1009): la nascita di Alberto Azzo II d’Este (festa dell’Emilia/Boica)

Aquila estense

Il 10 luglio 1009 nasceva, probabilmente a Modena, Alberto Azzo II d’Este, margravio di Milano, capostipite della casata nobiliare estense, essendo stato il primo della famiglia ad assumere il titolo imperiale di marchese del feudo di Este, nel Padovano. Data l’importanza ricoperta, nella storia emiliana, dagli Estensi, vedo bene in questa data una ricorrenza che possa prestarsi come festa popolare dell’Emilia/Boica, ossia della Lombardia cispadana. Alberto Azzo II era discendente del franco (o longobardo?) Oberto, primo marchese della Marca Obertenga, entità imperiale che comprendeva parte dei territori della Padania occidentale, assieme alle altre due marche: l’Aleramica e l’Arduinica (già Anscarica). L’Obertenga, in particolare, racchiudeva le terre della Liguria orientale assieme alla Lunigiana, dell’attuale Lombardia (con la Svizzera “italiana”), del Piemonte orientale, dell’Emilia senza Bologna, con altre piccole aree limitrofe, come ad esempio la Garfagnana. Essa (nata nel 951) ereditò, insomma, il precedente ambito della franca Marca di Lombardia, creata nell’891. Oberto, antenato di Albertazzo II, ricopriva il titolo di conte palatino e di marchese di Milano e Genova. Il nipote Alberto Azzo I fu padre del Nostro, riconosciuto, appunto, come capostipite della casata d’Este.

Dagli Obertenghi, dunque, discesero Estensi, Malaspina, Cavalcabò, Pallavicino, Gavi e altri e i primi furono sicuramente il ramo nobiliare più importante a cui diedero vita. La preminenza storica assunta dagli Este per l’Emilia è cosa ben nota. Essi furono signori, e poi duchi, di Ferrara, estendendo i propri domini, limitandoci alla terra cispadana, a Modena, Reggio di Lombardia, Carpi, Correggio, Mirandola, Novellara e Massa e Carrara, due città queste etnicamente e linguisticamente a metà strada (come la Lunigiana medesima) tra Liguria e Boica, nonostante un sensibile influsso toscano sul Massese. Gli Este perdettero il Ducato di Ferrara, fagocitato dallo Stato Pontificio, continuando a regnare su quello di Modena e Reggio, che a sua volta persero in seguito alle vicende napoleoniche, riconquistandolo poi, come Asburgo-Este, grazie alla Restaurazione, aggiungendovi Guastalla. Sebbene le origini dei capostipiti estensi, gli Obertenghi, sembrino più imperiali che longobarde, parrebbe che Oberto stesso e il margravio Adalberto suo padre professassero legge longobarda, e fossero discendenti di Bonifacio, nobile baiuvarico fedele a Carlo Magno, governatore della Cisalpina per i Franchi e primo marchese/margravio di Tuscia.

Politica

La necessità della quotidianità lombarda è quella di una vita politica che sappia rimettere al centro di tutto il concetto di comunità, troppo spesso dimenticato dai lombardi in favore del tragico culto del fatturato. Gli egoismi, gli individualismi e i campanilismi hanno dilaniato la nostra vera patria, e per quanto la cultura del lavoro e la ricchezza tipiche della Lombardia possano essere motivo d’orgoglio – essendo agli antipodi della furbizia parassitaria – resta il fatto che abdicare al proprio ruolo di difensori dell’identità nazionale ha comportato il democratico auto-genocidio indigeno che tutti quanti conosciamo. Pertanto, la sfida della politica lombardista deve essere quella di ridare linfa vitale a sangue, suolo e spirito, rieducando i cisalpini al rispetto della propria identità e delle proprie radici. La rivoluzione del lombardesimo mira ad un impegno culturale, metapolitico e politico che si faccia orgoglio di appartenenza e solidarietà comunitaria, unico modo per affrancarsi dal giogo italico e mondialista e riscoprirsi parte di una terra senza eguali che in nessun modo può venir definita italiana.

Abbiamo sempre detto che prima della politica venga la missione culturale, senza il quale la tenzone repubblicana rischierebbe di essere sterile e di ripiegarsi su se stessa. Ma è evidente che il lombardesimo presupponga l’impegno in prima persona, come elettorato attivo e passivo, e per tale ragione occorre rifondare la politica lombarda alla luce del radicale cambio di rotta che la testimonianza lombardista prevede. Non più pagliacciate e tradimenti in stile leghista, bensì la giornaliera vocazione etnonazionalista e indipendentista che dia un volto concreto alle rivendicazioni etniciste e razzialiste del nostro credo, puntando tutto sull’autoaffermazione autoctona. Via da Roma, Bruxelles, New York, Washington e Tel Aviv, tagliando i ponti con ogni ente parassitario e sovranazionale, Vaticano incluso: la Lombardia, nostra unica patria, al di sopra di ogni cosa, in quanto unico paradiso possibile, in barba alla sciocca retorica risorgimentale e alle menzogne pretesche che hanno completamente plagiato il povero popolo padano-alpino.

La natura patologica dell’antifascismo

Sappiamo tutti benissimo come l’antifascismo del 2025 era volgare non abbia nulla a che vedere con l’opposizione ad un regime dispotico, morto e sepolto da 80 anni, ma sia soltanto una sorta di meretricio lib-dem nei riguardi del libero mercato e dell’alta finanza. Gli antifascisti contemporanei tengono in vita, per interesse e opportunismo (a guisa di assicurazione sulla vita), i fantasmi di Hitler e Mussolini, ed è evidente come a loro questo giochino serva per nascondere l’imbarazzante horror vacui derivante dalla totale mancanza di argomenti e dalla distanza abissale nei confronti del popolo indigeno. Sono, costoro, i veri ossessionati da fascismo e nazismo, senza cui dovrebbero cercarsi un lavoro vero per rimediare alla propria natura parassitaria.

Cos’è, oggi, l’antifascismo, considerando che non esiste alcun regime fascista (specie in Europa)? E aggiungerei anche alla luce del fatto che lo stesso antifascismo originario, quello nato come sterile opposizione a Mussolini e omologhi (quando insomma il fascismo esisteva eccome), era rappresentato da quattro gatti esuli senza alcuna influenza concreta sulla politica della madrepatria? Presto detto, amici miei: l’antifascismo era, e soprattutto è, uno squallido contenitore di tutto il disagio e il degrado del mondo liberale e progressista, non certo un’esclusiva delle sinistre ma pure di quei tizi che si dicono moderati (centro-destra) e sono i più zelanti servi del sistema-mondo, e dei suoi padroni.

Dirsi antifascisti, in modo particolare oggi, equivale ad avere dei palesi disturbi della psiche e del comportamento, poiché l’ideologia antifascista, che già dal nome vuole soltanto distruggere e non rendersi propositiva e costruttiva, è un inno a tutto quello che crea ribrezzo in qualsivoglia uomo normodotato; odio per l’identità, la tradizione, la comunità, la patria, la nazione, il sangue ed esaltazione di quanto è diverso, anomalo, ripugnante, debole, alternativo alla ragione e al buonsenso. Un tuffo nell’orrore e nello squallore del progressismo, il cui intento perspicuo coincide con l’abbattimento e lo sradicamento di ciò che si fa pilastro di una società forte e sana, unita dai valori sacrosanti del nazionalismo etnico.

Con la scusa del fascismo, morto e sepolto ribadiamo (e senza alcuna possibilità di resuscitare, se non nella forma pagliaccesca dei neofascismi), ogni porcheria contro l’orgoglio patriottico è lecita, giustificando lo scempio col feticcio della democrazia occidentale che non è altro che un vuoto simulacro riempito dalle mafie dell’alta finanza. Dopotutto, gli antifascisti sono le sgualdrine del capitalismo e della plutocrazia, degli enti sovranazionali e delle banche, delle lobby e delle cricche degli intoccabili, sempre e unicamente dalla parte dei nemici del popolo, che vivono in modalità parassitaria e vampiresca alle nostre spalle.

Dividersi in destra e sinistra, fascisti e antifascisti, neri e rossi significa solamente buttare al vento tempo prezioso per badare a ciò che conta per davvero: l’autoaffermazione – anche etno-razziale – della Grande Lombardia. Il lombardista è chiamato ad andare oltre le carnevalate del teatrino italiano, che ancora nel terzo millennio ripropone sterili contrapposizioni che relegano in secondo piano l’indipendenza della Cisalpina, per puntare tutto sull’esaltazione razionale di sangue, suolo e spirito in nome della nostra vera nazione, quella lombarda. Cosicché pure l’inganno dell’antifascismo verrà smascherato, e con esso tutti i tragicomici buffoni che campano di rendita grazie ad un’ideologia stantia, inevitabilmente schierata dalla parte degli avversari della patria dei lombardi.

Luglio (quintile) – Iulius (Quintilis)

Gaio Giulio Cesare

Luglio (Iulius) è mese dedicato a Gaio Giulio Cesare, uno dei personaggi più importanti e influenti della storia e vanto imperituro dell’Italia etnica, nato il 12 o il 13 del corrente mese. Ebbe un ruolo cruciale nella transizione del sistema di governo romano dalla forma repubblicana a quella imperiale, e per questo venne spesso considerato il primo dei Cesari. Fu dittatore perpetuo di Roma e capo indiscusso dell’Urbe, prima dell’avvento del figlio adottivo Ottaviano Augusto, fondatore dell’Impero e primo imperatore effettivo della storia romana. Le infami pugnalate dei cospiratori cesaricidi misero fine troppo presto alla sua epopea terrena, aprendo però le porte alla sua divinizzazione. Il nome gentilizio Giulio deriva dalla nobile famiglia romana della Gens Iulia, di cui Giulio Cesare fu appunto il più illustre esponente, e sembra che l’etimologia del nome sia da connettersi alla consacrazione a Giove, massima divinità italico-romana. Il cognomen Caesar, divenuto sinonimo di imperatore, è invece di origine dibattuta, e non si può escludere sia di etimo etrusco (col significato di ‘grande, divino’).

Nel calendario romano romuleo ciò che divenne successivamente luglio era chiamato quintile, essendo il quinto mese a partire da marzo (il primo di quel mese segnava l’inizio dell’anno sacro, secondo arcaica tradizione ariana), posto sotto il patronato di Giove, ed era consacrato ad Apollo, dio del sole, e Nettuno, dio delle acque e del mare. Tale periodo dell’anno era caratterizzato da festività agricole volte a propiziare un buon raccolto, ma in epoca imperiale queste persero di importanza a vantaggio delle celebrazioni di Apollo (Ludi Apollinares) e di Giulio Cesare. Luglio è invece il settimo mese dell’anno, secondo l’attuale calendario, prepotentemente estivo, caratterizzato dai segni zodiacali del Cancro (sino al 22) e del Leone. Non stupisce che essendo un periodo di piena estate, contraddistinto dal solleone, il mese di luglio sia stato consacrato dagli antichi ad Apollo, divinità intrisa di solarità ariana (trainante il famoso carro infuocato) patrona di arti, musica, profezia, poesia, scienza e del lume dell’intelletto. Da qui lo spirito apollineo di nicciana memoria.