La Lombardia siciliana

Nell’Italia etnica meridionale esistono ancor oggi delle isole alloglotte che vengono etno-linguisticamente identificate come gallo-italiche, frutto cioè di antica colonizzazione cisalpina, nello specifico dovuta a spostamenti nord-sud medievali. È il caso dei gallo-italici della Lucania (Basilicata, provincia di Potenza, e Cilento, attuale provincia di Salerno) ma, soprattutto, di quelli siciliani, odiernamente concentrati fra le province di Enna e di Messina, sebbene un tempo fossero distribuiti anche nelle aree di Catania, Caltanissetta, Siracusa e Palermo. Queste colonie, in modo particolare le siciliane, vengono giustamente chiamate lombarde poiché originarie di contrade padane che nel Medioevo rientravano nel contesto della Lombardia storica (e ci dovrebbero rientrare pure oggi, nonostante la ridicola frammentazione regionale); stiamo parlando, fondamentalmente, dei territori compresi tra il Piemonte centromeridionale e la Liguria appenninica, appartenenti all’antico Marchesato del Monferrato. La colonizzazione lombarda fu stimolata dai signori normanni e svevi di Trinacria, per poter contrastare la presenza araba e rinsaldare l’elemento latino dell’isola.

I lombardi di Sicilia e Lucania, che oggi sono logicamente rimescolati con la popolazione indigena, hanno però mantenuto nel tempo le proprie parlate gallo-italiche, cioè sempre lombarde, che sopravvivono in alcuni comuni della provincia di Enna (ad esempio Piazza Armerina e Aidone) e in quella di Messina (citiamo San Fratello e Novara di Sicilia), e per quanto concerne la Basilicata in alcune località dell’area del Golfo di Policastro, tra le province di Potenza e Salerno (Cilento), e più a nord, nel cuore del territorio potentino. Sono lingue lombarde minoritarie ovviamente annacquate, che hanno perduto velocemente buona parte del patrimonio lessicale originario, e che nell’epoca contemporanea si distinguono dalla maggioranza italo-romanza – meridionale e meridionale estrema – che le circonda per questioni fonetiche e morfologiche. Il prisco aspetto gallo-italico è stato eroso dal carattere idiomatico predominante dell’ambito lucano e siciliano (una situazione analoga riguarda il tabarchino di Sardegna, dialetto ligure), e queste minoranze linguistiche storiche non godono certo di tutela da parte dello stato italiano.

22-23 settembre: l’equinozio d’autunno

Mabon

Il 22-23 settembre (quest’anno 22) cade l’equinozio d’autunno, che segna la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, e che assieme al 21 di marzo, equinozio di primavera, è l’unico giorno dell’anno in cui la durata del dì e della notte si equivalgono. Questo giorno coincide con l’antica festa della vendemmia celebrata dai nostri avi, e non a caso il neopaganesimo celtico vi festeggia la ricorrenza di Mabon (dal nome del giovane dio della vegetazione e dei raccolti, figlio della Dea Madre, Modron), anch’essa forma di ringraziamento agli dei per i prodotti del raccolto, da spartirsi tra la comunità nei seguenti mesi invernali. È un tripudio di frutti tardivi, baccelli, castagne, piante e foglie secche, e degli straordinari colori caldi di cui si tinge l’autunno, soprattutto nei luoghi più selvaggi. La natura lentamente muore assieme al sole e alla luce diurna, ma matura la ferrea volontà di resistenza dell’uomo eroico, che si fa radiosa energia per vincere le tenebre e il freddo del decadimento, ovviamente da intendersi in chiave spirituale, sfociando nelle grandi celebrazioni del solstizio d’inverno (al 21-22 dicembre).

L’evento astronomico dell’equinozio d’autunno coincideva, in tempi ormai quasi del tutto andati, con attività agro-silvo-pastorali in previsione del riposo invernale, come ad esempio il ritorno delle mandrie dai pascoli di montagna a quelli di pianura, ed era segnato da due basilari operazioni agricole, quali la semina del grano e la vendemmia dell’uva; due momenti che comportano un passaggio, una trasformazione, e cioè quelli del seme, che nel ventre della terra muore per generare nuova vita, e dell’uva, che fermenta nel buio per diventare vino. L’equinozio d’autunno è così un avvenimento celeste che si verifica in concomitanza con il mutamento stagionale della natura, e che gli antichi percepivano anche come sacrale, sentendo assai più di noi quel vitale intreccio fra astrale, terreno e spirituale, alla base della sensibilità religiosa indoeuropea. Il cammino delle stagioni, scandito da solstizi ed equinozi, accompagna l’uomo nella sua vita mondana, e nel caso dell’equinozio in questione (ossia dell’ingresso nell’autunno) lo prepara, materialmente e mentalmente, al periodo di apparente morte della natura, rappresentato dall’inverno. Apparente, perché con il solstizio decembrino la vitalità della luce del sole rinasce, e con essa la terra e la vita (anche spirituale) della comunità.

Progresso e sviluppo

Il pensiero sizziano e lombardista crede fortemente in quel concetto di sviluppo che si slega dal feticcio del progresso ideologizzato, tipico di sinistre e liberali, mirato dunque al vero benessere della nostra comunità nazionale. Noi crediamo nel comunitarismo, nel nazionalismo etnico, nell’econazionalismo, in un ritorno alla natura che però non equivale ad anarco-primitivismo bensì al connubio tradizione-innovazione, perché non ci sogneremmo di ripudiare i benefici di modernità e tecnologia. Saremmo degli ipocriti. Si tratta, piuttosto, di raggiungere un optimum in cui la Grande Lombardia, fiera dei propri primati e della propria industriosa ricchezza, ottiene eco- ed etno-sostenibilità, salvando il nostro habitat dalle minacce mortali della perversione mondialista; tutelare ambiente, terra natia, agricoltura e allevamento, lavoro e popolo affinché vi sia un vero equilibrio tra giusto progresso e preservazione, per garantire quindi un futuro radioso alle nuove generazioni. Il lombardista ritiene un vanto la forza economica, industriale, civile della Padania, a patto che non vada a detrimento di ciò che ci assicura la sopravvivenza, e cioè sangue, suolo, spirito. Una sopravvivenza che è anche identitaria.

E allora, amici, va da sé che noi si condanni il progressismo, ma non il benefico progresso, e che si ripudi il capitalismo inteso come culto del fatturato che stritola lavoratori, e uomini, sacrificando la patria sull’altare del profitto e del dio danaro, ma non quello sviluppo che la Cisalpina medesima ha potuto raggiungere dopo secoli di fatiche, virtù, doti imprenditoriali e umane volte al dominio assennato della natura, per garantire prosperità alla comunità. Come potremmo rinnegare la plurisecolare ricchezza nostrana, che è frutto della nostra stessa etnia? Sarebbe come rinnegare la civiltà comunale, ad esempio, uno dei pilastri identitari e storici dei territori granlombardi. La vera sfida, come accennato sopra, è riuscire a conseguire un virtuoso equilibrio tra i positivi traguardi raggiunti dalla modernità e la sacrosanta salvaguardia di sangue e suolo, poiché il benessere può davvero venir ritenuto tale soltanto se non rinuncia allo spirito identitario, che passa per l’ambiente, il popolo e ogni risorsa locale, fonte di sussistenza da tempi immemori.

Il galloromanzo cisalpino, o lombardo storico

Abbiamo già visto come, a ben vedere, il cosiddetto gallo-italico non sia altro che lombardo in senso allargato, tenendo presente che l’accezione contemporanea di lombardofonia è alquanto ristretta, e confinata quasi esclusivamente ai territori racchiusi dagli artificiali confini regionali. La moderna Lombardia è soltanto una regione artificiale creata a tavolino da Roma, sulla falsariga della vecchia Lombardia austriaca, mentre in accezione etnica e storica comprende, quantomeno, tutta la parte occidentale della Padania, a partire dal bacino idrografico del grande fiume. Insubria, Orobia, Piemonte ed Emilia centro-occidentale, allargandosi poi a Emilia orientale, Romagna storica (inclusi San Marino e l’ager Gallicus), Lunigiana e Liguria. C’è però da dire, effettivamente, che lo statuto del ligure moderno potrebbe apparire controverso, sebbene ritenuto parte del gallo-italico. Dunque, la lombardofonia vera e propria riguarda tutti i territori menzionati, ricordando anche gli ambiti oggi al di fuori della Repubblica Italiana: il Nizzardo (perlomeno Mentone e Montecarlo, con Briga e Tenda) e la Svizzera lombarda (Sempione, Ticino e Grigioni lombardofono, con altri lembi elvetici in cui ora il gallo-italico non è più parlato, vedi Briga e Bivio).

Mi permetterei, ad ogni modo, di affermare che si potrebbe pure parlare di una lombardofonia storica che travalica i confini della Grande Lombardia occidentale, inglobando l’intero nordest, cosiddetto. Come sapete, prima che il veneziano irrompesse sul continente modificando in maniera irreversibile le parlate della Lombardia euganea, o dello stesso Trentino che fa perno sul capoluogo, esisteva un’antichissima unità di lingua tra occidente e oriente, oggi testimoniata dal fossile alpino ladino (romancio-dolomitico-friulano) che appare come versione primigenia del “padanese” teorizzato da Geoffrey Hull. Il ladino, in senso ampio, mostra schietti caratteri romanzi occidentali che il gallo-italico ha perduto, per colpa di toscano e veneziano, e rappresenta la controparte orientale della lombardofonia ovest, inscrivendosi nel novero galloromanzo. Per tale motivo, gallo-italico e retoromanzo (i citati romancio, ladino e friulano), appartengono alla sottofamiglia galloromanza allargata, con occitano e catalano, costituendone il troncone cisalpino. Da tale novero esulano veneto moderno, istrioto e l’estinto dalmatico, che per certi versi si avvicinano, soprattutto nel caso degli ultimi due, all’italo-romanzo proprio. Il veneto, forgiato sulla base del prestigio del veneziano, non è gallo-italico, dunque galloromanzo, ma viene ritenuto dai più romanzo occidentale.

11 settembre (1683): la battaglia di Vienna (festa dell’Europa)

Battaglia di Vienna

L’11 di settembre cade la ricorrenza della battaglia di Vienna, avvenuta nel 1683, quando le truppe del Sacro Romano Impero e della Confederazione Polacco-Lituana levarono l’assedio ottomano dalla capitale austriaca, sconfiggendo l’invasore islamico. In questo modo venne così arrestata l’avanzata dei turchi nell’Europa centro-orientale, ed ebbe il “La” la riconquista europea dei Balcani. Grandi protagonisti della decisiva battaglia viennese furono il re polacco Giovanni Sobieski, comandante dell’esercito cristiano mitteleuropeo, il conte von Starhemberg, capo delle truppe austriache, ed Eugenio di Savoia, prode condottiero asburgico al comando di soldati austriaci e granlombardi, che esordì proprio a Vienna. Allo scontro coi turchi presero parte polacchi, cosacchi ucraini, austriaci, padani e toscani, tedeschi e altre milizie europee, mentre dalla parte degli invasori musulmani si trovavano stati vassalli come Moldavia, Valacchia, Transilvania, l’Alta Ungheria e il Khanato di Crimea. La battaglia di Vienna fu l’evento decisivo della Guerra austro-turca (1683-1699), conclusasi definitivamente con la vittoria dell’Impero ai danni degli ottomani, sancita dal Trattato di Karlowitz; con essa, Austria e Ungheria vennero finalmente liberate dall’incubo alieno maomettano.

Questo epico accadimento storico, da ricordarsi assieme a Poitiers (10 ottobre 732) e Lepanto (7 ottobre 1571), costituisce a mio avviso la miglior ricorrenza per celebrare la festa dell’Europa – che non è l’Unione Europea – intesa come grande e plurimillenaria famiglia continentale e imperiale. A Vienna una leggendaria alleanza paneuropea schiaccia l’intruso allogeno ricacciandolo verso sudest, segnando la riconquista delle terre centro-orientali e balcaniche. Si pone molta enfasi sul carattere cristiano della lotta europea contro i turchi ma, considerando che cristianesimo e islam sono religioni sorelle, credo che l’aspetto più importante stia nel piglio guerriero, nell’eroismo e nella forza vittoriosa delle genti europidi, che unite possono divenire invincibili. Vienna è celebrazione dell’orgoglio d’Europa, della grandezza della sua civiltà e cultura, certamente anche cristiane ma primariamente greco-romane, classiche e dunque gentili, indoeuropee, frutto dello spirito etno-razziale indigeno, che è del resto ciò che ha sempre armato il braccio degli europei. Non è certo azzardato dire che il primato europeo sia figlio anche delle innumerevoli guerre che hanno caratterizzato il nostro continente, e stimolato l’arte, la tecnica, la tecnologia, l’avanguardia e lo sviluppo, nonché la potenza. Vienna, a suo modo, si fa capitale imperiale del “vecchio continente”, crocevia storico e identitario, e quell’11 settembre 1683 (l’unico 11 settembre da ricordare) rimane nei secoli epocale avvenimento luminoso, faro della resistenza europea alle minacce antinazionali.

Il gallo-italico? È il lombardo

I linguisti e dialettologi Graziadio Ascoli e Bernardino Biondelli furono tra i primi a designare la maggior parte delle lingue locali padane (escludendo veneto, istrioto, talvolta il ligure e retoromanzo) come gallo-italico, in qualità dunque di un insieme di idiomi neolatini che si collocano a metà strada fra il galloromanzo e l’italo-romanzo. L’etichetta impropria ‘gallo-italico’ allude, infatti, a quei dialetti cisalpini che, il più delle volte, vengono considerati dai linguisti italofoni parte dell’italo-romanzo, ma con una forte caratterizzazione celtica/gallica, a livello di sostrato, che li avvicina per certi versi più al galloromanzo in senso stretto (franco-provenzale e francese) che all’italiano, e cioè al fiorentino letterario delle “tre corone”. Tra questi studiosi occorre ricordare il Pellegrini e il Tagliavini. Oggi, per quanto il gallo-italico appaia diluito dall’azione del toscano e abbia scelto nel tempo quest’ultimo come lingua tetto, appare chiaro che gli idiomi padano-alpini non rientrino nel medesimo novero dell’italo-romanzo, cosa che vale pure per il ladino in senso lato e il sardo, ed è giusto considerarli una sottofamiglia romanza a sé, decisamente più occidentale che orientale.

Il gallo-italico appartiene alla Gallo-Romània, e con il retoromanzo forma il suo troncone cisalpino. Anche il ligure viene allo stato dell’arte associato al gallo-italico, ma non il veneto e il quasi estinto istrioto, che comunque restano appannaggio della Romània occidentale (per taluni anche il defunto dalmatico ne farebbe parte). Vi è tuttavia da dire che il termine caro al Biondelli e all’Ascoli appare approssimativo e pressapochistico: se per ‘italico’ intendiamo l’italo-romanzo e l’italiano (o addirittura l’italico antico, che faceva capo al latino e all’umbro) direi proprio che stiamo impiegando un’assurdità storica, linguistica e filologica, perché le lingue native della Padania si distaccano chiaramente dalla penisola per avvicinarsi di netto ad aree come Occitania e Catalogna. E ovviamente non sono dialetti che derivano dal toscano. Anche per tale ragione preferiamo indicare il gallo-italico come lombardo tout court, perché espressione culturale peculiare della Lombardia etnica, etnolinguistica e storica, sebbene oggi con ‘lombardo’ si designi, in senso decisamente ristretto, la lombardofonia regionale (o poco più). D’altra parte, ricordando come il retoromanzo sia cisalpino in purezza senza erosione e diluizione italiane o veneziane, la lingua lombarda storica si va ad arricchire anche di romancio, ladino e friulano.

5 settembre (1395): la nascita del Ducato di Milano (festa dell’Insubria)

Aquila e Biscione

Il 5 di settembre del 1395 veniva ratificata e celebrata la nascita, per opera di Gian Galeazzo Visconti, del Ducato di Milano, costituito ufficialmente l’11 maggio dello stesso anno per mezzo di un diploma firmato dall’imperatore del Sacro Romano Impero Venceslao di Lussemburgo. La nuova bandiera ducale era così costituita dal Biscione visconteo in campo argenteo inquartato con l’Aquila imperiale teutonica su sfondo dorato. Alla sua massima estensione quattrocentesca, lo Stato milanese comprendeva pressoché tutti i territori di lingua lombarda (in senso stretto, ossia insubrico, orientale, alpino e meridionale) e buona parte di quelli etnici (bacino idrografico padano) con una propaggine veneta, raggiungendo l’apice della potenza proprio grazie a Gian Galeazzo, e alla casata dei Visconti in genere. A ben vedere, quindi, il 5 di settembre non è solo festa dell’Insubria propriamente detta (Lombardia occidentale tradizionale) ma di tutta la Lombardia transpadana linguisticamente lombarda, nell’accezione detta sopra, che si inserisce nel panorama etnico e storico della nazione lombarda come una sorta di regione modellata da fenomeni idiomatici e culturali.

Tale giornata costituisce così una festa etnoculturale, sub-nazionale, all’interno del mondo granlombardo, andando a celebrare la grandezza, il fasto e il prestigio del Ducato di Milano, che realizzò politicamente l’unità dei lombardi. Sfortunatamente, nei secoli successivi, tale potentato venne privato di componenti territoriali importanti a vantaggio dei vicini di casa e, soprattutto, degli stranieri, perdendo in autorevolezza e autonomia e finendo vessato da dominatori forestieri esosi ed incapaci, come francesi e spagnoli. Recuperò terreno con gli austriaci nel Settecento, ma sullo scorcio del secolo ebbe termine per cagione napoleonica. Rivisse, in un certo senso, nel Regno Lombardo-Veneto ottocentesco, come parte lombardofona dell’Impero austriaco. L’importanza dell’odierna ricorrenza sta non solo nella celebrazione della gloria viscontea, e anche sforzesca, ma chiaramente nella natura etnoculturale omogenea che caratterizzava il Ducato milanese e che, tra le altre cose, nel 1397, divenne ufficialmente Ducato visconteo di Lombardia. Oggi dunque, a ragione, è la festa dei territori e delle genti di Milano, Brianza, Lecco, Como, Valtellina, “Svizzera” lombarda (Poschiavo, Bregaglia, Bivio, Mesolcina, Ticino, Sempione), Seprio, Verbano-Cusio-Ossola, Novara, Vigevano, Pavia, Lodi ma pure di Bergamo, Crema, Cremona, Brescia, Val Camonica, Mantova e di Valsesia, Vercelli, Biella, Alessandria, Tortona, Voghera, Piacenza, Parma, cioè ambiti di etnia cisalpina legati alla lombardofonia allargata.

3 settembre (569): la nascita del Regno longobardo (festa nazionale della Grande Lombardia)

Corona Ferrea di Monza

Il 3 settembre del 569 era volgare nasceva a Milano il Regno longobardo, fondato da re Alboino. Entrati in Padania via Friuli nella Pasqua del 568, secondo la tradizione il 2 di aprile, i Longobardi conquistarono via via le principali città granlombarde, vincendo la debole resistenza dei presidi bizantini. Si insediarono così, gradualmente, nel Triveneto (con l’eccezione delle lagune, da cui nacque Venezia), in Orobia, Insubria, Piemonte, Toscana, conquistando successivamente Emilia e Liguria; con alcune spedizioni i guerrieri longobardi penetrarono nel centro e nel sud dell’Italia etnica dando vita ai ducati di Spoleto e di Benevento, ed insidiando da vicino gli ultimi capisaldi rimasti in mano ai Bizantini, tra cui Roma (Patrimonio di San Pietro, assieme alle aree circostanti), con la Romagna in Cisalpina. Il Regno longobardo, tuttavia, racchiudeva il territorio della cosiddetta Langobardia Maior, che riguardava la contemporanea Italia settentrionale e la Toscana; la penisola era nelle mani dei duchi longobardi indipendenti, del papa e di Bisanzio. Nel 572, dopo un lungo assedio, cadeva Pavia, elevata a capitale del regno, già gotica, con Milano e Monza come altre capitali.

Il 3 di settembre, dunque, può rappresentare una data da ricordare come festa della Grande Lombardia, della Langobardia Maior, ossia di quelle terre che furono, per gran parte, territorio del Regno longobardo dal 568-69 sino alla capitolazione per mano dei Franchi, nel 774. La Grande Lombardia include tutta la Padania, con l’ovvia eccezione della Toscana, che chiaramente non appartiene al mondo cisalpino pur essendo stata da subito parte del Regno dei Longobardi. Una festa identitaria e nazionale della popolazione granlombarda perché sebbene i Longobardi non incisero in maniera cospicua sul dato biologico e antropologico degli indigeni, rappresentarono una tappa fondamentale nella storia delle Lombardie, tanto da avergli lasciato il nome! Oltretutto, la demonizzazione antica, cominciata con Papato e Franchi e sfociata nella retorica patriottarda catto-risorgimentale del Manzoni, si è dimostrata del tutto infondata e l’eredità longobarda è patrimonio significativo di “nord” e Tuscia, ma anche dell’Italia mediana e di quella meridionale continentale. Questo eterogeneo popolo di lingua e cultura germaniche (in buona parte anche di sangue, ovviamente) ci ha lasciato antroponimi, toponimi, usi e costumi, folclore, leggi e istituzioni durate per secoli e, ancorché meno, geni e tratti somatici. A buon conto possiamo dire che i Longobardi stanno a buona parte degli “italiani” – segnatamente ai lombardi – come i Franchi ai “francesi”.

Settembre – September

Germanico

Il mese di settembre (September) deve il suo nome al fatto di essere stato, nell’antichità romana, il settimo mese dell’anno a partire da marzo, successivo a quintile (luglio) e sestile (agosto). In età imperiale tale mese era dedicato a Germanico Giulio Cesare, politico e militare romano della dinastia giulio-claudia, nipote di Augusto, dotato di incredibile prestigio dovuto alle vittorie contro i Germani, e soprattutto a quella nella battaglia di Idistaviso (16 era volgare), rivincita romana sulle tribù germaniche capeggiate dal cherusco Arminio dopo il disastro di Teutoburgo. Riuscì anche a recuperare due delle tre aquile legionarie perdute nel 9 era volgare, in quel nefasto – per Roma – evento anch’esso accaduto in settembre (tra i giorni 8 e 11). L’imperatore Tiberio richiamò poi Germanico (cognomen ereditato dal padre Druso maggiore in seguito ai suoi successi in Germania) rinunziando così alla conquista delle terre teutoniche e allontanandolo da Roma per timore della sua grande intraprendenza. Morì ad Antiochia, forse avvelenato da un uomo di fiducia di Tiberio.

Settembre è mese legato alla vendemmia, come l’iconografia romana stessa ci testimonia. L’equinozio d’autunno cade in tale periodo (tra i giorni 22 e 23), e pare che il mese fosse posto sotto la tutela del dio del fuoco Vulcano; essendo però già preposto ad agosto, vedrei meglio la protezione di Diana, dea della caccia, e l’attività venatoria è legata al principio dell’autunno. Altri simboli di settembre sono fichi, mele, aratura dei campi, foraggio e gli strumenti per il raccolto dell’uva (tini, canestri, vassoi) e il vino, dai fiaschi alle lucertole, animali legati a Bacco, dio di tale bevanda. Da ricordare che il 13 del mese cade la celebrazione della Triade Capitolina, patrona della grandezza di Roma, e che in epoca antica una buona metà di settembre era dedicata ai Ludi Romani, giochi votivi in onore di Giove Ottimo Massimo. Per questo motivo il mese è consacrato a Giove, dio del cielo e padre degli dei (il 13 cadeva anche l’anniversario dell’inaugurazione del tempio dedicato a Giove Capitolino, sul Campidoglio, centro del culto di stato romano). September inizia con il sole nel segno astrologico della Vergine e si conclude, all’altezza dell’equinozio, con il suo ingresso nel segno della Bilancia, simbolo oltretutto di equilibrio tra le ore diurne e le notturne.