17 marzo: la (vera) festa del papà

Liber Pater

Il 19 di marzo si celebra la festa convenzionale del papà, intitolata a San Giuseppe, padre putativo di Gesù Nazareno. In realtà, tale ricorrenza, risente profondamente dei Liberali romani in onore di Liber Pater, dio italico della fecondità agreste e maschile e del vino (un sostituto “edulcorato” di Bacco), Liberali che si tenevano il giorno 17 di marzo. Facile intuire, dunque, la consueta usurpazione cattolica, che colloca la celebrazione di San Giuseppe a pochissima distanza temporale da quella di Libero, cristianizzando la festa del papà che affonda le sue radici in una festività pagana. Il legame tra il 17 di marzo e il 19 è limpido, e tra l’altro, coi Liberalia, gli adolescenti romani diventavano simbolicamente adulti indossando la toga virile. Liber è dunque un dio agreste, andato a rimpiazzare i culti di Bacco che il senato romano aveva soppresso, per via della loro sfrenatezza orgiastica, ma conserva i tratti del dio del piacere, dell’ebbrezza e dei vizi.

Compagna di Libero è Libera, che presiedeva alle ragazze come il consorte ai ragazzi, e anch’essa veniva festeggiata il 17 marzo; questa coppia divina incarnava anche gli attributi sessuali maschili e femminili, e quindi la fecondità dell’uomo e della donna, ma pure la fecondità dei campi, che in quel giorno riposavano. Il vino (e la viticoltura), come nei baccanali, è al centro della celebrazione, e Liber ne è il protettore, colui sotto cui si gusta in primavera il vino novello. I Liberali avevano una forte connotazione agreste e rurale, venivano in origine celebrati in campagna, ed erano caratterizzati da libagioni, scherzi, maschere, grossolanità e volgarità festose; si cantavano inni a Libero offrendogli sacrifici ed esaltando la sua valenza virile, nonché la sua forza fecondativa. Ma Liber Pater, come illustra il suo nome, era anche il dio della libertà e dei diritti del popolo, in contrapposizione alla condizione servile e al potere oppressivo, patrono della plebe che si libera estaticamente (mediante il vino). I Liberalia si tenevano a ridosso dell’equinozio di primavera, in quanto feste del risveglio primaverile e del rinnovato ciclo di fertilità agricolo.

13 marzo: el Tredesin de Marz

Tredesin de marz

Nella foto riportata sopra potete apprezzare la nota pietra del Tredesin de Marz, situata nella chiesa milanese di Santa Maria al Paradiso, associata al culto di San Barnaba. Questa pietra forata dai caratteristici 13 raggi, in realtà, è un antichissimo simbolo solare di origine celtica, deturpato dai primitivi cristiani milanesi che vi conficcarono nel mezzo una croce, che in principio doveva ricoprire un’importante valenza in termini cultuali e astronomici. El Tredesin de Marz è il ricordo del primo diffondersi del cristianesimo a Milano per opera dell’annuncio di San Barnaba, e rappresenta ancor oggi la tradizionale festa della primavera e dei fiori milanese. Chiaramente, in origine, tale ricorrenza era del tutto pagana e sgraffignata dal cuore celtico di Medhelan. La pietra sunnominata si trovava inizialmente, con tutta probabilità, in una radura, esposta alla venerazione degli antichi Celti insubrici; San Barnaba, durante la sua predicazione, collocò nel foro centrale una croce di legno andando così a violare l’originaria valenza di questo testimone del paganesimo gallico milanese. Il tredici di marzo è dunque la festa meneghina del cambio di stagione, della primavera, dei fiori, della rinascita della flora, e proprio per questo, da tradizione, si attendeva tale giorno per tagliare i capelli ai bambini, affinché potessero ricrescere forti, sani e belli.

Oggi tale ricorrenza, venendo meno la coscienza identitaria dei milanesi indigeni, è ben poco sentita dalla popolazione, ma rappresenta comunque una celebrazione delle origini celtiche di Milano e dell’Insubria, da riconnettersi all’avvento della primavera e, dunque, ai culti uranici dei nostri avi indoeuropei, affatto sensibili ai richiami del legame ancestrale tra riti agresti, astronomia, sacro e natura incontaminata. La valenza della pietra incisa, col suo foro centrale e i suoi tredici raggi (tredici come il tredici di marzo), potrebbe essere quella di antichissimo simbolo solare che poteva fungere da calendario, da meridiana, da mappa celeste, da strumento astronomico. Tra l’altro, la pietra del Tredesin ricorda da vicino il celebre Sole delle Alpi, un simbolo celtico – ma anche ligure e longobardo – che rappresenta l’armonia, il ciclo stagionale, i ritmi della vita, la gioia di vivere dei popoli indoeuropei (Celti, soprattutto), la simbiosi tra uomo e natura e, naturalmente, come molti altri emblemi di tradizione ariana, il precipuo degli astri, il sole. Cosicché il tredici di marzo potrebbe anche essere la festa di tale noto simbolo, inflazionato dai leghisti, che non vedrei male come ipotetico emblema di una sorta di Chiesa nazionale ambrosiana, trasmutata in senso gentile, veicolo materiale della rinascita spirituale granlombarda.

La realtà etnica italiana

Chi segue il lombardesimo sa per certo che secondo Paolo Sizzi la vera Italia etnica è il centrosud, senza Padania e Sardegna. Per la verità, Sizzi si ispira al genuino concetto di italianità, che è l’unico possibile, grazie al quale è evidente come in nessun modo i territori cisalpini possano dirsi italici/italiani. Ce lo insegna la storia, ma anche e soprattutto l’antropologia, unita alla linguistica, alla cultura, all’identità e naturalmente alla genetica, oggi fondamentale. Se può avere un senso parlare di Italia e di nazione italiana, lo si deve fare riferendosi alla vera penisola, dall’Appennino in giù, includendo Corsica, Sicilia e Malta che sono inscindibilmente legate alla parte continentale appenninica, proiettata nel Mediterraneo.

Alla luce di ciò non è esatto affermare che l’Italia non esista, perché essa esiste, a patto che la si intenda, per l’appunto, come realtà etnica peninsulare e insulare (non sarda). Gli italiani, quelli veri, sono gli indigeni mediterranei di quella terra chiamata, in epoca romana, Italia Suburbicaria, le cui radici etniche sono etrusche, italiche, greche e greco-romane, con un apporto antico e imperiale di taglio levantino e contributi – talvolta minoritari – di popoli medievali quali Bizantini, Mori e Saraceni, Longobardi, Normanni, coloni cisalpini e balcanici. Si tratta pertanto di una nazione meridionale/sud-orientale, nel contesto europeo, con un etnonimo che nasce nel profondo sud calabrese.

Lo stesso nome ‘Italia’ esprime un concetto etnoculturale, storico e civile a cui la Padania è totalmente estranea, e in parte lo sono anche Toscana e Corsica. ‘Italia’ è la fusione di elementi greci/magnogreci – italioti – con quelli “indigeni” italici, osco-umbri, ed è ulteriormente arricchita da un tocco recente del Mediterraneo orientale, risalente all’epoca tardo-imperiale romana; Roma estese il concetto, in epoca augustea, sino allo spartiacque alpino, per motivi strategici e militari, ma è chiaro che si tratti di un prodotto d’importazione che non riguarda intimamente le origini dei nostri popoli.

E, dopotutto, cosa sarebbe la stessa accezione di cultura italiana, che la retorica patriottarda vuole forgiata nei primordi addirittura dalla medesima Roma antica? L’idioma di Firenze, la romanità di cartapesta, il cattolicesimo untuoso della Roma contemporanea, il sentimentalismo melodrammatico alla mediterranea e la massa informe di stereotipi fondati sulle caratteristiche negative e caricaturali dei sud-italiani, allargate, senza alcun senso, alla Cisalpina (sicuramente per via dei massicci esodi “interni” del dopoguerra). Perché anche l’idea nobile ed elevata di italianità, tanto cara agli sciovinisti, resta un qualcosa la cui matrice è tosco-capitolina, che non appartiene quindi al mondo granlombardo, la cui natura è essere anello di congiunzione fra Europa centrale ed Europa mediterranea.

Oppure, ci si appropria di fenomeni storici che oggi diremmo centrosettentrionali, includendo le terre mediane e meridionali, e la mente corre ai liberi comuni, all’Umanesimo, al Rinascimento, o ai fenomeni letterari e artistici che trovarono terreno fertile in Padania e Toscana, specie negli ambienti di corte. Per non parlare della rilevanza politica “italiana” dell’età contemporanea, che esclude totalmente il mezzogiorno (per quanto, si capisce, non vi sia alcunché di positivo e degno di nota negli sciagurati fenomeni che seguirono l’avvento della Rivoluzione francese e di Napoleone).

Perciò, cari amici, l’unico significato razionale di Italia, italiani e italianità esclude la Grande Lombardia, poiché riguarda in tutto e per tutto i popoli peninsulari e insulari, di lingua italo-romanza, estrazione mediterranea, prisca romanità (vi ricordate il Rubicone?), importante influsso greco e antiche e consolidate radici italiche. E gli Italici erano solo due gruppi, latino-falisco e osco-umbro, nelle loro sedi storiche schiettamente italiane. A partire dall’etnico, la poetica Ausonia non è cosa… nostra, e rispediamo più che volentieri al mittente ogni malata fantasia che veda lo Stivale fantozziano allungato sino al Brennero. L’identità è una cosa seria, astenersi buffoni tricolori.

7 marzo: la festa delle donne

Giunone Lucina

Alle calende di marzo (primo giorno del mese), presso gli antichi Romani, cadevano i Matronali, ricorrenze in onore di Giunone come Lucina, protettrice delle nascite e dei bambini. In tale celebrazione gli uomini facevano doni a mogli e madri, ottenendo lode e onore, soprattutto dalle compagne. Le donne erano solite fare dei voti, presso il tempio di Giunone Lucina a Roma, per la gloria dei mariti, proprio all’inizio dell’anno sacro romano, che coincideva con la ripresa delle attività militari; gli uomini ricambiavano, appunto, con dei doni, celebrando anche le nascite. I Matronali erano una festività che rivisitava la cerimonia privata del matrimonio, che veniva così ripetuta all’inizio dell’anno nuovo (il quale, come sappiamo, cominciava in marzo): ai presenti dei mariti rispondevano le lodi e le gratificazioni delle mogli. Il 7 di marzo, invece, a conclusione delle celebrazioni matronali, si tenevano gli Iunonalia, feste sempre in onore di Giunone, che devono sicuramente aver ispirato la moderna ricorrenza laica dell’8 marzo, festa della donna. Le calende di tutti i mesi erano consacrate al culto di Giunone, specialmente quelle di marzo che prendevano il nome di femineae kalendae.

Volendo individuare una festa delle donne (e delle donne come mogli e madri), eccola qui; una buona occasione anche per celebrare ciò che rende donna una donna: l’identità sessuale, il parto, la maternità, la femminilità, la sua complementarità al maschile, che è diversità, non certo inferiorità. Ma nemmeno ipocrita e ideologica parità di genere. Alla faccia della sovversione moderna che considera ormai una disabilità la visione naturale e tradizionale del gentil sesso, una taccia figlia del bieco patriarcato e via di queste sciocchezze progressiste. Che poi, mi chiedo cosa vi sia di progresso concreto nelle sparate della sinistra mondialista… Un’altra interessante ricorrenza centrata sul femminile cade il 31 di marzo (sempre tale mese): la festa della dea Luna, personificazione romana del satellite terrestre, complemento femminile alla personificazione maschile dell’astro solare, il Sol Invictus presso i Romani (ma anche il precedente, e autoctono, Sole Indigete, associato al radioso Apollo). Sembrerebbe che il carattere muliebre delle celebrazioni del mese di marzo derivi dal ruolo di mediazione svolto nel conflitto tra Romani e Sabini dalle stesse donne vittime del celebre ratto.

Il dualismo Carnevale-Quaresima

La veggia

Le celebrazioni della Quaresima (come della Pasqua) trovano riscontro nei lontani riti indoeuropei della morte e resurrezione delle divinità antiche, connessi ai culti agresti: si tratta delle feste del fuoco, tra inverno e primavera. Nel periodo in cui la terra sembra morta (nel riposo invernale), si passa ai primi tepori della primavera, durante i quali si assiste alla rinascita progressiva della natura. Il fuoco che si sprigiona dagli sterpi del falò, o da un pupazzo di legno (la lombarda veggia di mezza Quaresima, ad esempio), è un ricordo forte del fuoco sacro rituale, che doveva fugare ogni malanno dalle sementi nascoste sotto terra e propiziare l’abbondanza del raccolto. La Quaresima segue il Carnevale, oggi ridotto a mascherine, bambinate, stelle filanti e schiuma da barba spruzzata sui muri (o in faccia a ignari passanti), ma che trova precedenti significativi nelle Dionisie greche e nei Saturnali romani, espressione del bisogno di un temporaneo scioglimento degli obblighi sociali e delle gerarchie per fare spazio al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza orgiastica. Un disordine rituale temporaneo in vista di una solenne restaurazione ed esaltazione dell’ordine permanente, di derivazione divina. Nota bene: queste ricorrenze vanno di pari passo con i ritmi agresti stagionali, rappresentando l’intimo legame dell’uomo antico con la natura e gli astri del firmamento, suggellato dal sacro e dalla tradizione.

Il significato simbolico dell’antitesi tra Carnevale e Quaresima è da ricollegare all’antitesi distruzione-rigenerazione (vedi anche morte e resurrezione del Cristo), che si esprime nel mito dell’eterno ritorno e dei cicli cosmici. Una contrapposizione in cui il Carnevale trionfante finisce per morire, con tanto di celebrazione del suo funerale, in una sorta di parodia della passione di Gesù: il trapasso dalla gioia della vita alla fredda solitudine della morte. È anche interessante notare le anticipazioni di questo dualismo nel periodo dell’Avvento (che ricalca i Saturnali), di Capodanno e dell’Epifania, dove l’atmosfera orgiastica si alterna al perentorio richiamo alla sobrietà, al rigore, alla purificazione. I riti di accensione del fuoco segnano le fasi di transizione lungo l’anno solare, e fanno parte del bagaglio culturale di antichissime tradizioni indoeuropee pagane, prima che cristiane. Nei periodi di passaggio dell’anno si sono, da sempre, svolte cerimonie atte a purificare ed espellere i demoni del passato, celebrando il nuovo che ri-nasce sconfiggendo il vecchio: e cos’è la Pasqua cristiana se non questo, ossia il trionfo luminoso della primavera, della vita che si rigenera, abbattendo il passato invernale con la morte apparente della natura? Gli intermezzi carnascialeschi mimano il caos della fine, che precede la grande palingenesi e l’avvento dell’ordine – trascendente – assoluto. Come sempre, dietro la patina abramitica dei periodi “forti” dell’anno liturgico, si può ancor oggi intravvedere l’originale matrice ariana, presente in moltissime ricorrenze ecclesiastiche del calendario cattolico romano. 

Marzo – Martius

Marte

Il mese di marzo (Martius), primo mese dell’anno nell’antico calendario romano (successivamente il terzo dopo febbraio), è dedicato al dio italico e romano Marte, dio della guerra e della protezione armata della terra (in età arcaica era anche dio del tuono, della pioggia, della fertilità), e in relazione con la pratica italica del ver sacrum. Era ritenuto antenato del popolo romano, per tramite dei suoi figli Romolo e Remo. Il teonimo Mars, parente dell’osco Mamers, pare derivare da un antico latino *Maworts, che potrebbe significare ‘colui che piega/trasforma il combattimento’, o comunque sia riferibile ad un etimo da riconnettersi alla sfera bellica; un’altra ipotesi lo vuole apparentato col nome del dio etrusco Maris (accostabile al latino mas, maris ‘maschio’?), il dio ragazzo. Preposto alla seconda funzione dell’ariana tripartizione studiata dal Dumézil, ossia appunto quella militare, Marte presta il suo nome al mese di marzo in quanto, generalmente, le guerre iniziavano in tale mese (assieme alle attività agresti e alla navigazione). Il primo giorno di marzo era così il Capodanno sacro romano, in cui veniva rinnovato il fuoco di Vesta, dea del focolare domestico.

Presso gli antichi Ariani, infatti, il primo giorno del periodo marzolino segnava, con l’avvento della primavera, l’inizio dell’anno sacro (e non a caso settembre, ottobre, novembre, dicembre prendono tali nomi a partire da marzo); così era anche presso gli antichi Veneti, talché il Capodanno veneziano (more veneto, da cui il folclorico ciamar Marzo) cade l’1/3. Il fuoco sacro della dea Vesta era custodito dalle sue sacerdotesse (vestali) nell’omonimo tempio romano, a testimonianza di un antico culto indoeuropeo del fuoco, dunque del sole. Indovinate un po’ chi lo estinse, nel 391 era volgare…  Il mese di marzo è, quindi, mese dedicato a Marte e Vesta, sebbene la divinità tutelare, nell’antichità romana, fosse Minerva. Il periodo in oggetto è caratterizzato dall’equinozio primaverile, in cui la durata del giorno e della notte finalmente si equivalgono, dopo il freddo e buio periodo invernale, e le attività agricole a cui il mese era preposto consistevano nel predisporre i tralicci di vite, potare e seminare il grano primaverile. Marzo era pregno di ricorrenze religiose, per via della sua valenza di primo mese dell’anno, in cui la celebrazione di Marte, in quanto dio della guerra, era mirata alla sua esaltazione di guardiano dello Stato e dell’agricoltura, in associazione con il ciclo della vita e della morte. Le attività belliche e rustiche si chiudevano in ottobre, e con esse terminava la stagione di Marte, con altre celebrazioni. Marzo si apre con il sole nel segno dei Pesci, e termina con il suo ingresso in quello dell’Ariete (dal 21 del mese).

Il tempo di Carnevale

Maschere di Carnevale

Nel periodo attorno alla metà di febbraio, solitamente, o comunque a cavallo tra inverno e primavera, cade il Carnevale; etimologicamente vale ‘levare, togliere la carne’ prima della Quaresima, che inizia con il Mercoledì delle ceneri, nei Paesi cattolici. Le sue radici sono assai antiche, basti pensare alle Dionisie greche e ai Saturnali romani, e sta a rappresentare un rinnovamento simbolico, un rovesciamento dell’ordine, lo scherzo e la dissolutezza, e da un punto di vista più profondo e spirituale il bisogno di rigenerazione mediante abolizione del tempo e passaggio dal caos alla cosmogonia. Ma dopo questo clima orgiastico, l’ordine viene ripristinato. Il mascheramento tipico del Carnevale assume, allora, un significato apotropaico, in cui chi indossa una maschera acquisisce le caratteristiche soprannaturali dell’essere rappresentato (basti pensare ad Arlecchino e alle sue origini infere, e al culto degli avi): il passaggio da inverno a primavera incarnato dal tempo carnascialesco segna un transito aperto tra il mondo dei morti e quello dei vivi, simboleggiato altresì dall’energia riconquistata dalla terra, che si risveglia dal torpore invernale, e dal buio delle giornate brevi.

Il Carnevale ha il suo culmine nel giovedì grasso e nel martedì grasso, che sono gli ultimi prima della Quaresima; l’etimo, appunto, risale all’usanza del banchetto d’addio alla carne consumato la sera del martedì grasso, giorno prima del mercoledì delle Ceneri che sancisce l’inizio del periodo quaresimale. La maschera diventa la protagonista assoluta dei rituali e delle orge carnevaleschi, maschera che, però, nel teatro greco e romano ricopre un ruolo fondamentale, che è quello catartico: osservandola, deridendola, compatendola, ci si liberava di quegli aspetti presenti, in misura maggiore o minore, in tutti noi. Questo profilo si vede bene in una maschera come Arlecchino, figura antichissima caratterizzata da meschinità, bassi appetiti, stolidezza. Esso ha rimandi greci, italico-romani, germanici e romanzi, persino etruschi se pensiamo a phersu, la ‘maschera’, da cui l’italiano persona, e soprattutto personaggio (in latino significa parimenti ‘maschera’, nella sua accezione iniziale), dotato per giunta di vestito a scacchi, o maculato. Arlecchino è il simbolo del Carnevale “italiano” (cioè padano), per quanto figura tradizionalmente associata alla sola Bergamasca, tramite gli zanni lombardo-veneti e i poveri facchini delle valli orobiche che cercavano fortuna a Venezia, come scaricatori di porto.

Nasce Nazione Lombarda

Mercoledì scorso, in diretta alla Zanzara, sul finire dell’intervento ho dato il lieto annunzio: è nata l’associazione politico-culturale Nazione Lombarda, erede del Movimento Nazionalista Lombardo (2011) e di Grande Lombardia (2013) e definitivo approdo del lombardesimo militante. La fondazione risale al 23 dicembre 2024, in pieno periodo solstiziale d’inverno, ma l’ho solo ora resa nota proprio per approfittare dello spazio concessomi dalla trasmissione radiofonica di Giuseppe Cruciani, su invito degli autori che mi contattarono qualche settimana fa. Anche per questo li ringrazio, perché, seppur goliardico, il dittero crucianesco dà la possibilità di farsi conoscere e di diffondere pensieri, idee, tematiche che a mio parere, soprattutto oggi, sono molto importanti, e suscitano riflessioni.

La costituzione di Nazione Lombarda, come dicevo, è avvenuta lunedì 23 dicembre 2024, a ridosso del solstizio d’inverno, appunto per l’alto valore simbolico della data e del periodo. Abbiamo fondato in 10 di fronte ad un notaio, in quel di Bergamo, e oltre al sottoscritto (Presidente nazionale) vi erano i sodali storici Adalbert Roncari (Segretario nazionale) e Alessandro Cavalli; i nomi degli altri padri fondatori verranno divulgati successivamente, e avremo sicuramente modo di esporci e di presentarci. Infatti, il lancio pubblico di NL dovrebbe avvenire in primavera, possibilmente tra l’equinozio e il solstizio d’estate, anche in questo caso per il simbolismo e per il ricordo di quel 6 maggio del 2011, quando venne fondato l’MNL, l’associazione pioniera del lombardista.

Sino ad allora lavoreremo sul sito, sui profili delle reti sociali e sul materiale propagandistico, poiché il nuovo soggetto, casa dei lombardi e dei lombardisti, vuole davvero essere il frutto maturo di quella grande avventura ideologica e metapolitica principiata nell’estate del 2009, grazie alla creazione dei primi blog da cui diffusi il lombardesimo. Un’avventura il cui seme fu gettato già nel giugno del 2006, periodo nel quale giunsi in contatto con l’etnonazionalismo, l’indipendentismo lombardo di alcuni fuoriusciti leghisti e, naturalmente, lo studio e l’approfondimento di discipline fondamentali come l’antropologia fisica, la genetica delle popolazioni e l’etnologia applicate alle genti padano-alpine (e, più in genere, europee).

La nostra intenzione è coniugare la cultura militante alla metapolitica, senza escludere in futuro veri e propri impegni politici, fermo restando che l’acculturazione e l’affrancamento lombardista della coscienza dei nostri connazionali sono fondamentali e rappresentano la priorità di Nazione Lombarda. La natura dell’associazione, appunto, è politico-culturale, vale a dire fare divulgazione, anche sul territorio, senza perdere di vista l’impegno ideologico, teso alla salvazione e alla liberazione delle nostre terre, rieducando all’autoaffermazione e all’indipendenza. Prima dell’indipendentismo, è chiaro, viene il nazionalismo etnico, poiché sarebbe consolazione grama una Lombardia libera senza più lombardi. Veri.

Come ormai sapete da lustri, la Lombardia di cui parliamo è la nazione storica cisalpina, che abbraccia tutte le contrade della Padania geografica, nessuna esclusa. Anzi, vi sono anche territori oggi irredenti, ma indiscutibilmente legati alla Lombardia “italiana”, che sono parte integrante del quadro etnonazionale, e del progetto lombardista medesimo. E chi conosce il lombardesimo sa dunque bene quali siano i nostri obiettivi da perseguire, lungo la via della legalità, della democrazia e della civiltà, grazie a strumenti pacifici e diplomatici, ma con le armi della cultura. Nell’attesa dell’ufficializzazione pubblica, della presentazione sul territorio, vi invito come sempre a seguire i miei canali e profili sulle varie reti sociali, assieme a questo diario di bordo virtuale, da cui vi terrò aggiornati.

Dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone

Salut Lombardia! 

Paolo Sizzi in diretta alla “Zanzara”, con rivelazione finale

Nella serata di mercoledì scorso, 19 febbraio, ho potuto partecipare in diretta alla nota trasmissione radiofonica de La Zanzara di Giuseppe Cruciani e David Parenzo, negli studi milanesi di viale Sarca. Non sono nuovo alle incursioni di Radio24, poiché in passato, in diverse occasioni, venni contattato telefonicamente proprio dal Cruciani. A chi interessa, ecco il mio intervento, tratto da YouTube. So che qualcuno storce sempre il naso, a proposito dell’opportunità di approfittare degli inviti dell’irriverente dittero, ma continuo a pensare che sia giusto metterci la faccia e sfruttare l’occasione per poter diffondere il fondamentale messaggio identitario. Questa volta, peraltro, era un diretta e non una telefonata registrata e poi tagliuzzata.

È stata un’esperienza diversa, divertente e a mio avviso molto utile e preziosa, poiché, pur sapendo del carattere e del clima della trasmissione (specie per il fastidioso sottofondo parenziano, condito da insulti e acide banalità), trovo importante partecipare ad iniziative che, per quanto possano prestarsi ad ambiguità e controindicazioni, offrono l’occasione di farsi conoscere, sentire e di portare la propria testimonianza. Certo, io stesso non sono esente da venature goliardiche e ironiche e so stare al clima scherzoso, senza però perdere di vista il fine ultimo, che è quello di poter discutere, in un modo o nell’altro, delle proprie posizioni.

Non vorrei rovinare la sorpresa a chi, leggendo questo articolo, non avrà ancora avuto l’opportunità di guardarsi il filmato, perciò non scenderò nei dettagli. Chi invece ha già potuto assistervi, in diretta o differita, avrà apprezzato gli interventi a proposito di antropologia fisica, genetica delle popolazioni, disamine craniometriche (anche dell’orvietano Cruciani e dell’ebreo Parenzo) e, naturalmente, di lombardesimo. Ho infatti beneficiato della possibilità di diffondere ulteriormente il mio credo etnonazionalista, incentrato sull’autoaffermazione e l’indipendenza della Grande Lombardia, che del resto è un tema profondamente intrecciato con lo studio antropogenetico e del territorio. Il culto razionale di sangue, suolo e spirito conduce alla preservazione identitaria e, di conseguenza, all’affrancamento del sentimento patriottico della nazione cisalpina.

Il sottoscritto è animato da sempre da un salutare fervore etnicista e razzialista, convogliato nel nazionalismo panlombardo. La coscienza comunitaria, l’orgoglio e il sentimento d’appartenenza, il rispetto e la ricerca dell’endogamia sono oggi più che mai necessari se vogliamo dare alla Lombardia una speranza di riscossa, rivincita e vera rivoluzione culturale e politica. Ogni strumento scientifico, volto alla contemplazione della natura biologica del nostro popolo, è altamente apprezzato, certamente nel rispetto di ogni altra realtà identitaria che non diventi un pericolo mortale lungo la via della nostra piena libertà.

A chi non ha assistito, buona visione, e a chi ha già dato mi auguro di aver potuto offrire un momento di riflessione e di acculturazione, con un pizzico di divertimento e di leggerezza, che a piccole dosi non guastano se intesi come intrattenimento culturale che dà l’opportunità di gustare sprazzi di costruttiva divulgazione razzialista. Sul finale del video, la grande sorpresa. Ho accettato l’invito della Zanzara anche per poter annunziare un lieto evento, che si spera fausto per tutta la popolazione cisalpina: la comunicazione ufficiale della nascita di Nazione Lombarda, di cui parlerò meglio nello scritto del soledì. Per questo, e chiaramente per l’ospitata, devo ringraziare la trasmissione, che mi ha permesso di parlarne. E pazienza per il consueto travaso di bile del povero David, molto avvezzo agli insulti e assai poco alle argomentazioni.

Salut Lombardia!

13-15 febbraio: i Lupercali

Lupercalia

Nel culmine devozionale del mese di febbraio, periodo di purificazione tra inverno e primavera (in onore di Februus e Febris, divinità etrusco-romane della purificazione, appunto), si celebravano i Lupercali, giorni di festa in onore di Fauno come Luperco (protettore del bestiame dall’attacco dei lupi). Importante oggetto della celebrazione era la fertilità delle donne, che venivano colpite con delle fruste dai luperci, sacerdoti del rito, fecondandole simbolicamente. Una ipotesi vuole anche che queste celebrazioni ricordassero l’allattamento di Romolo e Remo da parte della lupa, presso la grotta del Lupercale (Palatino). Figure animali centrali nei Lupercalia erano il capro (per la potenza fecondativa) e il lupo (il cui attacco andava scongiurato). La Chiesa, per cristianizzare tale festività pagana che cadeva tra il 13 e il 15 di febbraio, si inventò San Valentino, “patrono degli innamorati”, andando a sostituire la Candelora che venne anticipata al 2 del mese. A sua volta, la Candelora, ricalcò la valenza di luce e purificazione del mese di febbraio, parassitando la celtica Imbolc e gli attributi della dea Febbre, associata alla guarigione dalla malaria.

Perché San Valentino? Per via del tema della fertilità dei Lupercalia, e perché Valentino da Terni, vescovo e martire, sarebbe patrono dell’amore cristiano verso il prossimo, con particolare riferimento agli innamorati. La Chiesa ha sostituito i riti purificatori di febbraio, legati a Februus, Febris, ai Lupercali, con una serie di celebrazioni del tutto debitrici delle festività pagane, tese, quest’ultime, all’esaltazione del carattere purificatorio, luminoso e benaugurale del mese, periodo che si colloca a metà strada tra l’inverno e la primavera, pur essendo ancora del tutto invernale. Il tempo dal 2 al 4 del mese rappresenta la data mediana tra solstizio d’inverno ed equinozio di primavera, non a caso, e in virtù di questo gli antichi vi attribuivano un grande valore sacrale, intrecciato alle attività agresti, relativo al passaggio tra stagione fredda e primaverile, alla rinascente luce, alla purificazione della natura che va risvegliandosi dall’apparente morte invernale. La Chiesa, appropriandosi dei rituali pagani, ha distorto l’accezione delle feste di febbraio, cancellando il carattere schiettamente rustico, pagano nel senso etimologico del termine, delle ricorrenze in oggetto, sebbene ne abbia conservato la valenza purificatoria. Il significato della sola Candelora riassume, ancorché distorto, quello delle luminose ricorrenze italico-celtiche e romano-etrusche. Come sempre, i preti non hanno inventato nulla.