Veneto e istrioto

Nel panorama linguistico della Grande Lombardia vi sono due idiomi moderni che esulano dal contesto propriamente galloromanzo cisalpino (formato dal gallo-italico e dal retoromanzo) e cioè veneto e istrioto. Quest’ultimo, quasi del tutto estinto e parlato nell’Istria meridionale, va distinto dall’istro-veneto, e cioè il veneziano coloniale parlato nella penisola orientale della Padania, e ovviamente dall’istro-romeno, frutto della diaspora valacca. Potremmo anche aggiungere il famoso dalmatico, oggi scomparso, lingua neolatina dell’ambito dinarico, tradizionalmente ritenuta Romània orientale assieme al dominio italo-romanzo (proprio) e a quello balcano-romanzo, ma che per certi versi si avvicina di molto all’istrioto e allo stesso veneto. A dire la verità i linguisti associano istrioto e dalmatico, ritenendoli ora romanzo orientale con l’italo-romanzo verace, ora romanzo occidentale con il gallo-italico (ma lo statuto e l’entità dell’italo-romanzo sono molto oscillanti); semplificando, potremmo dire che il dalmatico è quasi certamente più ad est che ad ovest, mentre l’istrioto subisce l’influsso del veneto e si avvicina perciò al dominio linguistico padano. Precisando, naturalmente, che il veneto contemporaneo, fondamentalmente basato sul veneziano, non è parte del gallo-italico, per quanto romanzo occidentale.

Stiamo parlando, nel caso degli idiomi romanzi di Istria e Dalmazia (la seconda non è parte, nemmeno a livello geografico, della Lombardia storica), di lingue comunque a cavaliere fra mondo neolatino orientale e occidentale, che peraltro subiscono pure l’influsso delle lingue slave meridionali. Istria e Dalmazia sono territori di crocevia, la prima in particolare, che nascono illirici ma con sicuri influssi celtici e venetici, vengono successivamente romanizzati e latinizzati e solo nel Medioevo conoscono l’insediamento di importanti elementi slavi, il che indebolisce l’aspetto storico romanzo. Nel caso dell’Istria va anche citata la presenza longobarda, seguita a quella bizantina. La colonizzazione veneziana riporta in auge la latinità e nei secoli successivi vi è continua contesa tra le pretese italiche e quelle slave, culminata nel tragico scontro fra istanze fasciste e comuniste. Oggi c’è da dire che l’ambito istriano, fiumano e isontino appartiene geograficamente alla Grande Lombardia e si lega ai restanti territori della Venezia Giulia storica. Certo, vi è un rimarchevole elemento slavo ora predominante, ma la storia anche linguistica di quelle terre – Dalmazia esclusa per ovvie ragioni – depone a favore di un reintegro a pieno titolo nel novero cisalpino.

26 agosto: la festa del patrono di Bergamo

Bergimus

Il 26 di agosto la Chiesa bergamasca celebra il suo patrono, Sant’Alessandro, presunto martire cristiano, tebano, decapitato sotto l’imperatore Massimiano nel 303 era volgare. Venne proclamato protettore di Bergamo e della sua diocesi nel 1689 sostituendo San Vincenzo, martire spagnolo, il cui culto venne probabilmente introdotto durante il periodo delle invasioni di Goti e Longobardi. A San Vincenzo, infatti, era intitolata la prima cattedrale di Bergamo (entro le mura), passata da cattolica ad ariana proprio sotto i Longobardi, che la resero loro duomo. Pur parlando di vicende storiche millenarie, preferisco riconoscere un ipotetico patrono bergamasco nella figura del dio celtico Bergimo (il gallo-romano Bergimus), eponimo del capoluogo orobico, a cui i nostri antichi padri celtici parrebbero essersi ispirati fondando e denominando il centro proto-urbano di Bergamo, in epoca golasecchiana (VI secolo avanti era volgare). Non possiamo sapere se esso fosse la principale deità celtica della città, o degli Oromobi stessi – la tribù celtica di lingua leponzia stanziata tra Como e Bergamo -, ma il fatto che abbia potuto dare il nome a Bergamo è assai indicativo.

Tradizionalmente, Bergimo viene associato ai monti e ai rilievi, ma probabilmente è una forzatura etimologica (vedi radice indoeuropea *bherg- ‘altura, luogo elevato’, da cui il celtico *brig- ‘rocca’) dovuta all’ostinazione di voler vedere un’origine “montana” nel toponimo di Bergamo, essendo il suo centro storico eretto su dei colli che sono ultima propaggine delle Prealpi bergamasche. Del resto pure l’etimologia letteraria (greca!) dell’etnico orobico tira in ballo le montagne, forse perché costante del nostro territorio e perché alletta collegare l’indole bergamasca alla natura montuosa. Secondo l’archeologo Angelo Maria Ardovino, invece, stando ai ritrovamenti archeologici in quel di Brescia, dove Bergimus era sicuramente venerato, esce una figura celtica ambigua, legata al tempo, alla luna, alla magia ricollegabile a Ogma-Ogmios, una specie di Marte gaelico che assume aspetto di tramite tra luce e tenebre, vita e morte, colui cioè che controlla il tempo mediante le fasi lunari e l’uso della parola. E se dunque il teonimo romanizzato Bergimus non fosse che un richiamo a Ogmios preceduto da un rafforzativo di area gallo-romana, e cioè Ber- (vedi latino bis)?

La linea von Wartburg

Lo studioso e linguista svizzero-tedesco Walther von Wartburg è colui che dà il nome alla nota linea linguistica, o fascio di isoglosse, Massa-Senigallia, più approssimativamente detta anche La Spezia-Rimini. Tale confine culturale marca una distanza netta tra il mondo romanzo propriamente occidentale, che nel caso padano-alpino è rappresentato dalla Gallo-Romània, e quello tradizionalmente ritenuto orientale, che oltre all’ambito balcano-romanzo comprende quello italo-romanzo. La Romània occidentale include Iberia, Gallia Transalpina e Cisalpina, con ogni territorio neolatino a nord delle Alpi, e nel contesto padano-alpino anche quelle lingue che non risultano propriamente galloromanze: alludiamo al ligure, al veneto, all’istrioto (lo statuto dell’estinto dalmatico è controverso). Gallo-italico e retoromanzo formano la Gallo-Romània cisalpina, con il secondo ancor più occidentale e conservativo del primo che per via dell’influsso erosivo del toscano ha perduto alcuni tratti schiettamente galloromanzi oggi conservati dal ladino in senso lato (ad esempio palatalizzazione e plurale sigmatico). Ma un tempo, come più volte ricordato, la Padania era linguisticamente unita, prima che volgare fiorentino e veneziano irrompessero nel continente.

La linea del von Wartburg coincide col confine etnonazionale meridionale della Grande Lombardia, che corre lungo lo spartiacque appenninico; anche se aree come Massa, l’antico ager Gallicus (odierna provincia di Pesaro-Urbino) e Senigallia possono apparire mistilingui, specie la cittadina oggi sotto la Regione Toscana, restano ricomprese nello spazio geografico cisalpino e non possono essere lasciate sotto il dominio italiano. La linea ideale Magra-Rubicone, di origine romana, coincide più con la La Spezia-Rimini, che però priva la Padania di ambiti indubbiamente nazionali come la Lunigiana e il settore terminale delle Romagne. Ciò sia detto tenendo in considerazione il fatto che da un punto di vista genetico l’intera Romagna, per certi versi l’Emilia orientale e soprattutto la parte settentrionale delle Marche, gallo-italica, risultano essere territori abitati da popolazioni crocevia tra Lombardia e Italia, che infatti si sovrappongono alla Toscana. Ma i geni non sono tutto, e sebbene i toscani appaiano più a ponente del mondo storico romagnolo non possono comunque rientrare nel novero etnoculturale delle Lombardie.

I ladini

Vi è sempre la tentazione di pensare che il cosiddetto gallo-italico, un termine improprio coniato e impiegato per primi dai linguisti Ascoli e Biondelli, sia un miscuglio di elementi francesi e italiani/toscani dovuto alla sovrapposizione moderna delle influenze d’oltralpe al prestigio letterario della lingua di Dante, affermatasi nei secoli in Ciscalpina a scapito dei volgari locali. A testimoniarlo, l’erronea e ridicola credenza che i “dialetti” procedano dal fiorentino letterario, confondendo così le nostre lingue indigene galloromanze con l’italiano regionale. In realtà il lombardo, o gallo-italico, non è un idioma di mezzo tra francese e italo-toscano bensì un’originale famiglia linguistica, classificata come ramo cisalpino del galloromanzo, che nasce dal latino volgare parlato nella Padania, modificato dal sostrato celtico e, meno, dal superstrato germanico. Nonostante possano esservi state influenze transalpine e toscane, il lombardo è del tutto peculiare e genuino, giunto sino a noi – sebbene oggi parecchio diluito – e un tempo accorpato, prima dell’erosione toscana e veneziana, al troncone orientale galloromanzo, rappresentato dal retoromanzo, o ladino in senso allargato.

Gli studi del linguista Pellegrini hanno dimostrato che questo retoromanzo (usando un’altra etichetta impropria) non ha alcun sostrato retico/nord-etrusco, cioè anariano, perché presenta quanto il gallo-italico sostrato celtico e superstrato germanico; anzi, rispetto alla lingua padana di ponente è ancor più conservativo e romanzo occidentale, caratterizzato da fenomeni che il gallo-italico ha perduto, ad esempio plurale sigmatico e palatalizzazione. Il ladino in senso lato, oltre al dolomitico, comprende romancio e friulano, e proprio i ladini dolomitici sono attestati come lombardi alpini, chiamati per giunta lumbercc dai germanofoni per sottolinearne l’identita wälsch, cisalpina/lombarda. Questo fatto viene più volte menzionato da studiosi quali lo stesso G. B. Pellegrini e Geoffrey Hull. Pertanto, possiamo dire che il ladino/retoromanzo è famiglia linguistica lombarda in senso storico, un tempo profondamente unita al padano d’ovest e comunque ancor oggi parte, con esso, del galloromanzo cisalpino. Il fossile alpino in questione è la prova del netto carattere celto-latino delle lingue granlombarde, con la nota pennellata germanica di superficie, fatti salvi ligure e veneto che risentono della toscanizzazione e, nel caso dell’ultimo, del dominio linguistico veneziano sul continente.

Forze armate

Una Lombardia libera, sovrana e indipendente da Roma e da ogni altro potentato mondialista dovrà riorganizzarsi sulle basi di un etnostato granlombardo repubblicano (a guida presidenziale), che faccia di etnonazionalismo, comunitarismo e lombardesimo la propria cifra politica. Di conseguenza, la rinata Lombardia avrà anche bisogno di forze armate e di polizia proprie, che siano schietta espressione del nerbo indigeno, a impronta maschile, e che sappiano garantire alla patria la difesa, il presidio del territorio, la salvaguardia dei confini e la giusta dose di autorità, onde prevenire invasioni. Le forze di polizia lombarde sostituirebbero così quelle italiane, affiancate da una guardia nazionale indigena, mentre esercito, aeronautica e marina granlombardi scalzerebbero l’occupante italico e quello americano. I militari incarnerebbero l’espressione armata della sovranità padano-alpina, che deve passare anche per la difesa, poiché una nazione libera ha l’esigenza vitale di un proprio esercito come garanzia di autoaffermazione, dissuadendo ingerenze esterne e, laddove necessario, recuperando la doverosa bellicosità nei confronti di chi non rispettasse l’integrità nazionale lombarda.

Le forze armate granlombarde devono avere aspetto indigeno e virile, aprendo magari ad una forma di ausiliariato femminile, e devono essere formate da professionisti. Tuttavia, il ripristino della leva, in una Lombardia libera, avrebbe un grande significato, così come un servizio civile destinato alle ragazze, affinché i giovani lombardi vengano formati in una palestra di orgoglio patriottico che insegni a “stare al mondo”, usare le armi e difendersi, amare e conoscere la nazione, promuovere autostima e coltivare valori sani utili alla mente e al corpo. Del singolo e della comunità. In parallelo, ecco l’idea di una guardia nazionale lombarda aperta a volontari civili, che possa essere un servizio offerto alla patria come presidio del territorio e supporto a forze armate e di polizia. Il ruolo del militare, oltretutto, potrebbe consentire ad ogni popolo che forma la Grande Lombardia di esprimere il meglio di sé, a seconda di vocazioni e predisposizioni, cosicché abbia ancora un senso poter bonificare le milizie di montagna, di terra, di aria e di mare da tutte le scorie del fasullo nazionalismo italiano e dal mefitico unipolarismo Usa-Nato.

Il sostrato celtico

Le lingue della Grande Lombardia, quelle del ceppo gallo-italico e retoromanzo, nascono dal latino volgare parlato nella Padania innestatosi sul substrato di origine celtica e gallica dovuto alle antiche lingue recate dalle popolazioni transalpine. Nello specifico, stiamo parlando del leponzio dell’età golasecchiana, un idioma celtico alpino intriso di elementi anariani, e del gallico continentale, impiegato dai Galli cisalpini oltre la conquista romana. Questo fondo linguistico ha chiaramente influenzato e alterato il latino parlato dell’area padano-alpina, differenziandolo da quello dei territori propriamente italici (il centrosud), e non solo a livello di fonetica ma anche di lessico, sintassi, morfologia, costrutti. Gli studi di Costantino Nigra, incentrati su poesia popolare e canti e balli cisalpini, evidenziano, parallelamente a quelli glottologici del Biondelli, i sicuri apporti culturali dei Celti, sopravvissuti sino ad oggi nei nostri idiomi ma pure nel folclore locale. La Padania è tuttora parte della Gallo-Romània, e dunque della famiglia galloromanza, ed esula dal contesto italo-romanzo propriamente detto.

Per quanto, secondo taluni studiosi come Glauco Sanga, la dominazione longobarda contribuì ad uniformare l’aspetto linguistico volgare “italiano” nel nome di una comune tradizione latina, i volgari che anticiparono i cosiddetti dialetti restarono affatto distinti e diversificati, come testimoniano gli stessi scritti danteschi in materia di lingue autoctone. Sanga medesimo riconosce l’esistenza di un filone gallico antico che accomuna Cisalpina e Transalpina, influenzando il latino parlato della Padania, poi rafforzato dalla dominazione franca che potrebbe aver contribuito a diffondere fenomeni puramente galloromanzi come le vocali turbate (forse anticipate dai Longobardi?), plausibile lascito germanico. Ma resta il fatto che, Franchi e infiltrazioni oitaniche a parte, come è resistito sino ad oggi un prevalente genoma preromano nell’eredità biologica padano-alpina (si vedano i pionieristici studi di Alberto Piazza) così è permasto un fondo celtico sopravvissuto ovunque, specialmente nelle aree ladine che sono un fossile dell’antica unità di lingua alpino-padana.

1-2 agosto: la festa del sole e degli uomini

Lughnasadh – Lammas

I primi giorni di agosto (1-2 del mese), fulcro dell’estate, rappresentavano un tempo la festa del sole. Nell’antichità (indo)europea l’inizio del mese di agosto segnava la ricorrenza sacra delle celebrazioni agresti del sole, dei falò estivi agostani (come nei Volcanalia romani), del raccolto, della luce benigna dell’astro maggiore e dei benefici che la sua virile forza apporta alla natura e all’uomo. D’altronde, un po’ tutta l’estate è caratterizzata, in senso sacrale, da queste celebrazioni, che principiano in giugno col periodo solstiziale. Festività come la celtica Lughnasadh (in onore del dio solare Lúg) e la germanica Lammas (ringraziamento per i pani) si consumavano in onore delle messi, del raccolto e del pane, alimento base ancor oggi della nostra dieta e che simboleggia anche il frutto primiero dell’agricoltura, nonché il sacrificio della solare divinità ariana che si “offre” sotto forma di pane, di alimento, al suo popolo, all’interno del ciclo naturale delle stagioni e del raccolto. Chissà da dove proviene l’eucarestia…

Il primo o il secondo giorno di agosto, ricollegandosi alla forza maschile della nostra principale stella, cadono anche in onore dell’uomo, della sua energia e potenza che si fanno pure sessuali (come è ovvio che sia), e quindi del fallo e degli attributi, dei testicoli, tanto che segnatamente in ambito granlombardo – presumibilmente per via di qualche antico retaggio celtico, visto che è ricorrenza assai sentita lungo l’arco alpino – il 2 di agosto si celebra proprio “la fèsta di òmegn“. E in senso lato i “du de óst” rappresentano le gonadi maschili, e naturalmente la loro funzione riproduttiva, l’energia vitale del seme maschile. In senso astronomico, la festa del sole e del raccolto dovrebbe cadere il 7 del mese agostano, essendo questa data intermedia tra il solstizio d’estate del 21 giugno (Litha, nel mondo anglosassone, la notte nordica di mezz’estate) e l’equinozio d’autunno del 22-23 settembre (Mabon, secondo il neopaganesimo di ispirazione celtica, festa del raccolto e della vendemmia in previsione del riposo invernale).   

Agosto (sestile) – Augustus (Sextilis)

Ottaviano Augusto

Agosto (Augustus) è mese dedicato a Ottaviano Augusto, pronipote e figlio adottivo di Giulio Cesare (cui è dedicato il precedente mese di luglio), primo imperatore romano. Pater Patriae, diede vita ad un’età che fu una svolta per la storia di Roma, con il definitivo passaggio dal periodo repubblicano al principato. Fu anche pontefice massimo, e dopo la sua morte venne consacrato come Divus Augustus Divi filius, in quanto figlio adottivo di Giulio Cesare, dittatore divinizzato; del resto, il suo nome per esteso era Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (e Caesar divenne parte integrante della titolatura imperiale). Augusto unificò politicamente l’organismo “italico” e lo suddivise in undici regioni, arricchendolo – sul modello romano – di nuovi centri e fondandovi ben 28 colonie. Anche Augustus divenne titolo imperiale, e la sua etimologia va ricondotta al verbo latino augere ‘aumentare, accrescere’, e dunque vale ‘grande’. Dalla dinastia giulio-claudia, cui Giulio Cesare e Augusto appartenevano, uscirono i primi cinque imperatori di Roma.

Nel calendario romano romuleo ciò che, successivamente, divenne agosto, in onore appunto del primo imperatore, era chiamato sestile, essendo il sesto mese a partire da marzo (inizio dell’anno sacro), e seguiva quintile (poi luglio, in onore di Giulio Cesare). Da Augusto prende il nome, parimenti, Ferragosto (feriae Augusti), sin dall’antichità periodo di riposo e di festeggiamenti estivi che cadevano il primo del mese, successivi alle settimane di intensi lavori agricoli nelle campagne; le festività preesistenti al Ferragosto erano già di per sé votate alla celebrazione della fine delle attività rustiche, segnando una fase di riposo, in un periodo, fra l’altro, contraddistinto da grande calura e dal bisogno di refrigerio. La Chiesa spostò la ricorrenza al 15 del mese, per farla coincidere con la festa dell’Assunta. In agosto erano celebrati, tra gli altri, la dea della caccia Diana e il dio del fuoco terrestre e distruttore Vulcano, che era anche connesso al dio Sole, e non certo a caso agosto significava, nell’antichità comunitaria ariana, la celebrazione del sole e della luce benigna, e dunque del raccolto e del pane. In onore di Vulcano venivano accesi grandi falò estivi di sterpi, sempre in contesto agreste. Infine, il mese agostano è caratterizzato dai segni zodiacali del Leone (sino al 22) e della Vergine.

L’unità di lingua padano-alpina

Prima che le lingue lombarde occidentali venissero diluite dall’azione di logorio esercitata, a partire dal Basso Medioevo, dal toscano, e prima che nel continente, ad est, irrompesse il veneziano, modificando inesorabilmente le parlate del Veneto, esisteva un’antica comunità e unità di lingua che legava i due tronconi della regione cisalpina. Come confermano le ricerche di studiosi quali Giovan Battista Pellegrini e Geoffrey Hull, il comune sostrato gallico – su latino volgare parlato nell’area padana – unito al superstrato longobardo, plasmarono delle loquele omogenee in tutto il nostro territorio nazionale granlombardo, tanto che le moderne etichette di gallo-italico (e ligure), retoromanzo e veneto avevano ben poco significato. Sussisteva un blocco piuttosto omogeneo che oggi sopravvive nel fossile ladino (romancio-dolomitico-friulano), profondamente legato alla Gallia Transalpina e alla Svizzera romanza, e non ancora annacquato dagli influssi esterni di lingue di ceppo differente: come detto, il fiorentino letterario e il veneziano, che col loro prestigio letterario e/o politico finirono per modificare sensibilmente la situazione linguistica della Cisalpina.

L’azione di disturbo del toscano trasformò lo schietto galloromanzo lombardo occidentale in gallo-italico, adottando in età recente l’italiano come lingua tetto, mentre l’approdo della parlata di Venezia nel resto del Veneto, sulle ali della Serenissima, scalzò il carattere galloromanzo del continente, allineando le parlate euganee all’ambito lagunare. A salvarsi da questi fenomeni fu il retoromanzo, che ancor oggi testimonia l’antica unità linguistica, i prischi caratteri delle lingue “padanesi” e il carattere incontaminato di un lombardo alpino non sottoposto a toscanizzazione. Lo stesso veneziano, pur essendo loquela romanza tutto sommato occidentale, esula dal genuino contesto galloromanzo, poiché influenzato da elementi analoghi a quelli italoromanzi cui fa capo il fiorentino letterario, un po’ come l’odierno ligure. Resta magistrale la lezione di Hull, cui rimandiamo, che dimostra appieno un comune destino linguistico di Gallia Cisalpina e Transalpina, sino a Medioevo inoltrato, compromesso più tardi dal prestigio degli idiomi di Firenze e di Venezia. Ma non del tutto.

19 luglio (1747): la battaglia dell’Assietta (festa del Piemonte/Taurasia)

La morte di Belle-Isle

Il 19 luglio del 1747 si combatté la battaglia dell’Assietta, in Val Chisone (Piemonte), tra il Regno di Sardegna sabaudo di Carlo Emanuele III e il Regno di Francia di Luigi XV. Fu un episodio della Guerra di successione austriaca, in cui il Piemonte era alleato degli austriaci contro gli eserciti franco-spagnoli, che miravano alla conquista della Padania. La battaglia fu vinta dai piemontesi agli ordini di Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio, e secondo la leggenda fu decisiva la resistenza del Conte di San Sebastiano, che rifiutando di ritirarsi pronunciò la famosa espressione subalpina bogia nen, “non ti muovere”, passata a designare i soldati piemontesi e lo stesso popolo della Lombardia etnica occidentale. Le truppe austro-sabaude, 4.800 soldati, sconfissero così 40.000 francesi guidati dal Conte di Belle-Isle, che perì in battaglia. Tale ricorrenza, giustamente, è ancor oggi celebrata dai piemontesi ed è degnamente la festa popolare dello stesso Piemonte (anche detto Taurasia, utilizzando l’antico toponimo di Torino, dal sapore etnico, in riferimento agli avi celto-liguri Taurini).

Il 1747 fu anche l’anno in cui il barone von Leutrum (generale tedesco al servizio dei Savoia e popolare personaggio celebrato dai subalpini come Barôn Litrôn) respinse vittoriosamente un assalto franco-spagnolo al Ponente ligure, mentre gli austriaci assediavano Genova. Il fatto d’arme più noto a cui il von Leutrum prese parte fu però l’assedio di Cuneo, nel 1744, in cui questi liberò la città da francesi e spagnoli, e che gli valse la riconferma a governatore della città e della sua provincia. Sono vicende belliche, queste, che possono essere accostate all’atto eroico di un altro grande personaggio popolare del Piemonte, che è Pietro Micca, il quale nel 1706 sacrificò la sua vita nella difesa di Torino facendo saltare in aria una galleria, al fine di impedire ai francesi che assediavano la capitale sabauda di penetrare nella cittadella. L’assedio terminò con la vittoria austro-piemontese dei soldati del principe Eugenio di Savoia e del duca Vittorio Amedeo II, e la conseguente sconfitta franco-spagnola. Ancor oggi, il 7 settembre (che nel 1706 significò lo scontro finale tra sabaudi e transalpini), viene celebrato un Te Deum di ringraziamento presso la Basilica di Superga, fatta costruire dai Savoia a ricordo della vittoria.