Natalità

In una Grande Lombardia invasa e colonizzata, prima dai sud-italiani e poi da tutti gli altri allogeni, è fondamentale, assieme al blocco dell’immigrazione e al sistematico rimpatrio, recuperare un minimo di vigore demografico per poter garantire alla nazione un futuro il più possibile roseo. Da lombardisti siamo i primi a denunziare la spaventosa sovrappopolazione storica – peggiorata dai flussi migratori – che affligge la Padania, ma è chiaro a chiunque che avanti di questo passo i lombardi si estingueranno, e non solo nel cosiddetto triangolo industriale; è necessario pertanto ricominciare a fare figli, nel pieno rispetto dell’endogamia, anche se per attuare ciò sia urgente una rivoluzionare culturale e sociale che passi per il comunitarismo. Dall’educazione sessuale ai costumi giovanili, dai valori famigliari al culto patriottico del focolare domestico: in un’Europa occidentale ipersessualizzata, viene del tutto a mancare la coscienza riproduttiva, o limitata ad un solo figlio in tarda età. E questo a fronte dei ritmi selvaggi del terzo mondo, e degli immigrati da esso provenienti, refrattari ad ogni idiozia progressista.

Non così nella Padania, oggi ridotta a succursale del mondo anglosassone che assorbe a guisa di spugna la mentalità affaristica e consumistica facendosi plagiare dalla società dell’edonismo. Pancia piena, portafogli pieno, bagaglio delle futilità stracolmo ma spirito sempre più svuotato e isterilito, con il collasso dei principi identitari come primissima conseguenza. Quando vengono a mancare quegli ideali eroici che animano un’etnia e una nazione, restano soltanto le macerie postmoderne di una civiltà un tempo prospera ed esemplare, che solo la palingenesi etnonazionalista potrebbe risuscitare. Una Lombardia senza lombardi è il trionfo del sistema-mondo e della sua tristissima appendice peninsulare, il sistema-Italia, responsabili della pietosa condizione di identità e tradizione in terra cisalpina. I gaglioffi ridono, sentendo parlare di sostituzione etnica, ma come dovremmo definire quanto accaduto nella Lombardia storica occidentale, dove gli indigeni sono stati rimpiazzati – anche per le proprie colpe, è chiaro – da alloctoni di mezzo mondo? L’italianizzazione, di fatto, ha inaugurato le danze macabre del pluralismo genocida.

La questione etnica

Zampognari in Brianza (Giovanni Segantini)

Si sarà capito che per il sottoscritto il concetto di nazionalità, distinto da quello di cittadinanza, è rigorosamente determinato dallo ius sanguinis, essendo lo ius soli un’autentica buffonata progressista ed universalista, preso singolarmente. Il lombardista crede nell’azione combinata dei due diritti, e dunque in una cittadinanza identitaria che aderisca alla nazionalità.

Di conseguenza, un individuo è lombardo (ed europeo) se lo è per sangue e per suolo, e poi chiaramente per spirito; questo non è razzismo suprematista, questa è la natura delle cose, poiché la biologia non è fuffa. La questione culturale viene dopo, perché non basta parlare lombardo o mangiare lombardo per potersi a tutti gli effetti dire cisalpini.

Nello specifico, crediamo che un individuo possa fregiarsi dell’etnonimo di lombardo se ha almeno i 4 nonni, biologici ed europidi si capisce, cognominati alla lombarda, e in alcune zone è un autentico miracolo, credetemi. In aggiunta, residenza famigliare in Lombardia almeno dal 1900.

L’etnia è lombarda e dovrebbe esserlo pure la nazionalità: la nazione italiana estesa alla Padania non esiste, e quindi la nazionalità italiana allargata in maniera spropositata è una mascherata. Non concepisco nella maniera più assoluta una nazionalità basata su sciocchezze burocratiche e politiche, un qualcosa di artificiale, specie se confuso con l’arida cittadinanza degli stati di ispirazione giacobina.

La cittadinanza razionale, dunque, deve fondarsi su severi criteri nazionali, proprio perché la Grande Lombardia è una nazione, a differenza del fantozziano Stivale. A maggior ragione, non sono una nazione gli Usa, il cui intento è quello di ridurre l’Europa ad una loro fotocopia e succursale (cosa che in parte è già), anche quando si parla di nazionalità e di cittadinanza. Lombardi ed europei si nasce, non si diventa, il che non significa che tali popoli siano superiori agli altri. Significa, però, che la Cisalpina è una grande patria storica e che l’Europa è la nostra famiglia imperiale, aventi una ben precisa identità antropologica e genetica. Altrimenti possiamo pure cambiare i nomi delle nostre realtà etniche e tramutarle in bordelli cosmopoliti e multirazziali. Proprio come l’America.

Uno dei principali problemi della Lombardia etnica e storica, a partire da quella regionale, è la sovrappopolazione (10 milioni di abitanti su di un territorio di quasi 24.000 km², relativamente alla baracca del Pirellone) il che impone, al fine di preservare popolo e ambiente, di bloccare l’immigrazione e rimpatriare gradualmente buona parte dei puri allogeni che abbiamo in casa. Discorso che vale eziandio per i sud-italiani.

I lombardi devono riprendere a fare figli, ma è forse più importante cominciare a far rientrare nelle rispettive terre chi qui non ci dovrebbe stare. Ogni popolo, infatti, sta bene a casa propria. L’alternativa è il collasso: immigrati, cemento, inquinamento sono una miscela esplosiva. Credo sia nota ai più la disastrosa situazione di Milano e del suo hinterland, ma è ormai un’ossessione regionale quello del culto del capannone e del centro commerciale.

La popolazione della Padania andrebbe, in futuro, drasticamente ridimensionata, se vogliamo avere un destino eco- ed etnosostenibile, pure per una faccenda di sussistenza, preservazionismo ed equilibrio nel rapporto uomo-natura. Raggiungendo così parametri qualitativi alti, in termini di vita e di benessere. Si capisce bene il perché delle simpatie lombardiste verso endogamia, controllo delle nascite, aborto nei casi limite, eugenetica preventiva, fermo restando che la Lombardia abbia senza dubbio bisogno di rinsanguare la propria esanime schiatta.

C’è in ballo il nostro avvenire e non c’è cristianesimo militante o laico che tenga nella lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione dei nostri sacrosanti diritti etnonazionalisti. Oppure l’identitarismo etnico è lecito solo ed esclusivamente se si tratta di popoli del sud del mondo?

Chiaramente, andrebbero rimpatriati gli allogeni veri e propri, extra-europei, ma andrebbe contenuta drasticamente anche l’immigrazione europea, fissando un tetto massimo che non preveda ulteriori arrivi, sulla base della compatibilità etnica; non me ne vogliano gli italiani, ma come detto poco sopra sarebbe parimenti il caso di promuovere il ritorno in patria di loro peninsulari. L’etnia lombarda va preservata, recuperata e tutelata perché sempre più minacciata di estinzione, soprattutto nell’area occidentale. Non basta parlare solo di cultura, perché la lombardità presuppone un ADN padano-alpino.

Non ne ho mai fatto una banale questione pecuniaria, per quanto lavoro e denaro possano essere importanti, ma eminentemente etnoculturale e territoriale, il che nobilita la mia battaglia e quella comunitarista, finalizzate all’indipendenza della Grande Lombardia.

Non sono soltanto ragioni etniche e culturali, per l’appunto, sono pure ambientali, perché la sovrappopolazione e l’immigrazione selvaggia cagionano inquinamento, cementificazione, urbanizzazione smodata, traffico congestionato da terzo mondo, avvelenamento del suolo, dell’aria, della flora, della fauna, delle acque, dei beni artistici e naturali, del nostro habitat insomma, dell’umo in cui affondano da millenni le nostre lombarde radici.

Lasciamo dunque perdere il progressismo, il liberalismo, il cristianesimo, l’universalismo e il mondialismo, nonché il pietismo e il capitalismo, ma anche quell’untuoso indipendentismo di matrice marxista o libertaria, europeista, il cui motto è roba del tipo “veneto è chi il veneto fa”. L’indipendentismo deve andare di pari passo con l’etnonazionalismo, sennò rischia di ridursi a ridicole battaglie micro-sciovinistiche ed egoistiche, dettate da tracotanza affaristica, e nemmeno da identitarismo genuino. Il campanilismo, e il regionalismo, sono nemici mortali delle nostre istanze.

Il sangue non è acqua, il suolo non è un mordi e fuggi da società dei consumi, lo spirito inteso come lingua, cultura, identità, tradizione non è flatus vocis; questa triade è ragione di vita per ogni degno lombardo, orgoglioso delle proprie origini, dei propri natali, della propria patria cisalpina ed europea, culla della civiltà plasmata dai nostri arii progenitori.

L’indipendentismo promosso dal lombardesimo è lotta razionale per l’autoaffermazione del nostro popolo, basata sui principi e sui valori etnicisti: non si tratta, infatti, di separatismo alla catalana, di secessionismo alla leghista o di “handipendentismo” liberal caro a certe latitudini europee, e malato di antifascismo, concerne il sacrosanto affrancamento, anzitutto, del sentimento identitario che unisce le genti cisalpine, la cui identità etnica e storica non esitiamo a definire lombarda.

Un serio cammino all’insegna dell’identitarismo völkisch si chiama comunitarismo, e contempla culto, oserei dire scientifico, della terra, della stirpe, dello spirito come vitale scintilla culturale della gente nostrana, ispirato all’azione indipendentista. Perché la Padania non è Italia e merita a pieno titolo l’autodeterminazione, contro il giogo statolatrico di una nazione artificiale, che spetta ad ogni vero popolo europeo.

L’azione politica, è pacifico, deve essere inoltre accompagnata da quella metapolitica, e anticipata dalla cultura militante, perché altrimenti ci si continua a comportare come automi indottrinati dal sistema-mondo e completamente privi di solide basi etnoculturali. E nulla, pertanto, può davvero cambiare, come ha dimostrato il fallimento dello stesso leghismo, un fenomeno privo di mordente genuinamente identitario.

Bisogna avere calma, cautela, pazienza, costanza, perseveranza, senso della misura e del reale, un pizzico di furbizia (cosa in cui i cisalpini non eccellono, si sa) evitando le indecenti banalizzazioni, operate da Bossi e compagnia e loro replicanti, che non hanno fatto altro che inficiare ragioni sacrosante.

Le associazioni da me fondate, il Movimento Nazionalista Lombardo e Grande Lombardia, hanno rappresentato nel loro piccolo l’unica via da percorrere, per quei lombardi desiderosi di promuovere serio comunitarismo etnico su suolo lombardo, contemplando, ovviamente, la soluzione politica indipendentista. Esse hanno gettato un seme, e sono certo che il futuro, grazie anche al lombardesimo, potrà essere roseo. Nulla, signori, è perduto.

Certo, non dobbiamo giocare a fare i politicanti, o i generali senza esercito, ma divenire sempre più esempio per i nostri connazionali, affinché si riscuotano dal torpore e seguano la via dell’identità, scongiurando la dissoluzione coloniale favorita dallo status quo tricolore.

Che forse ci vergogniamo di essere lombardi? Abbiamo davvero il cervello così lavato e ridotto ad omogeneizzato dai nostri nemici, che si spacciano per sedicenti amici?

Ricordatevi che il senso di appartenenza è innanzitutto etno-razziale: dobbiamo dunque tutelare e preservare il nostro retaggio caucasoide europeo, la nostra specificità nazionale ed etnica, nonché il nostro patrimonio fisico e genetico.

Prima il sangue, poi il suolo ed infine lo spirito con tutte le sue manifestazioni. La coscienza linguistica, la cultura, la tradizione sono importantissime, ma il dato biologico è il carburante delle battaglie etnonazionaliste. Sebbene sia chiaro: senza spirito che lo corrobori, il sangue rischia di ridursi a mero fluido.

Ad ogni buon conto, il resto viene dopo. Politica ed economia incluse. Ma ciò, chiaramente, non significa rinunziare ad una visuale a tutto tondo che permetta al patriota lombardo di esprimersi su di ogni argomento. La dottrina lombardista consente una visione del mondo completa, andando a toccare qualsiasi ambito della nostra esistenza.

Ma se non c’è la sacrale triade etnicista e razzialista, che fa di un insieme di individui un popolo conscio di essere nazione, è inutile blaterare di soldi, welfare, pensioni, politiche sociali, progresso e sviluppo. Non è possibile ragionare sempre ed esclusivamente in termini di ordinaria amministrazione.

Siamo uomini, non banchieri, mercanti, strozzini, o preti.

E da uomini e donne davvero liberi dobbiamo vivere un’esistenza piena in nome di identità e tradizione, senza le quali la vita non sarebbe che un mucchio di banalità materialistiche e animalesche, seppur importanti.

Sesso

È chiaro che il sesso ricopra un ruolo assai importante nelle dinamiche relazionali della comunità, anche se il suo valore eminentemente riproduttivo ha perso quella centralità che aveva un tempo, in particolare in Europa. Oggi, in una società ipersessualizzata che perverte soprattutto il corpo femminile per veicolare bassi appetiti consumistici, i rapporti intimi appaiono più che altro alla stregua di intrattenimento ludico occasionale e promiscuo, spesso mordi e fuggi, isterilito da un edonismo che liquida maternità e paternità come zavorre patriarcali intollerabili. Se il retaggio sessuofobico semitico, promosso dal cristianesimo, poco aveva a che fare con lo spirito gentile europeo (si parla di eterosessualità, logicamente), va da sé che il suo opposto, l’orgia di erotismo e passione distorti cavalcata dal capitalismo, non sia migliore, in un Occidente che peraltro incensa a piene mani la pornografia e tollera la prostituzione. Questo discorso vale anche per quelle tizie che decidono di mettersi in vetrina su internet, a pagamento, lucrando su guardoni e maniaci dell’autoerotismo.

Come lombardisti siamo dell’idea che vada riscoperta la funzione procreativa dei rapporti sessuali, pensando in particolar modo alla drammatica situazione demografica della Grande Lombardia, senza necessariamente condannare da bigotti il divertimento fine a se stesso. Chiaro, sarebbe preferibile vivere la sessualità a guisa di legame carnale inserito in una piena relazione, progettando un futuro famigliare, ma non vogliamo ficcare il naso nelle camere da letto dei lombardi. Ripeto: parliamo di eterosessualità. Circa l’omosessualità il nostro atteggiamento è di rifiuto ed esecrazione, visto che oggi, oltretutto, ha assunto un significato anti-identitario e anti-tradizionale strumentalizzato dal sistema. Non condividiamo la posizione del cristianesimo, e non critichiamo la contraccezione (a patto che non comporti soluzioni abortive): è evidente che non si possa avere amplessi solo ed esclusivamente per riprodursi, per di più solo all’interno del matrimonio. Però, naturalmente, siamo a favore di una visione valoriale del sesso, che lo ripulisca e preservi dalla degenerazione contemporanea (e commerciale) promossa dall’Occidente materialista e che lo inglobi nella dimensione comunitaria, anche come mezzo di esaltazione endogamica.

Antropologia e identità: il caso cisalpino

L’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni, dunque lo studio del profilo biologico e razziale di una o più etnie e nazioni, rappresentano un caposaldo nell’ottica identitaria del lombardesimo, poiché l’identità dei lombardi riguarda anche e soprattutto il sangue. Un aspetto etnico cisalpino esiste e sussiste pure in termini antropologici, per quanto oggi si faccia di tutto per ridurre il concetto di etnia a qualcosa di meramente culturale, e innocuo. Ma è logico come la definizione di un’appartenenza comunitaria venga determinata da ciò che siamo biologicamente, essendo animali fatti di carne, ossa e sangue. E, naturalmente, di ADN. Coltivare, perciò, scibile antropogenetico permette di conoscersi, conoscere gli altri e comprendere la più che legittima vocazione indipendentista della Grande Lombardia.

Chi sa di antropologia fisica e genetica, non può ignorare la realtà dei fatti, e cioè che la Cisalpina sia un mondo a sé, rispetto all’Italia etnica, segnatamente meridionale. È chiaro come la luce del sole che le differenze nette che passano tra noi cisalpini e gli italiani riguardino pure la natura etno-razziale, dunque biologica, dell’identità continentale e peninsulare-insulare, perché i nostri popoli sono figli di geografie, climi, latitudini, etnogenesi, storie, stratificazioni demiche affatto diversi. Fa sorridere che taluno ritenga le differenze “interne” frutto di mera cultura, o di cucina (sic!), quando la cosiddetta Italia è l’ambito più eterogeneo d’Europa.

L’aspetto fisico delle popolazioni a sud delle Alpi varia sensibilmente da area ad area: oltre alle, evidenti, diversità di pigmento (pelle, capelli, occhi, peluria), vanno prese anzitutto in considerazione quelle craniologiche e antropometriche, e infatti statura, massa corporea e dimensione del cranio differiscono palesemente da settentrione a meridione. Mentre in Padania si fanno sentire gli influssi continentali, centroeuropei, che vanno a caratterizzare ulteriormente (specie lungo l’arco alpino) una popolazione di base sudoccidentale affine a francesi meridionali e iberici, ma con una craniometria decisamente mitteleuropea-balcanica, nell’Italia etnica predomina l’elemento mediterraneo, spesso con una sfumatura “greca”.

Il nord, dove più e dove meno, presenta un profilo intermedio tra continente e Mediterraneo nordoccidentale, includendo per certi versi Toscana e Corsica (comunque parte settentrionale dell’Italia etnica) che si avvicinano alla Romagna, all’Emilia e alla Liguria. L’area mediana, caratterizzata da mare e Appennini, fonde il precipuo strato mediterranide con componenti alpinoidi e dinaroidi, scolorando in direzione meridionale, dove alcuni elementi arcaici si mescolano al principale dato antropologico del sud, che è ovviamente quello mediterraneo: l’Ausonia, con la Sicilia, è il luogo d’incontro fra le correnti ibero-insulari e quelle greco-anatoliche. Sardegna, come sempre, isolata, anche se da un punto di vista fenotipico ricorda molto la penisola iberica meridionale e il mezzogiorno italico.

Abbiamo poi la genetica, che non fa altro che consolidare l’aspetto identitario corroborato dall’antropometria, con una Cisalpina essenzialmente sudoccidentale, in pari con Francia meridionale e Iberia, tendente ai popoli alpini e dei Balcani settentrionali; una Toscana intermedia fra nord e centrosud, con la Corsica (che risente comunque di un input sardo); un’Italia etnica mediana e meridionale di carattere sudorientale, ai livelli dei greci, che si fa sudorientale estremo nel caso del mezzodì, portando i suoi indigeni a rassomigliare profondamente agli isolani ellenici, ai maltesi, agli ebrei europei e, negli individui borderline, ai ciprioti. Checché ne possano pensare i nordicisti meridionali, il marcato elemento levantino, antico e recente, è una limpida realtà dei territori a sud della Toscana.

Avrò modo di offrire una rassegna dettagliata circa la facies antropologica e genetica della moderna “Italia”, pubblicando diversi articoli in materia, ma a tutti coloro che hanno occhi per vedere (e leggere) è ovvio come gli italiani, dalle Alpi alla Sicilia, non siano reali, soprattutto in chiave etnica. Nessuno nega che esistano differenze interne nella Grande Lombardia – soprattutto pensando alla dicotomia Alpi-pianura – ma sono nulla al cospetto della drammatica eterogeneità della Repubblica Italiana. Drammatica non perché la ricchezza identitaria sia indecente, ma perché, automaticamente, liquida tutte le fole retoriche sui “fratelli” che esistono soltanto nella testa dei patrioti tricolorati, denunziando l’assurdità dell’unità risorgimentale e lo statuto artificiale della pseudo-nazione peninsulare.

La questione linguistica

Carlo Porta

La mia visione politica della vera Lombardia, quella etnica e storica, è dunque etnonazionale ed indipendente, libera dall’Italia ed inserita nel più ampio quadro identitario della confederazione euro-siberiana

L’etnonazionalismo è doveroso, per una patria plurisecolare come quella lombarda, al fine di preservarne il carattere comunitario e di affrancarlo dalla statolatria italico-romana che ci affligge, e che conosciamo ormai tutti benissimo, sperimentandola quotidianamente sulla nostra pelle.

In Lombardia, a proposito di identità, si pone una questione linguistica.

Che lingua usare nelle nostre terre, accanto – inizialmente – all’idioma franco toscano, per garantire la conservazione della specificità culturale cisalpina?

Da tempo penso che l’ideale, a livello ufficiale e nazionale, sia l’adozione del milanese classico, volgare, emendato dagli influssi forestieri (cioè italiani), essendo la variante lombarda più prestigiosa, codificata e conosciuta; è anche il gallo-italico più centrale, immerso nel cuore della Padania, miglior candidato storico ad assurgere a lingua di tutti i granlombardi. Questo, è chiaro, non esclude che, essendo la Lombardia relativamente variegata, si possa far sì che ogni territorio avente una precisa koinè istituzionalizzata (come, ad esempio, il bergamasco cittadino nella provincia orobica) la mantenga e la utilizzi a livello locale, come veicolo espressivo per la difesa del proprio retaggio.

L’italiano, idioma imposto alla popolazione cisalpina dalla scuola, dalla televisione e dai media, dalla burocrazia romana e ovviamente dalla politica, venne adottato in epoca moderna anche dalle corti lombarde per via del prestigio dei suoi modelli letterari, ma non è altro che la lingua italo-romanza di Firenze. Emerse, nel Medioevo, come il più illustre dei volgari “italiani”, dominando successivamente il panorama culturale della penisola grazie alla fama delle “tre corone” gigliate Dante, Petrarca, Boccaccio e anche diversi autori lombardi contribuirono al suo rigoglio (vedi Alessandro Manzoni su tutti). Resta però il fatto che il fiorentino letterario sia una loquela straniera, in terra padano-alpina, poiché la nostra nazione appartiene alla famiglia linguistica galloromanza allargata, al pari di occitano, arpitano, catalano, francese.

Vero, in Padania si parla il veneto, che non è una lingua esattamente gallo-italica, ma con un proprio peculiare carattere. Oggi deve molto all’influsso di Venezia sul continente (e il veneziano si avvicina al toscano), ma un tempo, come testimonia lo stesso Dante nel suo De vulgari eloquentia, i veneti erano ritenuti lombardi e usavano un eloquio assai simile al lombardo canonico. Lo stesso dicasi del retoromanzo, il ladino in senso lato, che al pari del gallo-italico è considerato galloromanzo. Anzi, questa sottofamiglia alpina presenta aspetti ancor più conservativi dei vari dialetti padani, purtroppo via via annacquati dall’influenza dell’italiano.

Da un mero punto di vista sociolinguistico, le lingue locali parlate in Lombardia vengono definite dialetti; questo non perché, come qualche idiota pressapochista crede, siano derivate dall’italo-toscano (cosa falsissima) ma per via del loro uso eminentemente orale, ristretto perlopiù agli anziani e limitato ad alcune sfere rustiche della quotidianità. Il fiorentino divenuto italiano, nella distorta idea nazionale di Italia, ha primeggiato, garantendosi il predominio letterario e culturale, e di conseguenza gli altri volgari riconosciuti sono arretrati adattandosi alla situazione locale.

Verrebbe, perciò, da chiedersi se, ad oggi, esista una vera e propria lingua lombarda, naturalmente unitaria. La risposta è no, perché il panorama linguistico della Grande Lombardia, e della Lombardia etnica, è frammentato, non foss’altro per il condominio di gallo-italico, veneto e ladino (romancio, ladino dolomitico, friulano). Si può dire, senza dubbio, che esista una famiglia linguistica lombarda, e cioè gallo-italica, storicamente estesa al retoromanzo: il galloromanzo cisalpino, dunque. E, in questa famiglia, a far la parte del leone c’è, con tutta evidenza, il meneghino, logico candidato a divenire il lombardo tout court.

Adottare il milanese classico volgare, emendato – anche ortograficamente – dai toscanismi, in qualità di lingua nazionale della Grande Lombardia non sarebbe un’operazione all’italiana, come le malelingue vanno cianciando: non si tratta, infatti, di imporre nella Padania una lingua straniera (cioè italo-romanza o altro), bensì di agire con salutare buonsenso identitario adoperando un idioma nostrano, cisalpino, non snaturato quale l’attuale veneto, pure per semplificare la burocrazia, l’amministrazione, l’istruzione e l’informazione. L’impiego del milanese/lombardo andrebbe di pari passo, localmente, con quello della variante indigena più prestigiosa, evitando il caos vernacolare.

Una lingua lombarda unitaria, oggi, non esiste, ma con la nobiltà della Milano incontaminata è del tutto possibile. Nel Medioevo è esistita una koinè padana, colta, la cosiddetta scripta, ma si trattava chiaramente di un esperimento letterario privo della robustezza genuinamente volgare, presentando essa tratti sovradialettali limati ed ingentiliti. Sono, invece, esistiti diversi volgari, predecessori dei moderni dialetti, quali milanese e bergamasco ad esempio, che non avevano nulla da invidiare, in fatto di dignità linguistica e letteraria, al toscano. Questo nonostante la bocciatura dell’italo-centrico Alighieri (la cui madre, ricordiamo, era cisalpina, di Ferrara).

Le lingue locali sono una ricchissima ed inestimabile fonte culturale per il nostro Paese, la Lombardia, da tutelare, difendere, preservare, tramandare e non da stroncare come fece l’ottusa politica fascista, ma pure l’attuale regime figlio della temperie partigiana e americana, incarnato da roba come il Pd.

L’identità verace sta sulle scatole a tutti quelli che vogliono forzatamente livellare, per una ragione o per un’altra, la cultura dei legittimi popoli, e proprio per questo noi dobbiamo salvaguardarla e trasmetterla di generazione in generazione.

Logicamente, bisogna anche capire che a livello nazionale la lingua ufficiale e letteraria deve essere una sola, nella misura in cui la Lombardia storica è una sola, altrimenti si rischia di incorrere nel minestrone multilinguistico alla svizzera.

L’italiano andrà gradualmente abbandonato. Esso nasce come volgare del capoluogo toscano, Italia etnica e Romània orientale, ed è estraneo alla tradizione linguistica genuina della continentale Cisalpina, area neolatina occidentale. Certo, non possiamo ignorare il fatto storico che, da secoli, il fiorentino sia divenuto, in parte, patrimonio letterario anche della Grande Lombardia, e che ormai sia la vera lingua materna di tutti i lombardi. Ma ciò non cambia la verità genetica di un parlare che non nasce nella nostra nazione. Anche gli irlandesi, purtroppo, parlano più inglese che gaelico, ma questo non li rende connazionali degli albionici.

Le loquele autoctone delle plaghe a sud delle Alpi sono tutte romanze, seppur diversificate dai fenomeni di substrato e superstrato, e le più prossime al latino sono sardo e toscano. Ma il patriottismo tricolore si basa su un concetto artificiale di romanità e latinità che, assieme al cattolicesimo, riguarda peraltro una buona fetta dell’Europa. E la lingua italiana, come detto, è un prodotto culturale toscano, per quanto esteso nei secoli all’intera “Italia”.

Noi lombardisti siamo convinti che la lingua di Milano, classica, rappresenti il lombardo per antonomasia, e debba dunque divenire lingua nazionale. Qualche bello spirito preferisce baloccarsi con improbabili koinài create a tavolino nel XXI secolo, mischiando le varianti occidentale ed orientale del lombardo regionale, dando vita ad una sorta di mini-esperanto che confonda le carte in tavola invece di chiarire la situazione. Meglio la naturalità all’artificio, soprattutto a proposito di identità. Oltretutto, il cisabduano è più simile al piemontese orientale o al piacentino, che all’orobico, ulteriore sintomo di una mera creazione italiana come la Regione Lombardia.

La vera Lombardia è quella etnica (bacino del Po) e storica (la Cisalpina), e ‘gallo-italico’ è, a ben vedere, sinonimo di ‘lombardo’. Il concetto di dialetti lombardi contemporanei è una forzatura, che grossomodo ricalca i confini regionali, e non rispecchia le varie affinità tra parlari padani. Esiste, pertanto, un lombardo ristretto e uno allargato: il primo coincide con milanese, bergamasco, bresciano, ticinese, novarese, cremonese ecc. mentre il secondo abbraccia tutto il gallo-italico. Ma la prima accezione ha poca logica, poiché esiste un serio discrimine tra insubrico e transabduano, ed è più che altro dettata da motivi di comodo.

Sarebbe consigliabile che tutti i veri lombardi, e cioè i cisalpini a partire da quelli occidentali, prendessero confidenza col milanese e lo studiassero in quanto, certamente, idioma schiettamente lombardo, rispetto agli altri, che subiscono diverse influenze per via della loro posizione geografica. Il Piemonte risente di francese e ligure; l’Orobia del veneto; l’Emilia e la Romagna subiscono il toscano, come la Liguria; le altre regioni granlombarde non sono, ovviamente, gallo-italiche. Tuttavia, per assurdo, il padano primevo aveva un profilo similare a quello del retoromanzo, quindi guardiamo con una certa simpatia al ladino.

Nelle scuole della Lombardia il “dialetto” andrebbe assolutamente insegnato, assieme alla storia linguistica della nostra nazione e delle varie province e territori storici. Scuole, ovviamente, liberate dal tricolore, in cui l’italiano ceda il posto al milanese/lombardo.

Un processo, per ovvie ragioni, graduale, principiando da una fase iniziale di bilinguismo, ma che promuova da subito la riscoperta e l’uso del morente idioma locale. Le nostre loquele sono la ricchezza culturale più evidente e significativa, all’interno del patrimonio identitario padano-alpino, e non possiamo permettere che vengano a mancare. Un popolo senza la propria lingua non ha futuro, e non può essere in alcun modo rappresentato concretamente da un mezzo espressivo straniero.

Il milanese, tra le varianti subalpine, ha una tradizione prestigiosa e ben attestata, fior fior di autori, di opere, di vocabolari e ha una fonetica e un’ortografia precise e normate, in quanto stabilmente codificato (si parla della versione classica). È conosciuto da tutti i lombardi, quantomeno di fama, ed è sicuramente il miglior prodotto della famiglia linguistica lombarda per via della sua centralità e purezza.

Milano è il perno della Lombardia, nostra capitale indiscussa, e tutte le aree storicamente influenzate dalla sua potenza sono certamente di pertinenza lombarda: l’Insubria, l’Orobia, il Piemonte, l’Emilia, vale a dire la Lombardia etnica. Forse, il discorso potrebbe farsi più complicato nelle Romagne, in Liguria e, ovviamente, nel Triveneto, oltre che nelle terre abitate dalle minoranze storiche, ma siamo dell’idea che l’adozione del milanese a lingua panlombarda costituisca un’occasione imperdibile, sulle ali del patriottismo e dello spirito unitario cisalpini. Fermo restando che nessuno si sognerebbe di chiedere ai granlombardi, specie periferici, di abbandonare i propri usi, costumi, tradizioni e idiomi. Il lombardesimo può tranquillamente conciliarsi col tollerabile particolarismo locale, in un’ottica di blando federalismo cantonale. E questo sebbene la nostra posizione su alcuni fenomeni, come il venetismo e la moderna “lingua” veneta, sia fortemente critica.

Contadinato

Le radici della Lombardia affondano nell’ubertoso passato agreste dei nostri padri, quando esisteva ancora un rapporto intenso con la nostra dimensione più intima, che è quella rappresentata dalla natura. Il mondo contadino era il custode di identità, tradizione, lingua, permeato di rustici richiami alle origini e a quella purezza, oggi quasi del tutto perduta, che scandiva le relazioni sociali, la vita comunitaria, l’armonia famigliare. Era un mondo incontaminato, per quanto estremamente cristianizzato e bigotto, e la sua lezione arriva ai nostri giorni, in una temperie in cui sangue, suolo e spirito vengono sistematicamente calpestati per far spazio alla “civiltà” del progresso, della tecnologia, del benessere (apparente) diffuso. La Lombardia odierna, segnatamente nel suo cuore insubrico, soffre tragicamente per i colpi letali assestatile dal feticcio dello sviluppo, che comporta arricchimento e miglioramento delle condizioni di vita (su taluni versanti) ma al contempo immigrazione di massa, dittatura della società dei consumi, globalizzazione e impoverimento identitario e tradizionale: il prezzo della modernità capitalista, pagato salatamente dal popolo indigeno, alla lunga si rivela disastroso ed insostenibile.

Proprio per questo, oggi, occorre un recupero del contadinato e delle virtù contadine, che caratterizzarono i nostri antenati, nell’ottica dell’affermazione di un salutare comunitarismo fondato su razza, etnia, nazione. Non siamo ipocriti: l’età contemporanea occidentale permette, senza dubbio, delle comodità che possono essere sfruttate anche in direzione identitaria, ma tutto quello che presuppone degrado, degenerazione, relativismo, ripudio di valori patriottici, idolatria del danaro e spregio della tradizione va risolutamente condannato. Il ripristino della comunità contadina, innestata nell’ambito del comunitarismo, va di pari passo con la promozione dell’econazionalismo e, dunque, di una società rigenerata grazie ad un ambientalismo patriottico che renda lo sviluppo eco- ed etno-sostenibile, proiettandoci in un futuro in cui i posteri possano beneficiare di un habitat bonificato, di un’agricoltura biologica e di un allevamento non più industriale. La qualità della vita dipende da ciò che mangiamo, dall’aria che respiriamo, dall’acqua che beviamo ma, soprattutto, da quel che decidiamo di insegnare ai nostri figli.

Una riflessione sulle pandemie

Poco più di quattro anni fa, sul proscenio mondiale, balzò agli onori delle cronache il contagio da coronavirus (dunque la Covid-19), che in breve monopolizzò le nostre esistenze proiettandoci in una quotidianità fatta di restrizioni, quarantene, confinamenti, mascherine, vaccini. Il morbo è sicuramente esistito, inutile negarlo, ma di certo la propaganda di regime lo ha cavalcato per imporre misure draconiane, che fecero il paio con le leggi liberticide contro idee, opinioni, ideologie politiche. Un po’ come all’indomani dell’11 settembre 2001, quando con la scusa del terrorismo ogni occasione fu buona per limitare la libertà delle persone, a tutto vantaggio delle angherie governative.

Devo dire che all’epoca dei fatti, nel 2020-2022 fondamentalmente, non mi esposi troppo sulla questione (non molto avvincente, oltretutto), per una semplice ragione: non sono un medico, un addetto ai lavori, perciò il rischio di parlare a sproposito era sempre dietro l’angolo. Allo stesso modo, non sono un sostenitore delle teorie complottiste, per quanto sia evidente che la politica mondiale ci abbia marciato, sul coronavirus, terrorizzando la gente per indurla alla mite obbedienza. Attenzione: è chiaro che il virus abbia mietuto vittime, anche e soprattutto in Padania (Orobia, nello specifico), ed inizialmente è stato senza dubbio sottovalutato; ha però rappresentato una vera minaccia solo nei confronti di anziani e soggetti debilitati (ve li ricordate i bambini immuni?), e forse sarebbe bastato tutelare le fasce a rischio invece di estendere obblighi indiscriminatamente.

La pandemia ha colto tutti impreparati, colpevolmente, si pensava che nel XXI secolo non vi fosse più il pericolo di un dilagare di un morbo su scala continentale e planetaria, nonostante nel recente passato vi fossero state delle avvisaglie: l’aviaria, la suina, la Sars, l’allarme ebola dell’estate 2014, epidemie peraltro principiate (e poi esportate sulle ali di viaggi, migrazioni, globalismo) in Paesi del terzo mondo, o dell’Asia. Circa il Covid-19 se ne sono dette di tutti i colori, ma pare che l’antefatto abbia avuto luogo in Cina; come da tradizione, l’Europa è stata colpita da una “peste” di importazione, a tutta evidenza nata nell’immenso carnaio mongolide.

Le costumanze barbare asiatiche, in materia di allevamento e cibo, può essere la cagione dei vari coronavirus, anche se in molti hanno pensato di scorgervi un esperimento di laboratorio finito male, e sfuggito al controllo dei medici. Il resto l’ha fatto la globalizzazione, quella che farcisce l’Europa di allogeni, seduce i bianchi con il turismo verso mete esotiche, ci regala parassiti alloctoni che colpiscono flora e fauna locali, ci allieta con le pandemie e, naturalmente, riduce il nostro continente a colonia anodina delle superpotenze globali, specie gli Usa. Ricordo ancora come, nel febbraio-marzo 2020, gli antirazzisti si affannassero a coccolare i cinesi, sperticandosi in lodi nei riguardi dell’internazionalizzazione. La stessa che avrebbe poi condotto la sanità lombarda quasi al collasso, spazzando via intere generazioni e dando vita a situazioni tragicamente grottesche.

Le campagne vaccinali hanno avuto un senso? Torno a dire che, forse, sarebbe bastato vaccinare i più fragili e anziani, vedi influenza stagionale. Come ho già detto non sono un medico, ma a tutta evidenza il coronavirus non è la peste bubbonica, anche se non voglio entrare nel merito di questioni scientifiche e tecniche che solo chi sa di medicina può trattare senza inanellare sfondoni. E riaffermo che non condivido le tesi del complotto, soprattutto quelle più spinte e assurde. Gli stati sul libro paga del mondialismo ci fregano alla luce del sole, non hanno bisogno di agire nell’ombra, ed è comunque chiaro che le case farmaceutiche straniere lucrino su medicinali e vaccini. Non per niente io sono sinceramente convinto del fatto che una Lombardia indipendente debba sganciarsi anche dal carrozzone globale targato Onu – e dunque dalle multinazionali apolidi – perché solo così può sconfiggere davvero la globalizzazione, con ipotetiche future pandemie annesse.

Lombardia futura

Dal satellite

Quale futuro per la nostra amata nazione?

Oggi la Lombardia tramutata in regione artificiale dello stato italiano, e priva dei suoi restanti territori etnici e storici, versa in condizioni critiche per colpa del sistema-Italia e del sistema-mondo che l’hanno ridotta ad una babele, barbaricamente sovrappopolata, inquinata e cementificata.

Avanti di questo passo non ci può che essere l’ecatombe di quel che rimane del nostro povero popolo, soprattutto nelle zone peggiori che ruotano attorno alle grandi città come Milano, Brescia, Monza e Bergamo.

Del tutto inutili partiti e movimenti d’opinione di matrice vetero-leghista o autonomista, perché la loro attenzione cade esclusivamente su questioni economiche e sociali che alla lunga risultano banali, piccole piccole, irritanti, come se il problema globalista si riducesse a faccende pecuniarie e di benessere materiale; non serve a nulla quel soggetto politico che se ne frega del sangue e del suolo, dello spirito della nostra patria, appiattendo tutto sul piano del capitale. E poi, ovviamente, l’autonomismo è soltanto una farsa propagandistica e finanziaria: la vera Lombardia ha bisogno di indipendentismo.

Diversamente, l’accento va posto proprio sul problema etnico, ambientale e culturale della Lombardia, che ogni giorno che passa viene lentamente divorata dagli agenti internazionalisti del cosmopolitismo genocida, dell’egualitarismo, del terzomondismo, del pietismo, del capitalismo sfrenato, del progressismo, del liberalismo dei neo-con e degli schiavi dell’eresia giudaica vaticana.

Calci nel sedere a chi ci consegna nelle grinfie del mondialismo, svendendoci per denari imbrattati dal sangue del nostro innocente popolo, macellato dai burattinai dello status quo; tenetevi il vostro progresso, la vostra ricchezza, la vostra democrazia, la vostra tecnologia se questi comportano la distruzione della terra cisalpina e l’inesorabile genocidio dei granlombardi, sacrificati dai sacerdoti abramitici sull’altare del moloc finanziocratico, in nome dei peggiori disvalori modernisti tutti basati sul culto del soldo, sul consumismo, sull’edonismo, sul rovesciamento dell’ordine e della moralità di stampo indoeuropeo (di quella cristiana ce ne freghiamo altamente).

Non ci può essere alcun roseo futuro per la Lombardia, avanti di questo passo.

Si prefigurano scenari desolati e desolanti in cui a farla da padrone saranno gli allogeni, gli squali, i rossi contemporanei, i banchieri, e tutte le marionette del politicamente corretto e dell’ideologia woke sul libro paga della sovversione universalista, dunque gente come i preti postconciliari.

La nostra nazione, anche solo nella sua versione monca, sarà letteralmente sbranata dall’industrializzazione selvaggia, zavorrata dall’immigrazione incontrollata e dal dilagante meticciamento, avvelenata dall’inquinamento di ogni tipo e dalla cementificazione, oppressa dallo squilibrio demografico rappresentato da milioni di immigrati che schiacciano quella che oggi è ancora maggioranza, ma un domani? Che poi, in certe zone insubriche, maggioranza non è più.

La Lombardia, come il resto dell’Europa avanzata, finirà stritolata dal “progresso”, e non solo nelle città e nei loro hinterland, ma anche nelle loro province, financo nei territori collinari, montani, selvaggi, oggi incontaminati quasi del tutto. Ma ancora per quanto?

Se continueremo a lasciarci prendere pel naso dall’Italietta repubblicana, dallo stellato panno della Ue, degli Usa, di Israele, dalla Chiesa e dal cristianesimo e da ogni nefasta ideologia relativista, il nostro destino apparirà inevitabilmente segnato, e per la Lombardia sarà la fine: ogni traccia di identità e tradizione sparirà col suo popolo e lo stesso suolo patrio cambierà nome e connotati per sempre, ridotto a succursale delle agenzie apolidi che spacciano globalizzazione per benessere eco- ed etno-sostenibile.

Nel medesimo modo anche Lega Italia, leghe patacca e finti indipendentisti servi della Ue e dei suoi principali scagnozzi contribuiscono al genocidio (o auto-genocidio?) lombardo, perché ormai totalmente disinteressati alla questione etnica, e tutti indirizzati alle ben più comode e quiete mene economiche; la Lombardia deve assolutamente liberarsi da Roma ma cambiare bandiera senza cambiare, parimenti, la condizione delle genti, equivarrebbe comunque a rimanere tra gli artigli dei nemici atlantisti e mondialisti. Diffidate di chi vi spaccia autonomie e secessioni, prive di autoaffermazione identitaria, per libertà, poiché la stirpe viene prima dei quattrini.

Non mi stancherò mai di dirlo: più urgente dell’azione politica è quella culturale, dottrinaria, filosofica, metapolitica, in chiave lombardista, perché solo così abbiamo l’opportunità di rigenerare, in direzione völkisch, la res publica. Una politica lombarda che la faccia finita col cialtronesco fenomeno leghista e, soprattutto, con quella stucchevole concezione fascio-nazionalista, in senso tricolore, spesso e volentieri veicolata dagli allogeni italiani. La Lombardia non è Italia, Roma è una capitale straniera, ed è tempo di battersi, senza più equivoci, per l’affrancamento identitario, tradizionale e comunitario delle plaghe alpino-padane.

Solo con una salutare rieducazione dei lombardi alla presa di coscienza etnicista, specie dei più giovani, si può pensare seriamente di salvare il salvabile sconfiggendo i diuturni nemici delle vere nazioni, perché anche se tutto pare contro di noi nulla è perduto finché vi saranno lombardi e lombarde pronti a combattere per la vittoria e la salvazione di sé stessi e della comunità nazionale cisalpina.

Ci sono centinaia di associazioni che si occupano di (innocua) cultura, ambiente, flora e fauna, beni artistici, cibo, volontariato ecc., ma ce ne fosse una che si batte per la cosa più importante di tutte: la consapevolezza di avere nelle proprie vene sangue lombardo, con tutte le ovvie implicazioni in termini di spirito d’appartenenza.

Eh no, sarebbe “razzismo”, perché chi comanda ci vuole divisi, rimescolati, smemorati, privi di identità e tradizione, senza lingua e cultura, e dunque deboli e sradicati: solo l’identitarismo etnico, dunque l’etnonazionalismo, avversa il mondialismo e i suoi diabolici scherani.

Insubrici, orobici, emiliani, piemontesi, uniti a romagnoli, liguri, tirolesi, veneti, friulani, giuliani (in una parola cisalpini) fanno tutti parte della medesima inclita nazione, che è la Grande Lombardia; appartenervi non è mica una vergogna sapete? O preferite davvero svendere una delle regioni storiche che è parte del cuore della civiltà europea per lasciarvi lavare il cervello dalla retorica e dalla propaganda italianiste, incentrate su caratteristiche che appartengono solo ed esclusivamente agli italiani etnici, al centrosud?

Non siamo italiani, svizzeri, austro-ungarici, francesi periferici, tedeschi di serie B, bensì lombardi e abbiamo il diritto, ma soprattutto il dovere, di combattere a spada tratta contro ogni nemico che ci impedisce di realizzarci e di liberare la Lombardia dal giogo forestiero, pseudo-nazionale o internazionale che sia, il quale alla lunga ci conduce alla tomba per sfinimento.

Viva l’Italia? Ci può stare, ma senza di noi, per il semplice fatto che non siamo italiani (se non, purtroppo, politicamente, ad oggi); l’attuale stato italiano rappresenta soltanto la Saturnia tellus, e dunque il centrosud genuinamente italico, e nella Cisalpina ha posto in essere una sorta di occupazione e colonizzazione, a scapito dell’elemento indigeno. A Roma sanno benissimo che la Padania non sia sorella della penisola, ma a certe latitudini fa indubbiamente comodo poter mungere l’antica Gallia a sud delle Alpi…

Vogliamo essere lombardi in tutto o per tutto o continuare a fungere da muli che pensano solo a sgobbare e a fare soldi, in nome del catastrofico mito del fatturato?

Se la Lombardia si vuole salvare ha unicamente una via, da dover percorrere, ed è quella dell’etnonazionalismo, logicamente indipendentista, che mediante comunitarismo e pensiero völkisch, nonché razionalismo mai sganciato dal Blut und Boden, si batta per l’autodeterminazione etnica del popolo lombardo, magari all’interno di una sacrosanta cornice confederale euro-siberiana, la nostra grande famiglia imperiale. Una nazione è un insieme di popoli relativamente omogenei e compatibili, e non si può negare che dopo 4.000 anni di storia esista una nazionalità padano-alpina plasmata dal Mediterraneo settentrionale, dalle Alpi, dagli indoeuropei Celti e Veneti, dalla romanità assorbita dai Galli di Cesare, e infine dai Longobardi del Regno. Da cui la Lombardia medievale, storica.

Quella suindicata è una via irta di ostacoli, certo, ma quale cammino che valga la pena di battere non lo è?

Ciò che è facile il più delle volte è anche fallace; ciò che invece è difficile è meritevole di essere affrontato e di essere domato, grazie ad una incrollabile fame e sete di verità, libertà, sicurtà. I separatismi alla leghista, farseschi e meramente dettati da questioni economiche e di welfare, si macchiano di meretricio progressista o liberista. Ma qui non si tratta di separare alcunché, dal momento che la nazione lombarda non è il nord di un bel nulla.

Lottiamo per una Lombardia lombarda, non italiana o europea in senso artificiale, libera da Roma e da ogni altro ente mondialista. Solo così potremo garantire ai nostri figli e ai posteri un avvenire radioso fatto di identitarismo, tradizionalismo, nazionalismo etnico, sotto l’egida della vera Europa dei popoli, delle reali nazioni indoeuropee, che non è la caricaturale Europa degli stati-apparato ottocenteschi, o dei francobolli libertari cari a leghisti e “handipendentisti”.

Lombardia aria, gentile, unita in tutte le sue parti, e ovviamente europide, fino alla vittoria e alla palingenesi patriottica!

Mare

L’ambiente marittimo interessa anche la Grande Lombardia: Liguria, Romagna, Emilia orientale, lagune venete e friulane (con le coste giuliane). Al di là dell’ambito ligure, l’Alto Adriatico presenta un aspetto distinto da quello tipicamente mediterraneo e si smarca, infatti, dal contesto ambientale peculiare dell’Italia etnica e delle isole; per tale ragione l’impatto col mare dei granlombardi differisce da quello degli italiani, e la Cisalpina rimane una terra subcontinentale. La Grande Lombardia è, prevalentemente, terragna: planiziale, collinare, prealpina, alpina, appenninica. Senza dimenticare i grandi laghi che contraddistinguono il cuore padano, e che hanno contribuito a plasmare l’identità etnoculturale degli indigeni. Salvo per le zone suddette, periferiche, il mare è qualcosa di estraneo, nei confronti del panorama lombardo, e la nostra indole non è caratterizzata da una storia marinara; il fulcro identitario cisalpino si staglia su di un orizzonte continentale, e anche per tale ragione il sottoscritto ritiene l’elemento marino, non solo estraneo, ma pure l’emblema di un mondo straniante latore di valori ben poco völkisch.

Taluno si ricorderà della mia famosa intervista targata 2011, “Non ho mai visto il mare”, in cui delineavo il mio attaccamento e radicamento nella terra orobica e lombarda e, assieme a ciò, la presa di distanze sizziana da tutto quello che si ricollega all’ambito marittimo, a livello mentale, caratteriale, valoriale, soprattutto se il mare in questione è il Mediterraneo (parlando di Europa, logicamente). L’apertura mentale, l’incontro fra popoli e culture, l’ibridazione, l’annullamento di identità e differenze, il dissolversi dell’individuo nel marasma multietnico, la promiscuità da spiaggia, gli scenari esotici, il naufragio degli ideali e delle virtù terragni sono alcuni degli aspetti da me sempre esecrati e che sono intimamente correlati al caos che imperversa da millenni a certe latitudini. Il lombardesimo non è animato da spirito talassocratico, e non a caso non ha alcuna simpatia nei confronti della Repubblica di Venezia, o di quella di Genova, realtà storiche periferiche, rispetto al nucleo etnico della Grande Lombardia. Il mare è un elemento naturale che riguarda anche la Padania ma che, certamente, non ne permea le radici identitarie più genuine e profonde.

Il fenomeno della “pillola rossa”

In questi anni non mi sono mai soffermato sulle teorie della cosiddetta redpill, o sulla fenomenologia incel, che negli ultimi tempi hanno preso piede anche nel contesto italofono. Parliamo di un argomento che, ormai, conoscono tutti, su internet, dunque credo sia superfluo spiegarlo nel dettaglio; si tratta, tuttavia, della solita cianfrusaglia d’oltreoceano, di cui potevamo tranquillamente fare a meno, soprattutto considerando l’alluvione di paranoiche terminologie anglosassoni. Certo, c’è da dire che molti di coloro che si considerano “redpillati” hanno preferenze identitarie, tradizionaliste, anti-antifasciste, sebbene mi paia di capire che il focus dei loro interessi riguardi le donne e le dinamiche relazionali. Non escludo che tra di essi vi possano essere simpatizzanti lombardisti e indipendentisti, comunque sia.

La “pillola rossa” propone una lettura cinica, disincantata e pessimista – a tratti complottista – della realtà, portata avanti segnatamente da quanti si definiscono, o vengono definiti, celibi involontari, incel (anche questa una categoria nata nell’ambito nordamericano); essa contrasta la visione da “pillola blu” (termini mutuati dal film Matrix, con una vaga ispirazione platonica), che è quella delle apparenze, del perbenismo, della finzione, del romanticismo da riviste patinate, dei media asserviti, e che riguarda tutta la società, non solo la questione del rapporto uomo-donna. Eppure, nei vari ambienti redpillati, tale faccenda assume un’importanza centrale, sproporzionata, forse viziata dal risentimento e dalla frustrazione di chi si sente escluso dal mercato sessuale e sentimentale.

La redpill condanna risolutamente il femminismo, e su questo non possiamo che essere d’accordo. Il femminismo è un cancro progressista, un veleno da estirpare, ed è una delle cagioni della disgregazione di famiglia, comunità, nazione, e della morte della tradizione e del patriarcato. Sembra, tuttavia, che gli incel diffondano tesi misogine, e anche questo rischia di disgregare ulteriormente la comunità, scatenando inutili guerre tra sessi (che sono solo due, ricordiamolo). Capiamoci: la portata dell’odio verso il genere femminile dei celibi involontari, o dei “brutti”, non è paragonabile all’astio femminista nei confronti degli uomini, infatti gli incel non fanno alcun danno concreto. Almeno in Europa.

Oltreoceano si sono macchiati di stragi, ma l’America, si sa, è la patria della follia e della stupidità, al di là di colori politici, ideologici, sociali. Il vero rischio della pillola rossa è quello di esacerbare gli animi e di diffondere disfattismo, per quanto, sovente, le teorie redpillate sappiano descrivere con realismo la condizione di uomini e donne occidentali contemporanei. Innegabile che la martellante campagna femminista, unita a quella liberal e antifascista, cominciata negli anni ’60 del secolo scorso, abbia fatto danni incalcolabili nelle menti delle donne europee: troppo spesso la figura femminile si fa veicolo di sovversione valoriale centrata su relativismo, edonismo, consumismo e materialismo, con ricadute nefaste sulla stessa natalità, il tutto in nome di capricci e pretese di eterne principesse Disney. Ma, fortunatamente, esistono ancora femmine sane e integre, dotate di coscienza patriottica, perciò non si può generalizzare colpendo indiscriminatamente il gentil sesso bianco, componente fondamentale della società.

È vero, convincere le donne di essere uguali agli uomini, anche a livello sessuale, ha comportato inevitabilmente l’aumento di separazioni, divorzi, aborti e, si capisce, il calo demografico. La sedicente emancipazione sessuale ha indotto le ragazze a credere di poter fare le dongiovanni in gonnella, fino a 40 anni, ritardando così la maternità, con rischi per la salute del figlio (unico). Sempre che lo abbiano. Il femminismo vede la maternità come una zavorra patriarcale, ovviamente se si tratta di europei. Se la questione riguarda il terzo/quarto mondo, nessun problema: non solo gli extra-europidi possono far figli come conigli, ma anche emigrare in massa verso l’Europa, andando così a sostituire i vecchi e sterili nativi. La soluzione a questo sfacelo, ciononostante, non sta nella misoginia, nel risentimento di chi va in bianco da una vita, nel rancore del “caso umano”: sta nel recupero di identità e tradizione, che non passa soltanto per il rinsavimento della femmina, ma pure nella ritrovata virilità del maschio, oggi sempre più in crisi, poiché le donne senza guida non possono far altro che tralignare.