Lombardia preistorica e protostorica

Incisioni camune

Pubblicherò, per qualche soledì, alcuni articoli sulla storia della Lombardia, soffermandomi in particolare sul cuore insubrico-orobico della nostra nazione. A seguire, degli scritti storici circa Bergamo e la Bergamasca.

La “Lombardia” del Pliocene (l’epoca più recente dell’era cenozoica o terziaria, fra i 5 e i 2 milioni di anni fa) aveva un’estensione territoriale differente da quella attuale.

Mentre l’arco alpino era ben definito, la Pianura Padana era ancora del tutto assente. Questa deve la sua formazione al deposito dei detriti portati a valle dal fiume Po e dai suoi affluenti nel corso dei milioni di anni successivi fino ad oggi; inoltre, alla spinta tettonica che la placca africana esercita contro la placca europea [1]. Tale spinta, nel corso delle centinaia di migliaia di anni, ha fatto sollevare la crosta terrestre dell’Europa, e in particolar modo dell’Appenninia e della Lombardia, di alcune decine di metri.

Questi due fattori combinati insieme hanno fatto sì che al posto dell’Adriatico, che occupava il Golfo Pliocenico Padano, abbiamo oggi una verdeggiante pianura tra le più fertili e ricche (purtroppo anche inquinate e cementificate, conseguenza, non da ultimo, della sovrappopolazione immigrata) d’Europa.

Durante l’ultima glaciazione (Würm), quella che interessò le Alpi tra i 110.000 e i 12.000 anni fa, la Lombardia alpina e prealpina presentava compatte calotte glaciali e ghiacciai montani. I ghiacciai montani e pedemontani modellavano il territorio asportando virtualmente tutte le tracce delle precedenti glaciazioni di Günz, Mindel e Riß, depositando morene di base e morene terminali di differenti fasi di ritrazione, e accumuli di löss (argille sabbiose finissime e giallastre di origine eolica), e spostando e ri-depositando le ghiaie attraverso i fiumi che scendevano dai ghiacciai. Al di sotto della superficie, essi ebbero un’influenza profonda e duratura sul calore geotermico e sulle tipologie di flusso delle acque sotterranee.

I celeberrimi laghi prealpini lombardi si formarono proprio in questo periodo, dalla ritirata dei ghiacciai.

Durante l’ultima glaciazione, va anche detto che la Val Padana appariva decisamente decentrata ed estesa rispetto ad oggi, tanto che il Po sfociava nell’Adriatico all’altezza di Ancona.

Le prime tracce circa la presenza dell’uomo nella Cisalpina rimontano al Paleolitico. La presenza dell’Uomo di Neanderthal è dimostrata da ritrovamenti risalenti a 50.000 anni fa, sebbene scarsi rispetti al resto d’Europa. La comparsa dell’uomo moderno, invece, è da attribuire a 34.000 anni fa (Paleolitico superiore), stando ai reperti.

Nel Neolitico (VI millennio avanti era volgare) si cominciano ad intravvedere le prime forme concrete di civiltà, grazie alla diffusione della ceramica impressa. Si affermano i manufatti di origine ligure anariana, e gli individui appartenenti a questo filone artigianale possono dirsi di tipo mediterraneo. La Cultura della ceramica cardiale si originò, però, nel Levante e giunse in Padania dai Balcani, innestando nella mediterranea, e arcaica (cromagnoide), valle del Po il tipo dinarico.

Il Neolitico è il fondamentale strato lombardo, da un punto di vista genetico, ed è quello che accomuna, in senso mediterraneo e (meno) levantino antico, l’Europa sudoccidentale. La principale differenza etno-razziale fra gli “italiani” deriva dal fatto che più si scende verso il Mediterraneo e più si riscontrano influssi egeo-anatolici e mediorientali, anche recenti (età romana imperiale e tardo-imperiale). Naturalmente, le componenti anatolico-caucasiche e levantine degli italiani etnici meridionali non fanno di essi fratelli di coloro che abitano oggi Asia Minore e Medio Oriente, perché recate da genti mescolatesi con gli indigeni; altresì, Arabi [2], Ebrei, Saraceni, Ottomani hanno influito superficialmente, a livello genetico, sull’Ausonia, poiché essa deve il suo genoma esotico principalmente a popolazioni greche e coloni levantini di età romana.

Gli uomini neolitici, dediti ad attività agricole, erano organizzati in società matriarcali incentrate su figure femminili, non solo a livello gerarchico e sociale ma anche culturale: culti ctoni, lunari, legati alla fertilità, al ciclo delle stagioni e alla Madre Terra, la Dea Madre: tutto da lei nasceva e a lei ritornava (quindi, rito funerario dell’inumazione) [3].

Erano società pacifiche, imbevute di artisticità, artigianato, raffinatezza, ricchezza e benessere. Per quei tempi, si capisce.

Gli oscuri Liguri, popolo di base preindoeuropea che si estendeva dalla Francia sudoccidentale alla Toscana settentrionale, erano eredi di questa temperie culturale, anche se nel tempo furono indoeuropeizzati. Il loro endoetnonimo, secondo gli storiografi antichi, era Ambrones, palesemente indoeuropeo, e facilmente accostabile a quello degli italici Umbri e degli omonimi Ambrones germanici. Dovrebbe ricollegarsi al celtico *ambr- e al latino imber, che significano ‘acqua, pioggia’, e quindi anche ‘fiume, torrente’.  

Durante l’Età dei metalli, comparve nel cuore della Lombardia la Cultura di Remedello (III millennio a.e.v.). In questa fase (Età del rame), abbiamo i prodromi delle prime vere grandi civiltà protostoriche cisalpine. Elementi caratteristici del periodo sono i megaliti (statue stele, statue-menhir in Lombardia) e il vaso campaniforme.

La protostoria europea cominciò proprio col Calcolitico e arrivò fino all’Età del ferro, passando per quella del bronzo.

L’Età del rame, di Remedello, vide il fiorire del megalitismo anche in area padana, dove la Val Camonica cominciò ad emergere culturalmente grazie alle stele antropomorfe; sul finire del Calcolitico, comparve la Cultura del vaso campaniforme, che portò in Lombardia elementi di origine franco-iberica e centro-europea (delle avanguardie indoeuropee, in questo caso). La fase finale di Bell Beaker (all’inglese) fu infatti indoeuropeizzata nel Centro Europa, entrando in contatto con le ondate ariane provenienti dalle steppe ponto-caspiche. Pare che il tipo fisico di questa cultura fosse brachicefalo, sul dinarico.

La civiltà camuna esplose nell’Età del bronzo (II millennio a.e.v.), producendo le celeberrime incisioni rupestri (principiate comunque nel Mesolitico), dove cominciarono a comparire i primi simboli solari e guerrieri di origine ariana penetrati in Padania dalle Alpi Centro-Orientali. I Camuni erano, di base, un popolo alpino reto-ligure (i Reti erano dei tirrenici al pari degli Etruschi, ma senza influssi anatolico-caucasici recenti), certamente arianizzato soprattutto nel Ferro. A sud della Camunia, erano attestati gli Euganei, una popolazione ligure, o alpina [4]. Altro popolo alpino del Bresciano erano i Triumplini.

Reti erano pure i Vennoneti della Valtellina, e non a caso parte delle suddette incisioni sono state trovate anche nel settore orientale della provincia di Sondrio.

All’Età del bronzo appartiene pure la Cultura di Polada, che interessò soprattutto la Lombardia orientale, intrisa di elementi “mittel” di filiazione indoeuropea.

Finalmente, nella tarda Età del bronzo (XIII secolo a.e.v.), ecco la Cultura dei campi di urne, indoeuropea, proveniente dall’area centro-orientale dell’Europa, che in Lombardia trovò linfa vitale grazie a Canegrate e al proto-Golasecca, in Insubria. Nella Bassa lombarda, invece, si fece sentire l’influenza protovillanoviana, e poi villanoviana (etrusca), di culture collegate ai proto-Italici e ai proto-Latini, senza dimenticare le terramare, fra Regione Lombardia e Regione Emilia-Romagna.

La Cultura di Golasecca (prima Età del ferro, preceduta dalla fase protogolasecchiana del Bronzo finale) andava dal fiume Sesia al Serio ed era proto-celtica/celtica, emanazione di quella di Hallstatt; riunì elementi delle precedenti Culture di Polada (Liguri palafitticoli indoeuropeizzati), della Scamozzina (Liguri indoeuropeizzati) e di Canegrate (Celto-Liguri) nascendo attorno al XII secolo avanti era volgare, e vide come protagonisti gli Insubri pre-gallici, gli Orobi che fondarono Como, Lecco e Bergamo, e i Leponzi stanziati nel Ticino [5]. Costoro, fondendo caratteristiche mediterranee e preindoeuropee liguri con l’identità indoeuropea, virile, solare, guerriera, nordica, gettarono le basi della Lombardia preromana, irrobustite poi dai Galli storici, dai Gallo-Romani e da Goti e Longobardi, popoli germanici originari, si dice, della Svezia meridionale.

Fortificazioni, armi e oggetti in bronzo e in ferro (usati anche come corredo funebre), campi di urne [6], culti solari e celesti, monili ariani e solari, allevamento di cavalli, uso del carro da guerra, cittadelle, classici toponimi in -ate e tracce della varietà linguistica del celtico parlato allora nella Lombardia insubrica centro-occidentale (leponzio), erano alcune delle principali peculiarità della celtica civiltà di Golasecca, che svolgeva, oltretutto, un importante ruolo di mediazione culturale e commerciale fra i Celti continentali e il mondo mediterraneo, specie etrusco.

Le migrazioni ariane in Padania andarono dalla media Età del bronzo (metà del II millennio a.e.v.) al V-IV secolo a.e.v. (Età del ferro, iniziata nel I millennio avanti era volgare). E proprio in questo periodo irruppero i Galli storici.

Le invasioni storiche dei Galli continentali resero di fatto Gallia Cisalpina il territorio compreso tra la fascia alpina meridionale e l’Appennino settentrionale e tra le Alpi Occidentali e Orientali, soprattutto la cosiddetta Gallia Transpadana (rispetto a Roma [7]), che andava dal Piemonte al fiume Oglio e dallo spartiacque alpino al fiume Po.

Le ondate galliche portarono i Biturigi del mitico Belloveso alla fondazione di Milano [8], la nostra capitale, e occuparono lo spazio geografico che già fu dei golasecchiani; i Cenomani del, parimenti, leggendario Elitovio fondarono Brescia e occuparono il suo contado e quello di Cremona, Mantova, Trento (?) e Verona; i Boi si stanziarono in Emilia, ma anche nel Lodigiano, e liquidarono gli Etruschi (un impasto mediterraneo-villanoviano, preindoeuropeo-indoeuropeo, con una tarda fase culturale orientalizzante), che precedentemente erano arrivati a lambire la Bassa lombarda transpadana, sfruttandola più che altro per motivi commerciali (vedi il famoso emporio mantovano del Forcello).

I Galli trovarono una realtà transpadana occidentale già in parte celtizzata, instaurando un continuum etnico che sarebbe poi quello leponzio-gallico continentale che ha fatto da sostrato linguistico ai dialetti gallo-italici.

Prima che i Romani conquistassero gradualmente la Lombardia, annettendola all’organismo italico, i Galli cisalpini suddivisi in tribù celtizzarono il territorio – continuando l’opera dei proto-celtici predecessori – da un punto di vista culturale e razziale, trovandosi a loro agio tra alture, colline, pianure, in riva ai nostri laghi di origine glaciale e in mezzo alla sterminata foresta planiziale di farnie, carpini e frassini che ricopriva la Pianura Padana.

Il Celta, come si sa, amava immergersi nella continentale natura circostante, una caratteristica che comunque ritorna nella tipica religiosità indoeuropea, fondata com’è sul sangue della stirpe e il suolo della patria.

La toponomastica lombarda divenne fortemente gallica [9]; il carattere celtico della lingua indigena si rafforzò; sorsero sempre più abitati fortificati posti in collina (i famosi “duni”); inumazione e incinerazione dei cadaveri, a seconda della tribù gallica, caratterizzarono i riti funebri della popolazione; la costruzione di santuari e la dedicazione di boschi sacri costellò le contrade padano-alpine; la produzione di manufatti celtici, stavolta soprattutto in ferro (armi in particolar modo), accompagnò la Cisalpina sino alla piena romanizzazione. L’Età del ferro è l’epoca celtica per antonomasia, nella Grande Lombardia.

La schiatta gallica, composta – soprattutto a livello elitario – da nordidi del tipo Keltic, biondi, fulvi, castani, con occhi verdi o azzurri, con lunghi mustacchi e lunghi capelli, alti e robusti, bellicosi e pervasi dal furore, nordicizzò la Lombardia, contribuendo, assieme ai popoli germanici, al concreto apporto nordeuropeo che contraddistingue l’identità della terra fra Alpi e Po, con l’appendice cispadana.

In termini antropologici, però, la Lombardia si basa primariamente sull’elemento alpino e atlanto-mediterraneo, con un importante contributo dinarico che si irrobustisce procedendo verso est; il dato alpino viene erroneamente definito “celtico” perché assai diffuso nelle Gallie e nell’Europa centrale, dove la civiltà celtica/gallica si sviluppò grazie a Hallstatt e La Tène, per poi irradiarsi in buona parte dell’Europa.

L’identità della Lombardia, specie occidentale, è fortemente celtica, e affonda le radici nel periodo di Canegrate, mille anni prima della calata dei Galli di Cesare, fiorendo durante il golasecchiano ed esplodendo grazie all’apporto dei transalpini. Ma merita considerazione anche il sostrato ligure, anariano e ariano, e quello reto-etrusco su Alpi e pianura. Non abbiamo trattato del contesto venetico, essendoci concentrati sulla Lombardia etnica segnatamente insubrico-orobica, ma risulta evidente, a partire dal dato archeologico, che la presenza celtica abbia interessato eziandio l’area della Grande Lombardia orientale.

Note

[1] La Padania nasce dalla collisione fra la parte settentrionale della massa africana distaccatasi, la zolla adriatica, e la massa eurasiatica. Dire, dunque, che il nostro territorio è figlio tout court della placca africana è una sciocchezza pressapochistica.

[2] Nel genoma siciliano è stato tuttavia individuato un lascito nordafricano medievale.

[3] Questa è la lettura tradizionale, alla Gimbutas, della cosiddetta Old Europe. Oggi la posizione degli archeologi è decisamente più sfumata.

[4] Termini come ‘ligure’, ‘alpino’, o anche ‘mediterraneo’, nel contesto archeologico tradizionale, indicano il sostrato indigeno, anariano, delle nostre terre.

[5] Altri popoli antichi associati al golasecchiano, secondo l’archeologo Raffaele De Marinis – ai cui scritti rimando -, sono Levi, Marici, Libui o Lebeci, Vertamocori, Agones.

[6] Urnfield, nel mondo anglosassone, indica il peculiare rito funerario del mondo indoeuropeo, l’incinerazione, che si ricollega a precisi schemi e modelli della spiritualità ariana, come il culto del fuoco, della purificazione e degli antenati, e la liberazione dell’anima dalla “prigione” del corpo.

[7] Se adottassimo il criterio “milanese” la Cispadana sarebbe la Transpadana romana, e viceversa.

[8] In realtà, è più probabile che la fondazione di Mediolanum sia avvenuta in epoca golasecchiana; la vicenda dei Galli Insubri va così a sovrapporsi a quella degli Insubri golasecchiani, stando ad un’omonimia non certo singolare, vista la comune appartenenza etnica al mondo celtico.

[9] Tipici suffissi gallici come -aco, -ago, -uno, -uco, -ugo accompagnarono la penetrazione dei conquistatori, prosperando anche in epoca gallo-romana e medievale.

Uomo

In una società armoniosa, equilibrata e ordinata la guida comunitaria viene riposta nelle mani dell’uomo, che conferisce alla collettività uno schietto aspetto patriarcale, e virile. Nel rispetto degli innati ruoli di maschile e femminile sta il segreto del benessere sociale e civile di un popolo, di una nazione, poiché venir meno a quanto predisposto dalla natura, e difeso e custodito dalla tradizione, significherebbe abdicare ai salutari dettami tramandati nei secoli dai nostri padri, e giunti – per quanto annacquati – sino a noi. Certo, nell’Occidente contemporaneo il patriarcato è ormai quasi del tutto estinto, e infatti l’Europa, per tale ragione, appare drammaticamente in crisi. La sedicente emancipazione sessuale della donna, il femminismo, l’egualitarismo minano le fondamenta della comunità causando il crollo dei principi e dei valori su cui è stata edificata la gloriosa e millenaria civiltà europea. Il relativismo, fonte di tutte le disgrazie anti-identitarie, ha pervertito uomini e donne contemporanei, castrando i primi e mascolinizzando le seconde, facendo perdere di vista una verità fondamentale: uomo e donna non sono la stessa cosa, dunque non sono uguali.

Non si tratta di considerare la femmina inferiore al maschio, calpestandone la dignità, si tratta di comprendere come maschio e femmina siano diversi e complementari, e pensarla in maniera differente significa sputare sulla natura, sulla tradizione e sull’eredità indoeuropea dei nostri padri. La biologia, l’antropologia e la psicologia ci dicono chiaramente che l’uomo sia predisposto a cose per cui la donna non è affatto portata, e viceversa, e ignorare ciò equivale a sovvertire l’ordine naturale delle cose, trascinando inevitabilmente nella polvere la già indebolita comunità europide. A fronte di un sud del mondo prolifico, aggressivo e integralmente patriarcale, ecco che gli europei (segnatamente nordici e occidentali) calano le brache di fronte al progressismo, mettendo la gonna agli uomini e i pantaloni alle donne, cioè invertendo i ruoli benedetti dalle normali inclinazioni. Una società razionale è una società, combaciante col concetto di comunità, in cui il potere è amministrato dall’uomo, e in cui la donna aderisce ai modelli vincenti del patriarcato. Ciò vuol forse dire rinchiudere le donne in casa a spadellare e scodellare pargoli, alla semitica? Nient’affatto: vuol dire valorizzare al meglio la vocazione virile e quella muliebre, raggiungendo una pacificazione necessaria per il bene della patria.

Patriarcato vuol dire civiltà

Sovente, sulla scia di alcuni fatti di cronaca nera, la società patriarcale viene accusata di ogni nefandezza possibile, soprattutto in materia di condizione della donna. Nella testa dei progressisti, il patriarcato assume i connotati del sessismo, del maschilismo e della misoginia, a patto, naturalmente, che si tratti di un prodotto culturale europide (sempre che esista ancora, e ne dubitiamo). Se, invece, riguarda i popoli e le culture del sud del mondo, nessun guitto salottiero ha da ridire, poiché, come sapete, ai melanodermi tutto viene perdonato. Il problema, per i fini pensatori di sinistra, è il maschio bianco eterosessuale, reo di essere il mostro che ha concepito tutte le discriminazioni possibili e immaginabili.

Peccato che a lorsignori non venga proprio in mente che la società patriarcale europea, forgiata dall’uomo bianco, sia sinonimo di civiltà, ordine, virtù e che la colpa della decadenza contemporanea dell’Europa vada rintracciata, guarda caso, nell’assenza di patriarcato. Esso, perlomeno nella metà occidentale del continente, non esiste più, un po’ come il tanto vituperato fascismo, eppure viene additato alla stregua di fonte di ogni guaio comunitario; chiaramente, chi accusa il patriarcato esalta l’antifascismo, l’antirazzismo e il relativismo che ha partorito il femminismo, ed è dunque un nemico giurato dei sani principi virili, che oltretutto danno forma alla tipica liquidità muliebre. Patetico e stucchevole ritenere che le donne, in Occidente, siano discriminate, a maggior ragione se si ciarla di patriarcato.

La nostra civiltà è figlia del patriarcato, e non c’è bisogno di tirare in ballo il cristianesimo, per quanto di ispirazione tipicamente maschile. Questo ha ereditato, o meglio parassitato, la solare visione patriarcale del mondo indoeuropeo, il mos maiorum dei Romani, il pensiero filosofico greco plasmato da uomini, e di fatto si è sostituito al retaggio ariano dell’Europa, snaturandolo e costringendolo nel letto di Procuste della mentalità abramitica. Ma non c’era bisogno del corpo estraneo giudeo-cristiano per affermare una società a guida maschile, poiché essa era già stata posta in essere dai nostri padri indoeuropei.

Il cristianesimo è un prodotto del deserto, come giudaismo e islam, e ha una concezione semitica della donna, figlia di una pulciosa sessuofobia da beduini. La cultura ariana, invece, reputa la femmina di secondo piano, rispetto all’uomo, ma al contempo la ritiene complementare al maschile, perché diversa, non inferiore. E il patriarcato bianco non considera, per l’appunto, la figura femminile inferiore, ma ovviamente non può certo pensarla al posto dell’uomo, alla guida della comunità e della famiglia. Il rispetto degli innati ruoli dei sessi è fondamentale, garanzia di armonia, equilibrio, benessere, per tutti i membri della società. Chi blatera di patriarcato, di fronte alle violenze che subiscono talune donne, è un emerito imbecille: è proprio la sua negazione a generare i delitti, e cioè la liquidità postmoderna.

Chi pratica violenza, o addirittura uccide, per questioni passionali è un debole, un effeminato, un impotente, lontano anni luce dalla figura solare maschile che il patriarcato incarna, e difende. Esso è garanzia di rispetto e difesa per la donna medesima, che nel patriarcato ritrova la propria più intima dimensione e diviene moglie, madre, ancella del focolare domestico e della patria. Coloro che invece demonizzano e denigrano l’impronta maschile – oggi sempre più sbiadita – conferita al mondo europeo non sono altro che detrattori e avversari dei valori e dei principi su cui si è edificata l’Europa, senza i quali non sarebbe certo possibile parlare di civiltà. Ma oggi il patriarcato non esiste più, e proprio per questo motivo il nostro continente naviga in cattive acque.

I lombardi e la Lombardia

El Bisson

I lombardi, segnatamente padani, sono un popolo, dunque un’etnia; non sono una razza o una subrazza, chiaramente, bensì un insieme di genti che costituiscono la nazione cisalpina, la Grande Lombardia.

I lombardi, scendendo più nello specifico, appartengono alla razza caucasoide europea, agli europidi, e sono la risultante della fusione di elementi di base (atlanto)mediterraneide e alpinide con altri di estrazione dinaride e, meno, nordide (periferica). L’elemento dinaride/adriatide, si fa preponderante nel contesto del Triveneto.

La Lombardia storica è molto vasta come territorio, va dalle Alpi Occidentali a quelle Orientali, e dall’arco alpino all’Appennino, e quindi i granlombardi non sono del tutto omogenei, anche se gli elementi fisici e genetici basilari restano appunto il sostrato neolitico ligure e reto-etrusco (mediterraneo occidentale) e quello più continentale (alpino), influenzato dagli apporti indoeuropei.

Il nerbo lombardo è ovviamente situato nella Lombardia padana, nell’area che gravita attorno a Milano, la nostra capitale, e se vogliamo trova nell’Insubria il suo fulcro rustico, per quanto oggi offuscato dalla globalizzazione e dall’invasione alloctona.

La zona insubrica fu proto-celtica (Canegrate e Golasecca), gallica (Insubri), naturalmente gallo-romana, germanica (Longobardi della Neustria e Franchi), modellata dal Medioevo feudale, comunale e signorile; è un po’ il cuore della Lombardia etnica, grazie alla sua centralità, non solo geografica ma anche culturale e linguistica.

Il cuore della Lombardia è piuttosto alpinide, e il tipo alpino è certo quello prevalente. Solitamente, sebbene erroneamente, viene associato ai Celti, in quanto il grosso del popolo transalpino che questi portavano seco, essendo centro-europeo, apparteneva al fenotipo in oggetto. Un po’ come i Venetici, associati all’estrazione dinaride, in virtù della loro provenienza centro-orientale, danubiana.

Comunque sia, tradizionalmente, i caratteri fisici legati alla celticità sono quelli nordidi dinaromorfi, vedasi il noto Keltic Nordid dell’Età del ferro.

Procedendo verso nordest si possono notare influssi retici (nord-etruschi) in Valtellina, nelle Orobie, nelle Prealpi bergamasche e bresciane, quindi dinarico-mediterranidi, e lo stesso si può riscontrare a sudest, in area padana, dove gli Etruschi, se non proprio a colonizzare, giunsero ad influenzare zone come Cremonese, Bassa bresciana, Mantovano. Se parliamo di Reti, tuttavia, va soprattutto citato il Triveneto settentrionale, e se parliamo di Etruschi la Lombardia cispadana; nel primo caso vanno messi in conto discreti influssi di tipo nordoide, e naturalmente l’elemento alpinide.

L’aplogruppo R1b-U152, clade Z36, ritenuto peculiare delle invasioni galliche, trova i suoi massimi fra Bergamasco e Bresciano, in zone molto conservative e caratterizzate da una cospicua eredità del Ferro. Quel lignaggio paterno, essendo presente parimenti in area elvetica, è molto probabilmente connesso alla Cultura di La Tène.

Gli influssi liguri, al di là della Liguria, sono forti nel basso Piemonte, Pavese, Novarese, Milanese e Alto Milanese, Lodigiano e si esprimono in elementi mediterranidi e “progressivi” (atlanto-mediterranidi). Anche l’Emilia occidentale risente particolarmente del sostrato ligure. La toponomastica però suggerisce l’esistenza di un substrato di questa tipologia eziandio nel settore genericamente centro-occidentale (Piemonte e Insubria), mediante il classico suffisso -asco/a.

Il modesto apporto nordide deriva certamente da Celti e affini [1] e, soprattutto, dai popoli germanici, quali Goti e Longobardi. Nel caso orientale va registrato l’ingresso di componenti teutoniche recenti e slave. Coi Franchi, nel Medioevo, si verificarono pure immigrazioni di altri elementi nordici come Alemanni, Svevi, Bavari. D’altra parte, lungo l’arco alpino, va ricordata la presenza storica di diverse minoranze di origine transalpina.

Fra i gruppi minoritari storici, allogeni, vanno menzionati i giudei, concentrati a Milano ma un tempo presenti anche nell’ovest e nella Bassa, e gli zingari, in particolare sinti, noti giostrai della Val Padana.

Potremmo dire che l’odierno lombardo etnico, mediamente, è medio-alto, robusto, brachicefalo/mesocefalo, di carnagione chiara, capello castano, occhio intermedio; appartiene, primariamente, al lignaggio dell’aplogruppo del cromosoma Y R1b, indoeuropeo occidentale, e a quello dell’ADN mitocondriale H1 (euro-indigeno, mesolitico), al gruppo sanguigno “universale” 0+ ma pure sensibilmente al gruppo euro-continentale A+, e digerisce certo il lattosio più di molti altri “italiani” (segnatamente meridionali), per via della propria storia. Come si sa, più si va a nord e più il lattosio è tollerato (in “Italia” si digerisce relativamente poco, per via della robusta eredità neolitica e agricola, che nel settore meridionale scolora nel levantinismo recente).

Discreta è la diffusione dell’occhio nordico verde-grigio-azzurro, modesta quella del biondismo puro, che nel nord granlombardo raggiunge il 20%.

Geneticamente parlando, a livello di ADN autosomico, siamo certamente celtici e germanici, ma il grosso è neolitico talché ci collochiamo tra toscani e iberici/francesi meridionali, globalmente. Può sembrare sorprendente, ma la Val Padana, che è la realtà più popolosa della Grande Lombardia, è molto mediterranea occidentale e ha un contributo romano-imperiale, dunque orientale, più importante di quello dell’Iberia, anche se poi questa è certo meno nordica, in senso slavo-germanico. Siamo dunque europei meridionali, o meglio centromeridionali, nonostante il netto influsso antropologico e genetico del Centro Europa, che si fa cospicuo lungo le Alpi.

Quello che, sempre geneticamente, distingue chiaramente la Padania da Toscana/centro, ma soprattutto dal sud, è un maggior aspetto continentale (indoeuropeo e nordico) e un minor contributo levantino, antico e soprattutto recente. Sardegna naturalmente isolata. Non esiste un vero e proprio cline, tra gli “italiani”, anzi, lo stacco che esiste fra Padania e Italia etnica meridionale è una vera e propria frattura. La Toscana è una realtà intermedia, per diversi aspetti più affine, biologicamente, alla Grande Lombardia che all’Italia.

In epoca protostorica la Lombardia è stata dunque modellata, a ovest, dalle culture proto-celtiche di Canegrate e Golasecca (emanazione di quella di Hallstatt), a est da quella di Polada, Fritzens-Sanzeno, Este, senza contare i castellieri nordorientali; a sud da terramare, protovillanoviano, villanoviano, con la Liguria arianizzata dai neo-Liguri [2] e dagli influssi celtici. Questo per citare le civiltà precipue. Nella seconda fase del Ferro, va citata la gallica Cultura di La Tène, e a seguire la romanizzazione, militare a sud del Po, pacifica al di là.

Popoli protostorici degni di nota furono i Liguri, più o meno indoeuropeizzati (fra cui Lebeci, Levi, Marici, Euganei [3] e le varie tribù della Liguria e dell’Emilia occidentale), i Reti (Vennoneti, Camuni, Triumplini, Anauni ecc.), i Celto-Liguri veri e propri (Salassi, Insubri golasecchiani, Leponzi, Orobi, Anamari), i Galli (Insubri, Cenomani, Boi, Lingoni, Senoni, Carni), gli Etruschi della Cispadana. Determinante fu l’apporto romano, soprattutto nelle colonie create grazie alla conquista della Gallia Cisalpina, e poi meritano menzione Goti, Longobardi e in misura minore Franchi e altri Germani. I lombardi sono nati dalla fusione di questi elementi etnici, portata a compimento nell’Alto Medioevo, e in particolar modo dall’incontro fra il substrato mediterraneo e alpino, l’arianizzazione del Ferro [4], la romanizzazione, e il superstrato germanico, per quanto marginale.

I lombardi abitano un territorio mite, temperato, subcontinentale; centromeridionale dal punto di vista geografico, legato alle Alpi e alla Valle del Po, all’Appennino settentrionale, per nulla peninsulare; la vegetazione forestale in area montana è composta da rovere e roverella, mentre in pianura è (o era) tipicamente continentale grazie a frassino, carpino e farnia; la fauna è a metà strada fra quella mediterranea e l’area mitteleuropea; la cucina ha influssi centro-europei [5] perché a base di carne bovina e suina o di cacciagione e selvaggina, latticini, cereali o verdura e frutti classici dell’area europea centrale come verze, patate, cicorie, orzo, segale, frumento, mele, frutta secca, che portano alla creazione di piatti poveri e rustici ma sostanziosi (cazzoeula, busecca, cotoletta, polpette, polente varie e non solo di granturco, pasta all’uovo ripiena, lardo e burro come condimenti, stufati, bolliti, affettati, dolci grassi di ogni tipo ecc.); si beve più vino che birra, naturalmente. Il vino locale non ha nulla da invidiare a quello francese.

Risentiamo molto della romanizzazione, vuoi per la lingua, per la vite, per i castagni o per l’olio dei laghi; vuoi per il cattolicesimo sempre abbastanza fedele a Roma (purtroppo). Siamo chiaramente una terra che ha una discreta componente mediterranea, prevalente lungo le coste liguri, romagnole, istriane. Roma ci ha anche lasciato in eredità, a noi come a mezza Europa, dei geni del Mediterraneo orientale recenti, di epoca imperiale, seppur nulla di paragonabile a quanto accaduto nel centrosud.

A livello di indole e di inclinazione culturale, potremmo dire che i lombardi sono intrisi di mentalità alpina e contadina (padana): grandi lavoratori, testardi, coriacei, sobri, terragni, intraprendenti; aspetti che comportano benefici (lavoro, parsimonia, ordine, disciplina, virtù, efficienza, sviluppo, benessere) ma anche difetti (taccagneria, ottusità, bigottismo, campanilismo, chiusura mentale e grettezza, ignoranza, piccineria, arroganza). Per non parlare della sfumatura cosmopolita di aree come Milano, Torino, Genova, Bologna, dove materialismo e consumismo dominano, spesso in condominio col progressismo, facendosi acerrimi nemici dell’impegno identitario, e dei nostri giovani e giovanissimi traviati.

Ce la prendiamo, a volte, coi sud-italiani e gli altri immigrati, pedine dell’orripilante giuoco mondialista, ma dobbiamo pure riconoscere che la colpa dell’attuale condizione di colonia romana, italiana e multirazziale è anche nostra: una società viene invasa e conquistata dall’esterno anzitutto perché corrotta al suo interno. I granlombardi, soprattutto occidentali, hanno abdicato al ruolo di legittimi padroni della Grande Lombardia, e ora ne pagano le conseguenze. Questo succede, sacrificando l’identitarismo al dio denaro. Poi è chiaro, la condanna nei confronti dell’italianizzazione e della susseguente immigrazione allogena deve essere senza se e senza ma, perché ordita dal sistema, nonostante la complicità dei pescecani locali.

La cosa migliore per i lombardi è riscoprire le proprie origini, ridestare l’identità sopita, ché nulla è davvero perduto, e abbracciare il lombardesimo. Etnonazionalismo e indipendentismo lombardi, perché la nostra patria deve lottare unita per la propria salvazione e la propria libertà. Basta Roma, basta Italia, basta sistema-mondo. Il futuro può essere roseo soltanto se proiettato nella dimensione genuinamente völkisch dell’azione culturale, metapolitica e politica della Grande Lombardia restituita a sé stessa, e affrancata dal giogo cosmopolitico.

Note

[1] Liguri e popoli alpini arianizzati, Veneti, Etruschi di influsso indoeuropeo.

[2] Un termine tratto da Michel Lejeune.

[3] Per taluno popolazione alpina.

[4] Molti non lo sanno, o fingono di non saperlo, ma il celtismo padano-alpino risale al Bronzo, mille anni prima circa dei Galli, grazie alla Cultura di Canegrate, e ai primordi della Scamozzina.

[5] I Longobardi modificarono sensibilmente la dieta cisalpina, romanizzata, che comunque aveva radici celtiche.

Società

Il lombardesimo ha in mente una società che, finalmente, sia specchio fedele della risanata comunità etnica e nazionale lombarda, dove l’individualismo venga sconfitto e trionfi l’identità collettiva dei cisalpini. Una società sganciata dal funereo carrozzone occidentale, trainato dagli Usa, e plasmata dunque dalla sacrale triade di sangue, suolo, spirito, il fondamento di ogni patria virtuosa. La vita sociale dei lombardi non può più essere votata allo sterile feticcio del fatturato, o all’edonismo che tanto ha avvelenato i popoli dell’Europa occidentale, poiché è giunto il momento di rialzarsi, prendere coscienza delle nostre radici e combattere affinché la Grande Lombardia venga liberata, non solo dall’Italia ma pure dal putrescente sistema di “valori” capital-consumistici che ingabbia il nostro continente. Non è più tollerabile che i ritmi dell’esistenza granlombarda vengano scanditi dal denaro, dalla droga del successo, dal nefasto mito del progresso e dall’egoismo che risucchia la comunità maciullandola nel tritacarne globalista: l’Occidente, soprattutto contemporaneo, è la tomba della nostra autoaffermazione, e il tramonto del nazionalismo etnico.

Oggi i diritti sociali, e in un certo qual modo il socialismo depurato dal marxismo, vengono rimpiazzati dalla farsa multicolore dei “diritti civili”, il che contribuisce sciaguratamente alla liquidazione di identità e tradizione, colpendo al cuore le comunità nazionali europee. Una società che non coincide con il concetto di comunità è soltanto una fatiscente impalcatura spolpata dai pescecani dell’affarismo apolide, dai banchieri, dai plutocrati, un vuoto simulacro privato della fisionomia identitaria e tradizionale del popolo indigeno, sempre più angariato dal progressismo, dalle nefandezze liberal, dal relativismo distruttore. Il pensiero lombardista è ostile ad ogni anarco-individualismo, e ad ogni forma di egoismo che isterilisce la natura biologica, antropologica, culturale della nazione padano-alpina, perché purtroppo, in particolare nell’attuale temperie, abbiamo a che fare con una Grande Lombardia mesmerizzata dal demone mondialista, e cioè di quanto ha in non cale i destini dei lombardi e delle lombarde. La nostra salvazione è nel comunitarismo, dunque nell’etnonazionalismo e nell’indipendentismo, e nel recupero della più intima dimensione popolare alberga la rinascita di relazioni e di principi.

La gentilità: alle radici dell’Europa

Ormai il punto di vista lombardista sulla questione religiosa e metafisica è chiaro: la linea ufficiale è l’etno-razionalismo, e cioè l’unione di etnonazionalismo e razionalismo, poiché la patria viene prima di ogni cosa, e la ragione è il faro che ci deve guidare lungo il cammino della nostra esistenza. Il lombardesimo crede fortemente nel valore della natura, della scienza, della razionalità, inquadrando lo spirito come dato umanistico e culturale di un popolo, frutto dell’unione comunitaria delle “anime” degli individui, e concependo una forma di materialismo assennato, al netto delle esagerazioni giacobine, che metta al centro di tutto il valore del sangue e del suolo, dunque di etnia e razza.

Il lombardista reputa la religione fatto alquanto secondario, e non intende perdersi in dispute circa l’aria fritta e il sesso degli angeli. Tendenzialmente, l’ottica è dunque atea e/o agnostica, distaccandosi comunque dalle posizioni squallide e banali del relativismo e del progressismo, ed è chiaro che l’etno-razionalismo riassuma alla perfezione la nostra visione del mondo, laica ma non laicista in senso “acido”. Detto questo, come già avemmo modo di affermare, nulla ci impedisce di simpatizzare per i veri culti tradizionali dell’Europa, che sono quelli pagani, assai preferibili al monoteismo semitico che ha generato lo stesso cristianesimo. Comprendiamo i bisogni spirituali che il popolo lombardo potrebbe avere – per quanto una rieducazione atea sia l’ideale -, e per tale ragione sosteniamo una soluzione gentile.

Il paganesimo ci parla della più intima essenza del nostro continente, dei nostri padri, della genuina identità indoeuropea che anima le nostre nazioni. A differenza del giudeo-cristianesimo, o dell’islam, esso ha una stretta connessione con il sangue e il suolo – e per noi questo elemento è basilare – e ripudia le fole universaliste, egualitariste, umanitariste. Solo il paganesimo può essere un accettabile mezzo spirituale, che assecondi le mire del lombardesimo e contribuisca a rafforzare il credo e la fedeltà alla Grande Lombardia, una terra ariana le cui radici celtiche, gallo-romane e longobarde depongono a favore del culto primigenio.

Siamo d’accordo: la nostra identità è anche cristiana, cattolica, e certamente abbiamo ereditato un importante patrimonio culturale e spirituale dall’evangelizzazione. Tuttavia, il cristianesimo non coincide con gli obiettivi del nazionalismo völkisch, e resta pertanto un corpo estraneo, incistato nell’Europa, volto all’adorazione di un inesistente dio ebreo, del suo sedicente figliuolo e di un mondo profondamente alieno all’ethos indoeuropeo. Per quanto la religione di Cristo sia rimescolata con elementi di origine pagana, è inutile prendersi in giro: essa è un prodotto del Medio Oriente, sorella di giudaismo e maomettismo.

Alla luce della matrice ebraica, della vocazione universalistica, e della natura parassitaria della Chiesa (lo avremo alfine imparato, dopo circa 2.000 anni!) è d’uopo recidere il nefasto legame che ci congiunge ai culti del deserto, anche per via di una morale da masochisti che mortifica la solarità ariana e gli attributi eroici della prisca Europa. Il cristianesimo? Incompatibile con etnonazionalismo e lombardesimo, sebbene radicato nel nostro territorio. Ma, pur non sposando una traiettoria anticristiana in chiave empia, siamo dell’idea che il cattolicesimo vada abbandonato, considerando, oltretutto, la mortale connessione con Roma, sostituendolo, per chi ne senta l’esigenza, col paganesimo. I lombardi possono soddisfare, grazie alla riscoperta e alla rinascenza della gentilità, l’ipotetica sete di spiritualità, e il lombardesimo può contare su di un valido alleato etnicista che non tradisca mai la patria. La religione, mero prodotto culturale dell’uomo, diviene tollerabile soltanto se promuove la coscienza patriottica e comunitaria, e non mostra vincoli di sorta con un pensiero estraneo alla schietta civiltà aria.

Suddivisione cantonale della Grande Lombardia

Credo sia cosa utile e, si spera, gradita presentare la ripartizione amministrativa lombardista della Grande Lombardia indipendente, che come sapete segue criteri cantonali. Scenderemo nel dettaglio, allegando una cartina esplicativa, disegnata da Adalbert Roncari, ed elencando entità cantonali e loro distretti, con tanto di emblemi realizzati dallo stesso Roncari e da una militante, su indicazione di Paolo Sizzi, che qui ci limiteremo a descrivere. Vale la pena ricordare che, secondo il lombardesimo, il concetto di regione non sussiste più, se non per meri fini demografici e statistici, poiché fomite di regionalismi e poiché gli preferiamo, come detto, quello di cantone, sulla base delle vicende storiche delle città padane precipue e dei relativi comitati/contadi. Ma un criterio importante è dato anche dai confini naturali, specie idrografici, impiegati per conferire forma concreta alla suddivisione politica. Illustreremo per prime le entità amministrative della Lombardia etnica, che è il cuore della Lombardia storica, e via via tutte le altre.

Cartina cantonale della Grande Lombardia

Lombardia subalpina (Piemonte, in giallo):

  • Canton Turin (Taurasia), con i distretti di Torino (capoluogo), Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Canton Coni (Bagiennia), con i distretti di Cuneo (capoluogo), Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Canton Lissandria (Ambronia), con i distretti di Alessandria (capoluogo), Asti e Acqui.

Lo stemma di Torino è la bandiera crociata con croce bianca in campo blu, orlata d’oro, risalente all’assedio francese del 1706; quello di Cuneo è l’insegna storica del Marchesato di Saluzzo, d’argento al capo d’azzurro; quello di Alessandria, parimenti, riprende il simbolo del Marchesato e del seguente Ducato del Monferrato, d’argento al capo di rosso.

Lombardia cispadana (Emilia, in rosso):

  • Canton Parma (Marizia Orientale), con i distretti di Parma (capoluogo), Fidenza e Fiorenzuola;
  • Canton Moddena (Boica Occidentale), con i distretti di Modena (capoluogo), Reggio e Carpi;
  • Canton Piasenza (Marizia Occidentale), con i distretti di Piacenza (capoluogo), Voghera e Tortona.

Lo stemma di Parma è la nota bandiera crociata, con croce blu in campo giallo; quello di Modena è il bipartito giallo-blu del comune omonimo; quello di Piacenza è il bipartito rosso-bianco del comune piacentino.

Lombardia transpadana occidentale (Insubria, in azzurro):

  • Canton Milan (Bassa Insubria), con i distretti di Milano (capitale della Lombardia e capoluogo), Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia (capitale morale della Lombardia);
  • Canton Comm (Alta Insubria), con i distretti di Como (capoluogo), Lecco, Lugano e Varese;
  • Canton Noara (Lebecia), con i distretti di Novara (capoluogo), Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano;
  • Canton Locarn (Leponzia), con i distretti di Locarno (capoluogo), Domodossola, Intra e Bellinzona.

Lo stemma di Milano è la Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco; quello di Como lo scaccato bianco-rosso del Seprio; quello di Novara la Croce di San Giovanni Battista, bianca in campo rosso; quello di Locarno il bipartito rosso-blu del Ticino.

Lombardia transpadana orientale (Orobia lato sensu, in verde):

  • Canton Bressa (Alta Cenomania), con i distretti di Brescia (capoluogo), Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Canton Bergom (Orobia), con i distretti di Bergamo (capoluogo), Crema, Clusone e Zogno;
  • Canton Cremona (Bassa Cenomania), con i distretti di Cremona (capoluogo), Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Canton Sondri (Vennonezia), con i distretti di Sondrio (capoluogo), Tirano e Chiavenna.

Lo stemma di Brescia è il bipartito bianco-azzurro del comune omonimo; quello di Bergamo il bipartito d’oro e di rosso del municipio bergomense; quello di Cremona il fasciato bianco-rosso del comune cremonese; quello di Sondrio riprende il bianco e l’azzurro della bandiera comunale sondrasca, inquartandoli.

Veniamo ora ai restanti ambiti cantonali della Grande Lombardia, dopo aver passato in rassegna quelli della Lombardia etnica.

Lombardia genovese (Liguria, in marrone):

  • Canton Sgenoa (Ingaunia), con i distretti di Genova (capoluogo), Savona, Rapallo, La Spezia e Massa;
  • Canton Nizza (Intimilia), con i distretti di Nizza (capoluogo), Sanremo e Imperia.

L’insegna di Genova è la classica Croce di San Giorgio, orlata d’oro; quella di Nizza è un fasciato bianco-azzurro che riprende le onde presenti nel simbolo nizzardo (a partire da quello della Contea omonima), sotto all’aquila rossa e ai tre monti.

Lombardia romagnola (Romagne, in arancione):

  • Canton Bologna (Boica orientale), con i distretti di Bologna (capoluogo), Imola, Ferrara e Comacchio;
  • Canton Ravenna (Romagna), con i distretti di Ravenna (capoluogo), Cesena e Forlì;
  • Canton Rimin (Senonia), con i distretti di Rimini (capoluogo) e Pesaro.

Il simbolo di Bologna è, anche in questo caso, la Croce di San Giorgio, orlata di blu; quello di Ravenna è il troncato giallo-rosso della bandiera tradizionale romagnola; quello di Rimini riprende lo scaccato, parimenti giallo-rosso, del blasone dei Malatesta.

Lombardia tirolese (Rezia cisalpina, in blu):

  • Canton Trent (Anaunia), con i distretti di Trento (capoluogo), Cavalese e Cles;
  • Canton Bolzan (Tirolo), con i distretti di Bolzano (capoluogo), Merano, Bressanone, Brunico e Silandro.

Lo stemma trentino riprende quello del Principato vescovile di Trento, con le tre bande orizzontali porpora-bianco-porpora; quello di Bolzano la bandiera bianco-rosso-bianca a strisce orizzontali del comune di Bolzano, con un cromatismo che rimanda alla Contea del Tirolo.

Lombardia veneta (Veneto, in rosa):

  • Canton Venezzia (Venethia), con i distretti di Venezia (capoluogo), Chioggia, Padova, Treviso e Rovigo;
  • Canton Visenza (Cymbria), con i distretti di Vicenza (capoluogo), Bassano e Schio;
  • Canton Verona (Euganea), con i distretti di Verona (capoluogo), Bussolengo, Legnago e Villafranca;
  • Canton Bellun (Catubrinia), con i distretti di Belluno (capoluogo), Pieve di Cadore, Conegliano e Castelfranco.

Lo stemma di Venezia, tramite le bande orizzontali giallo-rosse, riprende la bandiera storica della Serenissima, caratterizzata soprattutto dal Leone di San Marco; quello di Vicenza allude al blasone a strisce orizzontali giallo-verdi dei da Romano (Ezzelini), signori medievali di Vicenza originari del suo territorio; quello di Verona è la nota bandiera crociata con croce gialla in campo blu; quello di Belluno, di nero al capo d’argento, riprende il blasone dei da Camino, casata trevigiana che esercitò il proprio potere fra Treviso e il Cadore.

Lombardia giuliana (Carnia e Istria, in grigio):

  • Canton Triest (Istria), con i distretti di Trieste (capoluogo), Pola e Fiume;
  • Canton Gorizzia (Julia), con i distretti di Gorizia (capoluogo), Aidussina e Tolmino;
  • Canton Udin (Carnia), con i distretti di Udine (capoluogo), Cividale, Gemona, Cervignano e Tolmezzo;
  • Canton Pordenon (Friuli), con i distretti di Pordenone (capoluogo), Maniago e Portogruaro.

Simbolo di Trieste è lo spiedo da guerra, “alla furlana”, bianco in campo rosso; quello di Gorizia il troncato giallo-azzurro tratto dalla bandiera della provincia; quello di Udine il tradizionale scudo bianco-nero della nobile famiglia dei Savorgnan; quello di Pordenone riprende i colori della bandiera pordenonese, rosso-bianco-rossa a bande verticali.

Presentiamo qui, a mo’ di esempio, l’insegna cantonale del Canton Milan – e Milano è la capitale storica della Lombardia etnica e della Grande Lombardia -, per dare un’idea di come siano stati concepiti gli stemmi. Potete reperire gli altri sul profilo Instagram di Paolo Sizzi.

Canton Milan

Ovviamente, le città alpino-padane hanno anche altri simboli, che non sono stati da noi impiegati poiché gli stemmi dei cantoni devono essere semplici e immediati. Gli emblemi peculiari di ogni centro restano patrimonio comunale, naturalmente inscritto nella più ampia realtà cantonale. Il nostro intento, pensando anche alla stessa suddivisione amministrativa di una Grande Lombardia indipendente, è quello di dare degna rappresentanza a tutte le genti cisalpine, dalla politica alla simbologia, nel novero di un etnostato sicuramente unito, coeso e forte ma aperto a blande forme di federalismo, appunto, cantonale. Nulla di paragonabile alla Confederazione Elvetica, fortunatamente, poiché la Lombardia esiste ed è una nazione, dal Monviso al Nevoso e dal Gottardo al Cimone, mentre la Svizzera vera e propria è giusto un cantone alemanno, per quanto dilatata all’inverosimile sino ad inglobare territori granlombardi.

Famiglia

La famiglia è la cellula base della società e costituisce la concretizzazione dei dettami comunitari, grazie al proseguimento della stirpe. Una stirpe che deve essere endogamica, biologica, europide e, nel nostro caso, lombarda, vera e propria ricchezza per la comunità nazionale. Va da sé che la reale, e unica, famiglia sia quella naturale benedetta dalla tradizione patriarcale, formata da padre (che è un uomo), madre (che è una donna) e possibilmente prole; un nucleo che si regge sui rapporti eterosessuali, monogami ed endogamici, coronati dal matrimonio e dalla sconfitta del calo demografico. Oggi l’armonia famigliare è turbata dalla propaganda arcobaleno, che cerca di affermare le devianze e le pagliacciate omofile, ma anche da una società sempre più consumistica ed edonistica che colpisce la comunità al cuore, demolendo le salutari relazioni tra uomo e donna. Viviamo in un mondo occidentale vieppiù liquido, instabile, informe dove la perversione viene sdoganata come normalità, e natura e tradizione vengono sepolte sotto l’asfissiante coltre del fantomatico progresso.

Occorre preservare e difendere la famiglia, incentivare la natalità, proteggere i legami eterosessuali ed endogamici dalle grinfie del relativismo sradicatore, se davvero vogliamo avere un futuro. Il benessere della nazione passa anche per la famiglia, e non è possibile immaginare un sano sviluppo senza il prosperare del focolare domestico. La propaganda iridata, foriera di aberrazioni contro natura e ostili alle tradizioni, si unisce alle campagne pro aborto, all’esaltazione del divorzio, alla sovversione degli innati ruoli di maschile e femminile e alla sciagurata emancipazione sessuale delle donna, con la quale le femmine occidentali sono state drogate e traviate in nome di una fasulla libertà che demonizza il patriarcato. E proprio il patriarcato è il garante dell’ordine e dell’armonia famigliari, poiché uomo e donna non sono la stessa cosa, sono diversi, e nella loro complementarità sta il successo dei destini comunitari. Condanniamo dunque gli abomini che corrompono la salubre normalità, e fanno violenza sull’innocenza dei bambini, rigettando il ciarpame progressista e riabbracciando la tradizione.

Possiamo non dirci cristiani?

In diversi articoli ho espresso approfonditamente la visione lombardista in materia di religione e di cristianesimo, ma credo non sia peregrino riprendere la questione nello spazio del mercoledì sera. Il lombardesimo critica e condanna la fede in Cristo, giustamente ritenuta un corpo estraneo nel contesto europeo, e ne prende le distanze anche per via della sua concezione del mondo: universalismo, fratellanza globale, umanitarismo, egualitarismo, anti-particolarismo sono tutti quanti principi inconciliabili con la visione völkisch e proprio per tale ragione riteniamo indesiderabile la preservazione della spiritualità giudeo-cristiana. Perché, fra l’altro, c’è anche questo piccolo particolare: il cristianesimo è emanazione del giudaismo. Puerile negarlo.

Alla luce dell’estraneità della suddetta religione nei confronti della più intima essenza del nostro continente, che è indoeuropea, ci poniamo il seguente interrogativo: possiamo non dirci cristiani? La risposta del lombardesimo a tale quesito è del tutto affermativa, dacché pur avendo un’Europa cristianizzata quasi da 2.000 anni resta il fatto incontrovertibile che la storia della civiltà patria si sia evoluta nonostante il cristianesimo, che ha certo monopolizzato e polarizzato le energie, le forze e le risorse degli europei per diversi secoli ma che non ha potuto sopprimere la solarità ariana del continente bianco. La civiltà europide non è cristiana, è indoeuropea, e la religione di Cristo si è potuta insinuare in Europa parassitando, abitando, la stessa gentilità.

Sì, perché se ci pensate il cristianesimo ha assorbito, pervertendoli, svariati elementi culturali e spirituali di matrice pagana, non da ultimo il pensiero filosofico greco, e sulle ali della romanità imperiale è assurto a nuovo assolutismo, senza perdere le proprie radici semitiche. La nostra cultura, è vero, risente del cristianesimo, ed è innegabile che la tradizione dei padri sia stata pure cristiana; bisogna essere onesti, anche alla luce del patrimonio letterario, artistico, morale che ha permeato, e in parte permea ancora, la mentalità europea. Ma nonostante questo non va perso di vista il fatto che senza Indoeuropei, senza Grecia e senza Roma, senza la spiritualità celtica e le spade germaniche o slave lo stesso cristianesimo, cattolico, ortodosso o protestante che sia, non sussisterebbe.

Epperò si tratta, appunto, di un pervertimento delle vitali energie europidi, che nascono pagane, non giudeo-cristiane, e per quanto lo stesso concetto di Europa si associ storicamente a quello della fede in Cristo non si può negare che l’evangelizzazione abbia rappresentato una forza estranea al continente, un prodotto d’importazione di origine mediorientale, ancorché paludato di nobili vesti indogermaniche, concepito da ebrei ellenizzati, e da loro esportato nel cuore dell’Impero romano, e da lì al resto delle plaghe bianche. Inutile e patetico negare l’evidenza, pena contorsioni e salti mortali francamente ridicoli, sebbene animati spesso da buone intenzioni e da elucubrazioni non del tutto campate per aria.

L’Europa incarna un mondo e un concetto troppo sacri per venire insozzati dalla cultura semitica. Se siamo ciò che siamo lo dobbiamo ai padri indoeuropei, alla civiltà dell’antica Grecia, alla romanizzazione (quella positiva, non l’imbastardimento levantineggiante), e dal punto di vista cisalpino al sangue e allo spirito di Liguri, Celti, Etruschi, Reti, Veneti, senza dimenticare l’apporto germanico medievale, primariamente longobardo. Certo, siamo stati cristianizzati, e la tradizione pagana è stata soppiantata – sopravvivendo sotterraneamente – da quella delle sottane pretesche, ma badate bene che il cristianesimo, specie cattolico e ortodosso, ha potuto farsi largo in Europa associandosi alle radici gentili, per sedurre gli indigeni. Sicché la Chiesa ha prosperato per secoli sfruttando il sostrato pagano, e grazie ad esso è rimasta a galla, fra una bufera e l’altra. D’altronde, il cristianesimo è un parassitismo di schemi, modelli e retroterra che cristiani, cioè diversamente giudaici, non sono, e se gli levate l’afflato indoeuropeo il castello crollerebbe.

Da qui il tentativo disperato degli identitari cristiani – che sotto sotto si vergognano della propria fede, altrimenti abbraccerebbero senz’altro la matrice giudaica e levantina, e il Vangelo, abbandonando stucchevoli autoconvincimenti razzistici – di conciliare l’essenza dell’europeismo (etnoculturale) con l’eresia ebraica di Gesù, ma, come ripeto spesso, se devo tollerare il cattolicesimo, oggi peraltro ridotto a costola del mondialismo, per via di echi pagani, faccio prima a recuperare in toto il paganesimo, genuina ed originale espressione dei veri culti tradizionali d’Europa. La gentilità è sepolta, ufficialmente, da circa 2.000 anni? La si può tranquillamente ripristinare. La religione, dopotutto, è fatto secondario, nonché mero prodotto dell’immaginazione umana, non vale la pena lambiccarsi il cervello per essa. Il punto fondamentale è che può essere tollerata e promossa solo ed esclusivamente se non si tramuta in una zavorra antinazionale, come nel caso del cristianesimo.

La Lombardia subalpina (Piemonte)

Drapò del Piemonte

Da lombardista considero come Lombardia occidentale Piemonte e Valle d’Aosta, mentre la Lombardia occidentale moderna sarebbe la cosiddetta Insubria.

‘Piemonte’ è soltanto un coronimo, un nome geografico, non un etnonimo, e il territorio che esso designa, dal Medioevo sino al Risorgimento – cosiddetto -, è stato ritenuto parte della Lombardia storica, assieme alla regione lombarda attuale, Liguria, Emilia, Svizzera “italiana”, con il resto della Padania [1].

Uno dice: pure la Valle d’Aosta? Perché annetterla al Piemonte? Perché rientra nel bacino idrografico del Po, è cisalpina e non è altro che una valle con una cittadina, Aosta; è oltretutto decisamente piemontesizzata, in particolare nel settore meridionale. Se poi ci fate caso, vi sono franco-provenzali, diluiti, sia nell’area aostana che nella provincia torinese, e cioè nelle vallate occidentali, tra cui Susa.

Ridare questo cantone alpino, secolarmente legato alla Subalpina, al dominio francese, che già detiene territori granlombardi come Nizzardo, Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio? Assolutamente no. Aosta rimane con noi, unita al Piemonte perché folle tenerla sotto forma di ente regionale, per di più autonomo, e ce la si può accattivare col blando federalismo cantonale [2]. Sono altresì conscio della forzata “meridionalizzazione” di quella valletta, e infatti penso che il territorio andrebbe fatto respirare, per così dire, a vantaggio degli indigeni, favorendo il rientro delle famiglie ausoniche finite lassù.

La suddivisione amministrativa lombardista della Subalpina sarebbe la seguente:

  • Torino (Taurasia), con Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Cuneo (Bagiennia), con Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Alessandria (Ambronia), con Asti e Acqui [3].

Ricordiamo che il lombardesimo non crede nelle regioni storiche, e infatti propone un modello cantonale. Si parla di Insubria, Orobia, Emilia e Piemonte come mere entità a fini statistici e demografici, senza alcun riconoscimento; per tale ragione abbiamo trattato di Vercelli, Biella e Valsesia a proposito dell’Insubria, perché fra l’altro aree di transizione. Ad ogni buon conto, al Piemonte spettano, come rammentato, anche Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio, lembi di territorio padano, dal dopoguerra sotto la Repubblica Francese, destinati al distretto di Susa.

Classico simbolo subalpino è il Drapò sabaudo, che riprende la Croce di San Giovanni Battista con un tocco di blu Savoia, da abbandonare in favore della bandiera crociata dell’Assedio per Torino, dell’insegna storica del Marchesato di Saluzzo per Cuneo e di quella del Marchesato del Monferrato per Alessandria.

Le minoranze ivi presenti sono la franco-provenzale a nordovest e la walser a nordest; ci sarebbe anche quella occitana nel settore sudoccidentale, ma spesso si tratta di piemontesi che parlano provenzale. L’occitanismo cisalpino è un pretesto per fare gazzarre di sinistra anti-identitarie, condite dal solito cosmopolitismo antifascista. Nell’area meridionale estrema le genti di Taurasia [4] e liguri si sovrappongono, ma l’idioma subalpino viene parlato anche in brandelli di Regione Liguria, che sono parte del territorio geografico padano.

In Piemonte vi sono anche delle residue comunità ebraiche, e così in Emilia, bassa Regione Lombardia e Milano. Eccetto Torino e Milano si tratta ormai di poche unità, spesso mescolate e secolarizzate. Siamo dell’idea, tuttavia, che vadano restituite alla Palestina, come gli zingari all’India.

Nella vera Lombardia occidentale si parla piemontese, che comprende torinese e cuneese (ad ovest), astigiano, langarolo, roerino, monferrino, alessandrino (a sud); vi sono inoltre le loquele influenzate dal lombardo [5] dei linguisti come vercellese, biellese, valsesiano, novarese orientale, lomellino occidentale (ad est), ed infine citiamo il canavesano parlato ad Ivrea e suo territorio (a nord). In Valle d’Aosta c’è il patois valdostano, che è franco-provenzale, e si usa anche il francese (oltre al toscano).

Decenni fa in Piemonte c’era una minoranza che in breve non lo è più stata, vale a dire quella sud-italiana; Torino è diventata la terza città meridionale della Repubblica Italiana, grazie (si fa per dire) all’affarismo e alle politiche economiche targate Valletta-Agnelli che hanno letteralmente farcito di migranti, specie calabresi, la città sabauda. La Subalpina ospita, assieme a Liguria, Insubria-Orobia ed Emilia, ormai milioni di individui di origine ausonica, che hanno comportato con il loro esodo un ovvio sconvolgimento del tessuto etno-sociale originale, pagato, come sempre, dalla povera gente. La colpa a monte non è tanto degli immigrati “meridionali” quanto dei soliti affaristi indigeni che, ieri, sfruttavano i sud-italiani e oggi i moderni migranti. Agli esodi si sono aggregate le mafie che hanno fatto affari d’oro nel triangolo industriale (con la complicità della corruzione di taluni autoctoni, va detto).

Ai simpaticamente detti “terroni”, passatemi il termine scherzoso, si aggiunsero, in misura minore, veneti (soprattutto lagunari), friulani, emiliani orientali, romagnoli, esuli istro-dalmati sfrattati dai criminali titini e ovviamente gli immigrati più recenti provenienti da tutto il globo, che sovente rappresentano un grave problema in termini di delinquenza e degrado. Essere identitari, e indigeni, in Piemonte è ormai una medaglia al valore.

L’autoctono è di stampo celto-ligure, gallo-romano e longobardo. Forte in Piemonte il tipo alpinide, che implica una statura mediamente più bassa, rispetto ai vicini (vedasi le carte antropometriche di Ridolfo Livi), ma più diffuso è anche il tipo ligure, l’atlanto-mediterranide. La parte meridionale della regione subalpina risente molto del sostrato ligure antico e alcune zone che costeggiano il confine meridionale sono un embricarsi di piemontesi e genovesi, in senso storico (pensiamo all’Oltregiogo).

Per converso, il biondismo in area prealpina e alpina, e in zone come il Canavese, è sensibilmente più radicato, rispetto alla Regione Lombardia, grazie ad infiltrazioni nordiche storiche, anche se comunque di statuto periferico.

Le qualità terragne piemontesi sono però in pericolo di vita – se non direttamente trapassate – perché sempre più patrimonio di pochi, annacquate dallo sciagurato Risorgimento e triturate da un mondo industriale, come quello Fiat, orientato decisamente verso gli States più che verso l’Europa.

Il periodo italianista (2014-2021) non ha indebolito la mia convinzione riguardo la questione “meridionale” nella Cisalpina – perché decisamente orientato all’etnofederalismo – ed è poi riemersa con prepotenza nel contesto del ritorno alle origini plumbee: penso che, al pari degli altri immigrati, coloro che qui emigrarono nel dopoguerra dovrebbero rientrare nella terra dei padri, anche perché la Padania occidentale sta nettamente naufragando nel cemento, nell’inquinamento e nella sovrappopolazione. Se si vuole sopravvivere, cari miei, bisogna rivedere un bel po’ di cose.

Va da sé che sarebbe molto più assennato promuovere il rimpatrio degli ausonici piuttosto che continuare ad incentivarne la migrazione, affinché, peraltro, riprendano possesso dei territori sud-italiani abbandonati, oggi trasformati in colonie di alloctoni extraeuropei. Il sud della Repubblica Italiana può rialzarsi soltanto camminando con le proprie gambe, e anche per tale motivo l’indipendenza della Grande Lombardia potrebbe essere una ghiotta occasione di rilancio per l’Ausonia tutta.

Si è voluto creare uno stato tricolore, già di per sé scellerato, sfruttando la condizione depressa delle terre e delle genti sud-italiane col risultato di spalmare in lungo e in largo clientelismo, assistenzialismo, nepotismo, familismo, abusivismo e mafie, e tutto quel bizantinismo tipico di Roma e dintorni. Avrebbe avuto molto più senso settentrionalizzare il centrosud, piuttosto che il contrario. Ma questo non ci importa. Ci sta a cuore, molto più realisticamente, l’autodeterminazione della Lombardia, che deve andare di pari passo con quella dell’Italia etnica, affinché la repubblica venga rottamata e ogni popolo a meridione delle Alpi abbia il proprio etnostato.

Note

[1] In epoca post-carolingia era Lombardia soprattutto la porzione occidentale della Cisalpina.

[2] Fermo restando che l’area andrebbe comunque lombardizzata, per rinsaldare i legami cisalpini e rafforzare la coscienza granlombarda. I franco-provenzali, gli arpitani, sono il frutto di migrazioni medievali, come ogni altra minoranza storica del nostro territorio.

[3] Senza Tortona, destinata al Canton Piacenza, assieme a Voghera.

[4] Impieghiamo il termine ‘Taurasia’ come etnico del Canton Torino, ma può essere sinonimo di ‘Piemonte’. Deriva, ovviamente, dai celto-liguri Taurini, il cui etnonimo riecheggia, secondo alcuni, il celtico tarvos ‘toro’.

[5] Per noi il lombardo coincide col gallo-italico.