La natura patologica dell’antifascismo

Sappiamo tutti benissimo come l’antifascismo del 2025 era volgare non abbia nulla a che vedere con l’opposizione ad un regime dispotico, morto e sepolto da 80 anni, ma sia soltanto una sorta di meretricio lib-dem nei riguardi del libero mercato e dell’alta finanza. Gli antifascisti contemporanei tengono in vita, per interesse e opportunismo (a guisa di assicurazione sulla vita), i fantasmi di Hitler e Mussolini, ed è evidente come a loro questo giochino serva per nascondere l’imbarazzante horror vacui derivante dalla totale mancanza di argomenti e dalla distanza abissale nei confronti del popolo indigeno. Sono, costoro, i veri ossessionati da fascismo e nazismo, senza cui dovrebbero cercarsi un lavoro vero per rimediare alla propria natura parassitaria.

Cos’è, oggi, l’antifascismo, considerando che non esiste alcun regime fascista (specie in Europa)? E aggiungerei anche alla luce del fatto che lo stesso antifascismo originario, quello nato come sterile opposizione a Mussolini e omologhi (quando insomma il fascismo esisteva eccome), era rappresentato da quattro gatti esuli senza alcuna influenza concreta sulla politica della madrepatria? Presto detto, amici miei: l’antifascismo era, e soprattutto è, uno squallido contenitore di tutto il disagio e il degrado del mondo liberale e progressista, non certo un’esclusiva delle sinistre ma pure di quei tizi che si dicono moderati (centro-destra) e sono i più zelanti servi del sistema-mondo, e dei suoi padroni.

Dirsi antifascisti, in modo particolare oggi, equivale ad avere dei palesi disturbi della psiche e del comportamento, poiché l’ideologia antifascista, che già dal nome vuole soltanto distruggere e non rendersi propositiva e costruttiva, è un inno a tutto quello che crea ribrezzo in qualsivoglia uomo normodotato; odio per l’identità, la tradizione, la comunità, la patria, la nazione, il sangue ed esaltazione di quanto è diverso, anomalo, ripugnante, debole, alternativo alla ragione e al buonsenso. Un tuffo nell’orrore e nello squallore del progressismo, il cui intento perspicuo coincide con l’abbattimento e lo sradicamento di ciò che si fa pilastro di una società forte e sana, unita dai valori sacrosanti del nazionalismo etnico.

Con la scusa del fascismo, morto e sepolto ribadiamo (e senza alcuna possibilità di resuscitare, se non nella forma pagliaccesca dei neofascismi), ogni porcheria contro l’orgoglio patriottico è lecita, giustificando lo scempio col feticcio della democrazia occidentale che non è altro che un vuoto simulacro riempito dalle mafie dell’alta finanza. Dopotutto, gli antifascisti sono le sgualdrine del capitalismo e della plutocrazia, degli enti sovranazionali e delle banche, delle lobby e delle cricche degli intoccabili, sempre e unicamente dalla parte dei nemici del popolo, che vivono in modalità parassitaria e vampiresca alle nostre spalle.

Dividersi in destra e sinistra, fascisti e antifascisti, neri e rossi significa solamente buttare al vento tempo prezioso per badare a ciò che conta per davvero: l’autoaffermazione – anche etno-razziale – della Grande Lombardia. Il lombardista è chiamato ad andare oltre le carnevalate del teatrino italiano, che ancora nel terzo millennio ripropone sterili contrapposizioni che relegano in secondo piano l’indipendenza della Cisalpina, per puntare tutto sull’esaltazione razionale di sangue, suolo e spirito in nome della nostra vera nazione, quella lombarda. Cosicché pure l’inganno dell’antifascismo verrà smascherato, e con esso tutti i tragicomici buffoni che campano di rendita grazie ad un’ideologia stantia, inevitabilmente schierata dalla parte degli avversari della patria dei lombardi.

La realtà etnica italiana

Chi segue il lombardesimo sa per certo che secondo Paolo Sizzi la vera Italia etnica è il centrosud, senza Padania e Sardegna. Per la verità, Sizzi si ispira al genuino concetto di italianità, che è l’unico possibile, grazie al quale è evidente come in nessun modo i territori cisalpini possano dirsi italici/italiani. Ce lo insegna la storia, ma anche e soprattutto l’antropologia, unita alla linguistica, alla cultura, all’identità e naturalmente alla genetica, oggi fondamentale. Se può avere un senso parlare di Italia e di nazione italiana, lo si deve fare riferendosi alla vera penisola, dall’Appennino in giù, includendo Corsica, Sicilia e Malta che sono inscindibilmente legate alla parte continentale appenninica, proiettata nel Mediterraneo.

Alla luce di ciò non è esatto affermare che l’Italia non esista, perché essa esiste, a patto che la si intenda, per l’appunto, come realtà etnica peninsulare e insulare (non sarda). Gli italiani, quelli veri, sono gli indigeni mediterranei di quella terra chiamata, in epoca romana, Italia Suburbicaria, le cui radici etniche sono etrusche, italiche, greche e greco-romane, con un apporto antico e imperiale di taglio levantino e contributi – talvolta minoritari – di popoli medievali quali Bizantini, Mori e Saraceni, Longobardi, Normanni, coloni cisalpini e balcanici. Si tratta pertanto di una nazione meridionale/sud-orientale, nel contesto europeo, con un etnonimo che nasce nel profondo sud calabrese.

Lo stesso nome ‘Italia’ esprime un concetto etnoculturale, storico e civile a cui la Padania è totalmente estranea, e in parte lo sono anche Toscana e Corsica. ‘Italia’ è la fusione di elementi greci/magnogreci – italioti – con quelli “indigeni” italici, osco-umbri, ed è ulteriormente arricchita da un tocco recente del Mediterraneo orientale, risalente all’epoca tardo-imperiale romana; Roma estese il concetto, in epoca augustea, sino allo spartiacque alpino, per motivi strategici e militari, ma è chiaro che si tratti di un prodotto d’importazione che non riguarda intimamente le origini dei nostri popoli.

E, dopotutto, cosa sarebbe la stessa accezione di cultura italiana, che la retorica patriottarda vuole forgiata nei primordi addirittura dalla medesima Roma antica? L’idioma di Firenze, la romanità di cartapesta, il cattolicesimo untuoso della Roma contemporanea, il sentimentalismo melodrammatico alla mediterranea e la massa informe di stereotipi fondati sulle caratteristiche negative e caricaturali dei sud-italiani, allargate, senza alcun senso, alla Cisalpina (sicuramente per via dei massicci esodi “interni” del dopoguerra). Perché anche l’idea nobile ed elevata di italianità, tanto cara agli sciovinisti, resta un qualcosa la cui matrice è tosco-capitolina, che non appartiene quindi al mondo granlombardo, la cui natura è essere anello di congiunzione fra Europa centrale ed Europa mediterranea.

Oppure, ci si appropria di fenomeni storici che oggi diremmo centrosettentrionali, includendo le terre mediane e meridionali, e la mente corre ai liberi comuni, all’Umanesimo, al Rinascimento, o ai fenomeni letterari e artistici che trovarono terreno fertile in Padania e Toscana, specie negli ambienti di corte. Per non parlare della rilevanza politica “italiana” dell’età contemporanea, che esclude totalmente il mezzogiorno (per quanto, si capisce, non vi sia alcunché di positivo e degno di nota negli sciagurati fenomeni che seguirono l’avvento della Rivoluzione francese e di Napoleone).

Perciò, cari amici, l’unico significato razionale di Italia, italiani e italianità esclude la Grande Lombardia, poiché riguarda in tutto e per tutto i popoli peninsulari e insulari, di lingua italo-romanza, estrazione mediterranea, prisca romanità (vi ricordate il Rubicone?), importante influsso greco e antiche e consolidate radici italiche. E gli Italici erano solo due gruppi, latino-falisco e osco-umbro, nelle loro sedi storiche schiettamente italiane. A partire dall’etnico, la poetica Ausonia non è cosa… nostra, e rispediamo più che volentieri al mittente ogni malata fantasia che veda lo Stivale fantozziano allungato sino al Brennero. L’identità è una cosa seria, astenersi buffoni tricolori.

La gigantesca presa per i fondelli chiamata leghismo

Quando si parla di questione “settentrionale” (aggettivo improprio, perché la Padania non è il nord di alcunché) l’immaginario collettivo corre al fenomeno leghista, sviluppatosi concretamente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Solitamente si pensa alla Lega Lombarda bossiana, ma di leghe ne esistevano un po’ in tutta la Cisalpina, ed è il caso, ad esempio, della Liga Veneta. Certo, fu attorno ad Umberto Bossi che si coagulò la protesta della cosiddetta Altitalia nei confronti di Roma, del sistema, della politica italiana (e di tutto ciò che poi sfociò nella famigerata Tangentopoli) ma è chiaro che il sentimento identitario dei popoli padano-alpini non sia conio del “senatur” e dei suoi più stretti accoliti.

Dobbiamo però distinguere il leghismo dallo spirito di appartenenza etnoculturale cisalpino: se il secondo è qualcosa di genuino, spontaneo, verace e non inquinato e strumentalizzato dai guitti in giacca e cravatta che siedono a Roma, il primo ha via via assunto i tratti della gigantesca pagliacciata, della mastodontica presa in giro; la dimostrazione più eloquente di tale disastro sta nell’evoluzione (o, meglio, involuzione) finale dell’agenda di via Bellerio, che con Matteo Salvini ha gettato definitivamente la maschera padanista per sposare la più consona causa italianista. Consona pensando ai leghisti, si capisce, gente che si è ben presto adattata all’andazzo capitolino diventando più italiana degli italiani.

Nel tempo la Lega (intesa come frutto della federazione delle varie Leghe “settentrionali”, e cioè la Lega Nord) è passata dall’autonomismo al federalismo, approdando al farsesco secessionismo del periodo 1995-2000, poscia rinnegato in fretta e furia per tornare a pascersi nel cuore dell’Italia etnica grazie ai governi berlusconiani. Rottamata la secessione della Padania – e badate che ‘secessione’ e ‘Padania’ sono vocaboli privi di significato se intesi alla bossiana, perché si dovrebbe parlare di ‘indipendenza’ e di ‘Lombardia’ (quella storica) – riecco il federalismo all’acqua di rose, indi la devolution e poi ancora il federalismo fiscale-solidale (una buffonata). Oggi va di moda l’autonomia differenziata, all’interno di un governo presieduto dall’erede in gonnella del postfascismo meridionalista.

Col passaggio di testimone da Bossi a Salvini (e nel mezzo l’incolore Maroni e il suo “prima il Nord”, a tappare la falla degli scandali del “cerchio magico” ausonico) la svolta finale: la propaganda nordista viene sconfessata, cancellando ogni residuo secessionista, abbracciando la retorica patriottarda del nazionalismo fascistoide al fine di galleggiare nel panorama politico italico, mantenendo il sedere ben saldo sulla poltrona riciclandosi per accalappiare voti sud-italiani. L’ex felpato ha detto tutto e il contrario di tutto, simbolo dell’imbarazzante mediocrità raggiunta dal nuovo corso della Lega Italia. Non che sia colpa di Salvini, intendiamoci. I germi dell’italianismo erano presenti già nella fase terminale di Bossi, e infatti accusare Matteo di tradimento risulta esilarante; costui ha soltanto preso atto del fatto che il leghismo padanista era ormai morto e sepolto, col beneplacito del genio di Cassano Magnago.

Capiamoci, amici, non tutto del leghismo, che io reputo comunque fallimentare, è da buttare. Si può riconoscere al “carroccio” del celodurismo di aver posto, anche se in maniera cialtronesca, una questione identitaria, di aver sollevato interesse e curiosità circa la natura e i destini della Cisalpina e di aver fatto da stimolo per quanti, venuti dopo, hanno raffinato il concetto di padanismo, raddrizzando il tiro agli sproloqui da pratone pontidese. Ma quel che si può salvare del fenomeno Lega non riguarda i politici, e Bossi medesimo, bensì quanti hanno animato o contribuito ad un dibattito di qualità incentrato, soprattutto, su identità e cultura. Il pensiero va a Gianfranco Miglio, Gilberto Oneto, Sergio Salvi, Gualtiero Ciola, Silvano Lorenzoni, Federico Prati e altri, studiosi che – sebbene in taluni casi libertari/liberali – hanno difeso con onestà e sincerità il lato solare del leghismo, aiutando a comprendere che la vera rivoluzione alpino-padana è quella del lombardesimo.

La questione sud-italiana e la Lombardia

La Grande Lombardia, la Lombardia storica, è una nazione a sé, per quanto dormiente, che nulla ha a che vedere con l’Italia etnica, col cosiddetto centrosud. La Cisalpina ha una propria peculiare identità, anche antropologica, che la smarca dal contesto genuinamente italico, presentando al massimo una parziale sovrapposizione con Corsica e Toscana. La penisola rappresenta la vera Italia, escludendo le Lombardie, e lo stacco si fa abissale prendendo in considerazione il settore meridionale italiano etnico. Non è solo una mera questione geografica, è anche e soprattutto etnica, genetica, culturale, linguistica, spirituale, identitaria poiché la Padania è un mondo a parte, rispetto al sud.

Le differenze che intercorrono tra noi e loro sono inconciliabili, e non è una questione di razzismo e di discriminazione, ma di realtà oggettiva, senza naturalmente che gli ausonici vengano considerati inferiori. Siamo popoli diversi ed incompatibili, figli di vicissitudini storiche affatto differenti, che ci parlano di nazioni agli antipodi ficcate sotto lo stesso tetto politico, con risultati disastrosi. La dicotomia fra Lombardia e Italia riguarda anche il settore tosco-mediano, ma si fa drammatica prendendo in considerazione, appunto, l’ambito meridionale. Non c’è nulla di male in questo, e sarebbe auspicabile che ogni popolo andasse fiero delle proprie origini, senza soverchiare gli altri.

Proprio per tale ragione, l’indipendenza della Grande Lombardia è giusta e sacrosanta, così come l’autoaffermazione di un’Italia etnica senza lombardi e sardi. La questione sud-italiana, con l’innaturale unificazione, è soltanto peggiorata, poiché la sua soluzione sta in un mezzogiorno che finalmente cammini con le proprie gambe, senza più assistenzialismo e ogni altra magagna frutto del centralismo romano e del retroterra corrotto e mafioso di quei territori. Per non parlare del fenomeno migratorio “interno”, che ha portato più di un milione di sud-italiani a stabilirsi nella Grande Lombardia, soprattutto occidentale, con ricadute nefaste che tutti conosciamo.

L’immigrazione di massa è sempre sbagliata, non risolve i problemi di chi migra e aumenta soltanto quelli di chi è costretto ad accogliere, vedendo il tessuto etnoculturale originario della propria comunità compromesso e disgregato inesorabilmente. Certo, anche per colpa degli stessi indigeni, carenti di coscienza identitaria e patriottica. Lo stesso discorso vale per la violazione dell’endogamia, che ha portato ad un pazzesco rimescolamento tra lombardi e italiani etnici: se i connotati biologici periscono, viene a mancare la base fondamentale su cui si edifica l’identità di un popolo e di una nazione. Ed è davvero un peccato, e direi un’aberrazione, che in molte città cisalpine l’elemento etnico indigeno sia andato quasi del tutto ad estinguersi.

L’indipendenza della Grande Lombardia sarebbe una preziosa occasione di riscatto anche per gli stessi sud-italiani, rassegnati alla depressione, alla fuga dalle loro terre, al pessimismo e al fatalismo e a volte al crimine o alle furberie levantine. Il sistema-Italia è unicamente un guaio, per tutti, in primo luogo perché comporta la distruzione del profilo identitario dei vari popoli a sud delle Alpi, costretti nel medesimo stato, logicamente senza nazione. Siamo certi che dare la libertà alla Cisalpina sia rendere giustizia all’etnia, alla comunità, alla storia, non in spregio degli italiani ma per amore della verità e dell’identità. E così, un’Italia restituita a se stessa avrà modo di ripartire, finalmente davvero unita e coesa nella sua reale dimensione patriottica.