Lombardo orobico, dalle rustiche radici, classe 1984. Laurea in Filologia moderna, ceto contadino e operaio, da sempre amante di cultura tradizionale e studio del territorio. Aderisce al pensiero etnonazionalista sostenendo l'autoaffermazione delle genti alpino-padane, in qualità di teorico del lombardesimo. È padre fondatore e presidente di Nazione Lombarda. Grande passione per l'antropogenetica, nel solco della riscoperta identitaria cisalpina.
La Terra, intesa come pianeta, è la cornice antropizzata della nostra esistenza, lo scenario naturale, certo plasmato dall’uomo, che contraddistingue le popolazioni umane, e animali. Diviene mondo grazie all’azione della cultura, della civiltà, delle nazioni, e in questo senso comporta anche ricadute negative, che sono il frutto della geopolitica, della politica internazionale, dell’alta finanza, ciò che sta a monte del cosiddetto mondialismo, e della stessa globalizzazione. Ma il pianeta, prima di essere concepito in qualità di mondo, appunto, va inquadrato come habitat naturale degli esseri viventi, e dunque come insieme di ecosistemi che garantiscono la sopravvivenza e permettono ad una specie animale di conservarsi e riprodursi. Da questo, si capisce bene quanto sia necessario, soprattutto per l’Europa, recuperare la dimensione naturale dell’uomo, contrastando inquinamento, cementificazione, devastazione e fenomeni migratori, che non fanno altro che peggiorare la situazione. Il peso insostenibile della demografia del terzo mondo, altresì, ha conseguenze nefaste per il nostro stesso continente, che a differenza del sud del globo è comunque riuscito a darsi una regolata, in termini di natalità. Fin troppo.
Non è certamente con l’ambientalismo pezzente di sinistra che si risolvono gli annosi problemi dell’Occidente, bensì con politiche etnonazionaliste ed econazionaliste mirate alla preservazione, anzitutto, dei popoli indigeni bianchi. Se si tutelano gli autoctoni, di conseguenza, si tutelerà anche l’ambiente naturale che li circonda, sebbene nelle aree metropolitane sia ormai quasi impossibile portare avanti politiche etniciste ed ambientaliste. La dittatura del progresso, ovviamente ideologizzato, ha in non cale i destini biologici e antropologici del popolo, così come l’integrità del paesaggio e della natura incontaminata, ed è soprattutto la Padania a pagare a carissimo prezzo il peso dello sviluppo ipertrofico delle medie e grandi città, sacrificando la comunità e i suoi più intimi legami territoriali sull’altare del capitalismo e dell’affarismo. Prendere coscienza delle sorti della Terra, equivale ad avere a cuore il futuro della nostra gente e dei nostri figli, ovviamente non per alimentare il circo salottiero degli sputasentenze ecologisti alla moda, ma per unire inscindibilmente la battaglia dell’autoaffermazione lombarda a quella della salvaguardia ambientale.
In un’Europa sempre più vittima del sistema mondialista e dello status quo globale, la necessità di salvaguardare sangue e suolo, da cui lo spirito, è impellente poiché ne va della nostra stessa identità. Difendere il sangue procede di pari passo con la difesa del suolo, e non ci può essere sangue senza suolo, e viceversa: l’etnia lombarda sussiste grazie anche al solido legame con la terra natia, e l’humus patria acquisisce un significato unico grazie al sacrale vincolo con il popolo. Del resto, è dall’unione di sangue e terra che proviene lo spirito, inteso come elemento culturale, linguistico, civile, mentale, caratteriale, che anima una nazione.
Sappiamo bene che oggi l’ambientalismo è una sterile manifestazione progressista totalmente slegata dal concetto di etnia e di razza, un fenomeno salottiero che ha in non cale il sangue e, dunque, che non mostra alcun rispetto per l’identità biologica dei legittimi popoli indigeni, specie se si tratta di europei. Da questo equivoco, frutto delle politiche “verdi”, nasce la convinzione erronea che l’ecologismo possa essere soltanto di sinistra, e senza alcun sistema di valori identitari che si battano per la salvaguardia dell’ambiente e anche per la preservazione del popolo indigeno che lo abita. Noi lombardisti, invece, siamo fortemente persuasi del contrario, e cioè che il vero ambientalismo possa essere soltanto völkisch.
Il binomio sangue e suolo, nato sull’onda del romanticismo teutonico, afferma una verità sacrosanta, vale a dire che un popolo privato della propria terra natia rischia di diventare una torma di sradicati, preda dei fenomeni migratori e dell’agenda mondialista. Allo stesso modo, il suolo natio orbato della gente autoctona che l’ha caratterizzato e, pure, plasmato diviene bottino di guerra delle invasioni allogene, nonché terra di conquista da parte di multinazionali, banche, lobby e agenti internazionali votati alla distruzione della natura, oggi più che mai ostaggio della barbarie capitalistica.
Occorre quindi rimettere al centro di tutto i destini della comunità, affinché la dimensione più intima dell’essere umano, che è il contatto con la natura incontaminata, venga ripristinata, a tutto vantaggio della nazione. Il lombardesimo propugna l’adozione di una visuale econazionalista, ruralista, comunitarista, che possa essere di supporto alla dottrina etnonazionalista promossa dall’indipendentismo lombardo sizziano e che sia la riscossa di un ambientalismo finalmente liberato dalle catene del progressismo e votato alla salvazione di popolo, flora e fauna, senza più compromessi. Sangue, suolo e spirito sono i pilastri fondamentali dell’identitarismo etnico che abbiamo in mente, viatico per un’autoaffermazione lombarda all’insegna degli ideali völkisch.
E allora, consci dell’importanza del messaggio econazionalista, vogliamo batterci per una comunità che sappia coniugare l’orgoglio patriottico alla sensibilità ecologista, perché i destini dei nostri figli sono inscindibilmente legati a quelli di una terra che possa rinascere grazie ad oculate politiche ambientaliste. Ma va da sé: non si tratta di rinnegare i risvolti positivi del progresso e dello sviluppo, o di cavalcare un ipocrita anarco-primitivismo fuori tempo; si tratta di raggiungere un salutare equilibrio tra modernità e tradizione, e dunque tra modernità e tutela sacrosanta del territorio. La Padania versa in pessime condizioni ambientali, complice anche la sovrappopolazione allogena, ed è nostro diritto e dovere impegnarci per un futuro eco- ed etno-sostenibile.
Mentre il Ducato di Milano cominciava il valzer degli occupanti coi francesi, il 14 maggio 1509 la Serenissima venne sconfitta dagli stessi ad Agnadello, nella guerra della Lega di Cambrai, con cui perdeva provvisoriamente i suoi possedimenti lombardi orientali.
Nel periodo 1512-1515 gli svizzeri, aderenti all’alleanza anti-francese, presero Milano strappandola ai transalpini e vi insediarono il figlio del Moro, Massimiliano Sforza; la Valtellina e i contadi di Chiavenna e Bormio passarono ai Grigioni; nella battaglia di Marignano (Melegnano), francesi e veneziani alleati sconfissero gli svizzeri e i milanesi dello Sforza, che perse così il Ducato; Bergamo, Brescia e Cremona tornarono sotto le insegne della Repubblica di San Marco.
Tra il 1521 e il 1525 si riaccese la guerra per il possesso del Ducato milanese: se lo contesero Francesco I re di Francia e l’imperatore Carlo V che, vittorioso nella decisiva battaglia di Pavia, insediò a Milano il fratello di Massimiliano, Francesco II Sforza.
Lo Sforza morì senza eredi nel 1535; lo Stato milanese, con Cremona tolta a Venezia, passò così alle dirette dipendenze degli spagnoli e fu una catastrofe: oscurantismo cattolico, anarchia, torbidi, carestie, epidemie, guerre, scorrerie, pestilenze, ecatombe di milanesi nel 1630 per via della peste “manzoniana” furono le conseguenze del malgoverno iberico targato Asburgo.
Il Cinquecento fu però, anche per la Lombardia, un periodo florido artisticamente parlando e non mancarono artisti di fama internazionale che accorsero alle corti lombarde: Leonardo, Lotto, Tiziano, Giulio Romano, Paolo Giovio, Scamozzi ecc.
Inoltre, prolifica l’attività architettonica, con la costruzione di bastioni e cinte murarie a Milano come a Bergamo, di logge, di teatri, di piazze, di musei, di biblioteche e di pinacoteche (da segnalare quelle ambrosiane volute dal cardinale Federico Borromeo).
Il ‘5-600 fu anche periodo di gravi lotte religiose e politiche; l’Europa si spaccò in due per via dello scisma scatenato da Lutero e pure la Lombardia, comunque soggiogata alle conseguenze del Concilio di Trento e al dispotismo papista e confessionale di spagnoli e personaggi come i Borromeo, risentì a nord degli influssi protestanti d’oltralpe.
L’episodio più clamoroso fu certamente il cosiddetto “sacro macello” del 15 luglio 1620 in Valtellina, in cui una rivolta popolare anti-protestante fece centinaia di morti riformati.
Ciò comunque non valse a liberare Chiavenna, Sondrio e Bormio dal dominio dei Grigioni.
L’epoca moderna fu segnata anche dalla Guerra dei Trent’anni, fra Impero e potentati protestanti, e pure in questo caso la Lombardia subì i letali contraccolpi di eventi, principalmente, stranieri.
Tra il 1627 e il 1631 l’estinzione del ramo principale dei Gonzaga diede il via alla guerra per la successione di Mantova: Carlo Emanuele I di Savoia, alleato degli spagnoli, venne battuto dall’esercito francese; 25.000 lanzichenecchi forieri di peste, luterani ma al servizio della Spagna, saccheggiarono Mantova nel luglio del 1630; con il Trattato di Cherasco, il pretendente sostenuto dalla Francia, Carlo di Gonzaga-Nevers, ottenne il Ducato mantovano.
Tra il 1628 e il 1631 a Milano, per effetto della peste “manzoniana”, della precedente carestia, della calata dei lanzi, la popolazione urbana passò da circa 130.000 a 60.000-70.000 abitanti.
Mirabile affresco di questi cataclismi, scatenati anche dal servaggio insubrico per il forestiero e dalla mancanza di unità nazionale cisalpina, è offerto dal Manzoni nel suo capolavoro de I promessi sposi, il romanzo storico tutto lombardo ambientato tra Ducato di Milano e Orobia marciana, in cui una frase colpisce su tutte, una frase che il Manzoni riferisce allo scenario cui Renzo Tramaglino assiste durante gli orrori della peste in quel di Milano e che sintetizza la natura etno-razziale lombarda: “quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo” (in riferimento alla madre di Cecilia).
La Lombardia transabduana non subì i tracolli che purtroppo subì quella cisabduana perché la Serenissima, sicuramente più rispettosa dell’identità e delle autonomie locali degli Asburgo di Spagna, garantì ai suoi sudditi maggior protezione, relativo buongoverno, tolleranza e liberalità, e una gestione, per quanto possibile, razionale e illuminata della carestia e della peste che attanagliavano la Pianura Padana; inoltre serbò le popolazioni dalle scorrerie dei lanzichenecchi mediante i presidi sul confine bergamasco abduano e montano. I danni furono dunque limitati, in un certo senso, e non si ebbero le brutture e il soqquadro milanese, di una città, Milano, che mentre affondava veniva abbandonata a se stessa. Venezia, del resto, era un potentato autonomo.
La squallida situazione, che durò praticamente per tutto il Seicento, non sfuggì all’attento occhio dei visitatori stranieri che denotavano la contraddittoria situazione di una regione frammentata di per sé ricca, florida, gloriosa, sviluppata, ma barbarizzata da un governo ottuso, superstizioso, corrotto, rapace, ed alieno come quello spagnolo del tempo.
Ma la ruota gira per tutti, anche per la Spagna, che con l’avvento del Settecento conobbe il suo inesorabile declino durato sino agli anni settanta del Novecento.
Nel 1707, nel corso della guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano in nome dell’imperatore Giuseppe I, ponendo fine allo scellerato dominio iberico in Lombardia; il passaggio all’Austria delle terre milanesi e di Mantova venne confermato dalla Pace di Utrecht e dal Trattato di Rastadt (1713-14).
Nel 1738 la Pace di Vienna sanzionò le modificazioni territoriali intervenute con la guerra di successione polacca: Carlo Emanuele III di Savoia ottenne a spese di Milano Novara, Tortona e le Langhe.
Tra il 1740 e il 1748, ecco la Guerra di successione austriaca: la Pace di Aquisgrana riconfermò all’imperatrice Maria Teresa d’Austria il possesso della Lombardia occidentale e meridionale; Voghera con l’Oltrepò, Vigevano con la Lomellina, Ossola e Valsesia, invece, passano ai sabaudi di Carlo Emanuele III.
Il Settecento fu anche l’epoca dei Lumi, cosiddetti, che sfociò nella borghese Rivoluzione francese, intenta a seppellire l’Europa nella fossa scavata per secoli dal giudeo-cristianesimo; la farsa di un oscurantismo universalista, che ne vuole sostituire un altro, a scapito delle vere radici europee, dell’identità, della tradizione (già pervertite dal monoteismo abramitico).
Illuminismo e Rivoluzione potevano certo avere nobili propositi, come l’affrancamento del popolo dalla dittatura papista, clericale, “aristocratica” (si fa per dire), parassitaria e la battaglia contro l’oscurantismo di una religione assolutista straniera, ma i risultati furono disastrosi e tutto andò nella direzione del relativismo borghese che ha gettato le basi della contemporanea Europa auto-genocida e asservita ai loschi poteri internazionali e mondialisti.
Ma di Illuminismo, massoneria, giacobinismo, ebraismo internazionale, Rivoluzione francese e Napoleone ci occuperemo nel prossimo appuntamento sulla Lombardia contemporanea.
Ci siamo più volte soffermati sulla necessità, da parte del lombardesimo, di sottolineare l’importanza di un ambientalismo identitario che si smarchi, ovviamente, dalle cialtronerie al caviale dell’ecologismo da salotto, molto in voga presso i progressisti. I cosiddetti “verdi” hanno senza alcun dubbio banalizzato e inflazionato la portata della salvaguardia ambientale, poiché dietro la patina di sedicenti amanti della natura senza coloritura ideologica si nascondono in realtà i soliti guitti antifascisti, liberal. Per loro cagione, capita spesso che l’ambientalismo sia visto con sospetto e fastidio, reputandolo una infantile manifestazione di debosciati nordici. Noi lombardisti intendiamo sgombrare il campo da questi velenosi equivoci, riaffermando una verità sacrosanta cara ad ogni identitario völkisch: sangue e suolo sono inscindibili, e la vitale esigenza di un movimento ecologista altamente patriottico è oggi più che mai impellente. L’ambiente, la natura, l’ecosistema che ci circonda e comprende sono il nostro habitat, senza il quale la nostra esistenza verrebbe meno.
Per quanto nessuno di noi si sogni di giocare all’anarco-primitivista, riconoscendo i risvolti positivi del progresso e della tecnologia, siamo dell’idea che l’uomo europeo non possa agire come se fosse un soggetto estraneo alle leggi della natura, come se non fosse l’animale quale è, pertanto difendere il territorio anche in prospettiva ambientalista è giocoforza, nell’ottica dell’etnonazionalismo e dell’econazionalismo. In una Padania sovrappopolata – e non solo per cagione allogena -, follemente cementificata e inquinata, devastata dal mito del profitto e del fatturato e socialmente disgregata per privarla della peculiare, millenaria coscienza comunitaria, appare doveroso recuperare lo spirito di appartenenza pure in direzione ecologica, perché senza una coscienza intimamente legata alla primeva dimensione umana ogni anelito speso per un roseo futuro granlombardo sarebbe destinato a spengersi. Il comunitarismo, il ruralismo, l’econazionalismo ci mostrano la via da seguire, se vogliamo per davvero tentare di salvare la nostra patria dalla totale ecatombe. Ed è logico che per bonificare l’ambientalismo dalle scorie sinistroidi sia necessario farlo marciare fianco a fianco col nazionalismo etnico.
Parlare di sangue, e cioè di stirpe, in una temperie come l’attuale, equivale a bestemmiare in chiesa, ed è facile che le strumentalizzazioni lascino scivolare la questione verso il razzismo. È davvero singolare, tuttavia, che l’accusa di razzismo, o addirittura di suprematismo, riguardi soltanto i bianchi, poiché ogni altro popolo del pianeta terra è liberissimo e, anzi, in dovere di esaltare la propria appartenenza etnica e razziale, magari giustificandola con la solita solfa antirazzista dove i “cattivi” europei opprimono i “buoni” del sud del mondo. Quindi, dipende sempre da chi parla di sangue: se si tratta di noi europidi è giocoforza, per i benpensanti, che sia solo squallido razzismo.
E pensare che, a loro detta, saremmo tutti uguali, e dunque aventi tutti quanti la medesima dignità, e il medesimo diritto ad esprimere orgoglio per le proprie origini e radici. Così, però, non è e se la tutela, la preservazione, la trasmissione del peculiare retaggio concerne gli europei ecco subito la proterva minaccia degli stati-apparato, intrisi di ideologia antifascista, di sbattere in tribunale e in galera chi si macchia di “razzismo”, come se difendere etnia e razza potesse essere realmente un crimine! Certo, in tempi di globalizzazione e di mondialismo lo è sicuramente, perché qualsiasi cosa esuli dalla narrazione imposta dallo status quo viene additata come delittuosa.
Ciò nonostante, è folle e assurdo ritenere che voler tutelare la rispettiva identità etnica, anche su base biologica, sia paragonabile al razzismo, e cioè alla violenza, al fanatismo, alla segregazione, all’odio fondato su di una presunta superiorità, o peggio ancora alla delinquenza! Io credo che, soprattutto oggi, andare orgogliosi dei natali sia fondamentale, ed è doveroso che anche i bianchi possano essere fieri di ciò che sono e mobilitarsi per salvaguardare l’inestimabile patrimonio ereditato dalla natura e dai padri. Per di più, non si capisce proprio perché se ai popoli del terzo/quarto mondo è consentito, agli europei, specie in Europa, è tassativamente proibito.
Il preservazionismo etno-razziale è una battaglia di civiltà, pensando soprattutto al fatto che, in diverse aree dello stesso continente bianco, gli indigeni sono ridotti al lumicino. Si prendano le grandi città metropolitane della Padania, con le loro conurbazioni: gli autoctoni sono quasi del tutto rappresentati da anziani, prossimi alla tomba, mentre le giovani generazioni appaiono vieppiù ibridate o allogene. Promuovere identitarismo significa promuovere anche una salutare presa di coscienza antropologica e biologica, perché la nostra identità passa anche per il sangue. Non può essere altrimenti, a meno che ci si voglia ridurre alla mera cultura, calpestando l’etnogenesi delle nazioni.
Sono dell’idea che ogni popolo della terra debba essere fiero di ciò che è, preferibilmente a casa propria. Immigrazione e meticciato sono una sconfitta per tutti. E, in quest’ottica, il lombardesimo è senza dubbio razzialista, non razzista. Riconosce l’esistenza delle razze umane, non le gerarchizza e ne promuove la naturale collocazione nel distintivo habitat originario, nel rispetto dell’identità e della sovranità di ciascheduno. Il razzismo – inteso modernamente, non come primevo studio della razziologia – è un altro discorso, e ha poco a che vedere con la legittima aspirazione etnonazionalista delle genti del globo. Di ogni parte del globo. Il sangue appare, dunque, ancor oggi fondamentale, come baluardo della biodiversità mortalmente minacciata dalla triste omologazione cosmopolitica.
La Lega Lombarda non mise a tacere le rivalità territoriali tra liberi comuni e infatti, sconfitto il Barbarossa, il carroccio fu archiviato e riemersero i campanilismi che ancora oggi, magari sotto forma di tifo calcistico, affliggono la Lombardia e altre plaghe (ad esempio la Toscana).
Bergamo contro Brescia, Milano contro Como, Cremona contro Piacenza, e così via.
Sicuramente, una delle principali cause della frammentazione e della debolezza lombarde è il micro-sciovinismo, l’egoismo, l’individualismo forsennato, la fobia di perdere il controllo del proprio orticello e la mania di avercela con tutti, anche se si tratta di fratelli. Prima di essere europei (italiani sicuramente no) siamo lombardi e quindi l’armonia comincia dalla nostra comunità, dalla nostra nazione. Non confondiamo le odierne rivalità del diporto con la vita reale.
Chi approfittò di questa situazione furono le signorie, altro fenomeno tipicamente tosco-padano, che solitamente parteggiavano per l’Impero e non per le autonomie comunali, essendo, agli esordi, di origine germanica, dunque guerriera e feudale; finirono, tuttavia, per appoggiare unicamente la propria causa, e si divisero in guelfi e ghibellini: i primi dalla parte del papa e del particolarismo, i secondi dalla parte dell’imperatore e dell’ideale imperiale (che, col senno di poi, avrebbe forse potuto condurre all’unificazione nazionale della Lombardia in seno al SRI, con le giuste scelte).
Il libero comune si evolvette così nella signoria cittadina, attorno alla seconda metà del ‘200, grazie alla forza e all’egemonia territoriale del signore.
La lotta per il potere dilaniò guelfi e ghibellini, che si contesero il dominio dei centri precipui. A Bergamo, ad esempio, i guelfi Colleoni (derivati dai Suardi, e non sempre di parte guelfa), Bonghi e Rivola si misurarono per il predominio con i ghibellini Suardi e coi Mozzo, Terzi e Lanzi. I più vicini al popolo erano tradizionalmente i guelfi, mentre gli altri incarnavano l’ideale aristocratico vecchio stampo e filo-imperiale.
In Lombardia si affermò a livello “regionale” la signoria milanese, vicina all’Impero, dei Visconti, che sconfissero i rivali insubrici, guelfi di origine franca, dei della Torre.
Frattanto ci fu anche la rivincita imperiale, con la schiacciante vittoria di Federico II, nipote del Barbarossa, che a Cortenuova, nel Bergamasco, sbaragliò le milizie della Lega nel 1237, contando sui dissidi fratricidi dei comuni; il carroccio fu preso e spedito al papa, protettore dei guelfi, la Lega si sciolse ma il successo dell’imperatore non colse i frutti sperati, per le solite esose pretese d’oltralpe, cosicché la Lombardia rimase tutto sommato autonoma, con Milano in testa.
Federico II trovò la rovina a Parma (1248) e il figlio Enzo a Fossalta (1249), e con queste sconfitte svanì, fortunatamente, il sogno imperiale degli Hohenstaufen di unire l’Italia innaturale, e di sbarazzarsi del potere temporale del papa. Nel 1268, con la battaglia di Tagliacozzo, i guelfi Angioini conquistarono il Regno svevo di Sicilia, giustiziarono Corradino e misero fine al potere degli Staufer in meridione. Questa capitolazione fu letale per il desiderio unitario e universale dell’Impero ma, soprattutto, inaugurò la stagione italiana etnica del “Francia o Spagna, basta che se magna“, nonché del secolare degrado e malgoverno del sud.
Tornando alla Lombardia, i Visconti, famiglia del Seprio di supposta origine longobarda, ebbero nel Biscione il proprio famosissimo simbolo e vessillo, la cui origine è ancora dibattuta. Per alcuni, è un antichissimo simbolo sacrale longobardo che si ricollega al culto ctonio delle vipere (i Longobardi ne portavano al collo una riproduzione azzurra come monile e amuleto); per altri è un emblema orientale, strappato ai Saraceni durante le Crociate, e capovolto nel suo significato, poiché l’omino che il Biscione ingolla sarebbe proprio un Moro; infine viene talvolta considerato come uno dei tanti draghi acquatici padani delle tradizioni e leggende celto-liguri, più precisamente il drago Tarantasio mangia-fanciulli del mitico Lago Gerundo (Gera d’Adda), che il capostipite mitologico dei Visconti avrebbe sconfitto liberando la terra lombarda a cavallo tra Orobia e Insubria, e guadagnandosi così Milano. La tesi forse più probabile è comunque quella che vede nella Bissa un emblema araldico, ctonio e affine al basilisco, da cui la vita nasce, invece di venire inghiottita, e non è detto che fosse sin dagli inizi viscontea.
Accanto al Biscione i Visconti posero l’Aquila imperiale, a simboleggiare la propria ghibellina fedeltà all’ideale imperiale. Noi lombardisti vediamo in essa anche l’appartenenza storica della Lombardia al cuore dell’Europa, e accostata alla Vipera nazionale rappresenta il più papabile stemma della nostra patria, accanto alle Croci lombarde e allo Svastika camuno, che formano la bandiera granlombarda.
Il cromatismo del campo è d’oro per l’Aquila, nera, e d’argento per il Bisson, riprendendo così l’insegna degli Ottoni e degli Staufer (nel primo caso), che è poi l’insegna dell’Impero, e ponendo la Biscia azzurra su uno sfondo nobile e regale.
Staccandosi dalla leggenda, comunque sia, il capostipite reale dei Visconti fu Ottone, arcivescovo di Milano e capo del partito nobiliare e filo-ghibellino; costui nel 1277 guidò le proprie milizie contro i signori guelfi di Milano, i franchi Torriani della Valsassina, e sconfiggendo a Desio il capo della fazione opposta, Napo della Torre, divenne nuovo signore di Milano nel 1278.
Ha così inizio la fulgida signoria dei Visconti che scalzò dal potere i primi signori di Milano, i Torriani appunto, che tra l’altro avevano esteso la loro influenza a buona parte dei territori occidentali della Regione Lombardia.
Nel 1328, con l’aiuto degli Scaligeri veronesi, Luigi Gonzaga eliminò i Bonacolsi e iniziò a Mantova la signoria della propria famiglia.
Nel 1330 Azzone Visconti, vicario imperiale dal 1329, venne proclamato a Milano dominus generalis; egemone su gran parte della Lombardia, nell’arco di una decina di anni ne riconobbero formalmente la signoria tutte le principali città.
Nel 1361 Galeazzo II Visconti ottenne dall’imperatore Carlo IV un diploma che istituì a Pavia lo Studium generale, primo nucleo dell’Università.
Nel 1386 prese il via, sotto Gian Galeazzo Visconti, la lunga vicenda costruttiva del Duomo di Milano.
Nel 1395 lo stesso Gian Galeazzo ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano (5 settembre); nel 1397 (30 marzo) ha quello di duca di Lombardia; il suo Ducato si estese su quasi tutta la Lombardia regionale, etnica e storica, e oltre l’Appennino lombardo, su Pisa, Siena e Perugia.
Nel 1396 cominciò l’edificazione della Certosa di Pavia, che il Visconti volle come mausoleo famigliare.
Nel 1402 il grande Gian Galeazzo morì, ed ebbe inizio il processo di sfaldamento che sembrò investire lo stato visconteo.
Tra il 1404 e il 1412 emersero le figure di Pandolfo III Malatesta, che si proclamò signore di Bergamo e Brescia, e di Facino Cane, che estese i suoi possedimenti dal Piemonte all’Insubria.
Tra il 1413 e il 1422, ecco il decennio che vide Filippo Maria Visconti, figlio di Gian Galeazzo, riprendere le redini del Ducato e ricostituirne l’unità territoriale.
Il Ducato di Milano/Lombardia confinava a ovest con quello di Savoia e col Monferrato, a sud con la Repubblica di Genova e con i possedimenti degli Estensi, a est con il Ducato di Mantova, la Repubblica di San Marco veneta, il Principato vescovile di Trento e a nord con la Confederazione Elvetica e l’Impero.
Nel 1428 ci fu la Pace di Ferrara: Filippo Maria Visconti fu costretto a cedere la Lombardia orientale a Venezia, in seguito alla sconfitta di Maclodio dell’anno prima.
Il dominio marciano durerà, su queste terre, tre secoli, ma nonostante il relativo buongoverno della Serenissima l’Orobia rimase lombarda; lapalissiano per chi ha buonsenso, non troppo per gli ultrà moderni della Venethia da Bergamo a Perasto, gente che confonde il Veneto con la vecchia Repubblica di San Marco, potentato aristocratico e mercantile senza accezione etnica e nazionale.
Nel 1450, Francesco Sforza, romagnolo genero di Filippo Maria Visconti (morto senza eredi nel 1447), occupò Milano e liquidò l’effimera Aurea Repubblica ambrosiana; l’anno seguente vi chiamò, per le fabbriche della Cà Granda (l’Ospedale Maggiore), del Duomo e del futuro Castello Sforzesco, il Filarete.
Il 1454 è l’anno della Pace di Lodi, che sancì la legittimità di Francesco Sforza quale duca di Milano e il passaggio di Crema a Venezia.
Nel 1482 arrivò a Milan Leonardo da Vinci, dove gli vennero commissionati diversi lavori e onorò la Lombardia con le sue opere.
Giunsero però anche le note dolenti. Nel 1499-1500 il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, venne sconfitto dall’esercito francese di Luigi XII, guidato dal Trivulzio, e tradotto prigioniero in Francia; il Ducato passò al re francese, la Gera d’Adda e Cremona a Venezia, Bellinzona col Canton Ticino agli Svizzeri.
Così, mentre ad ovest i Savoia consolidavano il proprio Ducato annettendo tutto il Piemonte, a sud emergevano i ducati padani, dei Farnese e degli Estensi, ad est dominava la Serenissima, il nocciolo del Ducato di Lombardia di matrice viscontea finiva nelle mani dei forestieri e lo resterà praticamente fino ad oggi, epoca della cattività tricolore.
Le vicende dal Medioevo al Risorgimento, mostrano come la Lombardia etnica, e il suo cuore insubrico, abbiano perso l’occasione di farsi motore dell’unificazione nazionale granlombarda, affrancandosi dal potere imperiale (che comunque incarnava sotto certi riguardi la Gallo-Teutonia in cui noi lombardisti crediamo), dal particolarismo (e dalle ingerenze pontificie) e dall’idea distorta di Italia, retaggio romano. Così non è stato e, infatti, la nostra patria è da secoli preda dello straniero.
Sarà invece il Piemonte sabaudo a farsi carico della sciagurata unità pseudo-nazionale italiana, in questo appoggiato da Francia e Inghilterra, e se da una parte ciò fu il prodotto del ruolo storico piemontese, relativamente autonomo, dall’altra fu la proiezione “imperialista” di una casata straniera, i Savoia, che ereditarono poi allo stato italiano parecchie delle loro magagne post-illuministe.
L’uomo ha plasmato la cultura, la civiltà, la spiritualità ma, nondimeno, è parte integrante della natura. È un animale, e non può sottrarsi alle leggi naturali, per quanto evoluto e progredito possa essere. Per tale ragione il lombardesimo ha particolarmente a cuore la dimensione più intima dell’essere umano, che è il contatto primordiale con la flora, la fauna, l’ambiente, fonte inesauribile di benessere e occasione di rinascita per tutti noi, in particolare per quanti costretti a vivere in realtà cittadine e metropolitane tentacolari. Oggi dobbiamo fare i conti, soprattutto in Padania, con cementificazione, inquinamento, sovrappopolazione e con una comunità sfigurata dai mali frutto della globalizzazione e del sistema capitalistico. Se da una parte può rendere orgogliosi dei propri primati, dall’altra lo sviluppo si rivela infido, stritolando nei suoi ingranaggi un popolo sempre più ridotto a massa informe piagata dalla modernità, e quindi da fenomeni nefasti come l’immigrazione di massa e la società multirazziale.
Molti non lo comprendono, soprattutto se si tratta dei cosiddetti “verdi”, ma il concetto di villaggio globalizzato è una minaccia mortale che pende sul capo delle nostre nazioni, quelle vere, angariate oltretutto da meri contenitori statuali che non hanno alcun collante etnico, culturale, linguistico, storico. È il caso della Lombardia, oppressa dall’Italia ottocentesca, incatenata ad un carrozzone funebre che sta conducendo il popolo lombardo all’estinzione, certo anche con la propria auto-genocida complicità. E allora, ripartire dalla natura, dalla dimensione rurale, dall’ambiente incontaminato può essere l’opportunità di rinascere come comunità di sangue, suolo e spirito, corroborando l’ideologia lombardista grazie alla saggezza dell’econazionalismo. Anzi, è lo stesso lombardesimo a presupporre l’ambientalismo patriottico, perché le nostre radici terragne depongono a favore del recupero di una sensibilità in linea col dettato naturale. Se vogliamo avere un futuro occorre sconfiggere il mondialismo e le sue perverse logiche, nella consapevolezza che allontanarsi troppo dalle origini implica, inevitabilmente, perdersi.
La Grande Lombardia, la Lombardia storica, è una nazione a sé, per quanto dormiente, che nulla ha a che vedere con l’Italia etnica, col cosiddetto centrosud. La Cisalpina ha una propria peculiare identità, anche antropologica, che la smarca dal contesto genuinamente italico, presentando al massimo una parziale sovrapposizione con Corsica e Toscana. La penisola rappresenta la vera Italia, escludendo le Lombardie, e lo stacco si fa abissale prendendo in considerazione il settore meridionale italiano etnico. Non è solo una mera questione geografica, è anche e soprattutto etnica, genetica, culturale, linguistica, spirituale, identitaria poiché la Padania è un mondo a parte, rispetto al sud.
Le differenze che intercorrono tra noi e loro sono inconciliabili, e non è una questione di razzismo e di discriminazione, ma di realtà oggettiva, senza naturalmente che gli ausonici vengano considerati inferiori. Siamo popoli diversi ed incompatibili, figli di vicissitudini storiche affatto differenti, che ci parlano di nazioni agli antipodi ficcate sotto lo stesso tetto politico, con risultati disastrosi. La dicotomia fra Lombardia e Italia riguarda anche il settore tosco-mediano, ma si fa drammatica prendendo in considerazione, appunto, l’ambito meridionale. Non c’è nulla di male in questo, e sarebbe auspicabile che ogni popolo andasse fiero delle proprie origini, senza soverchiare gli altri.
Proprio per tale ragione, l’indipendenza della Grande Lombardia è giusta e sacrosanta, così come l’autoaffermazione di un’Italia etnica senza lombardi e sardi. La questione sud-italiana, con l’innaturale unificazione, è soltanto peggiorata, poiché la sua soluzione sta in un mezzogiorno che finalmente cammini con le proprie gambe, senza più assistenzialismo e ogni altra magagna frutto del centralismo romano e del retroterra corrotto e mafioso di quei territori. Per non parlare del fenomeno migratorio “interno”, che ha portato più di un milione di sud-italiani a stabilirsi nella Grande Lombardia, soprattutto occidentale, con ricadute nefaste che tutti conosciamo.
L’immigrazione di massa è sempre sbagliata, non risolve i problemi di chi migra e aumenta soltanto quelli di chi è costretto ad accogliere, vedendo il tessuto etnoculturale originario della propria comunità compromesso e disgregato inesorabilmente. Certo, anche per colpa degli stessi indigeni, carenti di coscienza identitaria e patriottica. Lo stesso discorso vale per la violazione dell’endogamia, che ha portato ad un pazzesco rimescolamento tra lombardi e italiani etnici: se i connotati biologici periscono, viene a mancare la base fondamentale su cui si edifica l’identità di un popolo e di una nazione. Ed è davvero un peccato, e direi un’aberrazione, che in molte città cisalpine l’elemento etnico indigeno sia andato quasi del tutto ad estinguersi.
L’indipendenza della Grande Lombardia sarebbe una preziosa occasione di riscatto anche per gli stessi sud-italiani, rassegnati alla depressione, alla fuga dalle loro terre, al pessimismo e al fatalismo e a volte al crimine o alle furberie levantine. Il sistema-Italia è unicamente un guaio, per tutti, in primo luogo perché comporta la distruzione del profilo identitario dei vari popoli a sud delle Alpi, costretti nel medesimo stato, logicamente senza nazione. Siamo certi che dare la libertà alla Cisalpina sia rendere giustizia all’etnia, alla comunità, alla storia, non in spregio degli italiani ma per amore della verità e dell’identità. E così, un’Italia restituita a se stessa avrà modo di ripartire, finalmente davvero unita e coesa nella sua reale dimensione patriottica.
Nell’XI secolo, dunque, con il termine ‘Lombardia’ si era soliti indicare buona parte dell’attuale nord della Repubblica Italiana, ad esclusione di poche aree: Regione Lombardia (con la Svizzera “italiana”), Emilia, Piemonte, Liguria, Verona, Trento e il Veneto continentale ricadevano nel suddetto concetto.
La Romagna, con Bologna e Ferrara, passò alla Chiesa; nel Triveneto, assieme alla Marca di Verona, andò affermandosi la Repubblica di Venezia; nel Tirolo storico si affacciarono genti baiuvariche. La Marca veronese venne poi sostituita dal Patriarcato di Aquileia, dal Principato vescovile di Trento e dalle varie signorie venete.
La Toscana, terra di cui i Longobardi si innamorarono e che assieme alla Padania rientrava nella Langobardia Maior, divenne invece Marca di Tuscia, e poi Margraviato di Toscana.
La Lombardia medievale rinsaldò la natura di anello di congiunzione tra mondo mediterraneo ed Europa centrale; chi doveva recarsi a sud delle Alpi, all’epoca, parlava di ‘Lombardia’, nonostante il Regno d’Italia, che era comunque un’entità inconsistente dal nome che si rifaceva retoricamente ai fasti romani.
‘Lombardia’, come etnico della nostra nazione, è preferibile a ‘Padania’, perché il secondo è un termine meramente geografico, al di là della politica, che può giusto indicare il bacino idrografico del Po, senza accezione etnoculturale.
Tornando a noi, nel 1097 si ha notizia certa a Milano dell’esistenza di un consulatus civium, prima espressione istituzionale del comune milanese, avviato a rivendicare la prerogativa di governo della città.
Il libero comune, fenomeno che prese piede nella Cisalpina e in Toscana, nacque per svincolare le città cisalpine e toscane dal controllo, a volte oppressivo, del potere imperiale, soprattutto in materia di esazioni; poté affermarsi, comunque, perché l’Impero latitava, ma si faceva sentire quando si trattava di riscuotere. Il feudalesimo, in ambito subalpino, attecchì poco e questo permise ai cittadini benestanti, borghesi diremmo oggi, di coagularsi attorno al potere vescovile, che supplì al vuoto lasciato dal potere laico sia reale (Regno Italico medievale) sia imperiale (Sacro Romano Impero). Il grosso dei signorotti longobardi, insediati nei loro castelli del contado, era dalla parte dell’imperatore.
Facile capire come, in un’epoca in cui infuriava la lotta per le investiture tra Papato e Impero, venissero a crearsi due opposte fazioni, guelfi e ghibellini, dove i primi oltre a sostenere le autonomie comunali parteggiavano per il papa.
Col tempo, il comune si svincolò però anche dal potere politico esercitato dal vescovo, nonostante che fosse proprio questi a legittimarlo.
Nel periodo 1110-1126, istituzioni comunali volte, per l’appunto, a sostituire il potere politico dei vescovi, si affermarono a Como, Cremona, Bergamo, Brescia e Mantova.
In breve tempo, nel XII secolo, il libero comune medievale divenne la predominante forma politica lombarda, fenomeno originale e originario proprio della nostra terra, e poi esteso al resto dell’Europa occidentale. Fu espressione della mentalità borghese, mercantile, artigiana, laica, cittadina dei lombardi, desiderosi di affrancarsi dal feudalesimo, per quanto debole, e dalle usurpazioni dei castellani di stirpe germanica delle campagne.
In realtà, l’incastellamento del contado portava anche benefici, visto che in un’epoca come quella medievale la protezione del signore locale faceva un po’ comodo a tutti.
Il comune era però espressione dei borghesi e dei loro interessi, non certo dei popolani.
Questa istituzione, nonostante che fosse cresciuta all’ombra dei vescovi e parteggiasse più per il papa che per l’imperatore, era mirata a difendere il tornaconto delle classi agiate, e non tanto i privilegi della Chiesa. La retorica moderna ha certamente esagerato le implicazioni ideologiche dello scontro fra guelfi e ghibellini, e fra comuni e Impero. La questione che teneva davvero banco era economica, e il cielo sa quanto sia cara in Lombardia (vedi la Lombard Street di Londra, la via dei banchieri, appunto, cisalpini [1]), una terra dominata dalla laboriosa, ma spesso anche gretta, mentalità alpina.
Le etichette ‘guelfo’ e ‘ghibellino’ (come la maggior parte delle etichette di comodo) non indicavano il bigotto e l’anticristo (bigotti, diremmo oggi, erano entrambi gli schieramenti) ma, per usare terminologie moderne, gli “autonomisti” e i “centralisti”, laddove i primi volevano, più che autodeterminazione, autonomia economica (essendo ceto mercantile, prevalentemente) e i secondi volevano rimanere fedeli all’imperatore in tutto (essendo per lo più ceto nobiliare). Naturalmente sorsero anche nobili guelfi, spesso però dalla mercatura, e non dal campo di battaglia, come i nobili guerrieri e proprietari terrieri di origine germanica.
I liberi comuni, tutto sommato, non mettevano in dubbio l’autorità dell’imperatore in Padania.
Nel 1155, Federico I Hohenstaufen detto “Barbarossa”, certamente uno dei più grandi, venne incoronato re d’Italia a Pavia, essendo tale titolo associato a quello di sacro romano imperatore.
I malumori lombardi crebbero perché il Barbarossa rivendicava pretese su tutta l'”Italia”, bramando un impero che fosse davvero europeo e che assorbisse tutta la penisola, sotto il suo diretto controllo. Un’idea che a suo dire poteva essere nobile, molto romana, ma perseguita male e lasciandosi andare troppo spesso alla violenza, calando a sud delle Alpi per castigare duramente chi si ribellava.
Egli si inserì nella politica cisalpina approfittando delle diatribe tra Milano e i comuni vicini, vessati dal capoluogo lombardo in espansione, prendendo le parti dei secondi, di Lodi soprattutto (da lui rifondata dopo che Milano la distrusse), e usando queste lotte come pretesto per intervenire cercando di assicurarsi così il dominio della Val Padana.
Le vessazioni, i taglieggiamenti, le prepotenze e le sanguinarie ritorsioni contro i milanesi, che videro a loro volta la propria città rasa al suolo, e contro coloro che non volevano piegare il capo di fronte all’esosa autorità imperiale crescevano, e anche il papa, Alessandro III (colui a cui fu dedicata la città piemontese di Alessandria) ne approfittò schierandosi dalla parte dei comuni ribelli. L’ingerenza clericale si è spesso rivelata fatale, nelle vicende nostrane, ma certamente ha ritardato l’innaturale processo di unificazione.
Cosicché, secondo la tradizione, il 7 aprile 1167 si giunse al fatidico giuramento nell’abbazia benedettina di Pontida, nel Bergamasco, dove Milano, Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia siglarono il patto della Concordia, che sancì la nascita della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda.
È stato fatto largo uso e abuso retorico di Pontida, come di Legnano, prima in chiave risorgimentale, poi in chiave leghista; il problema è che, nei fatti, si combatté il Barbarossa, e poi il nipote Federico II, in nome degli interessi economici e politici dei comuni, che nemmeno volevano staccarsi dall’Impero, ma semplicemente avere autonomia. Certo, la Lega Lombarda, già a partire dal nome, fu comunque espressione dei nostri territori, ed è quindi lecito ricordarla con orgoglio identitario.
Legnano ostacolò l’unificazione, ritardandola, anche se permise al papa di ficcare sempre più il naso negli affari delle città lombarde. D’altra parte, Federico I inseguì un ideale imperiale “universale” cioè di respiro europeo, ma lo fece in maniera troppo arrogante, prepotente e sanguinaria, inimicandosi la Padania.
Riprendendo il resoconto, nel giro di poco alla Lega aderirono la maggior parte delle principali città lombarde tra cui Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Reggio, Vercelli, Alessandria, Asti, Como, Novara, Pavia, Tortona, Varese e Vimercate.
I granlombardi occidentali ottennero l’appoggio della Lega Veronese (Verona, Padova, Treviso e Vicenza), che confluì nella Lega Lombarda, di Venezia, Genova, Torino, Ferrara, Bologna e Faenza e, come sappiamo, di Roma, che cavalcò a suo favore la questione, soffiando sul fuoco dell’anti-ghibellinismo.
La Lega si strinse attorno ai suoi simboli, e questo certamente è suggestivo: la croce rossa in campo bianco, di San Giorgio, stemma di Milano e bandiera storica di Lombardia (qualcuno dice mutuata da Genova ma più probabilmente dai blasoni dei primi vescovi milanesi), divenuta poi emblema di molte importanti città padane solidali con Milano, città odiatissima dal Barbarossa, come Mantova, Lecco, Vercelli, Ivrea, Alba, Alessandria, Reggio, Bologna, Padova, opposta all’imperiale Croce di San Giovanni Battista che ne è il negativo e che forse deriva dalla rossa Blutfahne, la bandiera da guerra dell’esercito imperiale; la croce di Ariberto da Intimiano; il carroccio, ideato nel 1033, pare dallo stesso vescovo milanese ribelle, che era in sostanza una sottospecie di carro da guerra, possente ed ingombrante, trainato da buoi, in cui stavano in bella mostra le insegne dei combattenti della propria fazione, e in cui il comandante assisteva alle operazioni belliche, e dove i preti celebravano i sacri uffici per accattivarsi i favori del Cristo e rincuorare i guerrieri durante la battaglia.
La Croce di San Giovanni è stemma di altre città “settentrionali”, come Cuneo, Asti, Novara, Pavia, Fidenza, Lugano, Como, Vicenza, Treviso, ma anche del Piemonte, del Monferrato, di località valtellinesi e ticinesi.
Il 29 maggio 1176 Lega e imperiali si scontrarono a Legnano, nell’Alto Milanese: le milizie lombarde, il cui nerbo era rappresentato dalla fanteria comunale, sicuramente non capitanate dall’immaginario Alberto da Giussano [2], sconfiggono l’esercito del Barbarossa, con la sua cavalleria pesante, che si vide costretto a riconoscere, tramite la pace di Costanza del 1183, diritti e autonomie comunali.
Per noi lombardisti, il 29 maggio è la festa della Lombardia etnica, anche se preferiamo non esagerarne l’esaltazione, ricordando comunque il 5 di settembre (1395), data di nascita del Ducato di Milano, ente ghibellino fedele all’Impero e territorialmente esteso in buona parte della Lombardia. La battaglia di Legnano rimane, ad ogni modo, profondamente affascinante, ed è giusto celebrarla ancor oggi, al netto della propaganda italianista e legaiola.
Tramontato il sogno imperiale del Barbarossa, i comuni lombardi, nati non per sentimento patriottico ma per spirito “liberale” (come diremmo oggi), per quanto certamente frutto della civiltà padana di cui siamo depositari, ripresero a scannarsi e a darsele di santa ragione, come del resto avevano fatto anche prima di Pontida e Legnano. E questo è il limite dell’epopea comunale, che fece leva sugli orgogli cittadini, più che su di un sentimento patriottico lombardo, anche se l’idea di patria è qualcosa di affatto moderno, romantico.
E come i litigiosi comuni, fecero poi le signorie, che invece di fare fronte comune per unire il Paese – la Lombardia, ovviamente – arrivarono a tirarsi in casa lo straniero per farsi la guerra, col risultato che questi se ne approfittò e finì per diventare, infine, il padrone delle terre lombarde per lungo, lungo tempo.
Note
[1] E questo perché, come dicevamo, i padani erano chiamati lombardi anche all’estero. Si pensi, ad esempio, ai banchieri piacentini e astigiani, o alle colonie gallo-italiche di Sicilia e Lucania.
[2] Secondo gli storici, tale ruolo è da attribuire a Guido da Landriano.
I figli sono la benedizione di ogni unione eterosessuale tra uomo e donna, frutto della paternità e della maternità. Sono la prosecuzione della stirpe, dunque il futuro della nostra nazione, e oggi come non mai c’è bisogno di ridare vigore alla demografia granlombarda, dissanguata dalla denatalità, dall’immigrazione e dal culto di consumismo ed edonismo che isterilisce il grembo delle donne occidentali, azzoppando peraltro la virilità. Non è vero che non si fanno più figli perché mancano le risorse: non si fanno più figli perché mancano drammaticamente i valori, e non a caso le relazioni sono sempre più liquide ed instabili, usa e getta, con matrimoni che si sfasciano dopo pochissimo tempo grazie anche alla santificazione del divorzio, sdoganato e normalizzato da una società auto-genocida. La gente non ha più pazienza, non ha voglia di fare sacrifici, non vuole rinunciare al soddisfacimento del proprio ego in favore della creazione di una famiglia, vista ormai come un ingombro e una scocciatura. E questo mentre il terzo mondo e gli allogeni che da lì provengono continuano a sfornare marmocchi con ritmi selvaggi, senza preoccuparsi delle fisime occidentali.
Paghiamo lo scotto della sedicente emancipazione sessuale femminile: il sistema ha convinto le donne che possono giocare al dongiovanni in gonnella fino a 40 anni e oltre, con ricadute tragiche in termini di natalità. Chiaramente si parla di femmine europee, non immigrate, dato che l’allogeno non rinuncerebbe per nulla al mondo alla propria tradizione, ai propri usi e costumi, alla propria religione. In un Occidente dove gli uomini vengono demonizzati e castrati e le donne messe sul piedistallo solo perché donne, in nome del cancro femminista, ecco che le culle sono sempre più vuote e le pance sempre più piene, con la razza bianca che continua inesorabilmente a scavarsi la fossa da sola. Lo chiamano progresso, sviluppo, benessere, ma non è altro che la tomba di un’Europa vieppiù decrepita e pronta ad essere completamente sostituita dalle “risorse” alloctone. Per questo occorre recuperare il senso comunitario e la solidarietà etnonazionale, affinché le nostre terre abbiano un domani roseo, invertendo la rotta di un continente che appare destinato ad inabissarsi, sommerso dallo tsunami migratorio e dalle pulsioni suicide figlie della società capitalista dei consumi.