Prima che le lingue lombarde occidentali venissero diluite dall’azione di logorio esercitata, a partire dal Basso Medioevo, dal toscano, e prima che nel continente, ad est, irrompesse il veneziano, modificando inesorabilmente le parlate del Veneto, esisteva un’antica comunità e unità di lingua che legava i due tronconi della regione cisalpina. Come confermano le ricerche di studiosi quali Giovan Battista Pellegrini e Geoffrey Hull, il comune sostrato gallico – su latino volgare parlato nell’area padana – unito al superstrato longobardo, plasmarono delle loquele omogenee in tutto il nostro territorio nazionale granlombardo, tanto che le moderne etichette di gallo-italico (e ligure), retoromanzo e veneto avevano ben poco significato. Sussisteva un blocco piuttosto omogeneo che oggi sopravvive nel fossile ladino (romancio-dolomitico-friulano), profondamente legato alla Gallia Transalpina e alla Svizzera romanza, e non ancora annacquato dagli influssi esterni di lingue di ceppo differente: come detto, il fiorentino letterario e il veneziano, che col loro prestigio letterario e/o politico finirono per modificare sensibilmente la situazione linguistica della Cisalpina.
L’azione di disturbo del toscano trasformò lo schietto galloromanzo lombardo occidentale in gallo-italico, adottando in età recente l’italiano come lingua tetto, mentre l’approdo della parlata di Venezia nel resto del Veneto, sulle ali della Serenissima, scalzò il carattere galloromanzo del continente, allineando le parlate euganee all’ambito lagunare. A salvarsi da questi fenomeni fu il retoromanzo, che ancor oggi testimonia l’antica unità linguistica, i prischi caratteri delle lingue “padanesi” e il carattere incontaminato di un lombardo alpino non sottoposto a toscanizzazione. Lo stesso veneziano, pur essendo loquela romanza tutto sommato occidentale, esula dal genuino contesto galloromanzo, poiché influenzato da elementi analoghi a quelli italoromanzi cui fa capo il fiorentino letterario, un po’ come l’odierno ligure. Resta magistrale la lezione di Hull, cui rimandiamo, che dimostra appieno un comune destino linguistico di Gallia Cisalpina e Transalpina, sino a Medioevo inoltrato, compromesso più tardi dal prestigio degli idiomi di Firenze e di Venezia. Ma non del tutto.
L’ambito linguistico padano-alpino, che ovviamente è romanzo a livello globale, ricade senza alcun dubbio nella Romània occidentale, segnatamente di estrazione gallica. Se il galloromanzo canonico riguarda gli idiomi dell’attuale Francia, allargandosi include anche la Padania e la Catalogna, e nel primo caso si intende l’insieme gallo-italico e la famiglia retoromanza. Sino a Medioevo inoltrato, la Cisalpina era ancora considerata parte della Gallia e il legame linguistico e culturale con l’area transalpina francese e svizzera era certamente più forte di oggi. In antico esisteva una schietta unità idiomatica fra il troncone occidentale e quello orientale padano, poi frammentata dall’intromissione continentale del veneziano e l’azione erosiva esercitata dal prestigio del toscano sui volgari lombardi. Un fenomeno comunque distinto dalla cosiddetta scripta lombardo-veneta, che rappresentava una koinè illustre e letteraria. Il galloromanzo cisalpino, incarnato da gallo-italico e retoromanzo (ma senza veneto), fa parte della Romània occidentale e si stacca nettamente dal vero e proprio dominio italo-romanzo che fa capo all’italo-toscano.
Il grande equivoco dei “dialetti” padano-alpini figli del fiorentino letterario è una colossale idiozia figlia dell’ignoranza o della retorica patriottarda, ma che non ha alcun riscontro scientifico. Il termine ‘dialetto’ riferito agli idiomi lombardi ha senso – oggi – solo in chiave sociolinguistica, o al più per indicare le varianti locali della lingua lombarda intesa come sottofamiglia linguistica del contesto neolatino ovest. Il gallo-italico, a ben vedere, è storicamente lombardo e lombardo sarebbe anche il retoromanzo, non solo in virtù dell’antica unità teorizzata da studiosi come Hull ma anche dell’inconsistenza dell’etichetta “ladina”, già stigmatizzata dal Pellegrini. I ladini (romanci, dolomitici e friulani) sono lombardi quanto gli altri cisalpini, proprio perché l’unica, vera accezione di Lombardia è quella storica, ed etnoculturale, e ingloba l’intero dominio geografico della Padania. Padania che è poi Lombardia, appunto, e che da un punto di vista linguistico è solo ed esclusivamente Gallo-Romània cisalpina.
Parlando di simboli, insegne, stemmi, bandiere, vessilli vari, la Lombardia può fregiarsi di un nutrito armoriale che all’occorrenza fornisce emblemi di tutto rispetto e di sicuro prestigio.
La sua bandiera storica potrebbe essere la milanese Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco, nonostante personalmente non nutra molta simpatia verso di essa in quanto simbolo precipuamente genovese e legato al cristianesimo.
Però è chiaro: essendo vessillo plurisecolare legato alla Lega Lombarda, alla battaglia di Legnano, ai liberi comuni lombardi che si contrapponevano all’Impero e alla sua insegna di guerra con croce bianca in campo rosso (Croce di San Giovanni Battista o Blutfahne, nel caso appunto del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica), è degna di nota e considerazione, anche se francamente, a mio modesto parere, è più indicata per il comune di Milano e il cantone lombardista che prende il nome dalla capitale, dato che da lì proviene. Fermo restando che la suddetta Croce di San Giovanni ricorre spesso come emblema delle città storicamente ghibelline.
La Croce di San Giorgio è il simbolo per antonomasia delle crociate, e per qualcuno anche il vessillo della “vera croce”, basti pensare a certi dipinti in cui il Cristo risorto la impugna.
Insomma, la Croce milanese può prestarsi a varie interpretazioni, ma al di là di tutto è senza dubbio un’insegna storica panlombarda, nonché stemma di città come la citata Milano, Lecco, Varese, Alessandria, Novi, Acqui, Alba, Vercelli, Ivrea, Reggio, Mantova, Bologna, Padova e ovviamente Genova, per un motivo o per un altro legate a Milano e alla Lega Lombarda.
E proprio Padova, Bologna e soprattutto Genova l’hanno come simbolo; le prime due in onore della Societas Lombardiae, la terza perché genitrice di tale bandiera, o per lo meno storicamente genovese innanzitutto e poi milanese, lombarda, inglese (sebbene la leggenda voglia che tale vessillo sia di origine longobarda e, nel caso milanese, inizialmente insegna vescovile poi passata al municipio). Ci sono anche teorie bizantine, a riguardo del capoluogo ligure.
Pure la sunnominata Croce di San Giovanni Battista appartiene storicamente alla Lombardia, perché insegna di quelle città fedeli all’imperatore quali Novara, Domodossola, Como, Pavia, Lugano e poi anche Aosta, Cuneo, Asti, Fidenza, Vicenza, Treviso, Ceneda.
Queste due tipologie di croci, a sud delle Alpi, sono tipiche della Pianura Padana e sintomatiche dell’antica contrapposizione tra guelfi e ghibellini. E lo stesso cromatismo bianco-rosso è un simbolismo spiccatamente cisalpino, che lega la nostra terra al resto dell’arco alpino.
Ad ogni modo, le mie simpatie vanno innanzitutto al Biscione, el Bisson, emblema dei Visconti, della Milano ducale, della Lombardia longobarda e pagana, uno splendido simbolo assieme all’Aquila imperiale del Sacro Romano Impero (ovviamente retaggio romano delle legioni, passato in eredità alla Germania). Ritengo questa insegna – il noto Ducale visconteo – degna bandiera del popolo lombardo.
La vipera azzurra è un simbolo sacro per i Longobardi, si ricollega ai miti celtici dei draghi d’acqua padani (tra cui il drago Tarantasio del Lago Gerundo) ed è anche un segno guerresco perché l’omino che ingolla, in origine, era moro. Questo, si dice, perché i Visconti l’avrebbero “scippata” ai musulmani di Palestina, durante le crociate, invertendone il significato apparentemente ctonio, dovuto alla vita che nasce dalla bocca del serpente. Probabilmente una leggenda, per quanto suggestiva, dacché il Biscione è un elemento araldico di sicura origine insubrica.
Tuttavia, è interessante constatare un certo sincretismo simbologico nell’attuale Bissa, o comunque la possibilità di una lettura ampia, frutto della stratificazione identitaria lombarda.
La Lombardia regionale occidentale (Insubria vera e propria) si fregia anche della famosa Scrofa semilanuta, simbolo della Milano gallica di Belloveso, mentre la Lombardia regionale orientale (cosiddetta Orobia) ha il nobile Swastika camuno, che non è la castrata rosa pirelloniana ma una vera e propria croce solare ariana, scavata in diverse incisioni nelle rocce della Val Camonica, millenario emblema solare della nostra gente che accomuna tutti gli europei grazie al loro retaggio indoeuropeo.
Pure lo Swastika è un prestigioso segno di riconoscimento identitario della terra padano-alpina, e non a caso è stato da me scelto come simbolo del lombardesimo, integrato nell’ipotetica bandiera nazionale della Grande Lombardia: fusione delle due Croci bianco-rosse padane con al centro, appunto, la vera “rosa” camuna.
Ad arricchire il quadro simbologico identitario, ecco la Razza viscontea, araldico motivo dei Visconti, che consiste in una raggiera gialla e rossa, che rappresenta il Sole Invitto, avente nel mezzo uno scudo vagamente tedesco argenteo contenente il Biscione azzurro coronato, un simbolo formidabile, ariano, pagano, terragno (per quanto, al solito, inflazionato dalla cristologia); la sunnominata Aquila latino-germanica, nera, ad una testa, parimenti coronata e su sfondo dorato, emblema classico della continuità imperiale romana ereditata dal mondo teutonico, a cui la Lombardia storica si ricollega; e naturalmente la ruota solare, il disco solare nero, schietta e perentoria insegna indoeuropea, banalizzata dal cristianesimo ma senza dubbio di filiazione pagana, che per noi rappresenta l’intera Europa e il suo retaggio ario.
Ci sarebbe anche la sacra tripartizione cromatica bianco-rosso-nera della parimenti tripartita società indoeuropea, ma per approfondire vi rimando alla più dettagliata pagina in materia di panoplia identitaria ed etnonazionalista di tutte le Lombardie, non solo di quella regionale.
Il piatto, ad ogni modo, è davvero ricco e la Lombardia in fatto di simboli non ha nulla da invidiare a nessuno, ed è chiaro sintomo di identità, di tradizione, di più che lecite aspirazioni all’autodeterminazione indipendentista, chiaramente su basi etniche, in virtù di una storia e di una civiltà, parte del cuore europeo, senza eguali.
La ruota solare, impreziosita dal cromatismo indoeuropeo, che ideai per i movimenti lombardisti, è il risultato dell’incontro fra la Croce di San Giorgio, la Croce di San Giovanni e il disco solare ariano, un’integrazione che riassume in sé il significato etnico della Lombardia: cisalpina, romano-germanica, indoeuropea.
I simboli, le bandiere, i colori, degni di rispetto e considerazione perché ammantati di sacri rimandi, sono sempre imbevuti di spirito guerriero, proprio per il fatto che la civiltà europea è stata plasmata dalle guerre. E la tradizione europea stessa passa proprio per le armi, che ci hanno garantito di poter ereditare un formidabile patrimonio che tutto il mondo ci invidia.
La concreta risposta alla funerea barbarie universalista figlia del giudeo-cristianesimo, del giacobinismo, del marxismo e dell’attuale mondialismo capitalistico e affaristico, è la simbologia tersa, solare, fulgida, retaggio di tutta Europa, destinata a concretizzarsi nella lotta identitaria per la salvaguardia del nostro lignaggio etnico, spirituale, nazionale.
Se essere lombardi ed europei, di stirpe indogermanica, ha ancora un senso per noi, è giunto il momento di farci valere per non soccombere di fronte al dilagante relativismo, frutto eziandio, e nemmeno troppo paradossalmente, dell’assolutismo cristiano basato sull’unico dio straniero di matrice semitica, e sulla sua opera di desertificazione e di castrazione delle genti continentali.
Si sarà capito che per il sottoscritto il concetto di nazionalità, distinto da quello di cittadinanza, è rigorosamente determinato dallo ius sanguinis, essendo lo ius soli un’autentica buffonata progressista ed universalista, preso singolarmente. Il lombardista crede nell’azione combinata dei due diritti, e dunque in una cittadinanza identitaria che aderisca alla nazionalità.
Di conseguenza, un individuo è lombardo (ed europeo) se lo è per sangue e per suolo, e poi chiaramente per spirito; questo non è razzismo suprematista, questa è la natura delle cose, poiché la biologia non è fuffa. La questione culturale viene dopo, perché non basta parlare lombardo o mangiare lombardo per potersi a tutti gli effetti dire cisalpini.
Nello specifico, crediamo che un individuo possa fregiarsi dell’etnonimo di lombardo se ha almeno i 4 nonni, biologici ed europidi si capisce, cognominati alla lombarda, e in alcune zone è un autentico miracolo, credetemi. In aggiunta, residenza famigliare in Lombardia almeno dal 1900.
L’etnia è lombarda e dovrebbe esserlo pure la nazionalità: la nazione italiana estesa alla Padania non esiste, e quindi la nazionalità italiana allargata in maniera spropositata è una mascherata. Non concepisco nella maniera più assoluta una nazionalità basata su sciocchezze burocratiche e politiche, un qualcosa di artificiale, specie se confuso con l’arida cittadinanza degli stati di ispirazione giacobina.
La cittadinanza razionale, dunque, deve fondarsi su severi criteri nazionali, proprio perché la Grande Lombardia è una nazione, a differenza del fantozziano Stivale. A maggior ragione, non sono una nazione gli Usa, il cui intento è quello di ridurre l’Europa ad una loro fotocopia e succursale (cosa che in parte è già), anche quando si parla di nazionalità e di cittadinanza. Lombardi ed europei si nasce, non si diventa, il che non significa che tali popoli siano superiori agli altri. Significa, però, che la Cisalpina è una grande patria storica e che l’Europa è la nostra famiglia imperiale, aventi una ben precisa identità antropologica e genetica. Altrimenti possiamo pure cambiare i nomi delle nostre realtà etniche e tramutarle in bordelli cosmopoliti e multirazziali. Proprio come l’America.
Uno dei principali problemi della Lombardia etnica e storica, a partire da quella regionale, è la sovrappopolazione (10 milioni di abitanti su di un territorio di quasi 24.000 km², relativamente alla baracca del Pirellone) il che impone, al fine di preservare popolo e ambiente, di bloccare l’immigrazione e rimpatriare gradualmente buona parte dei puri allogeni che abbiamo in casa. Discorso che vale eziandio per i sud-italiani.
I lombardi devono riprendere a fare figli, ma è forse più importante cominciare a far rientrare nelle rispettive terre chi qui non ci dovrebbe stare. Ogni popolo, infatti, sta bene a casa propria. L’alternativa è il collasso: immigrati, cemento, inquinamento sono una miscela esplosiva. Credo sia nota ai più la disastrosa situazione di Milano e del suo hinterland, ma è ormai un’ossessione regionale quello del culto del capannone e del centro commerciale.
La popolazione della Padania andrebbe, in futuro, drasticamente ridimensionata, se vogliamo avere un destino eco- ed etnosostenibile, pure per una faccenda di sussistenza, preservazionismo ed equilibrio nel rapporto uomo-natura. Raggiungendo così parametri qualitativi alti, in termini di vita e di benessere. Si capisce bene il perché delle simpatie lombardiste verso endogamia, controllo delle nascite, aborto nei casi limite, eugenetica preventiva, fermo restando che la Lombardia abbia senza dubbio bisogno di rinsanguare la propria esanime schiatta.
C’è in ballo il nostro avvenire e non c’è cristianesimo militante o laico che tenga nella lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione dei nostri sacrosanti diritti etnonazionalisti. Oppure l’identitarismo etnico è lecito solo ed esclusivamente se si tratta di popoli del sud del mondo?
Chiaramente, andrebbero rimpatriati gli allogeni veri e propri, extra-europei, ma andrebbe contenuta drasticamente anche l’immigrazione europea, fissando un tetto massimo che non preveda ulteriori arrivi, sulla base della compatibilità etnica; non me ne vogliano gli italiani, ma come detto poco sopra sarebbe parimenti il caso di promuovere il ritorno in patria di loro peninsulari. L’etnia lombarda va preservata, recuperata e tutelata perché sempre più minacciata di estinzione, soprattutto nell’area occidentale. Non basta parlare solo di cultura, perché la lombardità presuppone un ADN padano-alpino.
Non ne ho mai fatto una banale questione pecuniaria, per quanto lavoro e denaro possano essere importanti, ma eminentemente etnoculturale e territoriale, il che nobilita la mia battaglia e quella comunitarista, finalizzate all’indipendenza della Grande Lombardia.
Non sono soltanto ragioni etniche e culturali, per l’appunto, sono pure ambientali, perché la sovrappopolazione e l’immigrazione selvaggia cagionano inquinamento, cementificazione, urbanizzazione smodata, traffico congestionato da terzo mondo, avvelenamento del suolo, dell’aria, della flora, della fauna, delle acque, dei beni artistici e naturali, del nostro habitat insomma, dell’umo in cui affondano da millenni le nostre lombarde radici.
Lasciamo dunque perdere il progressismo, il liberalismo, il cristianesimo, l’universalismo e il mondialismo, nonché il pietismo e il capitalismo, ma anche quell’untuoso indipendentismo di matrice marxista o libertaria, europeista, il cui motto è roba del tipo “veneto è chi il veneto fa”. L’indipendentismo deve andare di pari passo con l’etnonazionalismo, sennò rischia di ridursi a ridicole battaglie micro-sciovinistiche ed egoistiche, dettate da tracotanza affaristica, e nemmeno da identitarismo genuino. Il campanilismo, e il regionalismo, sono nemici mortali delle nostre istanze.
Il sangue non è acqua, il suolo non è un mordi e fuggi da società dei consumi, lo spirito inteso come lingua, cultura, identità, tradizione non è flatus vocis; questa triade è ragione di vita per ogni degno lombardo, orgoglioso delle proprie origini, dei propri natali, della propria patria cisalpina ed europea, culla della civiltà plasmata dai nostri arii progenitori.
L’indipendentismo promosso dal lombardesimo è lotta razionale per l’autoaffermazione del nostro popolo, basata sui principi e sui valori etnicisti: non si tratta, infatti, di separatismo alla catalana, di secessionismo alla leghista o di “handipendentismo” liberal caro a certe latitudini europee, e malato di antifascismo, concerne il sacrosanto affrancamento, anzitutto, del sentimento identitario che unisce le genti cisalpine, la cui identità etnica e storica non esitiamo a definire lombarda.
Un serio cammino all’insegna dell’identitarismo völkisch si chiama comunitarismo, e contempla culto, oserei dire scientifico, della terra, della stirpe, dello spirito come vitale scintilla culturale della gente nostrana, ispirato all’azione indipendentista. Perché la Padania non è Italia e merita a pieno titolo l’autodeterminazione, contro il giogo statolatrico di una nazione artificiale, che spetta ad ogni vero popolo europeo.
L’azione politica, è pacifico, deve essere inoltre accompagnata da quella metapolitica, e anticipata dalla cultura militante, perché altrimenti ci si continua a comportare come automi indottrinati dal sistema-mondo e completamente privi di solide basi etnoculturali. E nulla, pertanto, può davvero cambiare, come ha dimostrato il fallimento dello stesso leghismo, un fenomeno privo di mordente genuinamente identitario.
Bisogna avere calma, cautela, pazienza, costanza, perseveranza, senso della misura e del reale, un pizzico di furbizia (cosa in cui i cisalpini non eccellono, si sa) evitando le indecenti banalizzazioni, operate da Bossi e compagnia e loro replicanti, che non hanno fatto altro che inficiare ragioni sacrosante.
Le associazioni da me fondate, il Movimento Nazionalista Lombardo e Grande Lombardia, hanno rappresentato nel loro piccolo l’unica via da percorrere, per quei lombardi desiderosi di promuovere serio comunitarismo etnico su suolo lombardo, contemplando, ovviamente, la soluzione politica indipendentista. Esse hanno gettato un seme, e sono certo che il futuro, grazie anche al lombardesimo, potrà essere roseo. Nulla, signori, è perduto.
Certo, non dobbiamo giocare a fare i politicanti, o i generali senza esercito, ma divenire sempre più esempio per i nostri connazionali, affinché si riscuotano dal torpore e seguano la via dell’identità, scongiurando la dissoluzione coloniale favorita dallo status quo tricolore.
Che forse ci vergogniamo di essere lombardi? Abbiamo davvero il cervello così lavato e ridotto ad omogeneizzato dai nostri nemici, che si spacciano per sedicenti amici?
Ricordatevi che il senso di appartenenza è innanzitutto etno-razziale: dobbiamo dunque tutelare e preservare il nostro retaggio caucasoide europeo, la nostra specificità nazionale ed etnica, nonché il nostro patrimonio fisico e genetico.
Prima il sangue, poi il suolo ed infine lo spirito con tutte le sue manifestazioni. La coscienza linguistica, la cultura, la tradizione sono importantissime, ma il dato biologico è il carburante delle battaglie etnonazionaliste. Sebbene sia chiaro: senza spirito che lo corrobori, il sangue rischia di ridursi a mero fluido.
Ad ogni buon conto, il resto viene dopo. Politica ed economia incluse. Ma ciò, chiaramente, non significa rinunziare ad una visuale a tutto tondo che permetta al patriota lombardo di esprimersi su di ogni argomento. La dottrina lombardista consente una visione del mondo completa, andando a toccare qualsiasi ambito della nostra esistenza.
Ma se non c’è la sacrale triade etnicista e razzialista, che fa di un insieme di individui un popolo conscio di essere nazione, è inutile blaterare di soldi, welfare, pensioni, politiche sociali, progresso e sviluppo. Non è possibile ragionare sempre ed esclusivamente in termini di ordinaria amministrazione.
Siamo uomini, non banchieri, mercanti, strozzini, o preti.
E da uomini e donne davvero liberi dobbiamo vivere un’esistenza piena in nome di identità e tradizione, senza le quali la vita non sarebbe che un mucchio di banalità materialistiche e animalesche, seppur importanti.
La mia visione politica della vera Lombardia, quella etnica e storica, è dunque etnonazionale ed indipendente, libera dall’Italia ed inserita nel più ampio quadro identitario della confederazione euro-siberiana
L’etnonazionalismo è doveroso, per una patria plurisecolare come quella lombarda, al fine di preservarne il carattere comunitario e di affrancarlo dalla statolatria italico-romana che ci affligge, e che conosciamo ormai tutti benissimo, sperimentandola quotidianamente sulla nostra pelle.
In Lombardia, a proposito di identità, si pone una questione linguistica.
Che lingua usare nelle nostre terre, accanto – inizialmente – all’idioma franco toscano, per garantire la conservazione della specificità culturale cisalpina?
Da tempo penso che l’ideale, a livello ufficiale e nazionale, sia l’adozione del milanese classico, volgare, emendato dagli influssi forestieri (cioè italiani), essendo la variante lombarda più prestigiosa, codificata e conosciuta; è anche il gallo-italico più centrale, immerso nel cuore della Padania, miglior candidato storico ad assurgere a lingua di tutti i granlombardi. Questo, è chiaro, non esclude che, essendo la Lombardia relativamente variegata, si possa far sì che ogni territorio avente una precisa koinè istituzionalizzata (come, ad esempio, il bergamasco cittadino nella provincia orobica) la mantenga e la utilizzi a livello locale, come veicolo espressivo per la difesa del proprio retaggio.
L’italiano, idioma imposto alla popolazione cisalpina dalla scuola, dalla televisione e dai media, dalla burocrazia romana e ovviamente dalla politica, venne adottato in epoca moderna anche dalle corti lombarde per via del prestigio dei suoi modelli letterari, ma non è altro che la lingua italo-romanza di Firenze. Emerse, nel Medioevo, come il più illustre dei volgari “italiani”, dominando successivamente il panorama culturale della penisola grazie alla fama delle “tre corone” gigliate Dante, Petrarca, Boccaccio e anche diversi autori lombardi contribuirono al suo rigoglio (vedi Alessandro Manzoni su tutti). Resta però il fatto che il fiorentino letterario sia una loquela straniera, in terra padano-alpina, poiché la nostra nazione appartiene alla famiglia linguistica galloromanza allargata, al pari di occitano, arpitano, catalano, francese.
Vero, in Padania si parla il veneto, che non è una lingua esattamente gallo-italica, ma con un proprio peculiare carattere. Oggi deve molto all’influsso di Venezia sul continente (e il veneziano si avvicina al toscano), ma un tempo, come testimonia lo stesso Dante nel suo De vulgari eloquentia, i veneti erano ritenuti lombardi e usavano un eloquio assai simile al lombardo canonico. Lo stesso dicasi del retoromanzo, il ladino in senso lato, che al pari del gallo-italico è considerato galloromanzo. Anzi, questa sottofamiglia alpina presenta aspetti ancor più conservativi dei vari dialetti padani, purtroppo via via annacquati dall’influenza dell’italiano.
Da un mero punto di vista sociolinguistico, le lingue locali parlate in Lombardia vengono definite dialetti; questo non perché, come qualche idiota pressapochista crede, siano derivate dall’italo-toscano (cosa falsissima) ma per via del loro uso eminentemente orale, ristretto perlopiù agli anziani e limitato ad alcune sfere rustiche della quotidianità. Il fiorentino divenuto italiano, nella distorta idea nazionale di Italia, ha primeggiato, garantendosi il predominio letterario e culturale, e di conseguenza gli altri volgari riconosciuti sono arretrati adattandosi alla situazione locale.
Verrebbe, perciò, da chiedersi se, ad oggi, esista una vera e propria lingua lombarda, naturalmente unitaria. La risposta è no, perché il panorama linguistico della Grande Lombardia, e della Lombardia etnica, è frammentato, non foss’altro per il condominio di gallo-italico, veneto e ladino (romancio, ladino dolomitico, friulano). Si può dire, senza dubbio, che esista una famiglia linguistica lombarda, e cioè gallo-italica, storicamente estesa al retoromanzo: il galloromanzo cisalpino, dunque. E, in questa famiglia, a far la parte del leone c’è, con tutta evidenza, il meneghino, logico candidato a divenire il lombardo tout court.
Adottare il milanese classico volgare, emendato – anche ortograficamente – dai toscanismi, in qualità di lingua nazionale della Grande Lombardia non sarebbe un’operazione all’italiana, come le malelingue vanno cianciando: non si tratta, infatti, di imporre nella Padania una lingua straniera (cioè italo-romanza o altro), bensì di agire con salutare buonsenso identitario adoperando un idioma nostrano, cisalpino, non snaturato quale l’attuale veneto, pure per semplificare la burocrazia, l’amministrazione, l’istruzione e l’informazione. L’impiego del milanese/lombardo andrebbe di pari passo, localmente, con quello della variante indigena più prestigiosa, evitando il caos vernacolare.
Una lingua lombarda unitaria, oggi, non esiste, ma con la nobiltà della Milano incontaminata è del tutto possibile. Nel Medioevo è esistita una koinè padana, colta, la cosiddetta scripta, ma si trattava chiaramente di un esperimento letterario privo della robustezza genuinamente volgare, presentando essa tratti sovradialettali limati ed ingentiliti. Sono, invece, esistiti diversi volgari, predecessori dei moderni dialetti, quali milanese e bergamasco ad esempio, che non avevano nulla da invidiare, in fatto di dignità linguistica e letteraria, al toscano. Questo nonostante la bocciatura dell’italo-centrico Alighieri (la cui madre, ricordiamo, era cisalpina, di Ferrara).
Le lingue locali sono una ricchissima ed inestimabile fonte culturale per il nostro Paese, la Lombardia, da tutelare, difendere, preservare, tramandare e non da stroncare come fece l’ottusa politica fascista, ma pure l’attuale regime figlio della temperie partigiana e americana, incarnato da roba come il Pd.
L’identità verace sta sulle scatole a tutti quelli che vogliono forzatamente livellare, per una ragione o per un’altra, la cultura dei legittimi popoli, e proprio per questo noi dobbiamo salvaguardarla e trasmetterla di generazione in generazione.
Logicamente, bisogna anche capire che a livello nazionale la lingua ufficiale e letteraria deve essere una sola, nella misura in cui la Lombardia storica è una sola, altrimenti si rischia di incorrere nel minestrone multilinguistico alla svizzera.
L’italiano andrà gradualmente abbandonato. Esso nasce come volgare del capoluogo toscano, Italia etnica e Romània orientale, ed è estraneo alla tradizione linguistica genuina della continentale Cisalpina, area neolatina occidentale. Certo, non possiamo ignorare il fatto storico che, da secoli, il fiorentino sia divenuto, in parte, patrimonio letterario anche della Grande Lombardia, e che ormai sia la vera lingua materna di tutti i lombardi. Ma ciò non cambia la verità genetica di un parlare che non nasce nella nostra nazione. Anche gli irlandesi, purtroppo, parlano più inglese che gaelico, ma questo non li rende connazionali degli albionici.
Le loquele autoctone delle plaghe a sud delle Alpi sono tutte romanze, seppur diversificate dai fenomeni di substrato e superstrato, e le più prossime al latino sono sardo e toscano. Ma il patriottismo tricolore si basa su un concetto artificiale di romanità e latinità che, assieme al cattolicesimo, riguarda peraltro una buona fetta dell’Europa. E la lingua italiana, come detto, è un prodotto culturale toscano, per quanto esteso nei secoli all’intera “Italia”.
Noi lombardisti siamo convinti che la lingua di Milano, classica, rappresenti il lombardo per antonomasia, e debba dunque divenire lingua nazionale. Qualche bello spirito preferisce baloccarsi con improbabili koinài create a tavolino nel XXI secolo, mischiando le varianti occidentale ed orientale del lombardo regionale, dando vita ad una sorta di mini-esperanto che confonda le carte in tavola invece di chiarire la situazione. Meglio la naturalità all’artificio, soprattutto a proposito di identità. Oltretutto, il cisabduano è più simile al piemontese orientale o al piacentino, che all’orobico, ulteriore sintomo di una mera creazione italiana come la Regione Lombardia.
La vera Lombardia è quella etnica (bacino del Po) e storica (la Cisalpina), e ‘gallo-italico’ è, a ben vedere, sinonimo di ‘lombardo’. Il concetto di dialetti lombardi contemporanei è una forzatura, che grossomodo ricalca i confini regionali, e non rispecchia le varie affinità tra parlari padani. Esiste, pertanto, un lombardo ristretto e uno allargato: il primo coincide con milanese, bergamasco, bresciano, ticinese, novarese, cremonese ecc. mentre il secondo abbraccia tutto il gallo-italico. Ma la prima accezione ha poca logica, poiché esiste un serio discrimine tra insubrico e transabduano, ed è più che altro dettata da motivi di comodo.
Sarebbe consigliabile che tutti i veri lombardi, e cioè i cisalpini a partire da quelli occidentali, prendessero confidenza col milanese e lo studiassero in quanto, certamente, idioma schiettamente lombardo, rispetto agli altri, che subiscono diverse influenze per via della loro posizione geografica. Il Piemonte risente di francese e ligure; l’Orobia del veneto; l’Emilia e la Romagna subiscono il toscano, come la Liguria; le altre regioni granlombarde non sono, ovviamente, gallo-italiche. Tuttavia, per assurdo, il padano primevo aveva un profilo similare a quello del retoromanzo, quindi guardiamo con una certa simpatia al ladino.
Nelle scuole della Lombardia il “dialetto” andrebbe assolutamente insegnato, assieme alla storia linguistica della nostra nazione e delle varie province e territori storici. Scuole, ovviamente, liberate dal tricolore, in cui l’italiano ceda il posto al milanese/lombardo.
Un processo, per ovvie ragioni, graduale, principiando da una fase iniziale di bilinguismo, ma che promuova da subito la riscoperta e l’uso del morente idioma locale. Le nostre loquele sono la ricchezza culturale più evidente e significativa, all’interno del patrimonio identitario padano-alpino, e non possiamo permettere che vengano a mancare. Un popolo senza la propria lingua non ha futuro, e non può essere in alcun modo rappresentato concretamente da un mezzo espressivo straniero.
Il milanese, tra le varianti subalpine, ha una tradizione prestigiosa e ben attestata, fior fior di autori, di opere, di vocabolari e ha una fonetica e un’ortografia precise e normate, in quanto stabilmente codificato (si parla della versione classica). È conosciuto da tutti i lombardi, quantomeno di fama, ed è sicuramente il miglior prodotto della famiglia linguistica lombarda per via della sua centralità e purezza.
Milano è il perno della Lombardia, nostra capitale indiscussa, e tutte le aree storicamente influenzate dalla sua potenza sono certamente di pertinenza lombarda: l’Insubria, l’Orobia, il Piemonte, l’Emilia, vale a dire la Lombardia etnica. Forse, il discorso potrebbe farsi più complicato nelle Romagne, in Liguria e, ovviamente, nel Triveneto, oltre che nelle terre abitate dalle minoranze storiche, ma siamo dell’idea che l’adozione del milanese a lingua panlombarda costituisca un’occasione imperdibile, sulle ali del patriottismo e dello spirito unitario cisalpini. Fermo restando che nessuno si sognerebbe di chiedere ai granlombardi, specie periferici, di abbandonare i propri usi, costumi, tradizioni e idiomi. Il lombardesimo può tranquillamente conciliarsi col tollerabile particolarismo locale, in un’ottica di blando federalismo cantonale. E questo sebbene la nostra posizione su alcuni fenomeni, come il venetismo e la moderna “lingua” veneta, sia fortemente critica.
Oggi la Lombardia tramutata in regione artificiale dello stato italiano, e priva dei suoi restanti territori etnici e storici, versa in condizioni critiche per colpa del sistema-Italia e del sistema-mondo che l’hanno ridotta ad una babele, barbaricamente sovrappopolata, inquinata e cementificata.
Avanti di questo passo non ci può che essere l’ecatombe di quel che rimane del nostro povero popolo, soprattutto nelle zone peggiori che ruotano attorno alle grandi città come Milano, Brescia, Monza e Bergamo.
Del tutto inutili partiti e movimenti d’opinione di matrice vetero-leghista o autonomista, perché la loro attenzione cade esclusivamente su questioni economiche e sociali che alla lunga risultano banali, piccole piccole, irritanti, come se il problema globalista si riducesse a faccende pecuniarie e di benessere materiale; non serve a nulla quel soggetto politico che se ne frega del sangue e del suolo, dello spirito della nostra patria, appiattendo tutto sul piano del capitale. E poi, ovviamente, l’autonomismo è soltanto una farsa propagandistica e finanziaria: la vera Lombardia ha bisogno di indipendentismo.
Diversamente, l’accento va posto proprio sul problema etnico, ambientale e culturale della Lombardia, che ogni giorno che passa viene lentamente divorata dagli agenti internazionalisti del cosmopolitismo genocida, dell’egualitarismo, del terzomondismo, del pietismo, del capitalismo sfrenato, del progressismo, del liberalismo dei neo-con e degli schiavi dell’eresia giudaica vaticana.
Calci nel sedere a chi ci consegna nelle grinfie del mondialismo, svendendoci per denari imbrattati dal sangue del nostro innocente popolo, macellato dai burattinai dello status quo; tenetevi il vostro progresso, la vostra ricchezza, la vostra democrazia, la vostra tecnologia se questi comportano la distruzione della terra cisalpina e l’inesorabile genocidio dei granlombardi, sacrificati dai sacerdoti abramitici sull’altare del moloc finanziocratico, in nome dei peggiori disvalori modernisti tutti basati sul culto del soldo, sul consumismo, sull’edonismo, sul rovesciamento dell’ordine e della moralità di stampo indoeuropeo (di quella cristiana ce ne freghiamo altamente).
Non ci può essere alcun roseo futuro per la Lombardia, avanti di questo passo.
Si prefigurano scenari desolati e desolanti in cui a farla da padrone saranno gli allogeni, gli squali, i rossi contemporanei, i banchieri, e tutte le marionette del politicamente corretto e dell’ideologia woke sul libro paga della sovversione universalista, dunque gente come i preti postconciliari.
La nostra nazione, anche solo nella sua versione monca, sarà letteralmente sbranata dall’industrializzazione selvaggia, zavorrata dall’immigrazione incontrollata e dal dilagante meticciamento, avvelenata dall’inquinamento di ogni tipo e dalla cementificazione, oppressa dallo squilibrio demografico rappresentato da milioni di immigrati che schiacciano quella che oggi è ancora maggioranza, ma un domani? Che poi, in certe zone insubriche, maggioranza non è più.
La Lombardia, come il resto dell’Europa avanzata, finirà stritolata dal “progresso”, e non solo nelle città e nei loro hinterland, ma anche nelle loro province, financo nei territori collinari, montani, selvaggi, oggi incontaminati quasi del tutto. Ma ancora per quanto?
Se continueremo a lasciarci prendere pel naso dall’Italietta repubblicana, dallo stellato panno della Ue, degli Usa, di Israele, dalla Chiesa e dal cristianesimo e da ogni nefasta ideologia relativista, il nostro destino apparirà inevitabilmente segnato, e per la Lombardia sarà la fine: ogni traccia di identità e tradizione sparirà col suo popolo e lo stesso suolo patrio cambierà nome e connotati per sempre, ridotto a succursale delle agenzie apolidi che spacciano globalizzazione per benessere eco- ed etno-sostenibile.
Nel medesimo modo anche Lega Italia, leghe patacca e finti indipendentisti servi della Ue e dei suoi principali scagnozzi contribuiscono al genocidio (o auto-genocidio?) lombardo, perché ormai totalmente disinteressati alla questione etnica, e tutti indirizzati alle ben più comode e quiete mene economiche; la Lombardia deve assolutamente liberarsi da Roma ma cambiare bandiera senza cambiare, parimenti, la condizione delle genti, equivarrebbe comunque a rimanere tra gli artigli dei nemici atlantisti e mondialisti. Diffidate di chi vi spaccia autonomie e secessioni, prive di autoaffermazione identitaria, per libertà, poiché la stirpe viene prima dei quattrini.
Non mi stancherò mai di dirlo: più urgente dell’azione politica è quella culturale, dottrinaria, filosofica, metapolitica, in chiave lombardista, perché solo così abbiamo l’opportunità di rigenerare, in direzione völkisch, la res publica. Una politica lombarda che la faccia finita col cialtronesco fenomeno leghista e, soprattutto, con quella stucchevole concezione fascio-nazionalista, in senso tricolore, spesso e volentieri veicolata dagli allogeni italiani. La Lombardia non è Italia, Roma è una capitale straniera, ed è tempo di battersi, senza più equivoci, per l’affrancamento identitario, tradizionale e comunitario delle plaghe alpino-padane.
Solo con una salutare rieducazione dei lombardi alla presa di coscienza etnicista, specie dei più giovani, si può pensare seriamente di salvare il salvabile sconfiggendo i diuturni nemici delle vere nazioni, perché anche se tutto pare contro di noi nulla è perduto finché vi saranno lombardi e lombarde pronti a combattere per la vittoria e la salvazione di sé stessi e della comunità nazionale cisalpina.
Ci sono centinaia di associazioni che si occupano di (innocua) cultura, ambiente, flora e fauna, beni artistici, cibo, volontariato ecc., ma ce ne fosse una che si batte per la cosa più importante di tutte: la consapevolezza di avere nelle proprie vene sangue lombardo, con tutte le ovvie implicazioni in termini di spirito d’appartenenza.
Eh no, sarebbe “razzismo”, perché chi comanda ci vuole divisi, rimescolati, smemorati, privi di identità e tradizione, senza lingua e cultura, e dunque deboli e sradicati: solo l’identitarismo etnico, dunque l’etnonazionalismo, avversa il mondialismo e i suoi diabolici scherani.
Insubrici, orobici, emiliani, piemontesi, uniti a romagnoli, liguri, tirolesi, veneti, friulani, giuliani (in una parola cisalpini) fanno tutti parte della medesima inclita nazione, che è la Grande Lombardia; appartenervi non è mica una vergogna sapete? O preferite davvero svendere una delle regioni storiche che è parte del cuore della civiltà europea per lasciarvi lavare il cervello dalla retorica e dalla propaganda italianiste, incentrate su caratteristiche che appartengono solo ed esclusivamente agli italiani etnici, al centrosud?
Non siamo italiani, svizzeri, austro-ungarici, francesi periferici, tedeschi di serie B, bensì lombardi e abbiamo il diritto, ma soprattutto il dovere, di combattere a spada tratta contro ogni nemico che ci impedisce di realizzarci e di liberare la Lombardia dal giogo forestiero, pseudo-nazionale o internazionale che sia, il quale alla lunga ci conduce alla tomba per sfinimento.
Viva l’Italia? Ci può stare, ma senza di noi, per il semplice fatto che non siamo italiani (se non, purtroppo, politicamente, ad oggi); l’attuale stato italiano rappresenta soltanto la Saturnia tellus, e dunque il centrosud genuinamente italico, e nella Cisalpina ha posto in essere una sorta di occupazione e colonizzazione, a scapito dell’elemento indigeno. A Roma sanno benissimo che la Padania non sia sorella della penisola, ma a certe latitudini fa indubbiamente comodo poter mungere l’antica Gallia a sud delle Alpi…
Vogliamo essere lombardi in tutto o per tutto o continuare a fungere da muli che pensano solo a sgobbare e a fare soldi, in nome del catastrofico mito del fatturato?
Se la Lombardia si vuole salvare ha unicamente una via, da dover percorrere, ed è quella dell’etnonazionalismo, logicamente indipendentista, che mediante comunitarismo e pensiero völkisch, nonché razionalismo mai sganciato dal Blut und Boden, si batta per l’autodeterminazione etnica del popolo lombardo, magari all’interno di una sacrosanta cornice confederale euro-siberiana, la nostra grande famiglia imperiale. Una nazione è un insieme di popoli relativamente omogenei e compatibili, e non si può negare che dopo 4.000 anni di storia esista una nazionalità padano-alpina plasmata dal Mediterraneo settentrionale, dalle Alpi, dagli indoeuropei Celti e Veneti, dalla romanità assorbita dai Galli di Cesare, e infine dai Longobardi del Regno. Da cui la Lombardia medievale, storica.
Quella suindicata è una via irta di ostacoli, certo, ma quale cammino che valga la pena di battere non lo è?
Ciò che è facile il più delle volte è anche fallace; ciò che invece è difficile è meritevole di essere affrontato e di essere domato, grazie ad una incrollabile fame e sete di verità, libertà, sicurtà. I separatismi alla leghista, farseschi e meramente dettati da questioni economiche e di welfare, si macchiano di meretricio progressista o liberista. Ma qui non si tratta di separare alcunché, dal momento che la nazione lombarda non è il nord di un bel nulla.
Lottiamo per una Lombardia lombarda, non italiana o europea in senso artificiale, libera da Roma e da ogni altro ente mondialista. Solo così potremo garantire ai nostri figli e ai posteri un avvenire radioso fatto di identitarismo, tradizionalismo, nazionalismo etnico, sotto l’egida della vera Europa dei popoli, delle reali nazioni indoeuropee, che non è la caricaturale Europa degli stati-apparato ottocenteschi, o dei francobolli libertari cari a leghisti e “handipendentisti”.
Lombardia aria, gentile, unita in tutte le sue parti, e ovviamente europide, fino alla vittoria e alla palingenesi patriottica!
Con il disastro bellico, l’Italia perdette Briga e Tenda, Nizzardo e Corsica (occupati), Monginevro, Valle Stretta, Moncenisio, Venezia Giulia storica, Dalmazia e gli altri territori sudorientali occupati.
Nel “nordest” vi fu l’abominevole fenomeno delle foibe, frutto delle perfide politiche genocide di Tito, e il conseguente drammatico esodo istro-dalmata verso l’attuale Repubblica Italiana.
Il finto Paese italiano era tra gli sconfitti, nonostante il vigliacco voltafaccia di monarchia, regio esercito e partigiani, e nonostante, in una maniera veramente maramaldesca e inutile, avesse dichiarato guerra all’ex alleato giapponese, prostrato poi dalle atomiche americane.
L’Italia aveva confidato troppo nella Germania, e d’altro canto non aveva certo le forze per sobbarcarsi un conflitto divenuto mondiale, e lo stesso Giappone era remoto per poter contare su suoi concreti aiuti durante le operazioni belliche; la guerra divenne planetaria e l’Asse si trovò a fronteggiare il mondo intero, stretta com’era tra alleati (e loro colonie) e sovietici. La sconfitta fu inevitabile, e stupisce comunque la resistenza tedesca durata cinque anni, cinque anni in cui dopotutto non aveva potuto contare su camerati valevoli. Si aggiunga che sia Hitler che Mussolini di guerra sapevano poco o nulla, e i loro capricci costarono caro a Germania, Italia ed Europa.
Nel 1946, nel referendum istituzionale del 2 giugno, tra monarchia e repubblica a spuntarla fu quest’ultima, anche grazie alle massicce preferenze lombarde, e granlombarde, in direzione repubblicana; i lombardi, memori dello sfacelo sabaudo durante il periodo di guerra, votarono al 64,1% contro la monarchia.
Purtroppo si trattò di una repubblica plasmata da partigiani, democristiani, rossi, liberali e tutti gli altri tirapiedi del blocco occidentale e (meno) orientale, ossia dei vincitori, e ancor oggi ne avvertiamo le conseguenze, dato che lo stato italiano è sempre più uno strumento dei capricci atlantisti degli Usa, alleato di Israele e pedina del mondialismo anti-identitario, nonché ente vieppiù svuotato di sovranità dalla franco-tedesca Unione Europea (già Comunità Europea). Del resto, parliamo di una finta nazione.
Il dopoguerra fu anche il periodo del boom economico, che interessò soprattutto la Padania, portando a quegli esodi “interni” sud-italiani che hanno stravolto il tessuto etno-sociale originario delle terre cisalpine occidentali. In parte, questo sviluppo fu certamente cagione degli aiuti americani, ma ben poco importa: quelli prima distruggono e poi si lavano la coscienza col Piano Marshall, avente il solo scopo di legare a sé ancor di più i destini degli europei dell’ovest. Il progresso moderno lombardo era comunque in atto ormai da secoli, frutto della nostra storia.
Negli anni ’50 e ’60 del Novecento, Milano si arricchì di edifici, infrastrutture, aziende, complessi industriali, servizi.
Venne inaugurata anche la stagione del terrorismo nero e rosso (etichette di comodo per coprire misfatti governativi internazionali) con l’attentato di piazza Fontana del dicembre ’69. Da ricordare, parimenti, quello di piazza della Loggia a Brescia, nel maggio del ’74. Atti terroristici che fecero decine di vittime e centinaia di feriti.
Nel 1970 nacque la Regione Lombardia, parziale raggruppamento di genti lombarde manchevole, anzitutto, di VCO, Novarese, Ticino, Grigioni lombardo e, volendo, Tortona, Piacenza e il Trentino occidentale, ossia i restanti territori etno-linguisticamente lombardi, in senso stretto. Sua insegna una ridicolizzazione commerciale delle incisioni rupestri camune, la famosa “rosa”, che in realtà sarebbe meglio rappresentata dallo swastika rinvenuto, fra gli altri, nei siti di Sellero e Paspardo. Ma si sa, il politicamente corretto impazza, e come simboli tradizionali della Lombardia centrale ci sarebbero pure il Ducale visconteo e la Croce di San Giorgio.
Vennero anche inaugurati parchi naturali come quello del Ticino, primo parco fluviale europeo, nel 1974. Altre aree protette di questo tipo sono quelle di Colli di Bergamo, Alto Garda bresciano, Alpi Orobiche bergamasche, Alpi Orobiche valtellinesi, Groane, Mincio, Serio, Adda, Adamello, Oglio, Pineta di Appiano Gentile e Tradate, Valle del Lambro.
Un ulteriore, molto meno nobile, primato è quello che inaugurò la stagione dei disastri ecologici europei: la fuoriuscita di diossina dalla Icmesa di Seveso, nel 1976.
Nel 1987 vi fu l’alluvione della Valtellina, classico caso “italiano” di dissesto idrogeologico, una piaga che affligge anche la Cisalpina.
Nel 1992 nacquero le province di Lecco e Lodi, che “rubarono” territori a Como, Bergamo e Milano, e andarono ad unirsi agli enti di Milano, Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, Pavia, Sondrio, Varese (già staccatosi da Como in precedenza); nel 2004 è stata istituita invece la provincia di Monza e Brianza, a svantaggio di quella milanese. Un processo alquanto ridicolo, quello dello scorporo di province storiche, in quanto invece di dare adito al campanilismo, la Lombardia dovrebbe tornare ad essere Grande, includendo tutte le sue plurisecolari terre, cominciando dal novero etnico padano.
Gli anni ’90 proseguirono l’impetuoso sviluppo della regione: l’aeroporto di Malpensa (nato nel ’48) divenne internazionale (vedi anche il progetto Malpensa 2000), quello di Orio al Serio (rinato nel ’70 come aeroporto civile) si irrobustì e vennero discussi progetti di grandi opere infrastrutturali come la BreBeMi e la Pedemontana (il cui impatto ambientale è ovviamente drammatico), poi in parte attuati. Il traffico autostradale lombardo è quello più intenso d’Europa.
L’altra nota dolente è la spaventosa sovrappopolazione di questo ente regionale (densità di 418,85 ab./km²!), già minato da cemento, inquinamento, traffico, aria irrespirabile, conseguenza dell’esodo meridionale e della più recente immigrazione allogena. L’area transabduana, ma anche la città di Brescia, sono un inferno.
Risultato? Oggi, su 10 milioni e rotti di abitanti della Lombardia regionale, alcuni non sono nativi, o comunque ibridati.
La regione del Pirellone è uno dei quattro motori europei (assieme a Baden-Württemberg, Catalogna e Rodano-Alpi), nonché estremità meridionale della cosiddetta “Banana blu”, dorsale economica e demografica che dalla Val Padana, attraversando il territorio dell’antica Lotaringia, culmina nell’Inghilterra meridionale.
Siamo indubbiamente un’area ricca, prospera, industriosa, fertile, avanzata e dalla grande tradizione imprenditoriale, i cui sforzi, economicamente parlando, vengono premiati; anche in materia di sanità, benessere, servizi, agricoltura, artigianato si è sicuramente ben messi. La Lombardia attuale è la regione trainante dello stato italiano, assieme al “nordest”, ma sarebbe anche ora di far camminare l’Italia etnica con le proprie gambe. Anche per questo l’indipendenza della Lombardia storica deve essere una priorità, per i lombardi.
Credo si dovrebbe pensare, peraltro, ad un rientro dei sud-italiani stabilitisi nella Padania, perché hanno svuotato le proprie aree d’origine per sovraffollare quelle cisalpine, specie del noto triangolo industriale.
Inutile dire che, al contempo, l’immigrazione allogena vada fermata con tanto di rimpatrio perché essa giova solo a chi la sfrutta, non certo agli indigeni, e nemmeno agli allogeni oserei dire, in quanto sradicati e catapultati in realtà straniere. Con le conseguenze che tutti conosciamo.
Nel 2005 è nato il nuovo polo fieristico Rho-Pero, parte del sistema della Fiera di Milano. Nel 2015 si è invece tenuta l’Esposizione Universale a Milano, tra maggio e ottobre, una grande vetrina intercontinentale per la capitale e la Lombardia ma anche, ahimè, una grande fonte di lucro per personaggi non molto cristallini.
Nel 2017 si è svolto un referendum per l’autonomia della regione, in cui il SÌ ha trionfato con una percentuale del 95,29%. Ovviamente, il voto popolare è rimasto senza esito, e del resto l’autonomismo applicato ad un ente inventato da Roma è paradossale, un inutile pannicello caldo.
Tre anni dopo, la Lombardia regionale fu al centro dell’emergenza coronavirus, morbo d’importazione asiatica che infuriò particolarmente nelle zone orientali e meridionali, cagionando una strage di anziani. La gestione demenziale della politica, di fronte alla crisi, per quanto inedita ed inaspettata, andò ad accrescere l’infausta portata di un fenomeno virale alimentato dalla stessa globalizzazione.
Nel 2026 sono previsti i Giochi olimpici invernali Milano Cortina, occasione interessante per mostrare al mondo il vero volto della Lombardia, offuscato dalle magagne italiane che agli occhi dei forestieri accomunano tutto il territorio della Repubblica Italiana.
Purtroppo, la Milano di oggi identitaria non è, e come tutte le altre metropoli europee presenta gravissime lacune in materia di preservazione etnoculturale. Si aggiunga che, a differenza di altre, presenta pure le suddette tare italiane, spalmate in lungo e in largo dalla sciagurata azione della politica romana, che passano anche per quella fastidiosa mancanza di coscienza etnica, culturale, tradizionale, linguistica, territoriale e ambientale tipica invece delle realtà germaniche, ad esempio alpine.
Le uniche manifestazioni di “orgoglio” lombardo, al di là delle innocue iniziative folcloristiche di provincia, sembrano essere quelle clericali, in una regione in cui l’unico dato identitario ufficiale è quello cattolico, che identitario di certo non è, soprattutto in epoca postconciliare.
Ma se ci pensate la Lombardia è stata proprio stritolata dal centralismo romano post-risorgimentale, con tutti i suoi bravi stereotipi sull’Italia mediterranea e meridionale, e naturalmente rintronata da bibbie, rosari, madonnine e santi inventati di ogni forma e colore. Le bianchissime province lombarde sono (o erano) l’anticamera del Vaticano, a sua volta un organo del mondialismo.
Al leghismo, fiorito negli anni ’80, va il merito di aver sollevato la questione “settentrionale”, poi banalizzata nel tempo con tutta una serie di pagliacciate propagandistiche culminate nella trovata elettorale della Padania bossiana, presto rinnegata per poter banchettare a Roma, complice il berlusconismo. Il fatto è che anche i lombardi, notoriamente grandi lavoratori, ma poco propensi alle attività umanistiche lasciate totalmente in mano agli italiani, hanno le proprie responsabilità, avendo ceduto le redini del processo risorgimentale. Un processo nefasto, sfuggito alla classe dirigente cisalpina, e a breve tramutatosi nella tomba della Padania stessa. Ricordiamoci che se la criminalità e il malcostume sud-italiani hanno da noi attecchito è perché hanno trovato terreno fertile, per quanto restino prodotti d’importazione dell’esodo da sud. Per non parlare di Tangentopoli, con svariati protagonisti locali.
Cavalcando “Mani pulite” e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, con susseguente nascita della Seconda, la Lega Nord è riuscita a sfondare politicamente senza però ottenere nulla di concreto perché appiattitasi sulla linea dell’altro fenomeno nato in Lombardia, ossia il forzismo azzurro di Silvio Berlusconi, il controverso personaggio per vent’anni sulla cresta dell’onda, certo lombardo ma velenosamente intriso di italianità.
Umberto Bossi, lombardissimo come il Cavaliere e, nella sua fase calante, parimenti controverso (vedi alla voce “cerchio magico” ausonico), oltre che da sempre ben poco lucido, si è inventato la farsa del secessionismo, come detto rinnegata per far posto alle ricche prebende dell’occupante romano. Bossi, prima di Salvini, ha tradito la causa, preparando il terreno alla contemporanea Lega italianista.
La Lombardia etnica e storica – non la creazione italiana del 1970 – non ha alcun bisogno di farse propagandistiche: essa necessita di un robusto etnonazionalismo, che possa sbocciare nella piena autoaffermazione della nazione cisalpina. Dobbiamo poter respirare a pieni polmoni in senso identitario, e ciò è possibile soltanto divenendo indipendenti dall’Italia. Esatto, indipendenza, non secessione, poiché il concetto di secessione presuppone una separazione da un ente nazionale davvero unitario.
Il lombardesimo, alla luce di ciò, è nazionalismo etnico alpino-padano votato alla piena libertà della Grande Lombardia: non siamo il nord di nulla, poiché popolo unico, originale ed espressione di una realtà identitaria europea senza eguali, con una storia gloriosa ed esemplare. Lasciamo perdere la zavorra leghista, o identitari cisalpini, ed impegniamoci tutti quanti per una nazione lombarda libera, e cioè comunitaria, e sempre più europea. Attenzione, ho detto europea; nessuna allusione, dunque, all’Unione “Europea”, negazione mortale della nostra civiltà, esattamente come il patriottismo italiano esteso sino alle Alpi.
Successore dell’ammazzato Umberto I, fu il re schiaccianoci, Sciaboletta, ossia il deforme Vittorio Emanuele III, uno dei personaggi più squallidi che lo stato italiano abbia mai concepito.
Il progresso lombardo crebbe, nonostante agli inizi del XX secolo si registrassero ondate di agitazioni contadine nella pianura (1902), e altri massicci scioperi si avessero nel 1904 e nel 1906.
In quello stesso anno nacque a Milano il sindacato Cgil, assieme ad altre industrie: la Dalmine, l’Alfa (poi Alfa Romeo) e la Pirelli.
Nel 1908 venne aperta la galleria ferroviaria del Sempione, mentre a Sesto San Giovanni furono completati i primi grandi impianti della Falck e della Breda; nel 1912, invece, a Varese, la Macchi cominciò a produrre aeroplani.
L’Italia in quegli anni faceva parte della Triplice Alleanza assieme ad Austria-Ungheria e Germania; nel 1914, in seguito all’attentato di Sarajevo, la prima dichiarò guerra alla Serbia spalleggiata dalla seconda, all’oscuro dell’Italia: una violazione dell’alleanza.
La dichiarazione di guerra austriaca scatenò la Prima guerra mondiale e l’Italia, nel 1914-’15, scelse la neutralità.
Gli interventisti però cominciarono a farsi sentire, spronando ad approfittarne per attaccare l’Austria e riprendersi i territori “irredenti” ancora sotto il suo controllo. Si giunse così al Patto di Londra, del 26 aprile 1915, siglato fra Italia e Triplice Intesa (Regno Unito, Francia, Russia) e all’entrata in guerra di questo finto Paese il 23 maggio seguente.
Il fronte italiano (1915-1918) costerà oltre 600.000 morti (nonché bombardamenti aerei austriaci su Milano e Brescia), ma condurrà ad una vittoria tricolore da burletta contribuendo alla dissoluzione di un impero, quello austro-ungarico, multietnico, cattolico e da tempo traballante, stravolto dai legittimi nazionalismi dei popoli oppressi da quell’elefantiaco ente senza identità.
Come sappiamo, però, la vittoria italiana fu di poco momento e “mutilata” perché si ottennero Trentino e Alto-Adige, Venezia Giulia, Zara ma non Fiume e la Dalmazia settentrionale, promessi dal Patto di Londra. Assieme a ciò non si ottennero degne compensazioni coloniali e altri territori di strategico interesse italiano (soprattutto gli storici possedimenti adriatici della Serenissima) finirono altrove.
L’Italietta fu così fregata dalle democrazie borghesi occidentali e dagli americani di Wilson.
Nel 1919, in Padania e Toscana, si scatenarono gli eventi del cosiddetto Biennio rosso, cagionati dalla crisi economica postbellica: si registrarono in Lombardia 445 scioperi industriali e 6 agricoli, cui parteciparono rispettivamente 500.997 e 132.122 lavoratori.
Il 23 marzo di quell’anno, Benito Mussolini, già socialista interventista e direttore de Il Popolo d’Italia, fondò a Milano, nel palazzo degli Esercenti di piazza San Sepolcro, i Fasci italiani di combattimento, che seppero sfruttare abilmente la situazione del primo dopoguerra, così gonfia di risentimento per l’irredentismo frustrato. In esso confluirono sindacalisti, futuristi, arditi, reduci, socialisti, rivoluzionari.
L’ideologia di questo precursore del Partito Nazionale Fascista era contraddistinta da nazionalismo, irredentismo, “terza via” anti-reazionaria ma anche anti-progressista, e compì il primo passo verso la rivoluzione fascista che caratterizzò l’Italia durante il Ventennio mussoliniano.
Mussolini però sfruttò anche il malcontento borghese e padronale in chiave anti-socialista e il 15 aprile del ’19 squadre fasciste assaltarono la sede dell’Avanti!; lo squadrismo venne altresì impiegato per soffocare le rivolte operaie e agricole, colorandosi così di tinte reazionarie. Una situazione che durò dal 1919 al 1924.
Nel 1921, la popolazione regionale lombarda risultava essere di 5.204.013 residenti, di cui 701.431 a Milano, 98.094 a Brescia e 62.687 a Bergamo.
Nell’agosto del 1922, a Milano, venne proclamato uno sciopero generale; squadre fasciste occuparono Palazzo Marino esautorando l’amministrazione comunale socialista.
Nel 1924 venne inaugurata la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo; seguirono la Milano-Brescia e la Milano-Torino.
Il fascismo prese il potere nel 1922 con la Marcia su Roma, e per un ventennio ebbe in pugno l’Italia.
Fu una rivoluzione mancata, sotto certi aspetti, perché non liquidò né la monarchia sabauda né la Chiesa cattolica (nello specifico il Vaticano), e anzi, se le tenne buone per poter governare in santa pace; il nazismo in Germania non ebbe certo di questi problemi.
Il fascismo fu una continuazione autoritaria del Risorgimento, e il suo principale obiettivo fu quello di “fare gli italiani” rendendo grande l’Italia. Propositi cialtroneschi, che non hanno nulla a che vedere con le vere patrie e l’etnonazionalismo, e infatti il Littorio si pose in continuità con giacobinismo, bonapartismo, nazionalismo di cartapesta ottocentesco. La nazionalizzazione e la socializzazione del Paese, teorizzate dal sansepolcrismo, in parte riuscirono, pur scontrandosi con le solite influentissime logge di potere, dimostrando che Mussolini al di là di tutto seppe essere uno statista. Per quanto, chiaramente, al servizio di un ideale patrio artificiale.
Per certi versi, comunque, il periodo fascista più luminoso fu proprio quello successivo alla caduta del regime nel 1943, ossia il periodo della Repubblica Sociale Italiana, quando cioè il fascio non ebbe più in mezzo ai piedi re e papa e altre mafie, e si trovò a comandare l’Italia centrosettentrionale (con il sud nelle mani del traditore Sciaboletta e degli angloamericani), nel contesto dell’alleanza con la Germania hitleriana.
I tromboni antifascisti amano liquidare il biennio salodiano come stato-fantoccio dei tedeschi; in realtà fu un avanzatissimo progetto di socializzazione, purtroppo ostacolata e non attuata per via degli eventi bellici.
L’onta dell’Italia furono i Savoia e i loro tirapiedi (Badoglio), non Salò e chi ci volle credere fino alla fine, nonostante la guerra fosse ormai perduta.
Tornando al Ventennio, nel 1935 venne aperto a Linate (Milano) l’aeroporto Forlanini; nello stesso anno venne inaugurato il Parco nazionale dello Stelvio, a cavallo fra Lombardia regionale e Trentino-Alto Adige.
Nel 1936, Mussolini annunciò a Milano, in Piazza del Duomo, l’alleanza con la Germania di Hitler, parlando di “asse Roma-Berlino”. Alleanza che nel 1939 divenne Patto d’Acciaio.
L’alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo sarebbe potuta divenire la realizzazione di un’Europa diversa, né capitalista né bolscevica, dunque indipendente sia dagli Usa che dagli influssi comunisti dell’Urss, ma la guerra precipitò le cose che andarono come sappiamo. Fermo restando, comunque sia, che Italia e Germania non sono nazioni.
Nel settembre 1939 il Terzo Reich invase la Polonia; inizialmente l’Italia restò neutrale ed entrò in guerra nel giugno 1940, pensando che ormai la vittoria tedesca fosse cosa fatta.
La Seconda guerra mondiale fu una catastrofe per l’Italietta, impreparata com’era ad affrontarla e avendo in parte dissipato le proprie forze nell’avventura coloniale e in Spagna; Mussolini, che come Hitler non aveva certo la stoffa del comandante militare, commise svariati errori che vennero pagati salatamente, aggravati dall’inettitudine degli ufficiali ma in parte riscattati da alcuni episodi di coraggio dei soldati italiani, mandati a morire per dei capricci del duce.
L’Italia avrebbe dovuto starsene fuori da quella guerra, nonostante con essa poté, più che altro grazie all’intervento dei tedeschi, riconquistare provvisoriamente Nizzardo, Corsica, Dalmazia e rafforzare il controllo sull’Albania, oltre che su altri territori non italiani.
Nel 1943 gli scioperi di marzo bloccarono molte fabbriche di Torino e Milano, evidenziando il malcontento popolare per la dura situazione economica e l’opposizione operaia al regime fascista; i bombardamenti aerei, alleati, di agosto provocarono a Milano numerose vittime e gravissime distruzioni. La Lombardia fu in quegli anni messa a ferro e fuoco dai sedicenti paladini della libertà angloamericani, che bombardarono ripetutamente Milano, Brescia e alcune aree industriali della Bergamasca, mietendo migliaia di vittime. L’atto terroristico alleato più grave fu certamente la strage di Gorla, Milano, dove il 20 ottobre 1944 perirono 184 bambini di una scuola elementare.
Dopo la caduta del fascismo e la liberazione tedesca di Mussolini imprigionato sul Gran Sasso, nel settembre (23) del 1943 nacque la Repubblica Sociale Italiana, che occupò la porzione centrosettentrionale del dilaniato Regno d’Italia, morto l’8 settembre dello stesso anno. La sede di alcuni ministeri venne fissata a Salò; Mussolini risiedette nella villa Feltrinelli di Gargnano.
Il sud della penisola, invece, finì nelle mani degli alleati e rimase in quelle di Vittorio Emanuele III, il traditore fuggito a Brindisi, mentre la situazione precipitava, per salvarsi la pellaccia assieme a Badoglio e agli altri galoppini sabaudi, voltagabbana saliti sul carro del vincitore.
L’esperienza di Salò fu suggestiva, nonostante tutto, perché sembrava riproporre l’antico Regno Italico medievale, concentrato nel centronord e inquadrato nel Sacro Romano Impero, che per l’occasione assumeva le fattezze del Terzo Reich nazista.
Il settentrione fu anche caratterizzato dalla lotta partigiana, di varia natura, non solo rossa, un fenomeno assai ingigantito e strumentalizzato che finì ovviamente per fare il gioco degli alleati e dei comunisti stranieri, e non per riscattare un presunto orgoglio nazionale italiano; questi perse la faccia con l’8 settembre ’43 e quel che ne seguì, ripetendosi nella squallida macelleria di Piazzale Loreto.
Nel gennaio del ’44 il Comitato di Liberazione (?) Nazionale si trasformò in quello dell’Alta Italia, assumendo, in clandestinità, poteri di governo straordinario del nord. In marzo si ebbero nuovi scioperi più accentuatamente antifascisti ed anti-tedeschi nelle fabbriche milanesi e lombarde; il 13 luglio vi fu un durissimo bombardamento aereo su Brescia; in dicembre, ultimo discorso pubblico di Mussolini al Lirico di Milano.
Il 2 marzo ’45 altro grave bombardamento aereo su Brescia. Nella terza decade di aprile, l’intera Lombardia venne “liberata”: la farsesca insurrezione di Milano, con tanto di occupazione della città da parte delle brigate partigiane (migliaia di “infazzolettati” dell’ultim’ora, praticamente), iniziata la sera del 24, si concluse il 26.
Il 28 aprile Mussolini e altri esponenti del governo targato RSI (acronimo di SRI) vennero fucilati tra Giulino di Mezzegra e Dongo, nel Comasco.
Il giorno successivo i loro cadaveri (tra cui quello di una donna, Claretta Petacci, che nulla c’entrava) vennero esposti al pubblico ludibrio della folla inferocita a Piazzale Loreto, Milano, certamente una delle pagine più desolanti del fenomeno resistenziale, cosiddetto, che immortalò impietosamente non tanto coloro che penzolavano da quel famigerato distributore di benzina, quanto quella pezzente italianità di cartapesta che regolarmente si schiera dalla parte del più forte.
In realtà, fra l’altro, l’Italia non venne liberata da alcunché perché col 25 aprile passò integralmente sotto il controllo e l’occupazione diuturna americani, che la riempirono di basi militari, anche Nato.
Il fasullo Paese italico, dalle Alpi alla Sicilia, è specchio dell’entità statuale che lo rappresenta, e certamente i governi succedutisi dal 1861 ad oggi, salvo – più o meno – la parentesi fascista, sono stati (e sono ancora) ostaggio dei potentati stranieri. La parziale assoluzione del fascismo non è dettata da ragioni patriottiche (l’Italia non esiste), ma dal fatto che nel Ventennio Roma seppe esibire un briciolo di indipendenza, soprattutto nei riguardi della Babilonia occidentale.
Ma, a parte questo, anche a livello interno la politica “nazionale” deve scontrarsi con le ingerenze e gli interessi di soggetti estranei che un tempo potevano essere i Savoia e che continuano la tradizione con l’onnipresente Chiesa cattolica, per quanto agonizzante, e con altre cricche nemmeno troppo occulte (mafia, massoneria, minoranze varie).
La situazione si può risolvere solo ed esclusivamente promuovendo una robusta presa di coscienza etnica e culturale del non essere italiani, con particolare riferimento ai granlombardi, che non è un’invenzione leghista ma la naturale identità di tutti coloro che, autoctoni, popolano la Padania, dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone.
1848-1849, è la Prima guerra d’indipendenza: all’insurrezione di Milano contro gli austriaci (le Cinque giornate, 18-22 marzo ’48) fecero seguito l’occupazione della Lombardia da parte delle truppe di Carlo Alberto di Savoia, la sconfitta dei piemontesi a Custoza (23-25 luglio), l’ulteriore sconfitta di Novara (23 marzo 1849) ed infine le Dieci giornate di Brescia, la cui insurrezione venne soffocata il 30 marzo ’49 e le valse l’appellativo carducciano di “Leonessa d’Italia”.
1859, è la Seconda guerra d’indipendenza: vittoriosi a Montebello, Palestro e Magenta, i franco-piemontesi entrarono l’8 giugno a Milano; tra il 26 maggio e il 12 giugno Giuseppe Garibaldi occupò Varese, Como, Bergamo, Brescia; sconfitta anche a Solferino e San Martino (24 giugno), l’Austria, col trattato di Villafranca dell’11 luglio, cedette la parte precipua di Lombardia regionale (tranne Mantova) a Napoleone III, decisivo alleato del Regno di Sardegna, che ne “fece dono” a Vittorio Emanuele II di Savoia.
Il 17 marzo 1861 venne infine proclamato il Regno d’Italia a Torino, con Vittorio Emanuele II come sovrano; la Lombardia regionale, con una popolazione di 3.104.838 residenti, è assieme al Piemonte la regione più progredita e attiva del nuovo stato; il lavoro agricolo impiega 1.086.028 persone, mentre l’industria e l’artigianato 459.044.
Certi meridionalisti arrabbiati, e ovviamente i pittoreschi duosiciliani, vanno dicendo che l’unificazione, innaturale, di Padania, penisola e isole fu una rapina e un massacro ai danni del sud (la famigerata “terza potenza industriale d’Europa”, o era del mondo?) con conseguente arricchimento e sviluppo del “nord”; certo, come se la Lombardia fosse stata terzo mondo dall’epoca comunale e solo con il “latrocinio” sabaudo e garibaldino fosse divenuta quello che ancora oggi è, area trainante della baracca tricolore.
Alla vigilia dell’Unità d’Italia la situazione era la seguente: nella Pianura Padana aveva già preso da un pezzo avvio un capitalismo agrario, tecnicamente abbastanza evoluto. Nel sud, invece, permanevano i violenti scontri tipici del sottosviluppo: vastissimi latifondi, piccole proprietà insignificanti, coltura praticata con mezzi rudimentali in terre dalla resa scarsa, mentre la Cisalpina faceva fortuna con riso, pascoli, allevamento, caseifici.
Certamente il nord era afflitto dalla pellagra e la dieta era ben poco varia, e povera, ma la carne, nelle Due Sicilie, sulle tavole dei contadini si vedeva ben di rado.
Il pilastro dell’industria nostrana era la seta greggia, di cui l’Italia era la prima esportatrice. Le industrie erano addensate quasi esclusivamente in Piemonte e Lombardia, e ciò spiega come mai il decollo economico unitario avvenne in queste regioni. I primi impianti industriali (e ricordo che la Rivoluzione omonima nacque in Inghilterra sul finire del ‘700, ma esplose nella metà dell’800) furono i cotonifici di Torino, del Verbano, di Busto Arsizio, e i lanifici di Biella, Schio e Prato. Le industrie nascono grazie all’iniziativa degli uomini e lo spirito imprenditoriale lombardo è rinomato dai tempi medievali; gli imprenditori piemontesi e lombardi erano ancora terrieri, ma applicavano all’agricoltura criteri industriali: corsi d’acqua canalizzati, cascine, caseifici.
Capitolo ferrovie: i neoborbonici esaltano ancor oggi il primato del trenino-giocattolo di Ferdinando II, che aveva a disposizione solo 100 chilometri di binari; il Piemonte invece ne aveva 900, il Lombardo-Veneto 500, la Toscana 250.
A Napoli erano certamente rinomati, invece, lo stabilimento di Pietrarsa e la grande tradizione marinara, assieme a Genova. Genova che poteva contare anche sull’industria siderurgica targata Ansaldo.
Al sud il denaro scarseggiava, la cartamoneta era vista di cattivo occhio e gli investimenti latitavano: ivi mancava il coraggio e lo spirito imprenditoriali che invece albergavano in Lombardia, e i latifondisti tutto volevano fuorché il risveglio e lo sviluppo della plebe.
Le grandi banche erano nella Cisalpina, e così le casse di risparmio, nate a Milano.
A questo proposito ecco la classica accusa: “Il nord si è servito dell’unità per schiacciare il sud, distruggendone l’economia: le casse settentrionali erano vuote, quelle meridionali floride, così come le industrie napoletane”. Ma la realtà è diversa.
Il bilancio del Regno borbonico era all’attivo perché Napoli non aveva dovuto sostenere spese di guerra per unire questo finto Paese, a differenza del Piemonte, la piccola Prussia subalpina; inoltre, mentre i Borbone tesaurizzavano senza spendere, investire, innovare a vantaggio del popolo affamato, in Piemonte si investiva per attrezzare il Regno in campo industriale, per le bonifiche, le strade, le ferrovie, i canali.
E le industrie campane si riducevano agli stabilimenti meccanici di Pietrarsa, statali (dunque ben poco propensi al miglioramento del prodotto e all’abbassamento dei costi), e ai cotonifici svizzeri di Salerno, gestiti in regime di monopolio.
Con l’unificazione le barriere doganali fra i vari stati preunitari vennero soppresse, l’Ansaldo rimpiazzò Pietrarsa e Busto Arsizio surclassò Salerno, grazie al regime di libera concorrenza che produceva meglio e a minor costo. Le “floride” industrie partenopee decaddero perché minate dall’autarchia campanilistica.
La più grave cagione del ritardo del mezzogiorno, però, stava soprattutto nella mancata riforma agraria, tentata tra Settecento e Ottocento.
I borghesi riuscirono ad abolire il regime feudale, grazie all’appoggio del potere centrale che voleva spremere i contadini al posto dei baroni e della Chiesa, le cui terre furono confiscate. La situazione volse in favore dei grandi proprietari terrieri, nobili e borghesi, che fagocitarono le terre del demanio e della Chiesa lasciando ai “cafoni” le briciole e la miseria.
Inoltre, il terriero ausonico si guardò bene dall’investire i capitali, accumulati sulle spalle del contadinato, in migliorie e attività produttive, sancendo il grande fallimento dell’arcigna borghesia meridionale che non si dimostrò migliore degli esosi baroni. Questa classe dirigente accettò la subordinazione rispetto a quella settentrionale, a patto che venissero rispettate le sue prerogative parassitarie.
E così la spagnolesca classe dirigente del meridione ottenne il monopolio della scuola, che cagionò l’altissimo tasso di analfabetismo di laggiù: in Piemonte, Lombardia e Liguria era al 50%, mentre nei territori duosiciliani toccava il 90%.
In altre parole, se il sud, ancor oggi, versa in condizioni di degrado, abbandono, e ritardo rispetto al nord lo si deve proprio ai beniamini degli indipendentisti ausonici: preti, baroni, borghesi borbonici e Borbone stessi.
Lasciamo perdere altre amenità come Fenestrelle antesignana dei lager, e piemontesi raffigurati come bestie assetate di sangue meridionale.
Senza alcun dubbio, il nefasto Risorgimento fu prodotto padano-alpino, orchestrato da logge, sinagoghe e stranieri, e ne avremmo fatto volentieri a meno. Anche in qualità di orobici, visto che Bergamo si guadagnò il “prestigioso” titolo di “Città dei Mille”, grazie al contributo di uomini (179) che vestirono la camicia rossa garibaldina.
Nel 1866, l’annessione del Veneto ai danni dell’Austria portò Mantova e il suo territorio nuovamente sotto la Lombardia (intesa come attuale entità politica), completandone l’assetto regionale moderno; la regione etnolinguistica manca però di VCO, Canton Ticino, Grigioni lombardo, Novarese, e volendo anche di Tortona, Piacenza e Trentino occidentale. Fermo restando che la vera nazione lombarda riguarda, oltre a questi territori, la parte mancante di bacino padano e tutte le altre terre granlombarde.
La stessa Italia sabauda rinunciò a Nizzardo, Savoia, Corsica in favore di coloro che appoggiarono il Piemonte nella sua nefanda opera unificatrice, ma si tenne la franco-provenzale Valle d’Aosta; con la “grande guerra” conquistò Trieste, Istria, Venezia Giulia storica e il Tirolo meridionale storico, riunendo il Triveneto strappato all’Austria. Tutte queste plaghe sono geograficamente parte integrante della nazione cisalpina, ancorché abitate da minoranze.
Roma, tolta al papa, divenne capitale d’Italia nel 1870.
Tra il 1871 e il 1894, nonostante una robusta emigrazione di lombardi, Milano e la Lombardia si svilupparono sempre di più, inserendosi nel circuito commerciale nordeuropeo (grazie anche alla galleria ferroviaria del San Gottardo). Nascono nuovi cotonifici, il Corriere della Sera, le biciclette Bianchi, la Breda, la Tosoni, la Marelli, Crespi d’Adda, la prima Camera del Lavoro a Milano, i primi tram elettrici, e la popolazione regionale lombarda, nel 1881, salì a 3.750.051 abitanti.
Nel maggio 1898, in seguito all’aumento del prezzo del pane, vi fu uno sciopero generale a Milano: il generale Fiorenzo Bava Beccaris assediò la città mietendo, con tanto di cannoni, 81 vittime “sovversive”, ferendone 450. I limiti di una monarchia scellerata, in parte straniera, cominciarono a farsi sentire.
Il 29 luglio 1900, l’anarchico Bresci uccise re Umberto I a Monza, per vendicare i morti di Bava Beccaris. L’attentato chiuse il XIX secolo lombardo.
Il mio giudizio sulle vicende risorgimentali, cosiddette, è ovviamente negativo; unirono un Paese fasullo e portarono, solo per finta, all’affrancamento dal giogo straniero e petrino, poiché l’Italietta dalle Alpi alla Sicilia fu un prodotto anglofrancese avvelenato dai preti (e, naturalmente, da massoni, nostalgici giacobini, ebrei). Gli “italiani” animati da fervore patriottico, e desiderosi di battersi fino al sacrificio per la causa pseudo-nazionale, agirono in quanto pilotati da cricche di intriganti che non rappresentavano in alcun modo il popolo. Basti pensare ai referendum farsa che sancirono, per modo di dire, l’adesione e l’annessione al Regno di Sardegna delle varie regioni subalpine. Risorgimento e processo di unificazione, cagioni di una sciagura dietro l’altra, furono manovre dall’alto, di pochissimi a danno di moltissimi, ed espressione dei degenerati Savoia contemporanei.
Il Settecento, che con l’89 segnò la fine convenzionale dell’età moderna, è stato il secolo della massoneria, delle rivoluzioni, del giacobinismo, dell’avvento di Napoleone e dei cosiddetti “lumi”, dell’Illuminismo.
Proprio l’Illuminismo ha segnato il declino dell’idea genuina di Europa, spedendola nella fossa scavata a suo tempo dal giudeo-cristianesimo, sebbene, paradossalmente, le due dottrine non siano certo compatibili se non nel loro empito universalista anti-identitario.
In comune hanno appunto l’odio per l’Europa e le sue vere radici, e oggi ce li troviamo alleati contro l’identità e la tradizione nella grande guerra scatenata contro di noi dal mondialismo.
Naturalmente, quello che un tempo si chiamava Illuminismo oggi si chiama marxismo, comunismo, progressismo, liberalismo, antifascismo mentre il giudeo-cristianesimo continua a prosperare nel cattolicesimo postconciliare, un cattolicesimo castrato e ancor meno europeo di prima, tendente al protestantesimo.
Con l’Illuminismo prese piede anche il cosiddetto ebraismo internazionale; no, non voglio dare adito ad alcun complottismo antisemita, ma è chiaro che sull’onda dei “lumi” gli ebrei non solo promossero la loro uscita dai ghetti ma auspicarono anche un movimento globale, apolide, cosmopolita da loro coordinato e sfociato poi nel marxismo, nel sionismo come forma di imperialismo ebraico, nel bolscevismo, nel distruttore relativismo sessantottino (vedi Scuola di Francoforte), e naturalmente nelle svariate forme di affarismo capitalistico. Il fiuto per gli affari è una peculiarità storica giudaica, non dobbiamo prenderci in giro occultandolo: ma è una peculiarità frutto anche delle condizioni in cui la Chiesa costrinse gli israeliti, perseguitandoli per le balle sul deicidio, salvo sfruttarli per i propri interessi a danno altrui (vedi usura).
I “lumi” attuarono una vera e propria rivoluzione borghese, sulle ali della massoneria, e cioè della mafia per così dire radical-chic dei salottini buoni del Settecento, che portò non soltanto (magari fosse solo quello!) alla liquidazione dell’oscurantismo cattolico ma anche al sovvertimento innaturale delle istituzioni tradizionali, al terremoto relativista, al cieco fanatismo progressista, e allo sdoganamento del pluralismo a scapito degli indigeni, tartassati col mito del “buon selvaggio”.
L’Illuminismo, che per qualcuno rappresenta addirittura la nascita – o la rinascita – dell’Europa (nonostante in realtà ne sia la pietra tombale), portò alla formazione degli Stati Uniti, entità apolide senza storia e nazione partorita da intrighi massonici, alla Rivoluzione francese con annessi e connessi (stati giacobini, bandiere giacobine, sanguinari tiranni giacobini che tradirono, fornicando con la borghesia, dei legittimi sentimenti anti-tirannici e antimonarchici), al giacobinismo appunto precursore di socialismo marxista e comunismo, al bonapartismo, al rovesciamento dei valori tradizionali ed identitari, all’ipocrita triade Liberté, Égalité, Fraternité, che oggi come ieri inganna il popolo facendo gli interessi delle classi che vivono di rendita sulle sue spalle, e delle cosiddette “minoranze”.
Il Settecento illuminista plasmò i mostri ideologici che oggi terrorizzano la società civile con la loro becera dittatura relativista e anarcoide: ci si è sbarazzati della Chiesa per finire nelle fauci del nuovo assolutismo laicista e ateo, ma al contempo anti-europeo.
Il suddetto fosco periodo storico, insomma, pose le basi dell’attuale rovesciamento totale di valori del continente europeo, e di tutto quello che gli appartiene genuinamente, a partire dal sangue, dal suolo, dallo spirito.
I veleni d’oltralpe raggiunsero anche la progredita Lombardia, ma andiamo con ordine.
Eravamo rimasti alla Milano austriaca di Maria Teresa, che stava perdendo tutti i suoi possedimenti storici, sebbene liberata dal giogo spagnolo.
Con essa, nel 1760 entrarono in vigore il catasto e il nuovo sistema tributario.
Nella Lombardia asburgica giunse anche la rivoluzione industriale, principiata nell’Europa nordoccidentale sul finire del ‘700, ed esplosa nell’800, che rese la nostra regione la più sviluppata della fantomatica Italia, alla vigilia dello scellerato 1861, checché ne dicano certi fanatici duosiciliani; la Lombardia è sempre stata nei secoli, seppur tra alti e bassi, un’area geografica, a stretto contatto col cuore del continente, ricca, evoluta, redditizia, fertile e abitata da genti laboriose. Anche se coi loro difetti, si capisce.
Quattro anni dopo, nel 1764, ecco che la tormenta illuminista, foriera di rivoluzioni borghesi, frammassone e giacobine, investì ufficialmente la Lombardia austriaca con la pubblicazione del famoso libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene e del primo numero del periodico letterario e scientifico dei fratelli Verri, Il Caffè, che durò fino al 1766.
C’è da dire che il nazionalismo moderno prese le mosse dalla Rivoluzione francese del 1789; i bisogni di autodeterminazione nascono certamente da lì, ma sono stati traditi, pervertiti, snaturati dall’infida ottica borghese e, ovviamente, non erano nulla di etnonazionalista, come si può intendere oggi, si capisce. Ma in questo senso sta a noi, nella contemporaneità, aggiustare il tiro, ed evidenziare che il nazionalismo ha senso solo se è etnico. Altrimenti è tifoseria da stadio, o peggio ancora patriottismo di cartapesta alla francese e all’italiana (che è sottoprodotto giacobino del primo).
Nel 1765 Francesco III d’Este, duca di Modena e Reggio e governatore lombardo fino al 1771, ottenne in feudo da Maria Teresa la città di Varese.
Nel 1790 la popolazione lombarda, regionale, che all’inizio del secolo era poco più di un milione di residenti, toccò i 2.150.000 abitanti.
Nel 1796 finì il primo periodo dell’occupazione austriaca di Milano e di parte della Lombardia: il giacobino Napoleone Bonaparte, un corso di origine ligure-toscana, al comando delle truppe francesi rivoluzionarie, sconfisse gli austriaci a Lodi, e il 15 maggio entrò in Milano.
Un anno dopo si costituì la Repubblica Cisalpina, germe dell’artificiale Italia unita, comprendente l’attuale Lombardia occidentale (con la Valtellina e i contadi), quella orientale liberata dalla Serenissima (anch’essa liquidata dal Bonaparte), l’Emilia inquadrata nella Repubblica Cispadana, più il Polesine. Capitale del nuovo stato fu Milano; sua insegna il tricolore, certamente ispirato a quello ben più noto francese, ma a strisce orizzontali (e ideato prima di quello ungherese) e coi colori della Croce di San Giorgio e della divisa della Legione Lombarda (verde), un colore ghibellino e visconteo, peraltro, che si rifaceva alle uniformi della milizia cittadina milanese.
Nel 1801-1802 la Cisalpina diventò la primissima Repubblica Italiana, sempre con capitale Milano; Napoleone presidente, Francesco Melzi d’Eril vicepresidente.
A Milano, nel 1803, venne aperta la Pinacoteca di Brera; nel 1776 era stata inaugurata invece l’Accademia di Belle Arti, su progetto del Piermarini, che poi ottenne la cattedra di architettura.
Nel 1805, Napoleone, proclamato primo imperatore dei francesi, ricevette nel Duomo di Milano la corona di re d’Italia, auto-investendosi, indegnamente, con la nobile Corona Ferrea dei re longobardi. Viceré, Eugenio di Beauharnais.
Nell’ottobre del 1813 il Bonaparte venne sconfitto a Lipsia e nell’aprile 1814 il Regno Italico cadde; il 20 di quel mese venne ucciso dalla folla milanese inferocita il ministro delle Finanze Giuseppe Prina.
Napoleone fu per la Grande Lombardia una figura scellerata: giacobino malato di grandeur francese, senza essere peraltro transalpino, pose fine a potentati cisalpini storici e stimolò l’innaturale unificazione del finto Paese dalle Alpi alla Sicilia, e il fiorire di un orgoglio patrio artificiale (per quanto le sue creazioni politiche subalpine fossero null’altro che entità dominate dalla Francia). D’altra parte, l’idea moderna di Italia è una copia di quella francese.
Della caduta del Bonaparte se ne approfittò l’Austria, che istituì il Regno Lombardo-Veneto il 12 giugno del 1814.
La Restaurazione smantellò nel 1815 le istituzioni del Regno Italico; Milano è capitale del Lombardo-Veneto assieme a Venezia, e diviene residenza del viceré austriaco.
Il Congresso di Vienna avrà anche restaurato i potentati cattolici e reazionari smantellando le istituzioni giacobine napoleoniche (e questo fu un bene), però riportò ordine, autorità, disciplina, eliminando provvisoriamente i nefasti influssi della Rivoluzione francese. Certo, in un’ennesima forma di cattività straniera ai danni della nazione lombarda.
Lungi da me esaltare l’Impero austro-ungarico, un’accozzaglia antinazionale di popoli disparati, percorsa da venature ebraiche. Tuttavia, va riconosciuto che quello austriaco, per quanto liberticida lo si dipinga, fu un buongoverno, anche se occupante, e seppe sfruttare le innate capacità dei lombardi garantendo un certo benessere e sviluppo, nonché qualità mitteleuropea.
Nel 1817 Stendhal notò come la Pianura Padana fosse la più fertile d’Europa, fonte plurisecolare di ricchezza, abilmente irrigata e navigabile per mezzo di canali.
Nel 1818 venne introdotta l’istruzione elementare obbligatoria.
Si costruirono strade, infrastrutture, edifici di pregevole fattura architettonica, ma non mancarono cospirazioni anti-austriache di nobili e alto-borghesi, nel triennio 1821-1824.
Cesare Cantù, fondatore dell’Archivio storico lombardo, si trasferì da Como a Milano nel 1838, ove lavorò alla stesura dei 35 volumi della sua Storia universale, fino al 1846.
Nello stesso 1838, imponenti bonifiche in Lomellina e nelle valli ostigliesi.
Dal 1839 al 1846 uscirono importanti pubblicazioni come lo scientifico-culturale Politecnico di Carlo Cattaneo e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, ma soprattutto la Lombardia si dotò di ferrovie, omnibus a cavalli, illuminazione a gas e di un’efficace rete viaria regionale (Milano-Monza e Milano-Treviglio aprirono la fase delle grandi linee ferroviarie).
Con l’Austria la Lombardia prosperò e mise sapientemente a frutto i propri talenti, la propria creatività, il proprio spirito imprenditoriale, e la propria laboriosità.
Chiaro, mancava però la libertà vera, quella etnonazionale, mancava una Cisalpina unita ed indipendente, che il citato Cattaneo auspicava federata alla penisola.
Arrivò, purtroppo, l’unità d’Italia, frutto, come sappiamo, della volontà di pochissimi ai danni di milioni di persone, in primis padano-alpine. Massoneria, rigurgiti giacobini, ingerenze giudaiche e straniere, cricche di intriganti d’ogni sorta concorsero alla creazione del Regno d’Italia sabaudo; la liquidazione del potere temporale pontificio, che fu solo apparentemente una vittoria, rappresentò il crollo di quella diga che, per secoli, nonostante tutto, aveva impedito la nefasta unificazione. Certo, contribuendo a tirarci in casa il forestiero.
Decine di migliaia di granlombardi furono costretti a versare il proprio sangue per l’Italia, dai primi moti alla “grande guerra”, passando per le guerre di indipendenza (cosiddette), e a loro dobbiamo rispetto. Non così per l’idea fasulla di patria che li mandò al macello, a combattere contro le potenze centrali, in nome di una nazione artificiale straniera messa malamente in piedi per ragioni geopolitiche dai potentati borghesi occidentali.