La Gallo-Romània

L’ambito linguistico padano-alpino, che ovviamente è romanzo a livello globale, ricade senza alcun dubbio nella Romània occidentale, segnatamente di estrazione gallica. Se il galloromanzo canonico riguarda gli idiomi dell’attuale Francia, allargandosi include anche la Padania e la Catalogna, e nel primo caso si intende l’insieme gallo-italico e la famiglia retoromanza. Sino a Medioevo inoltrato, la Cisalpina era ancora considerata parte della Gallia e il legame linguistico e culturale con l’area transalpina francese e svizzera era certamente più forte di oggi. In antico esisteva una schietta unità idiomatica fra il troncone occidentale e quello orientale padano, poi frammentata dall’intromissione continentale del veneziano e l’azione erosiva esercitata dal prestigio del toscano sui volgari lombardi. Un fenomeno comunque distinto dalla cosiddetta scripta lombardo-veneta, che rappresentava una koinè illustre e letteraria. Il galloromanzo cisalpino, incarnato da gallo-italico e retoromanzo (ma senza veneto), fa parte della Romània occidentale e si stacca nettamente dal vero e proprio dominio italo-romanzo che fa capo all’italo-toscano.

Il grande equivoco dei “dialetti” padano-alpini figli del fiorentino letterario è una colossale idiozia figlia dell’ignoranza o della retorica patriottarda, ma che non ha alcun riscontro scientifico. Il termine ‘dialetto’ riferito agli idiomi lombardi ha senso – oggi – solo in chiave sociolinguistica, o al più per indicare le varianti locali della lingua lombarda intesa come sottofamiglia linguistica del contesto neolatino ovest. Il gallo-italico, a ben vedere, è storicamente lombardo e lombardo sarebbe anche il retoromanzo, non solo in virtù dell’antica unità teorizzata da studiosi come Hull ma anche dell’inconsistenza dell’etichetta “ladina”, già stigmatizzata dal Pellegrini. I ladini (romanci, dolomitici e friulani) sono lombardi quanto gli altri cisalpini, proprio perché l’unica, vera accezione di Lombardia è quella storica, ed etnoculturale, e ingloba l’intero dominio geografico della Padania. Padania che è poi Lombardia, appunto, e che da un punto di vista linguistico è solo ed esclusivamente Gallo-Romània cisalpina.

Visione del mondo

Prima della politica vengono cultura e, soprattutto, visione del mondo, che in ambito lombardista non può che essere di matrice etnonazionalista e völkisch. I pilastri su cui si innalza il lombardesimo sono sangue, suolo e spirito, i principi cardine razzialisti che guidano ogni serio identitario granlombardo, andando ad influenzarne il pensiero e l’azione politica. Diciamo sempre che non avrebbe alcun senso portare i lombardi alle urne se prima non si insegna loro che non sono italiani perché etnia, popolo e nazione a sé stanti, da proiettare in una schietta ottica di indipendenza, di libertà da ogni oppressore anti-identitario. Per quanto l’impegno politico sia fondamentale resta il fatto che occorre per prima cosa una coscienza affrancata da ogni catena ideologica nemica della nostra vera patria, altrimenti la militanza risulterebbe sterile e sulla falsariga del leghismo, vecchio e nuovo. Per tale ragione ecco che il lombardesimo mette in chiaro come la Weltanschauung del nazionalismo etnico, in chiave cisalpina, sia la linfa vitale della vera rivoluzione nazionale e sociale che attende la Grande Lombardia.

In caso contrario, capite bene che ogni tentativo si rivelerebbe fallimentare, come la stessa lezione bossiana insegna, proprio perché verrebbero a mancare le solidissime basi della dottrina etnicista e razzialista, faro che rischiara le tenebre dell’attuale temperie globalista. Avere una visione del mondo e della vita in linea con le ragioni völkisch permette di non compiere passi falsi e di non ripercorrere gli errori di chi, prima dei lombardisti, ha goffamente tentato di porre una questione identitaria nel novero “settentrionale”; e, infatti, solo la rivoluzione del lombardesimo rappresenta la vera libertà per le genti lombarde, chiamate a riscuotersi dal torpore non soltanto per ragioni fiscali ma anche e soprattutto etniche, linguistiche, culturali. L’economia e il benessere procedono dall’etnia, e per l’appunto la plurisecolare ricchezza padano-alpina dipende dagli innati valori insiti nel nostro ADN continentale. Non essendo alcunché di parassitario, lo sviluppo cisalpino si lega inscindibilmente alla nostra natura identitaria, che affonda le sue radici sino all’epopea dei Celti.

10 luglio (1009): la nascita di Alberto Azzo II d’Este (festa dell’Emilia/Boica)

Aquila estense

Il 10 luglio 1009 nasceva, probabilmente a Modena, Alberto Azzo II d’Este, margravio di Milano, capostipite della casata nobiliare estense, essendo stato il primo della famiglia ad assumere il titolo imperiale di marchese del feudo di Este, nel Padovano. Data l’importanza ricoperta, nella storia emiliana, dagli Estensi, vedo bene in questa data una ricorrenza che possa prestarsi come festa popolare dell’Emilia/Boica, ossia della Lombardia cispadana. Alberto Azzo II era discendente del franco (o longobardo?) Oberto, primo marchese della Marca Obertenga, entità imperiale che comprendeva parte dei territori della Padania occidentale, assieme alle altre due marche: l’Aleramica e l’Arduinica (già Anscarica). L’Obertenga, in particolare, racchiudeva le terre della Liguria orientale assieme alla Lunigiana, dell’attuale Lombardia (con la Svizzera “italiana”), del Piemonte orientale, dell’Emilia senza Bologna, con altre piccole aree limitrofe, come ad esempio la Garfagnana. Essa (nata nel 951) ereditò, insomma, il precedente ambito della franca Marca di Lombardia, creata nell’891. Oberto, antenato di Albertazzo II, ricopriva il titolo di conte palatino e di marchese di Milano e Genova. Il nipote Alberto Azzo I fu padre del Nostro, riconosciuto, appunto, come capostipite della casata d’Este.

Dagli Obertenghi, dunque, discesero Estensi, Malaspina, Cavalcabò, Pallavicino, Gavi e altri e i primi furono sicuramente il ramo nobiliare più importante a cui diedero vita. La preminenza storica assunta dagli Este per l’Emilia è cosa ben nota. Essi furono signori, e poi duchi, di Ferrara, estendendo i propri domini, limitandoci alla terra cispadana, a Modena, Reggio di Lombardia, Carpi, Correggio, Mirandola, Novellara e Massa e Carrara, due città queste etnicamente e linguisticamente a metà strada (come la Lunigiana medesima) tra Liguria e Boica, nonostante un sensibile influsso toscano sul Massese. Gli Este perdettero il Ducato di Ferrara, fagocitato dallo Stato Pontificio, continuando a regnare su quello di Modena e Reggio, che a sua volta persero in seguito alle vicende napoleoniche, riconquistandolo poi, come Asburgo-Este, grazie alla Restaurazione, aggiungendovi Guastalla. Sebbene le origini dei capostipiti estensi, gli Obertenghi, sembrino più imperiali che longobarde, parrebbe che Oberto stesso e il margravio Adalberto suo padre professassero legge longobarda, e fossero discendenti di Bonifacio, nobile baiuvarico fedele a Carlo Magno, governatore della Cisalpina per i Franchi e primo marchese/margravio di Tuscia.

Politica

La necessità della quotidianità lombarda è quella di una vita politica che sappia rimettere al centro di tutto il concetto di comunità, troppo spesso dimenticato dai lombardi in favore del tragico culto del fatturato. Gli egoismi, gli individualismi e i campanilismi hanno dilaniato la nostra vera patria, e per quanto la cultura del lavoro e la ricchezza tipiche della Lombardia possano essere motivo d’orgoglio – essendo agli antipodi della furbizia parassitaria – resta il fatto che abdicare al proprio ruolo di difensori dell’identità nazionale ha comportato il democratico auto-genocidio indigeno che tutti quanti conosciamo. Pertanto, la sfida della politica lombardista deve essere quella di ridare linfa vitale a sangue, suolo e spirito, rieducando i cisalpini al rispetto della propria identità e delle proprie radici. La rivoluzione del lombardesimo mira ad un impegno culturale, metapolitico e politico che si faccia orgoglio di appartenenza e solidarietà comunitaria, unico modo per affrancarsi dal giogo italico e mondialista e riscoprirsi parte di una terra senza eguali che in nessun modo può venir definita italiana.

Abbiamo sempre detto che prima della politica venga la missione culturale, senza il quale la tenzone repubblicana rischierebbe di essere sterile e di ripiegarsi su se stessa. Ma è evidente che il lombardesimo presupponga l’impegno in prima persona, come elettorato attivo e passivo, e per tale ragione occorre rifondare la politica lombarda alla luce del radicale cambio di rotta che la testimonianza lombardista prevede. Non più pagliacciate e tradimenti in stile leghista, bensì la giornaliera vocazione etnonazionalista e indipendentista che dia un volto concreto alle rivendicazioni etniciste e razzialiste del nostro credo, puntando tutto sull’autoaffermazione autoctona. Via da Roma, Bruxelles, New York, Washington e Tel Aviv, tagliando i ponti con ogni ente parassitario e sovranazionale, Vaticano incluso: la Lombardia, nostra unica patria, al di sopra di ogni cosa, in quanto unico paradiso possibile, in barba alla sciocca retorica risorgimentale e alle menzogne pretesche che hanno completamente plagiato il povero popolo padano-alpino.

La natura patologica dell’antifascismo

Sappiamo tutti benissimo come l’antifascismo del 2025 era volgare non abbia nulla a che vedere con l’opposizione ad un regime dispotico, morto e sepolto da 80 anni, ma sia soltanto una sorta di meretricio lib-dem nei riguardi del libero mercato e dell’alta finanza. Gli antifascisti contemporanei tengono in vita, per interesse e opportunismo (a guisa di assicurazione sulla vita), i fantasmi di Hitler e Mussolini, ed è evidente come a loro questo giochino serva per nascondere l’imbarazzante horror vacui derivante dalla totale mancanza di argomenti e dalla distanza abissale nei confronti del popolo indigeno. Sono, costoro, i veri ossessionati da fascismo e nazismo, senza cui dovrebbero cercarsi un lavoro vero per rimediare alla propria natura parassitaria.

Cos’è, oggi, l’antifascismo, considerando che non esiste alcun regime fascista (specie in Europa)? E aggiungerei anche alla luce del fatto che lo stesso antifascismo originario, quello nato come sterile opposizione a Mussolini e omologhi (quando insomma il fascismo esisteva eccome), era rappresentato da quattro gatti esuli senza alcuna influenza concreta sulla politica della madrepatria? Presto detto, amici miei: l’antifascismo era, e soprattutto è, uno squallido contenitore di tutto il disagio e il degrado del mondo liberale e progressista, non certo un’esclusiva delle sinistre ma pure di quei tizi che si dicono moderati (centro-destra) e sono i più zelanti servi del sistema-mondo, e dei suoi padroni.

Dirsi antifascisti, in modo particolare oggi, equivale ad avere dei palesi disturbi della psiche e del comportamento, poiché l’ideologia antifascista, che già dal nome vuole soltanto distruggere e non rendersi propositiva e costruttiva, è un inno a tutto quello che crea ribrezzo in qualsivoglia uomo normodotato; odio per l’identità, la tradizione, la comunità, la patria, la nazione, il sangue ed esaltazione di quanto è diverso, anomalo, ripugnante, debole, alternativo alla ragione e al buonsenso. Un tuffo nell’orrore e nello squallore del progressismo, il cui intento perspicuo coincide con l’abbattimento e lo sradicamento di ciò che si fa pilastro di una società forte e sana, unita dai valori sacrosanti del nazionalismo etnico.

Con la scusa del fascismo, morto e sepolto ribadiamo (e senza alcuna possibilità di resuscitare, se non nella forma pagliaccesca dei neofascismi), ogni porcheria contro l’orgoglio patriottico è lecita, giustificando lo scempio col feticcio della democrazia occidentale che non è altro che un vuoto simulacro riempito dalle mafie dell’alta finanza. Dopotutto, gli antifascisti sono le sgualdrine del capitalismo e della plutocrazia, degli enti sovranazionali e delle banche, delle lobby e delle cricche degli intoccabili, sempre e unicamente dalla parte dei nemici del popolo, che vivono in modalità parassitaria e vampiresca alle nostre spalle.

Dividersi in destra e sinistra, fascisti e antifascisti, neri e rossi significa solamente buttare al vento tempo prezioso per badare a ciò che conta per davvero: l’autoaffermazione – anche etno-razziale – della Grande Lombardia. Il lombardista è chiamato ad andare oltre le carnevalate del teatrino italiano, che ancora nel terzo millennio ripropone sterili contrapposizioni che relegano in secondo piano l’indipendenza della Cisalpina, per puntare tutto sull’esaltazione razionale di sangue, suolo e spirito in nome della nostra vera nazione, quella lombarda. Cosicché pure l’inganno dell’antifascismo verrà smascherato, e con esso tutti i tragicomici buffoni che campano di rendita grazie ad un’ideologia stantia, inevitabilmente schierata dalla parte degli avversari della patria dei lombardi.

Luglio (quintile) – Iulius (Quintilis)

Gaio Giulio Cesare

Luglio (Iulius) è mese dedicato a Gaio Giulio Cesare, uno dei personaggi più importanti e influenti della storia e vanto imperituro dell’Italia etnica, nato il 12 o il 13 del corrente mese. Ebbe un ruolo cruciale nella transizione del sistema di governo romano dalla forma repubblicana a quella imperiale, e per questo venne spesso considerato il primo dei Cesari. Fu dittatore perpetuo di Roma e capo indiscusso dell’Urbe, prima dell’avvento del figlio adottivo Ottaviano Augusto, fondatore dell’Impero e primo imperatore effettivo della storia romana. Le infami pugnalate dei cospiratori cesaricidi misero fine troppo presto alla sua epopea terrena, aprendo però le porte alla sua divinizzazione. Il nome gentilizio Giulio deriva dalla nobile famiglia romana della Gens Iulia, di cui Giulio Cesare fu appunto il più illustre esponente, e sembra che l’etimologia del nome sia da connettersi alla consacrazione a Giove, massima divinità italico-romana. Il cognomen Caesar, divenuto sinonimo di imperatore, è invece di origine dibattuta, e non si può escludere sia di etimo etrusco (col significato di ‘grande, divino’).

Nel calendario romano romuleo ciò che divenne successivamente luglio era chiamato quintile, essendo il quinto mese a partire da marzo (il primo di quel mese segnava l’inizio dell’anno sacro, secondo arcaica tradizione ariana), posto sotto il patronato di Giove, ed era consacrato ad Apollo, dio del sole, e Nettuno, dio delle acque e del mare. Tale periodo dell’anno era caratterizzato da festività agricole volte a propiziare un buon raccolto, ma in epoca imperiale queste persero di importanza a vantaggio delle celebrazioni di Apollo (Ludi Apollinares) e di Giulio Cesare. Luglio è invece il settimo mese dell’anno, secondo l’attuale calendario, prepotentemente estivo, caratterizzato dai segni zodiacali del Cancro (sino al 22) e del Leone. Non stupisce che essendo un periodo di piena estate, contraddistinto dal solleone, il mese di luglio sia stato consacrato dagli antichi ad Apollo, divinità intrisa di solarità ariana (trainante il famoso carro infuocato) patrona di arti, musica, profezia, poesia, scienza e del lume dell’intelletto. Da qui lo spirito apollineo di nicciana memoria.

24 giugno: la Notte di San Giovanni

Croce di San Giovanni Battista

La  notte del 24 giugno si celebra il ricordo di San Giovanni Battista, personaggio naturalmente fittizio festeggiato per occultare le celebrazioni solstiziali che vanno dal 21 al 25 giugno, caratterizzate dai grandi falò notturni all’aperto, a simboleggiare il trionfo estivo della luce diurna del sole (come da tradizione astronomica indoeuropea), che però segna anche il suo lento declino a vantaggio delle notti che si allungano. Tali ricorrenze erano (e sono) molto sentite nel Nord dell’Europa, dove il 24 giugno è anche chiamato mezza estate, a ricordare l’antica data intermedia dell’estate nordica, nonché il principio dell’estate astronomica segnato dal solstizio del 21 giugno. La festività collegata al santo cattolico si celebra, anche in Padania e Italia (a Firenze, ad esempio), nella notte tra il 23 e il 24 giugno e ricalca, logicamente, le antiche celebrazioni pagane; la Chiesa l’ha ivi collocata non solo per scalzare la ricorrenza pagana assorbendola ma anche perché tale data cade sei mesi prima del Natale, altra festa palesemente pagana distorta e pervertita dai cristiani. Come il 24 giugno simboleggia la nascita del precursore di Cristo, così il 25 dicembre simboleggia quella di quest’ultimo. I falò, le luci, i fuochi pirotecnici, le luminarie sono tutte manifestazioni che trovano giustificazione nel nostro arcaico sostrato ariano.

Il santo, tra le altre cose, dà il proprio nome anche alla Croce imperiale, di origine medievale, della fazione storica ghibellina, che riprende la Blutfahne, bandiera da guerra del Sacro Romano Impero; allo stesso modo la classica Croce comunale di fazione guelfa prende il nome dal leggendario San Giorgio, una figura guerriera cara, come San Michele, ai Longobardi (ma anche il Battista era significativo nella loro devozione). Stiamo parlando di due simboli sì concepiti cristianamente (anche se il simbolo della ruota, il disco solare ariano, è una croce sovente inscritta in un cerchio, dalla valenza sacrale connessa all’astronomia e all’unione di terreno e uranico), ma che trasudano un potente significato storico che forse proprio nelle Lombardie raggiunge il suo culmine: nella Grande Lombardia, anello di congiunzione galloromanzo tra Mediterraneo e Mitteleuropa, tra romanitas italica e nordicismo germanico, le Croci medievali (e i loro significati) si incontrano e scontrano, e da questa dialettica principiata nel Medioevo vengono a formarsi la comunità etnoculturale granlombarda e il sentimento di appartenenza europeo, che proprio nel Sacro Romano Impero trova la sua concretizzazione. Alla faccia di chi oggi spaccia per Europa la sua negazione mondialista. La Croce di San Giovanni Battista è ancor oggi emblema del Piemonte e di importanti comuni granlombardi quali Pavia, Como, Novara, Lugano, Domodossola, Bormio, Asti, Cuneo, Mondovì, Susa, Aosta, Fidenza, Forlì, Vicenza, Treviso, Castelfranco, Ceneda. 

20-21 giugno: il solstizio d’estate – Notte di mezz’estate

Litha

Il 20-21 giugno (quest’anno 21) cade il solstizio d’estate, il giorno più lungo dell’anno (e di conseguenza la notte più corta, dell’anno). Nell’antichità precristiana i popoli arii festeggiavano con grandi falò sulle colline e i monti l’arrivo dell’estate, la stagione del sole, e protagonisti indiscussi erano il fuoco, la luce, il solare spirito indogermanico che scacciava le tenebre e le forze maligne. Dalla dirompente forza del sole, che segna il cammino dell’uomo di retaggio ariano, ecco la celebrazione della fertilità virile che feconda la natura portando ad un tripudio di fiori, di erbe, di frutti, di biondeggianti messi. Con l’avvento del cristianesimo, il solstizio e la sua celebrazione sono stati assorbiti dalla notte di San Giovanni (24 giugno), in cui la veglia nella notte più breve dell’anno viene accompagnata, per l’appunto, dai tipici grandi fuochi all’aperto dal valore purificatorio e apotropaico. Come per il solstizio d’inverno (paradossalmente, il 21 giugno segna l’inizio del declino del sole che rinascerà proprio nel periodo solstiziale del 21 dicembre) e gli equinozi, siamo di fronte ad una festività alquanto rurale e pastorale, impregnata di rustica indole agreste che riecheggia il mondo protoindoeuropeo, in cui l’ethnos esaltato dal contadinato entra in ancor più intimo contatto e simbiosi con la natura circostante.

Il solstizio d’estate segna l’inizio della “bella stagione”, la stagione del sole, del caldo, dei cieli luminosi, del bel tempo, della vita all’aperto, e non a caso ha sempre assunto un importante significato sacrale e comunitario presso i popoli antichi, sia pagani (vedi, ad esempio, la celebrazione di Litha nell’Europa settentrionale) che cristianizzati (ricordiamo la natività di Giovanni il Battista, 24 giugno, da cui la notte di San Giovanni o di mezza estate, particolarmente significativa in Iscandinavia ma presente anche in Padania). Il folclore è poi giunto sino ai nostri giorni, gettando un ponte tra gli antenati e i loro posteri. Le ricorrenze pagane erano volte ad esaltare il sole anche per rafforzarne l’azione benefica, essendo il solstizio d’estate l’inizio del lento declino del giorno a vantaggio della notte. Avevano, dunque, carattere propiziatorio e venivano vissute intensamente dai convitati che si tenevano per mano, recitando formule magiche, attorno ai grandi falò notturni accesi durante il periodo solstiziale estivo. Essendo il sole allo zenit al Tropico del Cancro, il 21 giugno, il solstizio sancisce il suo ingresso nel segno astrologico omonimo (in passato, l’astro precipuo, nel solstizio estivo, si trovava nella costellazione del Cancro, ma oggi, per via della precessione degli equinozi, non è più così).

Dottrina

Nel pensiero lombardista vi è la soluzione a tutti i problemi che affliggono la nostra vera nazione, la Lombardia, poiché il lombardesimo incarna alla perfezione l’unica dottrina possibile di riscossa per il popolo cisalpino. Educare, o rieducare, specie le giovani generazioni, all’amor patrio, al culto dei valori identitari e tradizionali, alla contemplazione dell’endogamia, contestuale al rifiuto dei fenomeni di meticciato, è oggi più che mai fondamentale, perché proprio dal nazionalismo etnico passa il riscatto di una terra pluriminellaria, la Padania, che appare condannata all’estinzione e alla distruzione. Questo ciò che vorrebbero farci credere i nostri nemici, il cui principale ruolo è instillare in noi l’odio per sé stessi, nonostante nulla sia davvero perduto. L’esempio portato dai lombardisti, e da tutti coloro che credono fermamente nella necessità di affrancare la popolazione dalla sudditanza italiana e mondialista, ci pone di fronte ad una scelta radicale: unirsi alle file dell’etnonazionalismo lombardo o continuare ad alimentare, volenti o nolenti, la propria rovina.

Nessun dubbio a riguardo, per quanto concerne Sizzi e i suoi: l’unica via praticabile da intraprendere conduce all’autoaffermazione della nazione lombarda, a partire da una estrema presa di coscienza in merito a quell’orgoglio e a quell’identità di cui ci parla il lombardesimo. Solo quest’ultimo può salvare la patria, perché nell’etonazionalismo sta tutto ciò di cui abbiamo bisogno, inclusa la sacrosanta lotta per la liberazione delle Lombardie da Roma, dall’Italia e da ogni altro baraccone cosmopolita ed internazionalista. La cultura militante è l’ancora di salvezza dei lombardi, che sin dall’erudizione debbono emancipare le proprie coscienze dall’occupante-invasore, acquisendo una novella consapevolezza relativamente alla vera e genuina identità storica nazionale. Cultura, dottrina, comunità, politica, civiltà: ogni elemento fondante del profilo identitario lombardo ci parla della necessità di liberarsi, sotto qualsiasi punto di vista, dal giogo straniero che non è più francese, spagnolo o austriaco, ma italiano.

11-12 giugno (1859): la liberazione delle Romagne (festa della Senonia)

Galletto e caveja

Tra 11 e 12 giugno 1859 crollava il dominio pontificio su Bologna, Ferrara e la Romagna, siglato dall’abbandono dei cardinali legati delle Romagne, che lasciavano le città precipue. Finiva così una plurisecolare tirannia di stampo spirituale capitolino-semitico su Emilia orientale e Romagna, che aveva condotto città preclare, dense di storia e di gloria patria, politica e artistica come Bologna, Ferrara e Ravenna, ad un ovvio declino culturale e materiale. In seguito alle vittorie franco-piemontesi di Palestro e Magenta, gli austriaci, sostenitori del governo pontificio, furono costretti a sgombrare Bologna e dintorni, permettendo così l’annessione dell’area al Regno d’Italia (che, per carità, fu anch’essa una sciagura, ma di natura diversa). Emilia orientale e Romagna divennero politicamente Italia, finendo dalla padella alla brace sotto molti aspetti, ma quantomeno liberandosi dal giogo pretesco. Tale data può, dunque, rappresentare per emiliani orientali e romagnoli una sincera festa popolare, fondata su basi storiche importanti, della Romagna in senso allargato (le Romagne, appunto, retaggio romano-bizantino contrapposto al longobardo): anche in questo la Boica terminale e la Senonia appaiono affratellate senza drammatiche fratture, seppur rimangano due entità distinte; il Sillaro è ancor oggi confine tra due ambiti etnoculturali affini ma con le proprie peculiarità.

Nella concezione lombardista, l’Emilia orientale è certamente Lombardia etnolinguistica e Grande Lombardia, ma si allontana dall’ambito propriamente lombardo etnico in quanto priva di una radicata eredità longobarda; in questo senso, infatti, il Panaro ha sempre costituito un confine anche etnoculturale tra Langobardia e Romandiola. Tuttavia, è utile ricordare che, sebbene con grande ritardo, i Longobardi riuscirono a conquistare Bologna e Ferrara, penetrando in profondità nell’Esarcato bizantino della Romagna. Posero, a San Giovanni in Persiceto (Bologna), un ducato, nel 728 per opera di Liutprando, lasciando anche – pare – una certa traccia genetica negli abitanti del territorio di confine, strappato ai Bizantini. Sfortunatamente, Bolognese, Ferrarese e Romagna finirono successivamente nell’orbita della Roma papalina, venendo assorbite dallo Stato della Chiesa. Sicuramente, la nefasta influenza dei preti cagionò, in questi territori, un certo radicamento della mentalità “rossa” e libertina, prima comunista e poi progressista, a mo’ di antidoto (sbagliatissimo) alla reazione delle tonache. L’unico antidoto, infatti, alle scorie pretesche degli eresiarchi ebraici è l’etnonazionalismo, l’identitarismo etnico, e quel tradizionalismo che affonda le proprie radici nella gentilità indoeuropea: nel segno dei Celti e dei Gallo-Romani, che uniscono Bologna alla Senonia e all’ager Gallicus di Pesaro-Urbino-Senigallia.