Comunità

L’individuo riscopre la sua più intima essenza solo all’interno delle dinamiche comunitarie, poiché la società in cui viviamo deve imparare a ragionare in termini di collettività e non di anarco-individualismo. L’Occidente contemporaneo mira alla distruzione, alla disgregazione, delle comunità nazionali, segnatamente europee, solleticando i più bassi istinti dell’essere umano: materialismo zoologico, consumismo, edonismo, egoismo e affarismo, e tutto quello che contribuisce all’eradicazione del sentimento patriottico e dello spirito d’appartenenza, che sono garanzia di vero benessere per la terra natia. Ed è proprio facendo leva sugli egoismi personali che il destino delle nazioni appare segnato, perché sostituendo il bene comune con i capricci individualistici vengono liquidati i diritti sociali del popolo. Da qui la farsa dei “diritti civili”, e cioè la soddisfazione egocentrica di minoranze fintamente discriminate che nel mondo occidentale divengono lobby intoccabili. Colpire al cuore la comunità significa promuovere la sciagurata mentalità liberale e libertaria – e liberal – che dietro l’odio verso lo Stato cela, in realtà, l’odio per la nazione e l’allergia nei riguardi dei vincoli comunitari.

Il lombardesimo vuole mettere al centro il comunitarismo, dunque l’orgoglio patriottico che, facendosi unione di intenti fra tutti i membri della collettività, esalti la nazione e affronti le sfide della globalizzazione in maniera vincente, condannando lo status quo in nome di sangue, suolo, spirito. Una comunità nazionale è una grande famiglia etnica e culturale, dove ogni individuo può ritrovarsi e godere della più intima dimensione naturale dell’uomo, che è il contatto con la natura; infatti, l’econazionalismo concilia il comunitarismo con l’ambientalismo al fine di preservare l’habitat naturale senza sacrificare il profilo etno-razziale del popolo. Anzi, difendere l’ambiente significa difendere la nazione, e viceversa, perché sangue e suolo sono inscindibili. L’individualismo, invece, incensa acriticamente la presunta realizzazione del singolo, anteponendo le bizze personali all’autoaffermazione patriottica. Da lombardisti non possiamo che stigmatizzare l’individualismo, soprattutto anarcoide, perché al di sopra di ogni cosa sta la nazione, e quindi la comunità etnoculturale. Tutti noi dobbiamo concorrere alla salute – non soltanto materiale – collettiva che passa anche per un robusto identitarismo völkisch.

Le comunità lombarde all’estero

Mercoledì scorso abbiamo passato in rassegna le comunità lombarde storiche presenti all’estero, frutto cioè di fenomeni coloniali medievali e rinascimentali che hanno portato genti lombarde a popolare territori extra-cisalpini. Oggi, invece, parleremo dei recenti fenomeni migratori riguardanti i lombardi, dall’800 in poi, segnatamente per quanto concerne una presa di coscienza identitaria che passa, ad esempio, per la lingua: gallo-italica, veneta, retoromanza. L’orgoglio e il senso d’appartenenza linguistici rappresentano un modo concreto di tramandare la propria identità, in questo caso in contesti esotici, lontano dalla madrepatria alpino-padana. Naturalmente, i lombardi all’estero possono essere benissimo rimescolati con geni indigeni, pur avendo una coscienza lombarda, e questo problema è un ostacolo ad un possibile rientro in patria degli oriundi.

Anni fa carezzavo l’ipotesi di una sorta di scambio, tra lombardi all’estero e allogeni: rimpatriare quest’ultimi richiamando gli emigrati nostrani. Ma la questione, per l’appunto, è delicata perché tali cisalpini all’estero potrebbero presentare commistioni esotiche, minando il concetto fondamentale di sangue. Allo stesso modo, se emigrati o nati all’estero, sono manchevoli del suolo patrio. Circa lo spirito, tuttavia, potrebbe esserci una coscienza identitaria che, nei fatti, si concretizzi grazie all’idioma nativo, e questo è sicuramente un dato positivo. In una Grande Lombardia sovrappopolata, comunque, non ci sarebbe spazio per oriundi rimescolati, perché la priorità è bloccare l’immigrazione e rimpatriare a tappeto. Una situazione diversa sarebbe il compromesso “retico” fra Cisalpina e mondo tedesco: i romanci scendono a sud delle Alpi, mentre i germanofoni cisalpini prendono la via teutonica (qualora non siano disposti a giurare fedeltà alla Grande Lombardia, lasciandosi assimilare).

Venendo al dunque, e considerando i fenomeni migratori che hanno portato alla formazione di comunità lombarde all’estero (tralasciando, dunque, l’emigrazione generica, senza conseguenze identitarie), per quanto concerne i gallo-italici (e cioè i lombardi etnici e gli altri cisalpini della Lombardia etnolinguistica) avremo una presenza sensibile in Sudamerica (Argentina e Brasile) soprattutto per quanto riguarda il lombardo grossomodo regionale, il piemontese e il ligure e l’interessante caso della comunità trentina di Štivor, nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina; in questa circostanza si parla di trentini di tendenze linguistiche venete (Valsugana), mentre altri trentini “lombardo-veneti”, in senso parimenti idiomatico, sono presenti in Brasile. Nell’Agro Pontino laziale, in epoca fascista, si stabilirono, fra le altre, comunità emiliano-romagnole, e così in Sardegna (ferraresi).

I veneti sono senza dubbio la comunità granlombarda all’estero più numerosa, anche perché moltissimi di loro si spostarono internamente alla Cisalpina, verso ovest (triangolo industriale) e verso nord (Alto Adige); da vecchie stime lombardiste, concludemmo che tra veneti puri e “spuri” nella Lombardia etnica ci potessero essere circa un milione di individui, di origine orientale. Orbene, troviamo comunità venete, e venetofone, recenti in Brasile, Argentina, Messico e Romania; in Sudamerica e Centroamerica si costituirono varianti linguistiche venete, come il famoso talian, ma ciò accadde anche in Romania, Tirolo meridionale e – a livello storico – nella Venezia Giulia (vedi Trieste, Gorizia, Istria, nonché Dalmazia e Montenegro) e in alcune località friulane, come Udine. Ma i veneti emigrarono pure, durante il Ventennio, nell’Italia etnica (Toscana e Lazio) e in Sardegna, per via delle vaste opere di bonifica delle paludi. Esistono comunità di lingua veneta eziandio in Australia. Le cifre aumentano se consideriamo, fra gli altri, gli esuli giuliano-dalmati, presenti in maniera nutrita nella stessa Lombardia etnica.

Per quel che riguarda, invece, i retoromanzi (ladini, romanci, friulani), va fatto un discorso analogo a quanto sopra, e specialmente nel caso del Friuli ricordiamo le mete europee (Francia e Belgio, ad esempio), americane (Canada, Usa, Argentina, Brasile), australiane e sudafricane, senza contare i carnici emigrati internamente verso ovest (triangolo industriale) e nell’Italia etnica (Agro Pontino, Roma), o in Sardegna (Arborea, come per i veneti). Per chiudere rammentiamo l’immigrazione interna alla Padania, soprattutto in direzione est-ovest, con veneti, friulani, istro-dalmati, emiliani orientali, romagnoli ed orobici (pensiamo al fenomeno secolare dell’emigrazione bergamasca) verso le più prospere – un tempo – regioni della Grande Lombardia occidentale.

Abbiamo, insomma, considerato non il fenomeno generico dell’emigrazione granlombarda all’estero, bensì l’espatrio con conseguente formazione di comunità padano-alpine in loco, cementate da lingua, usi e costumi, cucina, tradizioni. Resta la problematica etnica: gli individui trasferitisi sono granlombardi? Se di sangue intatto, grazie all’endogamia comunitaria, certamente, per quanto ormai nati all’estero. Seppur integri appaiono però sradicati e un loro eventuale rientro, atto a sostituire gli allogeni rimpatriati, potrebbe rappresentare una grana a livello di densità demografica, che nella Cisalpina raggiunge valori folli. È però chiaro: meglio gli oriundi degli alloctoni, e un parziale ritorno alla madrepatria (dei soggetti etnicamente compatibili) può essere valutato.

La Lombardia cispadana (Emilia)

Torino, Statua al fiume Po

La Lombardia meridionale tradizionale, che comprende parte della Val Padana, riguarda i territori di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. Nella visione lombardista che ho teorizzato, i due Oltrepò, pavese e mantovano, sarebbero da assegnare all’Emilia, per motivi linguistici e geografici.

E, infatti, la vera Lombardia meridionale comprende i territori cispadani sino al Panaro, inclusi gli Oltrepò e il Tortonese. Per ragioni di influssi culturali le aree di Tortona, Voghera, Piacenza e Suzzara sono le prime ad essere associate alla Transpadana; nel caso del Piacentino si tratta soprattutto della parte centrosettentrionale della provincia, perché quella restante è di influenza ligure. Tuttavia, venendo a parlare di suddivisione cantonale della Lombardia etnica, in questo caso della sezione cispadana, anche le zone tendenti alla Liguria rientrano nel dominio etnico.

La Lombardia meridionale tradizionale, in senso allargato, comprende dunque Tortona, Voghera, l’Oltrepò pavese, Piacenza (fino all’angolo nordoccidentale della provincia di Parma, zone come Busseto, Fidenza e Salsomaggiore), Pavia (con la Lomellina, Vigevano, tendenti al Piemonte), Lodi, Cremona, Casalmaggiore, Mantova e l’Oltrepò mantovano. La Lombardia meridionale lombardista, invece, racchiude tutti i territori a sud del Po, sino almeno al confine orientale costituito dal corso del fiume Panaro.

Grande protagonista delle vicende meridionali è il Padus che dà il nome alla Pianura Padana e che costituisce una frontiera naturale, sebbene non troppo severa viste le reciproche influenze, fra Transpadana e Cispadana. Il vero confine meridionale della Grande Lombardia corre lungo lo spartiacque appenninico, che poi coincide con l’isoglossa Massa-Senigallia.

Il termine ‘Padania’, che non è un etnonimo e si presta a mille inflazioni e banalizzazioni politiche, può essere un utile coronimo da impiegare per definire fondamentalmente l’Emilia, che è il fulcro della Val Padana, della pianura dell’Eridano, per dirla in chiave mitologica. Come sappiamo, l’Emilia deve il suo nome latino alla via che collega Piacenza a Rimini, costruita da Marco Emilio Lepido, console romano. ‘Padania’ può comunque essere un sinonimo geografico di Cisalpina.

La Lombardia medievale inglobava tutta la Padania, specie quella occidentale, dunque Insubria, Orobia, Piemonte, Liguria ed Emilia (basti pensare alla città di Reggio, che prima della sciagurata unificazione tricolore si chiamava Reggio di Lombardia), e il lombardesimo ricalca pertanto l’etnogenesi medievale del popolo lombardo, a partire dal contesto etnico, cioè del bacino padano. Oggi, conservare le specificità regionali classiche appare poco utile, poiché fiacca il nazionalismo lombardo; per tale motivo puntiamo sui cantoni, dunque sui contadi storici, anche perché sovente i toponimi delle regioni sono privi di significato etnoculturale (vedasi ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’).

Ci sarebbe poi la Romagna, storicamente distinta dall’Emilia ma non certo remota da essa, soprattutto pensando a Bologna e Ferrara (che il lombardesimo è propenso ad associare alla prima). Linguisticamente si può dire che vi sia un continuum tra Emilia orientale e Romagna, ma la tendenza si può registrare a partire dall’area orientale del Parmense, dove non per caso principia l’assenza delle vocali turbate. C’è pure da aggiungere che diversi linguisti parlano di dialetti emiliano-romagnoli.

A livello miseramente amministrativo, allo stato dell’arte, la Lombardia meridionale comprende le province di Pavia (contigua a quella di Lodi, città fortemente legata alla capitale longobarda, alleata fedele del Barbarossa e in lotta con Milano), Cremona (a cui va tolto il Cremasco ma non l’area di Soresina) e Mantova (a cui andrebbe Casalmaggiore, oggi sotto Cremona e senza Suzzara e l’Oltrepò).

In termini lombardisti, invece, la suddivisione amministrativa ideale della Cispadana ragionata, in cantoni e distretti, sarebbe la seguente:

  • Parma (Marizia Orientale), con Fidenza e Fiorenzuola;
  • Modena (Boica occidentale), con Reggio e Carpi;
  • Piacenza (Marizia Occidentale), con Voghera e Tortona.

La sciocca distinzione tra (Regione) Lombardia ed Emilia banalizza la vera accezione etnica di Lombardia, che riguarda anche il territorio piemontese. Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, tradizionalmente meridionali – ma non cispadane -, appartengono a domini distinti: Pavia e Lodi al contesto insubrico, Cremona e Mantova a quello orobico, anche se zone di transizione (eccetto il Lodigiano).

Insegne cantonali di queste province sono la croce parmense blu su sfondo giallo, il bipartito giallo-blu modenese e il bipartito rosso-bianco piacentino. Menzioniamo, comunque, anche la Croce di San Giovanni Battista pavese, lo scudo crociato giallo-rosso lodigiano e la Croce di San Giorgio (con aquile imperiali nere) mantovana.

La Bassa della Regione Lombardia è area ibrida, per così dire, e vi sono influenze reciproche con l’Emilia. Il Po non è un’opinione, e viene adottato anche da noi lombardisti come confine fra Transpadana e Cispadana, ma ribadiamo che entrambe, almeno fino al Panaro nel caso meridionale, sono Lombardia etnica.

I dialetti della famiglia linguistica lombarda, cioè gallo-italica, parlati in queste terre sono quelli classicamente considerati emiliani: tortonese, oltrepadano, piacentino, parmigiano, reggiano, modenese a cui va senz’altro aggiunto il mantovano, specie dell’area oltrepadana. Il pavese è ibrido insubrico-emiliano e il cremonese orobico-emiliano , mentre il lodigiano è piuttosto cisabduano [1]. L’area casalasco-viadanese è mantovana, ricordiamo.

Gli influssi milanesi sul Pavese sono assai forti e lo orientano più verso Milano che verso l’Emilia, e infatti il territorio di Pavia (senza Lomellina e Oltrepò) rientra nel Canton Milano (Bassa Insubria). E, allo stesso modo, anche il Lodigiano è milanese, mentre Cremonese e Mantovano (senza Oltrepò) si associano nel Canton Cremona (Bassa Cenomania).

Tortonese, oltrepadano e piacentino, invece, hanno influssi transpadani che si notano bene, ad esempio, nella presenza delle vocali turbate di origine celto-germanica œu e u e di altri fenomeni, anche a livello di lessico e di costrutti fraseologici. Ma rimangono parlate cispadane, “emiliane”.

In fondo, queste aree, come il resto di Lombardia odierna ed Emilia, hanno conosciuto le medesime popolazioni: Liguri, Celto-Liguri, Galli, Romani, Longobardi (giunti tardi nel Bolognese e nel Ferrarese).

Quel che separa Transpadana e Cispadana, oltre alla geografia, è l’antica impronta etnoculturale emiliana, di tendenza italica, villanoviana e dai più forti influssi etruschi (vedasi l’Etruria padana), che oltre il Po giungevano sino a Mantova (ivi si trovava l’emporio del Forcello) [2]. Ricordiamo, ad ogni modo, gli Anamari, o Anari, tra Piacenza e Parma, popolazione forse celto-ligure.

Nella Regione Lombardia meridionale trovarono spazio Liguri (tra cui Levi e Marici ad occidente, ma anche a sudovest del Fiume), Celto-Liguri, Galli (Insubri, Boi, Cenomani) ed alcuni generici influssi proto-italici, villanoviani e quindi etruschi, soprattutto a Cremona e Mantova.

Forte la romanizzazione delle terre meridionali, come dimostrano centuriazioni e rete viaria, e le svariate colonie dedotte (tra cui Cremona, Pavia, Lodi, Piacenza, Fidenza ad ovest). La colonizzazione romana fu fitta e portò, sicuramente, ad un drastico ridimensionamento dell’elemento gallico, anche se la romanofilia esagera palesemente nel cianciare di massacri ai danni dei nativi. Peraltro, un bel termine per definire la Lombardia etnica meridionale potrebbe essere ‘Boica’ [3].

Gli Etruschi, spesso inquadrati come invasori levantini, erano il risultato della sedimentazione locale di più popoli: autoctoni mediterranei [4], “Italici” indoeuropei (protovillanoviani e villanoviani) e, forse, una tarda classe dominante di egeo-anatolici [5]. Stando ai più moderni studi genetici, pare tuttavia che gli Etruschi fossero geneticamente indistinguibili dai Latini, senza apporti levantini sospetti. Fu la romanizzazione a recare geni recenti originari del Mediterraneo orientale nelle aree tirreniche, andando ad intaccare il genoma indigeno.

I Liguri, invece, erano prevalentemente autoctoni mediterranei, sebbene fortemente indoeuropeizzati (celtizzati, in particolar modo). In antropologia fisica, il cosiddetto tipo ligure è l’atlanto-mediterranide, ossia un fenotipo mediterraneo fortemente dolicocefalo, alto, robusto e più chiaro di quello basico, progressivo per usare un termine caro a certi ambienti antropogenetici amatoriali.

I Longobardi fecero la loro parte, fino a Spilamberto segnatamente, e colonizzarono sensibilmente l’area appenninica tosco-padana (si può rintracciare un curioso picco di biondismo nella Lunigiana settentrionale).

La Lombardia meridionale presenta un aspetto sub-razziale atlanto-mediterranide, alpinide o padanide, ossia, come abbiamo già visto, risultante dall’incrocio tra tipo ligure e quello adriatico (dinaride). Un’area certamente più mediterranea della Lombardia transpadana. Anche gli Etruschi tardi, i coloni romani e i Bizantini hanno contribuito, e lo si vede nella componente genetica anatolico-caucasica che si fa più marcata varcando il Po a sudest (specie se si parla della zona ferrarese). Si tratta comunque di componenti secondarie, non di ceppo predominante. Geneticamente parlando, la Padania si colloca globalmente nell’Europa sudoccidentale [6], assieme a Iberia e Occitania, a differenza dell’Italia etnica che ha un maggiore input sudorientale, in particolar modo nel meridione.

La Lombardia amministrativa di mezzogiorno, per così dire, fa degnamente parte della Lombardia transpadana, anche per via dei determinanti influssi signorili milanesi. Zone come Pavia, Lodi e Cremona hanno sempre orbitato attorno alla capitale lombarda, e questo si fa sentire parimenti a livello linguistico ed etnico.

Del resto, pure una città come Piacenza è decisamente più legata a Milano che a Bologna, e le influenze ambrosiane arrivano sino ad Alessandria e Vercelli, in Piemonte, i cui stemmi sono copia di quello milanese, marca della Lega Lombarda come tutti gli altri scudi crociati, col Sangiorgio, della Cisalpina. Ma eguale importanza ricopre il negativo di tale vessillo, che è la croce ghibellina di San Giovanni Battista, forte in Piemonte, Insubria, Ticino, e presente qua e là in tutta la Padania.

Una mentalità “lombarda” imprenditoriale, industriale, liberale (ma non lo dico certo con vanto, anzi) contraddistingue l’Emilia nordoccidentale nei confronti del resto della regione e la accosta proprio alla Regione Lombardia meridionale, tanto che per certi versi, come abbiamo visto, può esserne una sua propaggine.

Il mondo emiliano stereotipato è fatto di tortellini, salumi, formaggi, motori, vino, cantautori, spirito dissacrante, comunismo e sindacalismo, e capite bene che una città come Piacenza tenda a sottrarsi da questo contesto, virando sul mondo transpadano.

Ma da un punto di vista linguistico, e nonostante i ben noti influssi, il piacentino è certamente più emiliano che cisabduano, al pari di tortonese e oltrepadano, e così a livello geografico essendo cispadano. Per questo manteniamo, come confine amministrativo cantonale, il grande fiume delle pianure.

Possiamo dire che esista una Lombardia al di qua del Po e una al di là, adottando il punto di vista milanese [7], ma sono entrambe parte del medesimo contesto etnico, e della medesima nazione, la Grande Lombardia.

Note

[1] Alcuni dialettologi affermano l’esistenza di un lombardo della bassa Regione Lombardia, da Pavia a Mantova, ma è soltanto una suddivisione di comodo.

[2] A sud del Po, civiltà quali le terramare (che avevano comunque propaggini transpadane), il protovillanoviano e il villanoviano si inscrivono, tradizionalmente, nel contesto italico ed etrusco, dove per ‘italico’ si intende comunque una fase protostorica ed embrionale, non storica.

[3] I Galli Boi devono il loro etnico o ad una derivazione “bovina” oppure ad una guerriera; nel secondo caso, vedi l’ipotesi formulata da Pokorny. In rete si parla del celtico bogos ‘distruggere’, ma non ho trovato validi riferimenti al riguardo.

[4] Imparentati coi Reti e locutori dell’etrusco, fossile linguistico preindoeuropeo.

[5] Vedasi anche la fase finale orientalizzante della civiltà etrusca.

[6] Si consideri, comunque sia, che più si procede verso nord e verso est, nel contesto padano-alpino, e più aumenta la tendenza centro-europea.

[7] I concetti correnti di Transpadana e Cispadana sono, in realtà, il frutto della visione romana.

Tradizione

Dal rispetto per identità e tradizione passano la salute e la forza di una comunità nazionale, orgogliosa delle proprie radici e dei propri padri. Se l’identità riassume i valori fondamentali veicolati dal sacrale binomio etno-razziale di sangue e suolo, ecco che la tradizione rappresenta i principi e gli ideali dello spirito, non solo religiosi ma anche culturali, civili, folclorici. Naturalmente, parlando di tradizione, non viene contemplata la fede cristiana che, per quanto radicata nel territorio lombardo ed europeo, è comunque frutto d’importazione del monoteismo desertico targato Abramo, Isacco e Giacobbe, e per tale ragione il lombardesimo rifiuta le fantomatiche origini giudeo-cristiane del continente. Il filone tradizionale dello spirito europeo è quello ariano, giunto sino a noi nonostante la perversione operata dal credo in Cristo, ed è il nostro vero lignaggio, ciò su cui si fonda la civiltà dell’Europa; d’altra parte, se il cristianesimo può avere un fascino è solo ed esclusivamente per la patina indoeuropea, non certo per il grosso semitico di quella religione. Non possiamo non dirci cristiani? Una colossale frottola: casomai, non possiamo non dirci figli della solare eredità che nasce nell’Est steppico, grazie alla quale tutto acquisisce un significato unico, benedetto dall’arianesimo.

La nazione lombarda ha bisogno della tradizione, a patto che non esondi, come detto, nel ciarpame clericale. Il cristianesimo, come ebraismo e islam, rappresenta un corpo estraneo incistato nel continente europeo, e va rigettato. Esso è incompatibile con la genuina civiltà europide, ed è un ostacolo lungo la via dell’autoaffermazione identitaria delle reali nazioni bianche, tra cui la stessa Grande Lombardia. Se da un lato il credo religioso è fatto intimo e privato, dall’altro deve essere accettato dal lombardesimo e, quindi, dal nazionalismo etnico; in tal senso solo la spiritualità pagana di origine ariana può essere tollerata appieno, perché compatibile con lo spirito (e con il sangue) europeo e mezzo che veicola i valori völkisch, a cui il pensiero lombardista si ispira. Il monoteismo abramitico, oltre ad essere alieno nei riguardi del cuore della nostra identità, incarna disvalori universalistici, e cioè la sovversione che alimenta anche il mondialismo: il dio semitico non è altro che il prodotto di un globalismo avanti lettera, acerrimo nemico del sangue, del suolo e dello spirito delle nazioni europidi. Pertanto, la tradizione contemplata dal lombardesimo è di ispirazione pagana, e soprattutto votata alla salvaguardia dei classici principi tradizionali del comunitarismo nostrano di ogni tempo.

Le comunità storiche lombarde all’estero

A volte mi si chiede un parere circa quelle comunità linguistiche storiche granlombarde ubicate al di fuori della Grande Lombardia, frutto di emigrazioni antiche. In modo particolare, mi viene posta la domanda a proposito della loro lombardità, e cioè se possano essere ritenute al pari delle popolazioni indigene della Padania. Considerando che stiamo parlando di comunità radicate da secoli in terre straniere e che, dunque, è stato inevitabile un rimescolamento con le popolazioni locali, direi che la mia risposta al quesito è tendenzialmente negativa, anche perché si tratta dei discendenti di individui sradicati secoli fa dalla Lombardia storica. Sarebbe perciò alquanto azzardato ritenere gli eredi delle colonie storiche lombardi al pari dei lombardi.

Ma quali sarebbero, oltretutto, queste colonie lombarde antiche all’estero? Presto detto: i lombardi di Basilicata (Potenza) e Sicilia (Enna, Messina, Catania, Siracusa); i liguri coloniali, tabarchini, di Sardegna (Carloforte e Calasetta), Corsica (Bonifacio) e Monaco; i veneti coloniali della Venezia Giulia storica (Istria, Quarnaro, Carso), della Dalmazia (Zara, Spalato, Sebenico, Ragusa) e dell’Albania Veneta (tra Montenegro e Albania). Si prendono qui in considerazione gli spostamenti medievali e rinascimentali, non recenti, frutto di sollecitazioni politiche, come nel caso dei lombardi dell’Italia meridionale, chiamati da Normanni e Svevi per rafforzare la latinità di aree ibride; di fenomeni coloniali legati all’espansionismo marinaro di Genova e Venezia; di altri tipi di trasferimento, come nel caso dei pescatori liguri – dapprima stanziati a Tabarca, in Tunisia – di Sardegna e dei coloni sempre liguri giunti in territorio monegasco.

Quelle suesposte sono comunità sicuramente fiaccate dal tempo ma ancora pressoché presenti. Parlando di domini marittimi, genovese e veneziano, c’è da dire che diverse comunità storiche sparse per il Mediterraneo sono oggi scomparse, assieme naturalmente alle lingue da esse impiegate. Per tale motivo si tratta di ligure e di veneto coloniali, poiché idiomi esportati dai colonizzatori e trapiantati in territori stranieri. Nel caso del gallo-italico (o lombardo, secondo l’accezione medievale del termine che riguardava l’intera Cisalpina, e che include il ligure) potremmo anche citare Briga, Gondo e Bivio (Confederazione Elvetica), un tempo linguisticamente lombardi; le isole liguri, cioè ancora galloromanze cisalpine, presenti nel Nizzardo (ancor oggi sopravvivono a Briga e Tenda, ma come naturale estensione del Genovesato) e in Corsica (Ajaccio e Calvi), rammentando che per taluni studiosi l’influsso idiomatico genovese si estendeva sino al nord della Sardegna; San Marino, che è un brandello di Romagna, anche a livello di loquela; l’area anconetana del Conero, dove vi è una piccola sacca gallo-italica, exclave in contrada italo-romanza.

In quasi tutti gli ultimi casi, tuttavia, non si può parlare esattamente di colonie storiche lombarde, bensì di territori un tempo lombardi oggi appannaggio di altre nazionalità. Per meri motivi geografici, come lombardisti, escludiamo pure quegli ambiti etnolinguisticamente granlombardi che però ricadono in domini geografici differenti: è il caso di Madesimo, di Livigno, di San Candido e di Tarvisio, e così le citate Briga e Bivio, svizzere, comunque ormai prive di viva lombardità. Ricordiamo, eziandio, che il quadro cisalpino include, anche in contesto di parlate, settori di confine con l’Italia: la provincia di Massa-Carrara (soprattutto la Lunigiana), alcune frazioni montane del Pistoiese, la Romagna toscana, l’intera Valmarecchia e, naturalmente, l’ager Gallicus (Pesaro-Urbino, fino a Senigallia, antica capitale senone), che è fascia di transizione gallo-picena.

Giustamente, nella coscienza storica e linguistica, le colonie gallo-italiche di cui discutiamo vengono chiamate lombarde (andrebbe fatto anche per quelle liguri di Sardegna, Corsica, Nizzardo; il caso veneto, come sappiamo, è diverso), poiché la Lombardia medievale, cioè quella genuina, riguardava l’intero “nord”, segnatamente la sua porzione occidentale. Si prendano in esame i lombardi di Lucania e Sicilia: tale etnonimo designava coloni di estrazione piemontese, ligure ed emiliana, dunque storicamente lombarda, e questo fa mirabilmente capire come il dominio grande-lombardo concerna tutta la Padania.

Tratteremo delle migrazioni lombarde moderne a parte, e tornando al quesito d’apertura, ribadiamo la risposta lombardista: queste colonie, sopravvissute – inevitabilmente “contaminate” – sino ad oggi, possono effettivamente dirsi appieno lombarde, dunque paragonabili all’antica madrepatria? Riteniamo di no, soprattutto venendo a parlare dei “lombardi” dell’Italia etnica meridionale, rimescolati con geni sud-italiani. È chiaro che un lombardo è chi ha genetica lombarda, e nel caso delle colonie ciò diventa proibitivo. I tabarchini di Sardegna, fondamentalmente, sono liguri anche in termini genetici, ma hanno comunque assorbito una piccola percentuale sarda. Consideriamo altresì che un individuo è pienamente lombardo se radicato in Lombardia almeno dal 1900, e cresciuto in un ambiente culturale cisalpino. Insomma, sangue, suolo e spirito, come sempre. Guardiamo con curiosità all’espansione medievale e rinascimentale dei granlombardi, ma i loro eredi non possono dirsi compiutamente granlombardi.

La Lombardia transpadana orientale (Orobia)

Swastika camuno allineato

La Lombardia transpadana orientale (volgarmente detta Orobia in contrapposizione all’Insubria, ma l’Orobia vera e propria sarebbe il solo Bergamasco) comprende i territori transabduani, alpini (retici) e di transizione fra Transpadana e Cispadana (Emilia). La fascia meridionale lombarda verrà comunque trattata a parte.

A differenza della Lombardia transpadana occidentale, l’Insubria, non ha mai avuto un grande centro catalizzatore che esercitasse anche una forma di koinè linguistica e culturale e questo perché la comunemente chiamata Lombardia orientale è un territorio composito e non omogeneo: geograficamente parlando, troviamo una Valtellina linguisticamente insubrica (quantomeno ad ovest) assieme al Grigioni lombardofono [1], un nerbo lombardo orientale bergamasco-bresciano, e una fascia di transizione meridionale.

Il nome convenzionale di ‘Orobia’ [2] può essere quindi usato solo per comodità; trattare di Lombardia transpadana (o transabduana) orientale è certamente meglio (in epoca italianista teorizzai un ‘Insubria orientale’, considerando l’inedita denominazione che mi venne in mente sulla scorta della lombardofonia tradizionale, ma ingenererebbe soltanto equivoci).

La Lombardia orientale, qui designata, comprende i territori di Sondrio, Valtellina, Bregaglia, Poschiavo, Bergamo e tutta la sua Val San Martino, Camunia, Brescia, Giudicarie, Riva del Garda [3], la sponda occidentale del Benaco, Crema, Cremona, Mantova. Alcune porziuncole di territorio come la Val di Lei (Madesimo), Livigno e l’Oltremincio sarebbero geograficamente extra-lombarde (in senso etnico), così come l’Oltrepò mantovano andrebbe considerato Emilia, sulla base dei confini naturali.

La Valtellina, seppur di idioma insubrico, non è certo centrale, è retica e orientale, e dunque va considerata assieme a Bergamo e Brescia, che sarebbero un po’ il fulcro della regione (le Alpi Orobie, peraltro, sono anche valtellinesi); Cremona è linguisticamente di transizione fra lombardo orientale e meridionale ma è al di qua del Po quanto Mantova, linguisticamente emiliana. L’alto Mantovano è invece orientale anche a livello di dialetto [4], così come il Trentino occidentale.

La parte meridionale della Regione Lombardia (Pavia, Cremona, Mantovano centrosud), assieme a Tortona, Voghera e Piacenza, che io colloco in Emilia, verranno trattate in un altro articolo, col resto della Lombardia cispadana, per quanto la Bassa occidentale sia considerabile Insubria e quella orientale Orobia in senso esteso.

La suddivisione amministrativa, cantonale e distrettuale, di queste terre potrebbe essere la seguente:

  • Brescia (Alta Cenomania), con Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Bergamo (Orobia), con Crema, Clusone e Zogno;
  • Cremona (Bassa Cenomania), con Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Sondrio (Vennonezia), con Tirano e Chiavenna.

Parliamo della provincia di Sondrio (con il Grigioni lombardo, ma senza Mesolcina che è ticinese); della provincia di Bergamo (con tutta la Val San Martino che in parte, dal 1992, è sotto Lecco e il Cremasco); della provincia di Brescia (con l’alto Mantovano ma senza l’estremo sud); di quelle di Cremona (senza Cremasco ma con l’estremo sud bresciano) e di Mantova (senza la zona settentrionale, l’Oltremincio e l’Oltrepò). Il cantone bresciano ingloba il Trentino occidentale, lombardofono, delimitato ad est dal Sarca-Mincio.

Gli stemmi cantonali si rifanno a quelli dei capoluoghi, e dunque l’inquartato bianco-azzurro per Sondrio (anche se esiste un vessillo storico valtellinese a strisce verticali bianche e rosse), il bipartito rosso-dorato per Bergamo, il bipartito bianco-azzurro per Brescia, il fasciato bianco-rosso per Cremona (in antico, il ghibellino capoluogo cremonese optava per la Croce di San Giovanni Battista).

La cosiddetta “rosa camuna” invece, ma non quella dell’attuale Regione Lombardia bensì lo swastika delle incisioni rupestri, è uno stemma che può designare, globalmente, l’Orobia in senso lato, anche se, come sapete, noi lombardisti non crediamo nelle classiche regioni, per quanto confortate da elementi storici. Meglio la soluzione cantonale che va a ricalcare i contadi medievali, spesso dalle radici romane.

La Lombardia etnica orientale, quindi, è costituita da un nucleo orobico-cenomane linguisticamente orientale, da un nord retico linguisticamente occidentale, o alpino, (eccetto le vallate orientali) e da un sud padano-cenomane linguisticamente di transizione, sebbene il dialetto mantovano di transizione non sia essendo tradizionalmente considerato emiliano.

I dialetti genuinamente orientali, da un punto di vista idiomatico, sono bergamasco, cremasco, alto mantovano, bresciano, camuno, trentino occidentale, parlate gardesane [5] e il famoso gaì, il gergo dei pastori bergamaschi e camuni.

Il valtellinese, con bormino, livignasco, chiavennasco e il dialetto del Grigioni lombardo, sono occidentali (o in taluni casi alpini, ma è quasi la stessa cosa); il cremonese è a cavallo tra lombardo classico ed emiliano; il mantovano è considerato emiliano.

Non esiste alcuna koinè orobica, nonostante il bergamasco sia per svariati motivi il dialetto lombardo orientale più prestigioso e noto, nonché parodiato. Si pensi, infatti, che nel ‘500 era riconosciuto dagli umanisti come uno dei principali volgari della cosiddetta Italia, senza dimenticare tutta la letteratura che ruota attorno a Bergamo, dalla Commedia dell’Arte alle traduzioni di testi toscani famosi, fino ai burattini e ad Olmi, passando per i saggi gallo-italici del Biondelli [6].

La Lombardia orientale insomma, a differenza di quella occidentale classica, non è molto omogenea. La Valtellina, che comprende anche il Grigioni lombardo, etnicamente è celto-retica e linguisticamente alpino-occidentale; così anche le Orobie e la Val Camonica soprattutto, sebbene esse siano orientali linguisticamente, pur risentendo del sostrato retico (pensate alle famose sorde aspirate); Bergamo e il Bergamasco occidentale facevano parte della Cultura di Golasecca e hanno quindi radici proto-celtiche (orobiche) ed insubriche (in senso gallico), ma il dialetto è orientale (in questo gli influssi veneti furono decisivi) quanto nel Bresciano e nei territori che gli gravitano attorno (Giudicarie, Garda, la Bassa, l’alto Mantovano); questi ultimi sono etnicamente cenomani allo stesso modo di Cremona e Mantova, e pure di Trento e Verona, solo che Cremona è “ibrida”, Mantova è padana, Trento sta bene col Tirolo storico, quello meridionale, e Verona col Veneto. Non dimentichiamoci poi dei forti influssi etruschi nella Lombardia etnica sudorientale.

Come ben sappiamo buona parte della Lombardia orientale finì nelle mani di Venezia e della Serenissima ma questo incise solo linguisticamente e in minima parte culturalmente; nonostante una porzione di questa regione lombarda, già in epoca romana, venisse associata alla Venetia, popoli venetici qui non ce ne furono, poiché gli Euganei delle valli bresciane erano reto-liguri. Gli influssi veneti sono sensibili nell’area bresciana orientale ma per questioni confinarie. D’altra parte, l’influsso è reciproco, e la stessa Verona nel Medioevo presentava aspetto idiomatico gallo-italico [7].

Riconosco il buongoverno cinque-secentesco di San Marco, rispetto al marasma franco-spagnolo che imperversava ad ovest, ma questo non giustifica nella maniera più assoluta le patetiche rivendicazioni dei venetisti che si aggrappano a tre secoli di politica glissando spaventosamente sulla vera storia delle nostre terre, che è storia eminentemente lombarda, come lombarda è la lingua e lombarda è l’etnia, plasmata da Celto-Liguri e Longobardi, comprendendo la romanizzazione su sostrato gallico. Piuttosto, parlando di Lombardia transpadana orientale, va riconosciuto il contributo tirrenico che era retico a nord ed etrusco a sud.

Il Veneto comprende i veneti e non gli ex sudditi della Repubblica di San Marco; pertanto lombardi etnici orientali, friulani, ladini, istriani, dalmati e abitanti vari del Mediterraneo orientale, se indigeni, non sono veneti. Non ci vuol poi molto a capirlo, non parlano nemmeno la lingua veneta.

A livello fenotipico i lombardi orientali sono essenzialmente alpinidi, con forti influssi dinaridi; trova spazio anche il consueto tipo padano del Biasutti (dinaride + atlanto-mediterranide) e qualche spruzzata nordide soprattutto lungo l’arco alpino. In Lombardia il tipo nordico è prevalentemente periferico, dunque miscelato con elementi autoctoni (nordo-mediterranide, alpino-nordide/sub-nordide, dinaro-nordide/noride).

La Lombardia etnica orientale fu Austria longobarda, ariana – se non sotto sotto pagana -, bellicosa e assai tradizionalista rispetto alla Neustria occidentale monarchica e cattolica, orbitante attorno a Pavia. Questo ha sicuramente inciso sui nostri popoli, anche a livello somatico e caratteriale.

Nonostante l’est, da un punto di vista economico e sociale, sia storicamente rimasto indietro, rispetto all’ovest, tra Ottocento e metà Novecento, il divario è stato ampiamente colmato e purtroppo il progresso ha avuto le sue velenose ricadute: immigrati da ogni dove, quartieri cittadini ridotti a ghetti, forte “meridionalizzazione”. La situazione si fa davvero drammatica soprattutto a Brescia e dintorni.

Se poi ci aggiungiamo l’atavico bigottismo cattolico, lo strapotere delle curie e la nefanda politica di radice democristiana, unita alla cialtroneria del fumo negli occhi verde, il quadro è ancor meglio definito. Un caso l’accoppiata Roncalli-Montini?

La nostra terra non è sicuramente rimescolata quanto il Piemonte e la povera Insubria, e lo stesso vale per la zona meridionale della Regione Lombardia, perché lo sviluppo ha attecchito più tardi e identità e tradizione, custodite dalle origini contadine, sono dure a morire, seppur inquinate da cattolicesimo e socialismo marxista.

La Lombardia transpadana orientale deve fare del proprio conservatorismo (non cristiano o reazionario) il punto di forza che aiuti la Cisalpina occidentale tutta a sbarazzarsi del laido disinteresse per le proprie radici e la propria storia e cultura.

Noi orientali abbiamo moltissimo da dare in termini di forze fresche, dure e pure, decise, determinate, pronte a correre in soccorso dei fratelli occidentali proprio come accadde nella battaglia di Legnano, in cui il nerbo guerriero era costituito in maniera consistente dalla fanteria transabduana.

D’altro canto, in tutta la Lombardia, è forte il campanilismo e la rivalità provinciale (Bergamo e Brescia, Monza e Como, Varese e Como, Cremona e Piacenza, e tutti contro Milano!) ma oggi come oggi può avere un senso solo a livello di intrattenimento, segnatamente sportivo.

Oggi occorre riscoprirsi lombardi, ed europidi naturalmente, per fare fronte comune contro il nemico mortale delle nostre terre, che è la globalizzazione, la quale si serve dell’Italia e di Roma per distruggere l’identità indigena.

Note

[1] Secondo alcuni linguisti nella Lombardia settentrionale si parla lombardo alpino, più che insubrico, ma si tratta di sottofamiglie affini.

[2] ‘Orobia’, nome coniato dagli umanisti, trae origine dai celto-liguri Orumbovii, popolo antico il cui etnico potrebbe, come viene suggerito da Delamarre, essere ricondotto al sostantivo plurale gallico orbioi significante ‘eredi’. Vedi qui.

[3] La lombardofonia trentina, teoricamente, riguarderebbe un territorio più esteso, in senso settentrionale, anche se linguisticamente in regresso.

[4] Usiamo il termine ‘dialetto’ inteso come variante, vernacolo, della famiglia linguistica lombarda (gallo-italica), che vede nel milanese il lombardo per antonomasia. Ma, si capisce, anche i “dialetti” sono lingue.

[5] Esiste un influsso di tipo bresciano anche lungo la sponda orientale del Garda.

[6] Che, addirittura, considera il bresciano suddialetto del bergamasco.

[7] Come ben sappiamo, nel Medioevo tutta la Cisalpina era Lombardia, e l’estensione linguistica lombarda riguardava anche il Triveneto.

Identità

L’identità rappresenta la cifra fondamentale del nazionalismo etnico, e del patriottismo animato da sangue, suolo, spirito. Identità nazionale, etnica, razziale ma anche culturale, linguistica, storica e territoriale, e direi pure sessuale, poiché o si è maschi o si è femmine, null’altro. L’identitarismo völkisch e tradizionalista è l’antidoto ai veleni del mondialismo, del relativismo, del progressismo, che danno vita a identità fittizie per soppiantare quelle vere, e cioè i baluardi a cui si appellano i veri patrioti; nel mondo contemporaneo, soprattutto in Occidente, lo spirito di appartenenza e il sentimento comunitario vengono criminalizzati, a tutto vantaggio di quegli sciagurati concetti politico-ideologici che stanno alla base del declino dell’Europa. Finte nazioni, finte tradizioni religiose, finte famiglie etnoculturali, finti generi sessuali, orientamenti sessuali deviati – fomentati dallo status quo -, tutto fa brodo quando si tratta di annientare la vera identità e la vera tradizione, un po’ come la liquidazione dei diritti sociali del popolo, attuata dalla sinistra contemporanea, in favore di quelli farseschi definiti “civili”.

Il profilo identitario di un popolo, di una nazione, è un fatto molto serio, e la sua riscoperta è viatico per un percorso etnonazionalista che conduca all’autoaffermazione e alla libertà, come nel caso della Grande Lombardia. Una comunità etnica e nazionale reale, non artificiale in stile italiano, ha bisogno di una solida e razionale identità storica, in cui i membri si riconoscano simili, fratelli, grazie a vincoli biologici (antropologici e genetici) e culturali (ad esempio linguistici), contrapposti alla retorica patriottarda degli stati-apparato ottocenteschi, di matrice giacobino-massonica. E la tradizione, posta a guardia dell’etica indoeuropea patriarcale, eterosessuale, monogama, si fa garante dell’ordine naturale delle cose attraverso il quale la nazione, la comunità e la famiglia possono fortificarsi e sopravvivere, di fronte ai rovesci del mondialismo. È importante che il concetto di identità, benedetto dalla natura, sia sempre contemplato e rispettato, altrimenti si lascia spazio a quelle nefande derive che hanno preso piede grazie agli orrori del 1789, e che oggi travolgono i valori più sacri in cui l’uomo può credere.

Uno sguardo sull’islam

Abbiamo già parlato di come il lombardesimo concepisce la religione e la cultura islamiche, ma credo valga la pena riprendere brevemente in mano l’argomento. L’islam rappresenta un mondo a parte, rispetto all’Europa, e spesso e volentieri si è voluto vedere una sorta di scontro di civiltà fra il primo e il nostro continente, che peraltro comprende popolazioni indigene islamizzate. In realtà, secondo la visuale lombardista, il vero scontro di civiltà in atto è quello tra l’Occidente giudeo-americano e l’Europa genuina dei padri, ed è tipico del blocco mondialista raffigurare la religione di Maometto come nemico mortale degli europei. Infatti, stando al pensiero sizziano, che senso può avere la demonizzazione del musulmanesimo, alla luce dell’inquinamento ebraico e cristiano che subiamo da 2.000 anni?

Capiamoci, l’islam è un prodotto culturale esotico, incompatibile col vero spirito europeo; si parla di una religione di origine nettamente mediorientale che ha attecchito soprattutto presso i popoli del terzo/quarto mondo e che esprime una visuale antropologica e filosofica agli antipodi della civiltà indogermanica. Ma questo discorso vale anche per giudaismo e cristianesimo, ed è ridicolo condannare o criticare Maometto se si assolvono Mosè e Gesù. Pure il giudeo-cristianesimo è un corpo estraneo, in Europa, e se questa è piagata dalla globalizzazione è grazie eziandio all’influenza nefasta della Bibbia.

Il vero problema islamico, direi, riguarda i suoi credenti, notoriamente arabi, camiti, negri, asiatici, meticci, travasati a milioni nel nostro continente per accelerare la decadenza bianca, liquidare i nativi, disintegrare la civiltà nostrana col pluralismo globale. Vero, l’islam è portatore di valori, costumanze e a stili di vita decisamente estranei all’Europa, ma badate che è un prodotto culturale dello stesso calderone da cui provengono ebraismo e cristianesimo (per quanto il secondo si sia adattato assorbendo elementi indigeni di fattura pagana, per sedurre gli autoctoni). Ed è patetico criticare il maomettismo per la sua indole patriarcale, virile, guerriera, fanatica: non sono gli islamici ad essere “cattivi”, siamo noi ad essere dei rammolliti, castrati dal cristianesimo e dall’idolo del progresso, quindi dalla spazzatura occidentale.

Il fatto che il mondo musulmano si mostri recalcitrante di fronte alla secolarizzazione di taglio liberale e progressista è semplicemente una virtù che gli va riconosciuta; noi europei, almeno dal 1945 (ma si deve riandare al 1789, per cogliere le radici del male), siamo ammorbati da antifascismo, antirazzismo, egualitarismo, relativismo, modernismo, femminismo col risultato di ridurci alla stregua di eunuchi tenuti in pugno dal sistema-mondo a stelle e strisce. Certo, l’ateismo militante e il laicismo concorrono al declino degli europidi, ma sbarazzarsi del cattolicesimo non è nulla di aberrante, a patto che lo si faccia nel nome di ideali gentili. Il problema del secolarismo è la sua filiazione giacobino-massonica, il che lo rende un cancro da combattere.

Pertanto la posizione lombardista sull’islam è di critica e di condanna non per le stesse, risibili, motivazioni dei fallaciani, dei leghisti, dei destrorsi euro-atlantici, dei giudeo-cristiani e in definitiva dei libertari, bensì perché anche l’islam è frutto del monoteismo abramitico, dunque della temperie semitica, e concorre all’oscurantismo lunare che mina la solare società ariana. Un estraneo nel contesto europeo, che infatti sta bene dove è nato, assieme al giudaismo. E, rimanendo nel proprio areale d’elezione, l’islam può persino diventare un prezioso strumento nella lotta contro la globalizzazione americana e il sionismo, sebbene ci sia da dire che, quanto il cristianesimo, è un culto votato all’universalismo e, quindi, ad un mondialismo alternativo a quello corrente.

L’idea della Chiesa nazionale ambrosiana

La posizione ufficiale del lombardesimo in materia di religione e spiritualità ormai la conosciamo, ed è l’etno-razionalismo; l’unione, cioè, di etnonazionalismo e razionalismo che rimette al centro di tutto sangue, suolo, spirito, in nome del bene più importante che abbiamo, la patria. Il lombardesimo crede fortemente nel valore della ragione, che è il faro dell’essere umano, segnatamente bianco, e lo coniuga con il nazionalismo etnico, ideologia guida lombardista, in un’Europa sempre più in balia di relativismo e progressismo. Pur condannando i concetti moderni di ateismo, laicità e secolarizzazione, il lombardista coerente ripudia la metafisica, specialmente se si tramuta in universalismo abramitico.

C’è però da dire che, in linea teorica, abbiamo pensato ad una forma di religiosità destinata a quanti, in Lombardia, aspirino ad una vita spirituale, e che potesse essere del tutto compatibile coi destini etno-razziali della nazione. Come lombardisti non siamo per forza di cose empi, e capiamo bene che possano esserci lombardi interessati alla dimensione non strettamente materiale dell’esistenza. Dal punto di vista sizziano questa esigenza non si pone perché Paolo è razionalista, realista, materialista nel giusto, ma chiaramente non siamo tutti uguali; per tale ragione lo stesso Sizzi ha individuato un tipo di spiritualità che risulti essere compatibile e tollerabile, nell’ottica völkisch, e quindi inscindibile dal vincolo biologico.

Ebbene tale nuova, rivoluzionaria, religione va sotto il nome di Chiesa nazionale ambrosiana. Nulla di cristiano o cattolico, nonostante il nome, bensì una trasmutazione gentile del cattolicesimo latino insubrico. In altre parole, un culto pagano che sublimi ed emendi dalla patina giudeo-cristiana gli elementi tollerabili della religione ambrosiana, eliminando ogni riferimento al mondo ebraico e scristianizzando la dottrina, lasciando così spazio all’eredità solare della tradizione religiosa milanese. Come sapete il rito ambrosiano, che è una variante del cattolicesimo latino, viene adottato storicamente in quella che è l’arcidiocesi di Milano, ma un tempo riguardava un territorio assai più esteso coincidente almeno con l’intera Padania geografica (il bacino del Po).

Le origini stesse del cattolicesimo ambrosiano vanno ricercate nei riti cristiani occidentali, latini, di matrice gallica (rito celtico e rito gallicano), che hanno non a caso assorbito elementi della spiritualità indigena celtica. Anzi, parrebbe che proprio dal culto ambrosiano derivino le liturgie altomedievali cosiddette gallicane, segno della preminenza del rito nostrano. Certo, stiamo parlando di Sant’Ambrogio, di Chiesa, di cristianesimo ma questa discussione non può assolutamente prescindere dalle radici, anche spirituali, galliche del territorio granlombardo. La spiritualità cristiana occidentale, cattolica, è certamente debitrice dell’esperienza religiosa cisalpina, anche se non tutti gli studiosi concordano sulle origini della liturgia ambrosiana.

Ciò che a noi interessa è la questione della trasmutazione pagana del rito ambrosiano, che chiamiamo ambrosiano per comodità e per radicamento storico dell’aggettivo. Non si tratta infatti di mantenere tale e quale il cattolicesimo insubrico, ma di trasformarlo in gentilità, cosicché sulla base autoctona pagana possa innestarsi l’elemento uranico confluito nel cattolicesimo, recuperandolo dalla distorsione biblica ed evangelica, dunque ebraica, e dalla depravazione universalista. Niente più scenari palestinesi, divinità giudaiche, messia desertici, morale mesopotamica, personaggi da presepe, ma solo accezione solare e, dunque, indoeuropea. Perché i nostri padri ariani rappresentano il modello da seguire, in materia di spiritualità. Per chi ha a cuore la questione, si capisce.

Tutto questo non è in contraddizione con l’etno-razionalismo, che resta la posizione ufficiale del lombardesimo. Paolo Sizzi è ateo ma capisce bene che il vuoto lasciato dal cattolicesimo, in terra lombarda, non possa essere colmato dalla spazzatura laicista di conio giacobino-massonico, progressista, ed è perciò necessario offrire una nuova via religiosa a quanti avvertono il bisogno di realizzarsi anche spiritualmente. Non più cristianesimo, cattolicesimo romano, ma gentilità, fondata sui veri culti tradizionali delle nostre terre. Il termine ‘Chiesa’ impiegato per definire la fede patriottica granlombarda non deve confonderci: non si allude più a Roma, ma ad una Chiesa come assemblea fraterna, etimologicamente parlando, che vada a designare il consesso dei credenti ambrosiani, cementato dal sangue lombardo. Il legame tra sacro ed etnia deve essere totale.

I culti tradizionali che contribuirebbero alla formazione del nuovo, rivoluzionario, credo sarebbero quelli preromani, soprattutto celtici, ma anche la religione gallo-romana che come la famiglia linguistica galloromanza è il frutto culturale dell’unione di mondo latino e mondo autoctono celtico. Infine va considerato anche l’apporto di superstrato germanico, nello specifico longobardo, per quanto il paganesimo (o etenismo, diremmo oggi) nordico sia stato presto abbandonato dai Longobardi calati nella valle del Po, in favore del cristianesimo, prima ariano poi cattolico. Anzi, una volta nella Cisalpina il culto dei padri era già quasi del tutto sopito, a livello ufficiale, sopravvivendo nelle credenze del popolo, più che della classe aristocratica.

Si tratterebbe, dunque, di modellare una religione fondamentalmente pagana grazie ai vari contributi spirituali degli antichi padri, contestualizzandola nell’oggi della Grande Lombardia, preservando la tradizione per come ci è giunta grazie al retaggio indogermanico, ariano, e preservando magari quei pochi elementi tollerabili del cattolicesimo ambrosiano. Tollerabili perché indigeni. Evidente come la Chiesa abbia assorbito echi di origine pagana, trasformandoli in cattolici; ebbene, noi dobbiamo recuperarli e decantarli dalle scorie desertiche, dando loro nuova linfa vitale in chiave gentile. L’operazione, personalmente, mi intriga da un punto di vista culturale, non certo spirituale, visto che sono ateo e non votato alla ricerca di un qualcosa che ritengo non esista (il trascendente).

Calendario liturgico, festività, uso del greco e del latino, gerarchia ecclesiastica, culto dei santi e delle madonne (che sovente sono figure pagane), trasvalutazione europide di fatti culturali semitici, credo trinitario, dualismo tra bene e male, la solarità del Cristo, figure angeliche e demoniche, la simbologia della croce sono tutte caratteristiche di origine pagana cristianizzate da Roma (e la stessa centralità dell’Urbe è una ripresa della religio antica). Perciò questi elementi potrebbero in qualche modo venir preservati, immettendoli direttamente nella fede della Chiesa nazionale ambrosiana, a sua volta trasvalutata dall’ethos ariano. Per ‘ariano’ intendo indoeuropeo, ma c’è da dire che anche l’arianesimo longobardo era interessante, in quanto forma di culto patriottico e nazionalista, contrapposto alle mene ecumeniche papaline.

I tratti solari del cattolicesimo sono d’altra parte il frutto del retaggio indoeuropeo, i preti non si sono inventati nulla: la divinità uranica del Diespiter celeste (il Dio Padre della luce diurna), la vita oltremondana dei morti in sedi celesti, l’aspirazione al cielo delle anime liberate dal corpo grazie all’incinerazione (ove il fuoco assume un valore sacrale non solo di purificazione ma anche di culto degli antenati), il valore della luce contro le tenebre, la società patriarcale, la monogamia, i legami eterosessuali depongono a favore di una religione cattolica profondamente debitrice della gentilità. Ma il cattolicesimo ha distorto e pervertito il paganesimo, storpiandolo con tutto il ciarpame desertico di Bibbia e Vangelo, e con una morale plebea e volgare che inevitabilmente si tramuta in egualitarismo, umanitarismo, terzomondismo, andando a braccetto con il regime dello status quo.

La Chiesa nazionale ambrosiana, che allo stato attuale delle cose è una mera idea, sarebbe il trionfo della vera identità e della vera tradizione, e il trionfo di Milano, della vera Milano, sulla Roma corrotta figlia del marasma imperiale. La capitale granlombarda era già stata sede del santuario di mezzo (da cui il toponimo) celtico, luogo sacro federale dei Galli cisalpini, ed è legittimo che ambisca ad un rinnovato ruolo anche in chiave spirituale. Milano è la patria del Tredesin de marz, l’equinozio di primavera meneghino, ricorrenza cristianizzata ma dalle ovvie radici pagane; sarebbe interessante, infatti, che il simbolo dell’ambrosianesimo fosse la pietra forata dei tredici raggi, detta di San Barnaba, un’antica mola di epoca gallica reimpiegata in senso cristiano. O in alternativa il noto Sole delle Alpi, un emblema radioso che dai Celto-Liguri passò ai Gallo-Romani e ai Longobardi.

Nazione

La nazione consiste in quell’insieme di popoli coesi e omogenei che si riconoscono comunità grazie a vincoli etnici, linguistici, culturali, storici, territoriali, identitari e direi anche antropogenetici. La comunità nazionale si edifica su sangue, suolo e spirito e si riconosce nel binomio di identità e tradizione grazie al quale è possibile marcare una distanza netta dalle nazioni artificiali, dopotutto meri stati, come l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna, il Belgio, il Regno Unito. A differenza di queste, la Grande Lombardia è invece una vera nazione, che può tranquillamente riconoscersi negli ideali patriottici ed etnicisti che ci portano a parlare di comunità cisalpina; non per caso, esiste un’etnia lombarda, che si fa poi gruppo etnoculturale granlombardo allargandosi all’intero scenario padano-alpino. La Lombardia etnica, e cioè il cuore völkisch della Padania, è il bacino idrografico del Po, il territorio in cui si concretizza al meglio l’idea di patria lombarda. Ma l’intero ambito cisalpino costituisce la cornice storica della nostra nazione, ed è senza alcun dubbio una delle precipue aree etnonazionali del continente.

Viceversa, l’Italia intesa come Repubblica Italiana non può essere chiamata nazione perché popolazione artificiale composta da genti disparate senza alcun legame etnico, culturale, storico. Non bastano romanità, cattolicesimo e lingua fiorentina per poter trattare di nazione italiana dalle Alpi alla Sicilia, senza scadere nel ridicolo: la prima e il secondo sono un retaggio condiviso da mezza Europa, la terza è l’idioma della città di Firenze, elevato a lingua franca di un territorio del tutto eterogeneo che, non a caso, parla un italiano declinato in senso regionale. Appellarsi retoricamente all’Italia augustea non ha alcun senso, perché l’Italia romana non era certo una nazione, ma un semplice organismo burocratico divenuto poi provincia come tutte le altre. L’Italia esiste, ed è la penisola, il centro-sud (con Corsica, Sicilia e Malta); il resto è italianità di cartapesta, che non ha alcun concreto riscontro nella storia dei popoli settentrionali e sardi ingabbiati dalla RI. La nazione, dunque, si fonda su di un razionale spirito di appartenenza, che sussiste nella Padania, ma non tra questa e Lampedusa.