La gigantesca presa per i fondelli chiamata leghismo

Quando si parla di questione “settentrionale” (aggettivo improprio, perché la Padania non è il nord di alcunché) l’immaginario collettivo corre al fenomeno leghista, sviluppatosi concretamente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Solitamente si pensa alla Lega Lombarda bossiana, ma di leghe ne esistevano un po’ in tutta la Cisalpina, ed è il caso, ad esempio, della Liga Veneta. Certo, fu attorno ad Umberto Bossi che si coagulò la protesta della cosiddetta Altitalia nei confronti di Roma, del sistema, della politica italiana (e di tutto ciò che poi sfociò nella famigerata Tangentopoli) ma è chiaro che il sentimento identitario dei popoli padano-alpini non sia conio del “senatur” e dei suoi più stretti accoliti.

Dobbiamo però distinguere il leghismo dallo spirito di appartenenza etnoculturale cisalpino: se il secondo è qualcosa di genuino, spontaneo, verace e non inquinato e strumentalizzato dai guitti in giacca e cravatta che siedono a Roma, il primo ha via via assunto i tratti della gigantesca pagliacciata, della mastodontica presa in giro; la dimostrazione più eloquente di tale disastro sta nell’evoluzione (o, meglio, involuzione) finale dell’agenda di via Bellerio, che con Matteo Salvini ha gettato definitivamente la maschera padanista per sposare la più consona causa italianista. Consona pensando ai leghisti, si capisce, gente che si è ben presto adattata all’andazzo capitolino diventando più italiana degli italiani.

Nel tempo la Lega (intesa come frutto della federazione delle varie Leghe “settentrionali”, e cioè la Lega Nord) è passata dall’autonomismo al federalismo, approdando al farsesco secessionismo del periodo 1995-2000, poscia rinnegato in fretta e furia per tornare a pascersi nel cuore dell’Italia etnica grazie ai governi berlusconiani. Rottamata la secessione della Padania – e badate che ‘secessione’ e ‘Padania’ sono vocaboli privi di significato se intesi alla bossiana, perché si dovrebbe parlare di ‘indipendenza’ e di ‘Lombardia’ (quella storica) – riecco il federalismo all’acqua di rose, indi la devolution e poi ancora il federalismo fiscale-solidale (una buffonata). Oggi va di moda l’autonomia differenziata, all’interno di un governo presieduto dall’erede in gonnella del postfascismo meridionalista.

Col passaggio di testimone da Bossi a Salvini (e nel mezzo l’incolore Maroni e il suo “prima il Nord”, a tappare la falla degli scandali del “cerchio magico” ausonico) la svolta finale: la propaganda nordista viene sconfessata, cancellando ogni residuo secessionista, abbracciando la retorica patriottarda del nazionalismo fascistoide al fine di galleggiare nel panorama politico italico, mantenendo il sedere ben saldo sulla poltrona riciclandosi per accalappiare voti sud-italiani. L’ex felpato ha detto tutto e il contrario di tutto, simbolo dell’imbarazzante mediocrità raggiunta dal nuovo corso della Lega Italia. Non che sia colpa di Salvini, intendiamoci. I germi dell’italianismo erano presenti già nella fase terminale di Bossi, e infatti accusare Matteo di tradimento risulta esilarante; costui ha soltanto preso atto del fatto che il leghismo padanista era ormai morto e sepolto, col beneplacito del genio di Cassano Magnago.

Capiamoci, amici, non tutto del leghismo, che io reputo comunque fallimentare, è da buttare. Si può riconoscere al “carroccio” del celodurismo di aver posto, anche se in maniera cialtronesca, una questione identitaria, di aver sollevato interesse e curiosità circa la natura e i destini della Cisalpina e di aver fatto da stimolo per quanti, venuti dopo, hanno raffinato il concetto di padanismo, raddrizzando il tiro agli sproloqui da pratone pontidese. Ma quel che si può salvare del fenomeno Lega non riguarda i politici, e Bossi medesimo, bensì quanti hanno animato o contribuito ad un dibattito di qualità incentrato, soprattutto, su identità e cultura. Il pensiero va a Gianfranco Miglio, Gilberto Oneto, Sergio Salvi, Gualtiero Ciola, Silvano Lorenzoni, Federico Prati e altri, studiosi che – sebbene in taluni casi libertari/liberali – hanno difeso con onestà e sincerità il lato solare del leghismo, aiutando a comprendere che la vera rivoluzione alpino-padana è quella del lombardesimo.

6 gennaio: falò di inizio anno e Befana

Falò di inizio anno

Il 6 di gennaio è la data del falò di inizio anno e della ricorrenza legata alla Befana, il cui nome, come sappiamo, è alterazione di ‘Epifania’. L’usanza del falò invernale deriva da riti purificatori e propiziatori precristiani, atti a salutare l’anno vecchio (rappresentato da una pira o da un fantoccio in fiamme) per conciliarsi i favori divini, in vista dell’annata entrante, o appena iniziata. Ciò avviene al termine delle dodici notti sacre del periodo solstiziale, secondo le tradizioni nordiche, e la festività cristiana dell’Epifania fu istituita dalla Chiesa proprio per cancellarne il ricordo (perpetuato dalle superstiti usanze agresti). Il fantoccio, da tradizione, può assumere le fattezze di una vecchia di brutto aspetto e dunque della Befana, figura del folclore propriamente italiano etnico che rappresenterebbe una divinità italica pagana, femminile, che vola sopra i campi per propiziare la fertilità e l’abbondanza del raccolto. Il sembiante di vecchia strega bonaria (tramite il solito capovolgimento apotropaico cristiano) potrebbe riprendere, distorcendolo, quello di Diana o di altri simboli della mitologia italico-romana ed europea.

La Befana ricorda, infatti, le germaniche Holda e Berchta, personificazioni femminili dell’inverno, ovviamente caratterizzate da un aspetto fisico in linea con i rigori di questa stagione: Holda è dea nord-tedesca dell’agricoltura e dei mestieri femminili, Berchta (o Perchta) è invece detta “signora delle bestie”, peculiare dell’arco alpino reto-germanico, e ha un nome che significa, in tedesco, ‘la splendente’ (non trovate connessioni con l’Epifania, che sarebbe la luminosa manifestazione del Cristo?). La luce è il tema dominante che caratterizza il periodo solstiziale, natalizio e a cavallo tra anno vecchio e anno nuovo, perché segna la rinascita del sole e il lento avanzamento della luce diurna a scapito delle tenebre notturne. Ma la Befana, e le colleghe, simboleggiano anche Strenia, divinità italico-romana simbolo dell’anno nuovo, della prosperità e di buona fortuna, sotto la cui egida si celebravano i rituali scambi di doni nel periodo dei Saturnali romani, le strenne. La vecchina del 6 gennaio è figura di matrice prettamente centrale/centromeridionale, nel contesto dunque della penisola italiana, ma nella Cisalpina viene riecheggiata dalla Giubiana di fine gennaio, figura femminea di strega arsa ritualmente, al pari dell’italica Befana.

Mondo

Il concetto di mondo si distingue da quello di terra, poiché il primo è la connotazione politica, ideologica e umana della seconda. Da un lato, appunto, il pianeta, dall’altro il cosiddetto villaggio globale che assurge a concezione geopolitica, e socioeconomica, alla base della globalizzazione e dello stesso mondialismo. Il sistema-mondo è il letto di Procuste che martoria razze, etnie e popoli del globo, con particolare accanimento nei confronti della culla della civiltà, e cioè l’Europa, il continente bianco; piegare ogni nazione sovrana all’agenda dell’unipolarismo americano, e dunque al senso più perverso del termine ‘Occidente’, significa annientare identità, tradizione, spirito in nome di un subdolo imperialismo che tutto omologa e livella, a scapito dell’uomo. Dietro all’accezione di mondo si cela anche l’universalismo, come se gli esseri umani fossero tutti uguali e non presentassero differenze biologiche, antropologiche e identitarie: non esistono più maschi e femmine, giovani e anziani, eterosessuali e omosessuali, abili e disabili, e ovviamente le razze vengono rinnegate e condannate all’estinzione, tramite il meticciato.

Se il pianeta Terra è quindi un patrimonio da salvaguardare, tanto per gli umani quanto per le bestie e i vegetali, il mondo, soprattutto oggi, assume il volto torvo dell’omogeneizzazione, della standardizzazione, di un pluralismo che diventa relativismo ai danni, ribadiamo, in particolare degli europidi, condannati a soccombere di fronte a fenomeni migratori selvaggi, società multirazziale, esogamia auto-genocida. E questo perché da decenni la razza bianca è demonizzata e criminalizzata al punto che gli stessi europei si vergognano di essere tali. Il mondo è l’ecumene di chi odia la biodiversità, e si trastulla, parimenti, col concetto di umanità: una trovata retorica, propagandistica, ipocrita grazie alla quale è possibile, per i parassiti nemici delle legittime patrie, polverizzare le nostre comunità a vantaggio del culto del danaro e del grande capitale. Un siffatto marciume ruota attorno al capitalismo, la novella peste nera che ha contagiato e straziato l’Europa, trascinandola negli abissi in cui giace la mostruosa America. La grande famiglia dei lombardi è l’Europa, anche declinata come consesso imperiale euro-siberiano, e non vi può essere spazio per l’ideologizzazione antifascista e antirazzista, dunque mondialista, del globo.

Gennaio – Ianuarius

Giano bifronte

Il mese di gennaio (Ianuarius), che comincia oggi con Capodanno aprendo questo 2025 era volgare, è dedicato a Giano, divinità romana preposta a porte e ponti e, in generale, rappresentante ogni forma di passaggio e mutamento (e gennaio, infatti, primo mese dell’anno secondo il calendario civile, apre le porte all’anno nuovo). Il dio è bifronte perché può guardare tanto al passato quanto al futuro e, presiedendo alle porte, sia all’interno che all’esterno; non a caso l’etimologia del suo nome si riconnette al latino ianua ‘porta’, che deriva a sua volta da una radice indoeuropea indicante ‘passaggio’. Se Saturno, dio della rigenerazione, chiude il mese di dicembre, l’ultimo, traghettandolo verso il nuovo anno, Giano, iniziatore e creatore per eccellenza, inaugura il mese di gennaio, il primo, che è tale sin dall’antico calendario romano (il 21-22 dicembre, solstizio d’inverno, è capodanno astronomico mentre il 1 gennaio, invece, civile). Nel calendario romano primigenio (il romuleo), tuttavia, come risaputo l’anno si inaugurava nel mese di marzo ed i mesi erano dieci; si suppone che gennaio e febbraio venissero aggiunti da Numa Pompilio, secondo re di Roma.

Gennaio, nel calendario delle attività agresti che gli antichi intrecciavano strettamente con la ritualità religiosa, segue un po’ la stagnazione del mese di dicembre, dovuta all’inverno e quindi al riposo dei campi, e i contadini ne approfittavano per affilare paletti, tagliare salici e canne, offrendo sacrifici agli dei Penati, numi tutelari della casa. Vi erano gesti simbolici, a Capodanno, fatti per auspicare un raccolto prosperoso, ma in generale gennaio rimaneva fase di stallo dedicata a lavoretti di poco conto e al riordino. I rustici più religiosi non toccavano la terra sino al 13 del mese e, del resto, tutto il periodo dal solstizio d’inverno al 7 di febbraio (quando, cioè, si supponeva che il favonio cominciasse a spirare favorevolmente) veniva vissuto, da un punto di vista agricolo, in maniera molto blanda. Lentamente il giorno guadagna terreno sulla notte, che rimane predominante sino all’equinozio di primavera (quando i due si equivalgono); il mese di gennaio inizia con il sole nel segno astrologico del Capricorno, mentre dal 21, si conclude con il suo ingresso nel segno dell’Acquario.

31 dicembre: l’ultimo giorno dell’anno (notte di Saturno)

Saturno

Il 31 di dicembre, ultimo giorno dell’anno, è dedicato a Saturno, che sancisce la chiusura del periodo solstiziale, non a caso contraddistinto, nell’antica Roma, dai Saturnali celebrati in onore di quel dio. Nella notte fra 31 dicembre e 1 gennaio, la notte di San Silvestro, i rituali dei Saturnalia vengono condensati in un un’unica serata e nottata, caratterizzata dal classico clima orgiastico fatto di festeggiamenti e bagordi, bevute e banchetti, amplessi, baccano (ritualità giunte, praticamente, sino ai nostri giorni, con l’aggiunta di mortaretti, petardi e fuochi artificiali). Si tratta di un giorno di passaggio dal vecchio al nuovo, presieduto da Saturno che è dio dell’agricoltura e dell’abbondanza (anche etimologicamente), dei cicli naturali e della rigenerazione, colui che presiede all’inizio e alla fine di un periodo cruciale, com’è appunto quello solstiziale che in una decina di giorni congiunge il Natale astronomico del sole alla fine canonica dell’anno. La grande confusione del Capodanno, di ieri come di oggi, è figlia dell’ambiguità di Saturno a cui, non dimentichiamolo, va riconnesso il giuoco dei dadi, dunque la tombola! Ma pure il vischio e il colore rosso degli indumenti intimi hanno, logicamente, origine nel passato pagano (intriso di sessualità), sia nordico che romano, e trovano giustificazione nei buoni auspici per il nuovo anno.

Ai giorni su cui enigmaticamente regna Saturno, vanno ricondotte usanze come quella di sbarazzarsi, poche ore prima del Capodanno, degli oggetti inservibili, nonché il frastuono dell’attesa che deflagra allo scoccare della mezzanotte in un tripudio di botti, segno di caotica euforia direttamente ereditata dai Saturnali. “Anno nuovo, vita nuova”, si recita; detto forse banale eppur sintomatico di una ritualità antica che, ancorché cristianizzata e, poi, laicizzata dal consumismo, ritorna nella modernità in usanze date ormai per scontate ma che affondano le proprie radici in un passato glorioso per il nostro continente. La confusione è tipica di ogni capodanno (che, non a caso, scolora nel carnascialesco), e questa atmosfera da soqquadro relativa ai Saturnalia viene, nel IV secolo, spostata dal convenzionale periodo che va dal 17 al 23 dicembre, allo spazio di tempo compreso tra il 25 e Capodanno. Euforia, desiderio di rinnovamento, abbandono del vecchio, attesa di una palingenesi sono elementi che si compenetrano e caratterizzano la notte di San Silvestro, tempo in cui Saturno si incontra con Giano, creatore e iniziatore per eccellenza, dio eponimo del mese di gennaio. L’anno nuovo, astronomicamente parlando, viene inaugurato dal solstizio d’inverno (21-22 dicembre), ma il 31 dicembre che cede il testimone al 1 di gennaio resta una data carica di significato che si perde nei tempi arcaici.

25 dicembre: Dies Natalis Solis Invicti

Sol Invictus

Il 25 dicembre è il Dies Natalis Solis Invicti, il Natale del Sole Invitto, ricorrenza di romana memoria rimpiazzata, usurpandola, dalla Chiesa cristiana. Il sole rinasce pochi giorni dopo l’apparente caduta nelle tenebre solstiziali, ritorna vitale ed invincibile trionfando sul buio invernale, col giorno che, lentamente, comincia a riguadagnare terreno sulla notte, sino al solstizio d’estate, in cui si avrà il dì più lungo dell’anno e, di conseguenza, la notte più corta. Ma come la fine cova i germi dell’inizio, così il culmine cova i germi del declino, ed è per questo che viene celebrato con gran pompa ed enfasi il Natale del Sole Bambino, perché la sua ri-nascita segna il lento declino dell’inverno, in favore della luce, del risveglio, della bella stagione (con tutto ciò che ne consegue in termini agresti, rustici, dal punto di vista degli antichi padri ariani). Le celebrazioni solstiziali nascono, infatti, dalla ritualità agricola dei popoli arcaici, che si compenetrava al sacro e che ha lasciato degli echi nella saggezza popolare contemporanea: in bergamasco si dice “A Nedàl ü pass de gal“, proprio ad indicare come, subito dopo il periodo solstiziale di Santa Lucia, con la notte più lunga dell’anno (secondo una sfasatura del calendario giuliano), la luce diurna rosicchi spazio al buio, a mo’ di andatura di gallo (un animale da sempre legato al sole, oltretutto).

Era tradizione indoeuropea accendere grandi falò all’aperto, tra 21 e 25 dicembre, a celebrare il solstizio e, quindi, la rivincita del sole; e per questo, nel periodo tardo-imperiale, venne istituito il Natale del Sole Invitto, con l’intento di imporre un culto monoteistico solare di ispirazione ario-orientale, successivamente sostituito dal Natale dei cristiani, brutta copia del precedente. Il bambinello di Betlemme non è altro che il Sole Bambino di cui si parlava sopra (come la Madonna non è altro che Angerona, la Grande Madre, e Terra) – anche perché Gesù Cristo, con tutta probabilità, non è mai esistito – che assume i tratti di Sol, Helios, Apollo e Mitra (capelli ricci, aspetto di adolescente, raggiera luminosa attorno al capo) e si fa sommo astro di giustizia. La simbologia solare del cristianesimo è scopiazzata, pari pari, dalla gentilità greco-romana ed orientale (ma sempre ariana), e il “Cristo” medesimo è un simbolo divino figlio dell’afflato uranico ario-europeo, appiccicato addosso al fantomatico falegname nazareno. Non lasciatevi dunque turlupinare dagli inganni preteschi e/o consumistici: il Natale del 25 dicembre – ispirato agli antichi culti solstiziali indoeuropei – è solo uno, del Sol Invictus, con buona pace del papa e dei suoi accoliti, ma anche della nauseante orgia consumistica e materialistica occidentale di questo periodo dell’anno, che tentano goffamente di appropriarsi di tutti i simboli natalizi, nati squisitamente gentili.

21-22 dicembre: il solstizio d’inverno (Capodanno astronomico)

Ruota solstiziale di Yule

Il 21-22 dicembre (quest’anno 21) cade il solstizio d’inverno, giorno più breve dell’anno e Capodanno astronomico. In tale data, cruciale per la tradizione indoeuropea, i nostri avi celebravano i germi della rinascita del sole e il lento diradarsi delle oscurità invernali, in quello che è il massimo declino del re degli astri (nella notte più lunga dell’anno), accendendo grandi falò all’aperto caratterizzati dall’incendiarsi di ruote lignee solari, ornate con le nobili essenze delle foreste europee (come il vischio). Il fuoco è un elemento centrale, emblema di purificazione e di buon auspicio nella lotta contro le tenebre del male e le avversità della natura, così come il sole che vince il buio della notte. Un rito di passaggio questo, dal vecchio al nuovo, dalle oscurità alla luce, dalla notte – che pian piano perde terreno – al giorno e che sancisce il trionfo dell’astro precipuo celebrato pienamente il 25 di dicembre, nel Natale del Sole Invitto di romana memoria. È morendo che il sole può rinascere in un nuovo ciclo vitale. Non stupisce che questa fondamentale fase di transizione dell’anno sia da sempre celebrata dai popoli europei in onore dei loro principali dei antichi, come ad esempio Odino (vedi Yule), e che sia stata di conseguenza abbondantemente parassitata dai cristiani storpiando il significato del vero Natale, che viene reso possibile proprio dal solstizio d’inverno.

Il parto del “Sole Bambino” nel gelo invernale viene riproposto dai fedeli in Cristo, in chiave evangelica, col Bambin Gesù che nasce da Maria (la notte, la Grande Madre lunare e ctonia, anche Terra e Angerona) nella fredda nottata di Betlemme; il presepe è la trasposizione cattolica del larario romano, con tutto ciò che ne consegue in termini di commemorazione degli avi (e di Saturno). L’esistenza dell’uomo (indo)europeo è scandita dal naturale ciclo delle stagioni che segue la posizione di quello che, da sempre, è il nostro vitale punto di riferimento: il sole, appunto. La classica ruota solare ariana rappresenta icasticamente questo avvicendamento astronomico, e simboleggia degnamente la luminosa, virile, guerriera mentalità dei nostri padri, ossia di coloro che hanno plasmato il nostro continente rendendolo unico, grazie anche alla loro tensione spirituale verso l’alto, la perfezione, il divino (asse verticale) che si interseca col cammino terreno, con l’esperienza di vita quotidiana che diviene battaglia, dell’essere umano di stirpe arya (asse orizzontale). Ecco, quindi, da dove giunge la simbologia della croce cristiana… E con il solstizio d’inverno il cerchio si chiude… per riaprirsi, inaugurando un nuovo ciclo stagionale della vita.

Il concetto di Gallo-Teutonia

All’epoca del Movimento Nazionalista Lombardo, io e Roncari teorizzammo una sorta di spazio macro-nazionale centroeuropeo, che comprendesse anche la Grande Lombardia (e cioè l’intera Padania): la cosiddetta Gallo-Teutonia, sovrapposizione dell’elemento germanico a quello celtico. Col senno di poi, una soluzione un tantino nordicista (tecnicamente la Cisalpina non è Europa centrale, pur avendo solidi legami col mondo mitteleuropeo e transalpino), eppure, se ci pensiamo, la storia della nostra terra ci parla di un popolo inserito appieno nel cuore dell’Europa, parte integrante della sua civiltà e motore economico del continente. Nonostante la romanizzazione prima e l’italianizzazione poi ci abbiano trascinato verso il Mediterraneo, è chiaro che l’ambito padano-alpino abbia sempre gravitato attorno al fulcro europeo, fungendo da anello di congiunzione fra centro e sud.

La Padania è la periferia meridionale del concetto plurisecolare di Europa centrale, anche perché spesso il Triveneto viene considerato, a ragione, area profondamente influenzata da componenti germaniche, alpine, slave. Globalmente, la nazione lombarda appartiene all’ambito europeo centromeridionale, ma come dicevo sopra con solidi legami che la uniscono storicamente al cuore celto-germanico della famiglia continentale. La Lombardia storica è stata Gallia Cisalpina, Regno longobardo e franco, Impero carolingio e Sacro Romano Impero, sino al Lombardo-Veneto e ai territori “irredenti” dell’Austria-Ungheria; mostra dunque secoli di vicissitudini intrecciate con quelle dei popoli transalpini, il che ha avuto un chiaro impatto etnico, culturale, spirituale, socioeconomico e civile sulle nostre genti.

Ancor oggi, la regione geografica più ricca, sviluppata, fiorente, virtuosa e laboriosa dell’Italia politica è il “nord”, che fa degnamente parte dello spazio storico carolingio (il cosiddetto asse lotaringico), delle zone più attive e avanzate d’Europa e del cuore industriale del nostro continente. Vale la pena ricordare la famosa Banana blu, che ricalca la direttrice franco-lotaringica e unisce il centrosud inglese alla valle del Po, passando per il mondo gallico transalpino e teutonico. Le principali aree urbane e industriali europee comprendono così la dimensione “carolingia”, cui la Lombardia compete dal Medioevo, arrivando a lambire Catalogna, Scozia, Scandinavia, Mitteleuropa e Toscana-Corsica.

Esiste anche la cintura solare, o Banana dorata, regione economica costiera del Mediterraneo nordoccidentale che collega Catalogna, Occitania, Liguria e che rappresenta il fulcro dello sviluppo mediterraneo, grazie al buon grado di industrializzazione raggiunto. La continuità culturale, civile e socioeconomica di questo distretto statistico dimostra che pure le aree meridionali della Padania seguono traiettorie occidentali, piuttosto che sfumare in direzione tosco-mediana, dunque italiana, segno che anche a livello etnico (e antropogenetico) la vera fratellanza dei cisalpini si concretizza con le nazioni dell’Europa centro-occidenale.

Certo, i granlombardi non sono un popolo etnicamente celto-germanico come possono esserlo nella Francia settentrionale, in Alsazia, nelle Fiandre o nella Germania occidentale e in Inghilterra; i granlombardi hanno, eziandio geneticamente, un importante elemento celtico e preromano, diluito dalla romanizzazione di taglio greco-italico e ringalluzzito da un 20% di geni nordeuropei recati a sud delle Alpi dai Longobardi, fondamentalmente, e salvo le aree settentrionali estreme, alpine, ricadono nello stesso novero antropologico ed etnico dell’area franco-iberica, con nessi balcanici. La craniologia ci parla di un indice cefalico cisalpino molto prossimo ad Alpi, Europa centrale e Balcani, ma la genetica, nel complesso, spinge in direzione occidentale. Sicuramente sottostimato l’apporto mediterranide (occidentale) e soprattutto atlanto-mediterranide, che collega specialmente l’ovest padano alle aree meridionali della Francia, alla penisola iberica e a Corsica e Toscana.

Uno sguardo alla genetica padano-alpina

Avrò modo, più avanti, di discorrere approfonditamente dell’aspetto antropologico e genetico della nostra nazione, la Grande Lombardia, ma penso che già da ora sia il caso di fare una panoramica sul profilo biologico della Padania, in termini di genetica delle popolazioni. Due settimane fa avevo trattato di antropologia fisica, riassumendo il quadro che caratterizza il volgarmente detto “nord” e, per completezza, è giusto ricordare anche ciò che concerne il nostro ADN. La Cisalpina è una realtà antropogenetica tutto sommato occidentale, in pari con Iberia e Francia meridionale; presenta, tuttavia, aree periferiche che scolorano in direzione settentrionale e meridionale: nel primo caso, parliamo dell’arco alpino, specie orientale, nel secondo delle Romagne, che si avvicinano all’ambito tosco-mediano (soprattutto toscano).

Ciò che balza anzitutto all’occhio è la netta frattura che separa la Lombardia storica dall’Italia etnica, con la parziale eccezione della Corsica e della Toscana. La Corsica, parte del mondo italo-romanzo profondamente legata alla Toscana, ha un aspetto genetico che si colloca a metà fra la Liguria e la Tuscia, e può essere definita centrosettentrionale (anche se di influsso sardo, che la rende molto conservativa); un discorso che vale pure per i toscani, in particolare settentrionali, sebbene caratterizzati da un maggior influsso romano di tipo imperiale che al di là dell’Appennino può riscontrarsi solo nei romagnoli. Tra Padania, Corsica ed Etruria ritornano spesso gli stessi cognomi e gli stessi aplogruppi paterni e materni (di marca occidentale), sintomo di un certo legame etnico, tuttavia affievolito da altri elementi identitari.

C’è comunque da dire che lo spartiacque appenninico fa effettivamente da barriera, anche per i geni, e questo riguarda proprio la romanizzazione: vi sono commistioni di taglio levantino recente che nella Padania non compaiono, a differenza dell’Italia etnica, seppur i nostri antenati abbiano conosciuto la colonizzazione degli antichi Romani (e dunque l’afflusso nella valle del Po di genti italiche, magnogreche ed egeo-anatoliche). Esiste una discreta componente repubblicana e imperiale nell’ADN autosomico cisalpino, accanto al prevalente sostrato preromano (ligure, retico, etrusco, celtico, gallico) e ad un contenuto superstrato nordeuropeo veicolato soprattutto dai Longobardi (a seconda delle zone, può anche arrivare ad un 25%). Chiaro che quest’ultimo dato contraddistingua in particolar modo le aree alpine, corroborate da geni germanici (o slavi) recenti.

Come dicevo, la vera e propria frattura genetica “italiana” concerne la Cisalpina nei riguardi del centrosud, soprattutto del meridione. Se la prima segue la scia dell’Europa occidentale, collocandosi ai livelli iberici e occitani (con tendenze centroeuropee), il secondo risulta prossimo alla Grecia: la Toscana si attesta a livelli albanesi, l’area mediana appare vicina alla Grecia continentale e il sud finisce tra Peloponneso e isole greche, con le frange estreme proiettate verso il Mediterraneo più orientale (alcuni calabresi ricordano da molto vicino i ciprioti). Non solo, perché i sud-italiani si mostrano affini a maltesi ed ebrei europei, soprattutto aschenaziti, segno evidente di una natura genetica che potremmo moderatamente definire euro-levantina.

La variabilità biologica a sud delle Alpi non ha eguali in Europa e testimonia, come moltissimi altri campi, l’inesistenza di una nazione italiana dal Brennero a Lampedusa. Granlombardi, italiani etnici e sardi (ricordiamo, infatti, il classico isolato della Sardegna, che la rende unica) non appartengono alla medesima etnia e questo vale prima di tutto per il sangue. Con la sunnominata parziale eccezione di corsi e toscani, noi padano-alpini potremmo definirci strettamente imparentati – anche per vincoli genetici – con i popoli della penisola iberica, della Francia centromeridionale e, in parte, dell’arco alpino e dei Balcani settentrionali. Ma con gli italiani, specie del mezzogiorno, non abbiamo davvero nulla a che fare, e nemmeno romanizzazione e meridionalizzazione postbellica hanno cambiato le cose: noi siamo un popolo della sezione meridionale dell’Europa occidentale, figlio di Celti, Romani e Longobardi, mentre l’Italia etnica si situa nell’Europa sudorientale, grazie alla netta impronta greca e grecula che caratterizza anche il centro (con l’elemento italico via via assottigliatosi e sommerso dal preponderante strato del Mediterraneo orientale).

La questione simbologica

Razza viscontea

Parlando di simboli, insegne, stemmi, bandiere, vessilli vari, la Lombardia può fregiarsi di un nutrito armoriale che all’occorrenza fornisce emblemi di tutto rispetto e di sicuro prestigio.

La sua bandiera storica potrebbe essere la milanese Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco, nonostante personalmente non nutra molta simpatia verso di essa in quanto simbolo precipuamente genovese e legato al cristianesimo.

Però è chiaro: essendo vessillo plurisecolare legato alla Lega Lombarda, alla battaglia di Legnano, ai liberi comuni lombardi che si contrapponevano all’Impero e alla sua insegna di guerra con croce bianca in campo rosso (Croce di San Giovanni Battista o Blutfahne, nel caso appunto del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica), è degna di nota e considerazione, anche se francamente, a mio modesto parere, è più indicata per il comune di Milano e il cantone lombardista che prende il nome dalla capitale, dato che da lì proviene. Fermo restando che la suddetta Croce di San Giovanni ricorre spesso come emblema delle città storicamente ghibelline.

La Croce di San Giorgio è il simbolo per antonomasia delle crociate, e per qualcuno anche il vessillo della “vera croce”, basti pensare a certi dipinti in cui il Cristo risorto la impugna.

Insomma, la Croce milanese può prestarsi a varie interpretazioni, ma al di là di tutto è senza dubbio un’insegna storica panlombarda, nonché stemma di città come la citata Milano, Lecco, Varese, Alessandria, Novi, Acqui, Alba, Vercelli, Ivrea, Reggio, Mantova, Bologna, Padova e ovviamente Genova, per un motivo o per un altro legate a Milano e alla Lega Lombarda.

E proprio Padova, Bologna e soprattutto Genova l’hanno come simbolo; le prime due in onore della Societas Lombardiae, la terza perché genitrice di tale bandiera, o per lo meno storicamente genovese innanzitutto e poi milanese, lombarda, inglese (sebbene la leggenda voglia che tale vessillo sia di origine longobarda e, nel caso milanese, inizialmente insegna vescovile poi passata al municipio). Ci sono anche teorie bizantine, a riguardo del capoluogo ligure.

Pure la sunnominata Croce di San Giovanni Battista appartiene storicamente alla Lombardia, perché insegna di quelle città fedeli all’imperatore quali Novara, Domodossola, Como, Pavia, Lugano e poi anche Aosta, Cuneo, Asti, Fidenza, Vicenza, Treviso, Ceneda.

Queste due tipologie di croci, a sud delle Alpi, sono tipiche della Pianura Padana e sintomatiche dell’antica contrapposizione tra guelfi e ghibellini. E lo stesso cromatismo bianco-rosso è un simbolismo spiccatamente cisalpino, che lega la nostra terra al resto dell’arco alpino.

Ad ogni modo, le mie simpatie vanno innanzitutto al Biscione, el Bisson, emblema dei Visconti, della Milano ducale, della Lombardia longobarda e pagana, uno splendido simbolo assieme all’Aquila imperiale del Sacro Romano Impero (ovviamente retaggio romano delle legioni, passato in eredità alla Germania). Ritengo questa insegna – il noto Ducale visconteo – degna bandiera del popolo lombardo.

La vipera azzurra è un simbolo sacro per i Longobardi, si ricollega ai miti celtici dei draghi d’acqua padani (tra cui il drago Tarantasio del Lago Gerundo) ed è anche un segno guerresco perché l’omino che ingolla, in origine, era moro. Questo, si dice, perché i Visconti l’avrebbero “scippata” ai musulmani di Palestina, durante le crociate, invertendone il significato apparentemente ctonio, dovuto alla vita che nasce dalla bocca del serpente. Probabilmente una leggenda, per quanto suggestiva, dacché il Biscione è un elemento araldico di sicura origine insubrica.

Tuttavia, è interessante constatare un certo sincretismo simbologico nell’attuale Bissa, o comunque la possibilità di una lettura ampia, frutto della stratificazione identitaria lombarda.

La Lombardia regionale occidentale (Insubria vera e propria) si fregia anche della famosa Scrofa semilanuta, simbolo della Milano gallica di Belloveso, mentre la Lombardia regionale orientale (cosiddetta Orobia) ha il nobile Swastika camuno, che non è la castrata rosa pirelloniana ma una vera e propria croce solare ariana, scavata in diverse incisioni nelle rocce della Val Camonica, millenario emblema solare della nostra gente che accomuna tutti gli europei grazie al loro retaggio indoeuropeo.

Pure lo Swastika è un prestigioso segno di riconoscimento identitario della terra padano-alpina, e non a caso è stato da me scelto come simbolo del lombardesimo, integrato nell’ipotetica bandiera nazionale della Grande Lombardia: fusione delle due Croci bianco-rosse padane con al centro, appunto, la vera “rosa” camuna.

Ad arricchire il quadro simbologico identitario, ecco la Razza viscontea, araldico motivo dei Visconti, che consiste in una raggiera gialla e rossa, che rappresenta il Sole Invitto, avente nel mezzo uno scudo vagamente tedesco argenteo contenente il Biscione azzurro coronato, un simbolo formidabile, ariano, pagano, terragno (per quanto, al solito, inflazionato dalla cristologia); la sunnominata Aquila latino-germanica, nera, ad una testa, parimenti coronata e su sfondo dorato, emblema classico della continuità imperiale romana ereditata dal mondo teutonico, a cui la Lombardia storica si ricollega; e naturalmente la ruota solare, il disco solare nero, schietta e perentoria insegna indoeuropea, banalizzata dal cristianesimo ma senza dubbio di filiazione pagana, che per noi rappresenta l’intera Europa e il suo retaggio ario.

Ci sarebbe anche la sacra tripartizione cromatica bianco-rosso-nera della parimenti tripartita società indoeuropea, ma per approfondire vi rimando alla più dettagliata pagina in materia di panoplia identitaria ed etnonazionalista di tutte le Lombardie, non solo di quella regionale.

Il piatto, ad ogni modo, è davvero ricco e la Lombardia in fatto di simboli non ha nulla da invidiare a nessuno, ed è chiaro sintomo di identità, di tradizione, di più che lecite aspirazioni all’autodeterminazione indipendentista, chiaramente su basi etniche, in virtù di una storia e di una civiltà, parte del cuore europeo, senza eguali.

La ruota solare, impreziosita dal cromatismo indoeuropeo, che ideai per i movimenti lombardisti, è il risultato dell’incontro fra la Croce di San Giorgio, la Croce di San Giovanni e il disco solare ariano, un’integrazione che riassume in sé il significato etnico della Lombardia: cisalpina, romano-germanica, indoeuropea.

I simboli, le bandiere, i colori, degni di rispetto e considerazione perché ammantati di sacri rimandi, sono sempre imbevuti di spirito guerriero, proprio per il fatto che la civiltà europea è stata plasmata dalle guerre. E la tradizione europea stessa passa proprio per le armi, che ci hanno garantito di poter ereditare un formidabile patrimonio che tutto il mondo ci invidia.

La concreta risposta alla funerea barbarie universalista figlia del giudeo-cristianesimo, del giacobinismo, del marxismo e dell’attuale mondialismo capitalistico e affaristico, è la simbologia tersa, solare, fulgida, retaggio di tutta Europa, destinata a concretizzarsi nella lotta identitaria per la salvaguardia del nostro lignaggio etnico, spirituale, nazionale.

Se essere lombardi ed europei, di stirpe indogermanica, ha ancora un senso per noi, è giunto il momento di farci valere per non soccombere di fronte al dilagante relativismo, frutto eziandio, e nemmeno troppo paradossalmente, dell’assolutismo cristiano basato sull’unico dio straniero di matrice semitica, e sulla sua opera di desertificazione e di castrazione delle genti continentali.