Multipolarismo, ma senza terzomondismo

Il lombardista crede fortemente nel tema dell’Euro-Siberia, che dovrebbe essere il futuro della razza europide e delle nazioni indigene del nostro continente. Una grande famiglia imperiale, confederale, che abbracci tutti i territori bianchi originari, nel segno dell’identitarismo völkisch e dell’autoaffermazione dei legittimi popoli, come il granlombardo. Il disegno euro-siberiano è l’unico progetto serio e razionale per salvare la nostra civiltà, sopravvivendo al sistema-mondo, contrastando efficacemente gli altri potentati e riuscendo ad imporsi, a casa propria, nel nome di un’autarchia continentale. Sganciarsi dal carrozzone funebre atlanto-americano è di vitale importanza, poiché l’unipolarismo a trazione statunitense è la tomba dell’Europa, Russia compresa (che appartiene quanto noi alla civiltà bianca ed europea).

Alla luce di ciò parlare di multipolarismo, nel rispetto della sovranità di ciascuna popolazione, è sacrosanto, a patto che tale discorso non prenda una piega terzomondista – in stile BRICS – e non verta sulla legittimità di nazioni del tutto fasulle, alla africana, con confini tirati giù col righello, nessuna seria entità etnica e nazionale a fare da collante e, dunque, nessun tipo di giustificazione identitaria e storica. Stiamo parlando di realtà come quelle del Sudamerica, dell’Africa sub-sahariana appunto, ma anche di realtà del cosiddetto primo mondo, con gli Usa in testa. Oggi si affermano questi sterminati contenitori statali di popoli disparati, in cui il sangue non conta più nulla e la cui potenza è espressione di una demografia impetuosa, di una macchina militare possente e di un apparato economico estremamente aggressivo.

L’Europa corre il rischio di venire stritolata, da questi potentati globalisti, ed occorre infatti che si stabiliscano rapporti camerateschi con la Russia – fino agli Urali, Europa – affinché si edifichi un novello impero confederale che sappia difendere con le unghie e con i denti l’inestimabile patrimonio etnico, culturale, civile, storico, spirituale delle nostre terre, mortalmente minacciate dall’auto-genocidio totale e dalla dissoluzione operata dall’immigrazione allogena di massa, dalla società multirazziale e dal meticciato.

La Russia putiniana, un colosso patriottico tra i nani liberal occidentali, ha il difetto di non avere coscienza razziale e di indugiare troppo nel cosmopolitismo, in nome di un imperialismo dal retrogusto sovietico che in un modo o nell’altro calpesta le radici degli europei. Chiaro, non condividiamo la demonizzazione di Vladimir ma nemmeno il culto idolatrico di taluni settori nostrani, perché resta il fatto che la nazione moscovita contemporanea sia troppo impelagata in un eurasiatismo privo di seri connotati razziali e giustificato dalla geopolitica anti-occidentale. Il massacro in Ucraina, terra sorella di quella russa (se non russa prima ancora della Russia), perpetrato anche grazie ad ascari caucasici, turchi e mongolidi, è il fallimento totale della solidarietà fra genti europee, messe le une contro le altre dai soliti…

Come lombardisti abbiamo il dovere, anzitutto, di lottare per l’autodeterminazione del nostro popolo, in un’ottica indipendentista, impegnandosi in primis per affrancarne il sentimento identitario e proteggerlo dall’estinzione (in casa propria). Assieme a ciò, va portata avanti la meritoria battaglia contro il sistema-mondo, contro la galassia antifascista e il relativismo eradicatore che distrugge nazione, comunità e famiglia. Parallelamente, la camicia plumbea ha il compito di diffondere la teoria euro-siberiana, con l’obiettivo di rottamare la tragicomica Ue e di abbandonare, finalmente, il baraccone a stelle e strisce. Prima viene la Grande Lombardia, e in seconda istanza la vera Europa. Un’Europa che va dalla Galizia a Vladivostok e che può risorgere soltanto mediante il sacrale consorzio di tutti i popoli europidi, in nome delle nostre radici ariane, steppiche. Volgiamo lo sguardo ad Est, dove tutto cominciò.

Il concetto di Gallo-Teutonia

All’epoca del Movimento Nazionalista Lombardo, io e Roncari teorizzammo una sorta di spazio macro-nazionale centroeuropeo, che comprendesse anche la Grande Lombardia (e cioè l’intera Padania): la cosiddetta Gallo-Teutonia, sovrapposizione dell’elemento germanico a quello celtico. Col senno di poi, una soluzione un tantino nordicista (tecnicamente la Cisalpina non è Europa centrale, pur avendo solidi legami col mondo mitteleuropeo e transalpino), eppure, se ci pensiamo, la storia della nostra terra ci parla di un popolo inserito appieno nel cuore dell’Europa, parte integrante della sua civiltà e motore economico del continente. Nonostante la romanizzazione prima e l’italianizzazione poi ci abbiano trascinato verso il Mediterraneo, è chiaro che l’ambito padano-alpino abbia sempre gravitato attorno al fulcro europeo, fungendo da anello di congiunzione fra centro e sud.

La Padania è la periferia meridionale del concetto plurisecolare di Europa centrale, anche perché spesso il Triveneto viene considerato, a ragione, area profondamente influenzata da componenti germaniche, alpine, slave. Globalmente, la nazione lombarda appartiene all’ambito europeo centromeridionale, ma come dicevo sopra con solidi legami che la uniscono storicamente al cuore celto-germanico della famiglia continentale. La Lombardia storica è stata Gallia Cisalpina, Regno longobardo e franco, Impero carolingio e Sacro Romano Impero, sino al Lombardo-Veneto e ai territori “irredenti” dell’Austria-Ungheria; mostra dunque secoli di vicissitudini intrecciate con quelle dei popoli transalpini, il che ha avuto un chiaro impatto etnico, culturale, spirituale, socioeconomico e civile sulle nostre genti.

Ancor oggi, la regione geografica più ricca, sviluppata, fiorente, virtuosa e laboriosa dell’Italia politica è il “nord”, che fa degnamente parte dello spazio storico carolingio (il cosiddetto asse lotaringico), delle zone più attive e avanzate d’Europa e del cuore industriale del nostro continente. Vale la pena ricordare la famosa Banana blu, che ricalca la direttrice franco-lotaringica e unisce il centrosud inglese alla valle del Po, passando per il mondo gallico transalpino e teutonico. Le principali aree urbane e industriali europee comprendono così la dimensione “carolingia”, cui la Lombardia compete dal Medioevo, arrivando a lambire Catalogna, Scozia, Scandinavia, Mitteleuropa e Toscana-Corsica.

Esiste anche la cintura solare, o Banana dorata, regione economica costiera del Mediterraneo nordoccidentale che collega Catalogna, Occitania, Liguria e che rappresenta il fulcro dello sviluppo mediterraneo, grazie al buon grado di industrializzazione raggiunto. La continuità culturale, civile e socioeconomica di questo distretto statistico dimostra che pure le aree meridionali della Padania seguono traiettorie occidentali, piuttosto che sfumare in direzione tosco-mediana, dunque italiana, segno che anche a livello etnico (e antropogenetico) la vera fratellanza dei cisalpini si concretizza con le nazioni dell’Europa centro-occidenale.

Certo, i granlombardi non sono un popolo etnicamente celto-germanico come possono esserlo nella Francia settentrionale, in Alsazia, nelle Fiandre o nella Germania occidentale e in Inghilterra; i granlombardi hanno, eziandio geneticamente, un importante elemento celtico e preromano, diluito dalla romanizzazione di taglio greco-italico e ringalluzzito da un 20% di geni nordeuropei recati a sud delle Alpi dai Longobardi, fondamentalmente, e salvo le aree settentrionali estreme, alpine, ricadono nello stesso novero antropologico ed etnico dell’area franco-iberica, con nessi balcanici. La craniologia ci parla di un indice cefalico cisalpino molto prossimo ad Alpi, Europa centrale e Balcani, ma la genetica, nel complesso, spinge in direzione occidentale. Sicuramente sottostimato l’apporto mediterranide (occidentale) e soprattutto atlanto-mediterranide, che collega specialmente l’ovest padano alle aree meridionali della Francia, alla penisola iberica e a Corsica e Toscana.

Il fenomeno della “pillola rossa”

In questi anni non mi sono mai soffermato sulle teorie della cosiddetta redpill, o sulla fenomenologia incel, che negli ultimi tempi hanno preso piede anche nel contesto italofono. Parliamo di un argomento che, ormai, conoscono tutti, su internet, dunque credo sia superfluo spiegarlo nel dettaglio; si tratta, tuttavia, della solita cianfrusaglia d’oltreoceano, di cui potevamo tranquillamente fare a meno, soprattutto considerando l’alluvione di paranoiche terminologie anglosassoni. Certo, c’è da dire che molti di coloro che si considerano “redpillati” hanno preferenze identitarie, tradizionaliste, anti-antifasciste, sebbene mi paia di capire che il focus dei loro interessi riguardi le donne e le dinamiche relazionali. Non escludo che tra di essi vi possano essere simpatizzanti lombardisti e indipendentisti, comunque sia.

La “pillola rossa” propone una lettura cinica, disincantata e pessimista – a tratti complottista – della realtà, portata avanti segnatamente da quanti si definiscono, o vengono definiti, celibi involontari, incel (anche questa una categoria nata nell’ambito nordamericano); essa contrasta la visione da “pillola blu” (termini mutuati dal film Matrix, con una vaga ispirazione platonica), che è quella delle apparenze, del perbenismo, della finzione, del romanticismo da riviste patinate, dei media asserviti, e che riguarda tutta la società, non solo la questione del rapporto uomo-donna. Eppure, nei vari ambienti redpillati, tale faccenda assume un’importanza centrale, sproporzionata, forse viziata dal risentimento e dalla frustrazione di chi si sente escluso dal mercato sessuale e sentimentale.

La redpill condanna risolutamente il femminismo, e su questo non possiamo che essere d’accordo. Il femminismo è un cancro progressista, un veleno da estirpare, ed è una delle cagioni della disgregazione di famiglia, comunità, nazione, e della morte della tradizione e del patriarcato. Sembra, tuttavia, che gli incel diffondano tesi misogine, e anche questo rischia di disgregare ulteriormente la comunità, scatenando inutili guerre tra sessi (che sono solo due, ricordiamolo). Capiamoci: la portata dell’odio verso il genere femminile dei celibi involontari, o dei “brutti”, non è paragonabile all’astio femminista nei confronti degli uomini, infatti gli incel non fanno alcun danno concreto. Almeno in Europa.

Oltreoceano si sono macchiati di stragi, ma l’America, si sa, è la patria della follia e della stupidità, al di là di colori politici, ideologici, sociali. Il vero rischio della pillola rossa è quello di esacerbare gli animi e di diffondere disfattismo, per quanto, sovente, le teorie redpillate sappiano descrivere con realismo la condizione di uomini e donne occidentali contemporanei. Innegabile che la martellante campagna femminista, unita a quella liberal e antifascista, cominciata negli anni ’60 del secolo scorso, abbia fatto danni incalcolabili nelle menti delle donne europee: troppo spesso la figura femminile si fa veicolo di sovversione valoriale centrata su relativismo, edonismo, consumismo e materialismo, con ricadute nefaste sulla stessa natalità, il tutto in nome di capricci e pretese di eterne principesse Disney. Ma, fortunatamente, esistono ancora femmine sane e integre, dotate di coscienza patriottica, perciò non si può generalizzare colpendo indiscriminatamente il gentil sesso bianco, componente fondamentale della società.

È vero, convincere le donne di essere uguali agli uomini, anche a livello sessuale, ha comportato inevitabilmente l’aumento di separazioni, divorzi, aborti e, si capisce, il calo demografico. La sedicente emancipazione sessuale ha indotto le ragazze a credere di poter fare le dongiovanni in gonnella, fino a 40 anni, ritardando così la maternità, con rischi per la salute del figlio (unico). Sempre che lo abbiano. Il femminismo vede la maternità come una zavorra patriarcale, ovviamente se si tratta di europei. Se la questione riguarda il terzo/quarto mondo, nessun problema: non solo gli extra-europidi possono far figli come conigli, ma anche emigrare in massa verso l’Europa, andando così a sostituire i vecchi e sterili nativi. La soluzione a questo sfacelo, ciononostante, non sta nella misoginia, nel risentimento di chi va in bianco da una vita, nel rancore del “caso umano”: sta nel recupero di identità e tradizione, che non passa soltanto per il rinsavimento della femmina, ma pure nella ritrovata virilità del maschio, oggi sempre più in crisi, poiché le donne senza guida non possono far altro che tralignare.

Ambientalismo? Econazionalismo!

Noi lombardisti abbiamo particolarmente a cuore le sorti ambientali della terra granlombarda, poiché comprendiamo appieno quanto sia importante coniugare l’istanza etnicista con quella ecologista. Tuttavia, non ci uniamo al coro dei pecoroni “verdi”, degli ambientalisti da salotto e dei guitti stile Greta Thunberg, perché questa gente ha completamente in non cale il carattere etno-razziale dei popoli europei, e propone una difesa della natura su basi progressiste e antifasciste. Senza mordente etnonazionalista, l’ambientalismo si riduce ad una inutile pagliacciata, come dimostrano ampiamente i personaggi pubblici che fanno gli ecologisti, a parole, soltanto per alimentare una sciocca moda occidentale che è figlia del pensiero liberal.

Proprio per questo motivo il lombardista crede fermamente nell’unione di sangue e suolo e, dunque, nella necessità di far procedere l’ambientalismo sugli stessi binari dell’identitarismo etnico. In tal modo propugniamo l’econazionalismo, che è il patriottismo conciliato con l’ecologismo, dacché non è pensabile difendere il suolo senza difendere il sangue. A che giova battersi per la tutela dell’habitat se ci si dimentica del popolo indigeno che lo abita? O forse vale solo per gli indios? I cosiddetti verdi condannano cementificazione, industrializzazione selvaggia, deforestazione, inquinamento, avvelenamento dell’aria senza capire che ignorare la portata del problema migratorio e della sovrappopolazione è semplicemente demenziale, oltre che miope e pericoloso. I selvaggi ritmi riproduttivi degli altri continenti, e la conseguente invasione dell’Europa, stanno alla base degli sfracelli che esperiamo quotidianamente.

Diventa sterile occuparsi soltanto di flora e fauna, e paesaggio, ignorando clamorosamente i destini della nazione. Se riteniamo dannosa l’introduzione di specie alloctone, che va a scapito di quelle autoctone, perché sorvolare sulla portata esiziale dei flussi migratori, essendo peraltro di massa? L’Europa è stata investita da un’alluvione di popoli del terzo mondo, che va a peggiorare un quadro già reso problematico dalle nefaste ricadute del culto del progresso e dal pazzesco calo demografico europide. Gli sciagurati credono che accogliere allogeni sia una soluzione alle nostre grane, quando in realtà è soltanto un modo imbecille di aumentarle a dismisura.

Sembra che solo le genti del sud del mondo abbiano il diritto all’autodeterminazione, alla difesa etnica, alla preservazione delle proprie caratteristiche biologiche e culturali. Gli europei paiono condannati inesorabilmente all’estinzione, e guai a ribellarsi: razzismo, nazismo, fascismo, suprematismo sono le tipiche accuse rivolte al continente, qualora avesse sussulti d’orgoglio tesi a preservare l’autoctono patrimonio antropologico. E nemmeno si parla di colonialismo, badate bene, ma di salvaguardia delle nostre terre. Però si sa, l’Europa è destinata al tramonto e al tracollo: da culla della civiltà, viene oggi ridotta a centrale del male discriminatorio. Figuratevi, poi, se il discorso etno-razziale si allarga a quello relativo a sesso, orientamento sessuale, capacità psicofisiche…

Il maschio bianco eterosessuale, “cis” e abile, peggio ancora se cristiano o gentile, è stato la colonna portante della civilizzazione occidentale. Nell’età contemporanea, invece, è assurto a nemico pubblico numero uno dei “diversi”, e di tutto quel ciarpame che viene definito “woke”. Allo stesso modo, l’ambientalismo viene privato della salutare fierezza identitaria, che consente di tutelare l’ambiente assieme al popolo indigeno, castrando l’orgoglio patriottico. Un baluardo, questo, contro ogni tipo di barbarie globalista, non a caso demonizzato e criminalizzato da tutti coloro che si genuflettono di fronte al sistema-mondo. L’econazionalismo è la soluzione alle questioni ambientaliste, in quanto schierato dalla parte di sangue e suolo e avversario mortale delle flatulenze socialdemocratiche e liberali, che appestano l’aere, invece di bonificare e sanare.

Lo spirito come fuoco identitario

Il lombardesimo dà, come giusto che sia, moltissima importanza al dato di sangue e di suolo, nell’ottica della riscoperta identitaria, poiché senza una solida base biologica e territoriale ogni discorso etnico e patriottico verrebbe meno. Va da sé, tuttavia, che se al binomio sangue e suolo manca l’elemento spirituale, il terzo, la coscienza patriottica rischia di crollare o quantomeno di perdere forza, segno che in assenza del carburante, per così dire, umanistico la componente biologica di un popolo diviene arida, sterile. Lo vediamo molto bene al giorno d’oggi, in quelle terre europee che possono sembrare esemplari sotto il profilo dell’identità etnica ma che celano una spaventosa voragine in termini di qualità spirituali, a causa dell’omologazione mondialista.

D’altra parte, se un popolo è privo di mordente culturale, è chiaro che spalanchi le porte non solo al relativismo distruttore ma pure a fenomeni nefasti di meticciato, promiscuità, multirazzialismo, compromettendo senza via d’uscita il tessuto etnico originale della nazione. Lo diciamo proprio perché l’esaltazione fanatica del sangue può sfociare nel materialismo, e il materialismo (orbato dell’accezione razionalista, si capisce) è l’anticamera del collasso di una civiltà, ridotta a prostituirsi in favore del consumismo, dell’edonismo, dell’affarismo. Noi lombardisti siamo tendenzialmente anticristiani, ma mai vorremmo che la scomparsa della religione di Cristo venisse colmata dalla spazzatura globalista tipica della mentalità cosmopolita.

Lo spirito è cultura, civiltà, mente, carattere, indole, umanesimo e non va necessariamente interpretato come qualcosa di trascendente. Chi scrive è piuttosto allergico alla fede, essendo profondamente etno-razionale, non crede in Dio o negli dei e non concepisce l’esistenza aòòa stregua di un rapporto tra piano orizzontale umano, terreno, e piano verticale divino, celeste. Nondimeno, io prendo le distanze dalla moderna temperie atea, di un ateismo pacchiano e annoiato che è frutto della nulla predisposizione occidentale alla riflessione e alla meditazione, e che strizza l’occhio ai veleni ideologici marxisti.

Ritengo che Dio (o chi per esso) non esista, sia un prodotto dell’astrazione umana, al pari della religione e del bisogno di credere in una vita oltremondana, ma condanno senza alcun dubbio quanto è scaturito dal pozzo nero del sedicente Illuminismo, che è stato la totale negazione dei valori identitari e patriottici europei. Non a caso, i progressisti hanno sempre la tentazione di far risalire le origini, le vere radici della civiltà europea al ‘700 dei philosophes, pur essendo quello sciagurato periodo la tomba dell’anima continentale, scavata da un (finto) Paese – la Francia – che è ancor oggi la patria nostrana dei corpi tossici che potremmo bollare senz’altro come giacobini.

Non serve concepire lo spirito in un’ottica di alito soprannaturale infuso all’uomo, e ai popoli, come parte più nobile ed elevata dell’anima (anch’essa inesistente, se intesa in termini giudeo-cristiani) degli individui. Serve, piuttosto, intendere questo fondamentale elemento culturale nella qualità di fuoco che permette alla razza, all’etnia e alla nazione di risplendere, e di fendere le oscurità di un mondo globalizzato in balia dei disvalori nichilistici. Il sangue e il suolo non bastano, hanno bisogno di ascendere, di venir sublimati, grazie al prodotto del loro incontro, lo spirito, che è quanto evita di seguire poco proficue derive di materialismo zoologico, del resto funzionali alla castrazione identitaria e tradizionalista della nostra gente.

Il valore del sangue ai tempi della globalizzazione

Parlare di sangue, e cioè di stirpe, in una temperie come l’attuale, equivale a bestemmiare in chiesa, ed è facile che le strumentalizzazioni lascino scivolare la questione verso il razzismo. È davvero singolare, tuttavia, che l’accusa di razzismo, o addirittura di suprematismo, riguardi soltanto i bianchi, poiché ogni altro popolo del pianeta terra è liberissimo e, anzi, in dovere di esaltare la propria appartenenza etnica e razziale, magari giustificandola con la solita solfa antirazzista dove i “cattivi” europei opprimono i “buoni” del sud del mondo. Quindi, dipende sempre da chi parla di sangue: se si tratta di noi europidi è giocoforza, per i benpensanti, che sia solo squallido razzismo.

E pensare che, a loro detta, saremmo tutti uguali, e dunque aventi tutti quanti la medesima dignità, e il medesimo diritto ad esprimere orgoglio per le proprie origini e radici. Così, però, non è e se la tutela, la preservazione, la trasmissione del peculiare retaggio concerne gli europei ecco subito la proterva minaccia degli stati-apparato, intrisi di ideologia antifascista, di sbattere in tribunale e in galera chi si macchia di “razzismo”, come se difendere etnia e razza potesse essere realmente un crimine! Certo, in tempi di globalizzazione e di mondialismo lo è sicuramente, perché qualsiasi cosa esuli dalla narrazione imposta dallo status quo viene additata come delittuosa.

Ciò nonostante, è folle e assurdo ritenere che voler tutelare la rispettiva identità etnica, anche su base biologica, sia paragonabile al razzismo, e cioè alla violenza, al fanatismo, alla segregazione, all’odio fondato su di una presunta superiorità, o peggio ancora alla delinquenza! Io credo che, soprattutto oggi, andare orgogliosi dei natali sia fondamentale, ed è doveroso che anche i bianchi possano essere fieri di ciò che sono e mobilitarsi per salvaguardare l’inestimabile patrimonio ereditato dalla natura e dai padri. Per di più, non si capisce proprio perché se ai popoli del terzo/quarto mondo è consentito, agli europei, specie in Europa, è tassativamente proibito.

Il preservazionismo etno-razziale è una battaglia di civiltà, pensando soprattutto al fatto che, in diverse aree dello stesso continente bianco, gli indigeni sono ridotti al lumicino. Si prendano le grandi città metropolitane della Padania, con le loro conurbazioni: gli autoctoni sono quasi del tutto rappresentati da anziani, prossimi alla tomba, mentre le giovani generazioni appaiono vieppiù ibridate o allogene. Promuovere identitarismo significa promuovere anche una salutare presa di coscienza antropologica e biologica, perché la nostra identità passa anche per il sangue. Non può essere altrimenti, a meno che ci si voglia ridurre alla mera cultura, calpestando l’etnogenesi delle nazioni.

Sono dell’idea che ogni popolo della terra debba essere fiero di ciò che è, preferibilmente a casa propria. Immigrazione e meticciato sono una sconfitta per tutti. E, in quest’ottica, il lombardesimo è senza dubbio razzialista, non razzista. Riconosce l’esistenza delle razze umane, non le gerarchizza e ne promuove la naturale collocazione nel distintivo habitat originario, nel rispetto dell’identità e della sovranità di ciascheduno. Il razzismo – inteso modernamente, non come primevo studio della razziologia – è un altro discorso, e ha poco a che vedere con la legittima aspirazione etnonazionalista delle genti del globo. Di ogni parte del globo. Il sangue appare, dunque, ancor oggi fondamentale, come baluardo della biodiversità mortalmente minacciata dalla triste omologazione cosmopolitica.

Contro la peste ideologica del femminismo

Noi lombardisti abbiamo particolarmente a cuore la tradizione, intesa non come retaggio cristiano ma come eredità lasciataci dai nostri padri indoeuropei, e in questo senso difendiamo a spada tratta il rispetto degli innati ruoli di maschile e femminile, garanzia di salute, integrità, forza e benessere per tutta la comunità nazionale. Uomo e donna, come abbiamo già detto diverse volte, sono differenti e complementari, e per quanto non esista un superiore e un inferiore – in virtù, appunto, della diversità dei sessi -, una donna non può certo ergersi a figura di riferimento per famiglia, società e nazione allo stesso modo di un uomo. Quest’ultimo è la naturale guida, nonché artefice, della civiltà bianca.

Per tale ragione noi avversiamo fermamente il femminismo, inteso soprattutto come veleno progressista atto ad attossicare la comunità seminando zizzania e aizzando la sciagurata guerra tra maschile e femminile. Un conflitto in cui, a rimetterci, è l’intera ecumene europide, lombarda nel nostro caso, in nome di un falso sviluppo fondato sulla sovversione valoriale e la morte di quella tradizione a cui ci appellavamo. Non si tratta di sottomettere la donna, alla semitica, bensì di raggiungere nuovamente quella salutare integrazione che passa per la sinergia e l’armonia dei membri della società, come della famiglia, seguendo il solco tracciato dal patriarcato.

Oggi, in Occidente, la mentalità patriarcale viene demonizzata e criminalizzata, anche se di fatto non esiste più. Viviamo in un mondo in decadenza proprio per via della rottamazione degli ideali e dei principi esaltati dalla componente maschile della comunità, che è quanto ha consentito all’Europa di divenire la culla della civiltà. Il maschio bianco eterosessuale e abile è lo spauracchio del variopinto circo liberal, e la corrente temperie occidentale fa di tutto per annientare identità e tradizione, demolendo l’ordine naturale delle cose. Perché non si tratta soltanto di tradizione, si tratta altresì di natura.

Quella natura che ha reso uomo e donna diversi, in senso antropologico, biologico, fisiologico, fisico, intellettuale e caratteriale, e pensare di calpestarla equivale a distruggere le fondamenta di ciò che ci ha resi grandi, faro di vero progresso (non ideologizzato) per tutto il globo, troppo spesso avvolto dalla barbarie. L’ideologia ha avvelenato il genere femminile (e sesso e genere, che sono solo due, coincidono) instillando nella mente muliebre un turbinio di spazzatura egualitarista che elimina l’armonia comunitaria, stravolgendo dinamiche comportamentali e relazionali. Inutile blaterare di parità, nell’opulento Occidente, dacché è proprio il pervertimento consumistico ed edonistico della donna a rappresentare una piaga letale.

Far passare il messaggio che maschi e femmine siano uguali e dunque intercambiabili (attenzione: non si vuole mettere in discussione il rispetto, ovvio, per la dignità della donna) significa recidere i legami con la natura e la tradizione, arrivando all’assurdo di giudicare e condannare la storia dell’Europa. Anche perché, si sa, il patriarcato da criminalizzare è quello – inesistente – europeo; ciò che accade nel terzo/quarto mondo, invece, dove nemmeno si tratta sovente di società patriarcale ma di barbarie, va minimizzato e giustificato, in chiave antirazzista. Un po’ come con il fascismo: non esiste più, ma va tenuto artificialmente in vita per garantire agli antifascisti di campar di rendita grazie alla loro propaganda. E allora ecco che la follia autodistruttiva del continente bianco ha bisogno di liquidare qualsiasi parvenza di tradizione, non comprendendo che, fondamentalmente, si parla di ordine naturale. È il femminismo a dover essere liquidato, assieme al resto del vomitevole ciarpame woke.

Patriarcato vuol dire civiltà

Sovente, sulla scia di alcuni fatti di cronaca nera, la società patriarcale viene accusata di ogni nefandezza possibile, soprattutto in materia di condizione della donna. Nella testa dei progressisti, il patriarcato assume i connotati del sessismo, del maschilismo e della misoginia, a patto, naturalmente, che si tratti di un prodotto culturale europide (sempre che esista ancora, e ne dubitiamo). Se, invece, riguarda i popoli e le culture del sud del mondo, nessun guitto salottiero ha da ridire, poiché, come sapete, ai melanodermi tutto viene perdonato. Il problema, per i fini pensatori di sinistra, è il maschio bianco eterosessuale, reo di essere il mostro che ha concepito tutte le discriminazioni possibili e immaginabili.

Peccato che a lorsignori non venga proprio in mente che la società patriarcale europea, forgiata dall’uomo bianco, sia sinonimo di civiltà, ordine, virtù e che la colpa della decadenza contemporanea dell’Europa vada rintracciata, guarda caso, nell’assenza di patriarcato. Esso, perlomeno nella metà occidentale del continente, non esiste più, un po’ come il tanto vituperato fascismo, eppure viene additato alla stregua di fonte di ogni guaio comunitario; chiaramente, chi accusa il patriarcato esalta l’antifascismo, l’antirazzismo e il relativismo che ha partorito il femminismo, ed è dunque un nemico giurato dei sani principi virili, che oltretutto danno forma alla tipica liquidità muliebre. Patetico e stucchevole ritenere che le donne, in Occidente, siano discriminate, a maggior ragione se si ciarla di patriarcato.

La nostra civiltà è figlia del patriarcato, e non c’è bisogno di tirare in ballo il cristianesimo, per quanto di ispirazione tipicamente maschile. Questo ha ereditato, o meglio parassitato, la solare visione patriarcale del mondo indoeuropeo, il mos maiorum dei Romani, il pensiero filosofico greco plasmato da uomini, e di fatto si è sostituito al retaggio ariano dell’Europa, snaturandolo e costringendolo nel letto di Procuste della mentalità abramitica. Ma non c’era bisogno del corpo estraneo giudeo-cristiano per affermare una società a guida maschile, poiché essa era già stata posta in essere dai nostri padri indoeuropei.

Il cristianesimo è un prodotto del deserto, come giudaismo e islam, e ha una concezione semitica della donna, figlia di una pulciosa sessuofobia da beduini. La cultura ariana, invece, reputa la femmina di secondo piano, rispetto all’uomo, ma al contempo la ritiene complementare al maschile, perché diversa, non inferiore. E il patriarcato bianco non considera, per l’appunto, la figura femminile inferiore, ma ovviamente non può certo pensarla al posto dell’uomo, alla guida della comunità e della famiglia. Il rispetto degli innati ruoli dei sessi è fondamentale, garanzia di armonia, equilibrio, benessere, per tutti i membri della società. Chi blatera di patriarcato, di fronte alle violenze che subiscono talune donne, è un emerito imbecille: è proprio la sua negazione a generare i delitti, e cioè la liquidità postmoderna.

Chi pratica violenza, o addirittura uccide, per questioni passionali è un debole, un effeminato, un impotente, lontano anni luce dalla figura solare maschile che il patriarcato incarna, e difende. Esso è garanzia di rispetto e difesa per la donna medesima, che nel patriarcato ritrova la propria più intima dimensione e diviene moglie, madre, ancella del focolare domestico e della patria. Coloro che invece demonizzano e denigrano l’impronta maschile – oggi sempre più sbiadita – conferita al mondo europeo non sono altro che detrattori e avversari dei valori e dei principi su cui si è edificata l’Europa, senza i quali non sarebbe certo possibile parlare di civiltà. Ma oggi il patriarcato non esiste più, e proprio per questo motivo il nostro continente naviga in cattive acque.

Possiamo non dirci cristiani?

In diversi articoli ho espresso approfonditamente la visione lombardista in materia di religione e di cristianesimo, ma credo non sia peregrino riprendere la questione nello spazio del mercoledì sera. Il lombardesimo critica e condanna la fede in Cristo, giustamente ritenuta un corpo estraneo nel contesto europeo, e ne prende le distanze anche per via della sua concezione del mondo: universalismo, fratellanza globale, umanitarismo, egualitarismo, anti-particolarismo sono tutti quanti principi inconciliabili con la visione völkisch e proprio per tale ragione riteniamo indesiderabile la preservazione della spiritualità giudeo-cristiana. Perché, fra l’altro, c’è anche questo piccolo particolare: il cristianesimo è emanazione del giudaismo. Puerile negarlo.

Alla luce dell’estraneità della suddetta religione nei confronti della più intima essenza del nostro continente, che è indoeuropea, ci poniamo il seguente interrogativo: possiamo non dirci cristiani? La risposta del lombardesimo a tale quesito è del tutto affermativa, dacché pur avendo un’Europa cristianizzata quasi da 2.000 anni resta il fatto incontrovertibile che la storia della civiltà patria si sia evoluta nonostante il cristianesimo, che ha certo monopolizzato e polarizzato le energie, le forze e le risorse degli europei per diversi secoli ma che non ha potuto sopprimere la solarità ariana del continente bianco. La civiltà europide non è cristiana, è indoeuropea, e la religione di Cristo si è potuta insinuare in Europa parassitando, abitando, la stessa gentilità.

Sì, perché se ci pensate il cristianesimo ha assorbito, pervertendoli, svariati elementi culturali e spirituali di matrice pagana, non da ultimo il pensiero filosofico greco, e sulle ali della romanità imperiale è assurto a nuovo assolutismo, senza perdere le proprie radici semitiche. La nostra cultura, è vero, risente del cristianesimo, ed è innegabile che la tradizione dei padri sia stata pure cristiana; bisogna essere onesti, anche alla luce del patrimonio letterario, artistico, morale che ha permeato, e in parte permea ancora, la mentalità europea. Ma nonostante questo non va perso di vista il fatto che senza Indoeuropei, senza Grecia e senza Roma, senza la spiritualità celtica e le spade germaniche o slave lo stesso cristianesimo, cattolico, ortodosso o protestante che sia, non sussisterebbe.

Epperò si tratta, appunto, di un pervertimento delle vitali energie europidi, che nascono pagane, non giudeo-cristiane, e per quanto lo stesso concetto di Europa si associ storicamente a quello della fede in Cristo non si può negare che l’evangelizzazione abbia rappresentato una forza estranea al continente, un prodotto d’importazione di origine mediorientale, ancorché paludato di nobili vesti indogermaniche, concepito da ebrei ellenizzati, e da loro esportato nel cuore dell’Impero romano, e da lì al resto delle plaghe bianche. Inutile e patetico negare l’evidenza, pena contorsioni e salti mortali francamente ridicoli, sebbene animati spesso da buone intenzioni e da elucubrazioni non del tutto campate per aria.

L’Europa incarna un mondo e un concetto troppo sacri per venire insozzati dalla cultura semitica. Se siamo ciò che siamo lo dobbiamo ai padri indoeuropei, alla civiltà dell’antica Grecia, alla romanizzazione (quella positiva, non l’imbastardimento levantineggiante), e dal punto di vista cisalpino al sangue e allo spirito di Liguri, Celti, Etruschi, Reti, Veneti, senza dimenticare l’apporto germanico medievale, primariamente longobardo. Certo, siamo stati cristianizzati, e la tradizione pagana è stata soppiantata – sopravvivendo sotterraneamente – da quella delle sottane pretesche, ma badate bene che il cristianesimo, specie cattolico e ortodosso, ha potuto farsi largo in Europa associandosi alle radici gentili, per sedurre gli indigeni. Sicché la Chiesa ha prosperato per secoli sfruttando il sostrato pagano, e grazie ad esso è rimasta a galla, fra una bufera e l’altra. D’altronde, il cristianesimo è un parassitismo di schemi, modelli e retroterra che cristiani, cioè diversamente giudaici, non sono, e se gli levate l’afflato indoeuropeo il castello crollerebbe.

Da qui il tentativo disperato degli identitari cristiani – che sotto sotto si vergognano della propria fede, altrimenti abbraccerebbero senz’altro la matrice giudaica e levantina, e il Vangelo, abbandonando stucchevoli autoconvincimenti razzistici – di conciliare l’essenza dell’europeismo (etnoculturale) con l’eresia ebraica di Gesù, ma, come ripeto spesso, se devo tollerare il cattolicesimo, oggi peraltro ridotto a costola del mondialismo, per via di echi pagani, faccio prima a recuperare in toto il paganesimo, genuina ed originale espressione dei veri culti tradizionali d’Europa. La gentilità è sepolta, ufficialmente, da circa 2.000 anni? La si può tranquillamente ripristinare. La religione, dopotutto, è fatto secondario, nonché mero prodotto dell’immaginazione umana, non vale la pena lambiccarsi il cervello per essa. Il punto fondamentale è che può essere tollerata e promossa solo ed esclusivamente se non si tramuta in una zavorra antinazionale, come nel caso del cristianesimo.

Unione Europea, negazione dell’Europa

Noi lombardisti crediamo fortemente e fermamente nel concetto di Europa, declinandolo in accezione euro-siberiana: uno sterminato impero europide, bianco, che vada dalla Galizia iberica a Vladivostok, riunendo tutte le vere nazioni del continente. Al contempo, però, siamo risolutamente contrari all’Unione Europea, che a ben vedere è la negazione della nostra gloriosa, plurimillenaria civiltà. Un’accozzaglia di stati le cui radici affondano nell’Illuminismo e nel 1789 e che si pone dunque come nemica mortale dei valori e dei principi dell’etnonazionalismo, a tutto vantaggio del mondialismo plasmato dagli Stati Uniti. Non a caso, cosa sarebbe l’Unione Europea se non una triste filiale dell’unipolarismo americano, e uno scendiletto della Nato?

In un settentrione del pianeta dominato dagli Usa ad ovest e dalla Federazione Russa ad est, ecco che la caricatura stellata dell’Europa si erge a ridicolo baluardo di pastafrolla degli ideali antifascisti, stritolato dai due giganti mondiali che incarnano, ciascuno a loro modo, propaggini del globalismo: l’America è il globalismo occidentale con tutti i suoi veleni modernisti, la Russia un mondialismo eurasiatico nostalgico dell’Unione Sovietica, del tutto privo di mordente etno-razziale. L’Ue nel mezzo, baraccone di matrice giacobino-massonica e, appunto, antifascista e antirazzista che ha sostituito la fortezza Europa, conquistata e occupata in pianta stabile, dal 1945, dagli americani. Il settore europeo orientale era invece sotto il tallone dei sovietici, e oggi è decisamente più patriottico dell’ovest, meno compromesso.

L’idea di una confederazione europea, l’Euro-Siberia, è seducente e il lombardesimo la sostiene senza indugio. Una confederazione di nazioni, di popoli, non un’unione di stati senza capo né coda, il cui collante è rappresentato dalla decadenza consumistica, capitalistica e liberal-democratica dell’Occidente a trazione statunitense. L’Unione Europea è un organismo ostile al nazionalismo etnico, al razzialismo, alla sovranità delle vere nazioni d’Europa, e infatti si edifica sul sodalizio degli stati-apparato partoriti dalla temperie ottocentesca. Degli enti completamente privi di spina dorsale etnonazionale, parodie delle realtà identitarie continentali, quelle sì meritevoli di dignità patriottica.

Francia, Germania, Italia, Spagna, Belgio, Regno Unito (un tempo), finte nazioni che ficcano nel medesimo calderone multietnico e cosmopolitico genti disparate, tiranneggiate in nome di un europeismo di cartapesta che nulla ha a che vedere con il genuino concetto di civiltà europea, figlia del mondo indoeuropeo. L’immagine di Europa che Bruxelles proietta è un’immagine distorta, malata, corrotta, viziata dal culto pel denaro, appiattita sulla linea della tecnocrazia, svuotata completamente di identità e tradizione dal demone mondialista, che aleggia sul continente bianco da quasi 80 anni. I cenci blu che garriscono nei nostri cieli sono il segno della cattività globalista degli europei, una beffa all’indirizzo delle reali radici che ci caratterizzano (o caratterizzavano, purtroppo).

E l’Unione Europea non rappresenta affatto l’Europa, e non solo perché non include ogni landa europide; l’Unione Europea è soltanto una congrega economica, monetaria, bancaria, finanziaria, mercatistica che non ha alcun bisogno di nazioni, ma di stati che siano servi, fondamentalmente, di Francia e Germania. Francia e Germania, i principali cani da guardia dello status quo, pilastri della Nato, colonie americane, culle di virulento antifascismo e progressismo. Il lombardesimo è nemico di questo europeismo degradato e degradante, degno erede del Settecento rivoluzionario, e auspica la completa rottamazione della banda del Benelux, affinché sulle sue macerie possa edificarsi il tanto agognato consorzio confederale euro-siberiano.