Le tre lombardità

Sizzi e il lombardesimo, spesso, ci parlano di tre forme di identità lombarda, di tre lombardità, che sono manifestazioni e declinazioni concrete del vero concetto di essenza identitaria cisalpina. Si tratta delle lombardità etnica, etnolinguistica e storica che coincidono con la Lombardia etnica, l’etnolinguistica e la Grande Lombardia, e cioè la Lombardia storica che abbraccia l’intera Padania geografica. Oggi, purtroppo, nel linguaggio comune la Lombardia è semplicemente la misera regione artificiale della Repubblica Italiana, un ente creato negli anni ’70 del secolo scorso che ha poco a che vedere con la realtà etnonazionale lombarda. Per tale ragione il lombardista ha il diritto e il dovere di diffondere la vera accezione della nostra comunità nazionale, della nostra patria, sconfiggendo le tenebre dell’ignoranza alimentate dal regime tricolore.

La lombardità etnica, che corrisponde alla Lombardia etnica, riguarda il bacino imbrifero del fiume Po e tutti i territori e le genti racchiusi da esso. Parliamo del fulcro della nazione lombarda, caratterizzato dalla stratificazione identitaria celto-ligure, gallo-romana e longobarda, dalla presenza delle lingue schiettamente lombarde e dall’azione storica unificatrice della Lega Lombarda e del Ducato visconteo. Il concetto di Lombardia etnica è stato promosso dal lombardesimo sin dagli albori, in quanto palcoscenico d’elezione dell’azione politico-culturale lombardista e cuore della nazione padano-alpina più profonda.

La lombardità etnolinguistica, che corrisponde alla Lombardia etnolinguistica, concerne l’intero ambito del cosiddetto gallo-italico (che poi è il vero lombardo moderno), dunque oltre alla Lombardia etnica anche l’Emilia orientale, la Romagna con San Marino, l’antico ager Gallicus e l’areale ligure (la regione odierna, la Lunigiana, Montecarlo e il Nizzardo). Il confine meridionale è dato dalla nota linea Massa-Senigallia – sebbene lo statuto del massese sia dibattuto – che coincide con lo spartiacque appenninico e con il limite sud-est della Romània occidentale. È quella che potremmo definire (Grande) Lombardia occidentale, fondata sulle radici galliche e sulla linguistica lombarda in senso allargato (in senso stretto è la lombardofonia dei linguisti).

Infine, la lombardità storica, che coincide con la Lombardia storica/Grande Lombardia, abbraccia tutta la Cisalpina ed è la sovrapposizione della Langobardia Maior (logicamente senza Tuscia) alla Gallia Citeriore, dalla geografia subcontinentale e anello di congiunzione storico fra Europa centrale ed Europa mediterranea. Interamente parte della Romània occidentale, pur essendo caratterizzata anche dal veneto moderno che non è una lingua di sostrato celtico (essendo forgiato sul modello del veneziano), è la terra del galloromanzo cisalpino, ossia gallo-italico col retoromanzo. A ben vedere, anche il ladino (in senso lato) può essere chiamato storicamente lombardo, e quindi il galloromanzo cisalpino non è altro che il ramo lombardo, padano-alpino, della Gallo-Romània.

La nazione lombarda nella sua interezza viene da noi chiamata, per comodità e per agevolare la comprensione, Grande Lombardia, con un troncone occidentale (quello etnolinguistico) e uno orientale (reto-veneto). Si dovrebbe poter parlare di Lombardia tout court, nella sua accezione squisitamente storica (nel Medioevo l’intero “nord” era chiamato Lombardia), segnalando la distinzione identitaria tra ovest ed est, ma il concetto delle tre lombardità aiuta a cogliere le precipue sfumature comunitarie della nostra patria, che conducono gradualmente al significato unitario della nazione. Forse parlare di Lombardia etnica potrebbe trarre in inganno, ma in realtà è utile per indicare il cuore continentale, terragno, della lombardità più profonda, che è comunque destinata ad abbracciare l’intera Padania come espressione etnoculturale del mondo storicamente granlombardo.

Uno sguardo alla genetica padano-alpina

Avrò modo, più avanti, di discorrere approfonditamente dell’aspetto antropologico e genetico della nostra nazione, la Grande Lombardia, ma penso che già da ora sia il caso di fare una panoramica sul profilo biologico della Padania, in termini di genetica delle popolazioni. Due settimane fa avevo trattato di antropologia fisica, riassumendo il quadro che caratterizza il volgarmente detto “nord” e, per completezza, è giusto ricordare anche ciò che concerne il nostro ADN. La Cisalpina è una realtà antropogenetica tutto sommato occidentale, in pari con Iberia e Francia meridionale; presenta, tuttavia, aree periferiche che scolorano in direzione settentrionale e meridionale: nel primo caso, parliamo dell’arco alpino, specie orientale, nel secondo delle Romagne, che si avvicinano all’ambito tosco-mediano (soprattutto toscano).

Ciò che balza anzitutto all’occhio è la netta frattura che separa la Lombardia storica dall’Italia etnica, con la parziale eccezione della Corsica e della Toscana. La Corsica, parte del mondo italo-romanzo profondamente legata alla Toscana, ha un aspetto genetico che si colloca a metà fra la Liguria e la Tuscia, e può essere definita centrosettentrionale (anche se di influsso sardo, che la rende molto conservativa); un discorso che vale pure per i toscani, in particolare settentrionali, sebbene caratterizzati da un maggior influsso romano di tipo imperiale che al di là dell’Appennino può riscontrarsi solo nei romagnoli. Tra Padania, Corsica ed Etruria ritornano spesso gli stessi cognomi e gli stessi aplogruppi paterni e materni (di marca occidentale), sintomo di un certo legame etnico, tuttavia affievolito da altri elementi identitari.

C’è comunque da dire che lo spartiacque appenninico fa effettivamente da barriera, anche per i geni, e questo riguarda proprio la romanizzazione: vi sono commistioni di taglio levantino recente che nella Padania non compaiono, a differenza dell’Italia etnica, seppur i nostri antenati abbiano conosciuto la colonizzazione degli antichi Romani (e dunque l’afflusso nella valle del Po di genti italiche, magnogreche ed egeo-anatoliche). Esiste una discreta componente repubblicana e imperiale nell’ADN autosomico cisalpino, accanto al prevalente sostrato preromano (ligure, retico, etrusco, celtico, gallico) e ad un contenuto superstrato nordeuropeo veicolato soprattutto dai Longobardi (a seconda delle zone, può anche arrivare ad un 25%). Chiaro che quest’ultimo dato contraddistingua in particolar modo le aree alpine, corroborate da geni germanici (o slavi) recenti.

Come dicevo, la vera e propria frattura genetica “italiana” concerne la Cisalpina nei riguardi del centrosud, soprattutto del meridione. Se la prima segue la scia dell’Europa occidentale, collocandosi ai livelli iberici e occitani (con tendenze centroeuropee), il secondo risulta prossimo alla Grecia: la Toscana si attesta a livelli albanesi, l’area mediana appare vicina alla Grecia continentale e il sud finisce tra Peloponneso e isole greche, con le frange estreme proiettate verso il Mediterraneo più orientale (alcuni calabresi ricordano da molto vicino i ciprioti). Non solo, perché i sud-italiani si mostrano affini a maltesi ed ebrei europei, soprattutto aschenaziti, segno evidente di una natura genetica che potremmo moderatamente definire euro-levantina.

La variabilità biologica a sud delle Alpi non ha eguali in Europa e testimonia, come moltissimi altri campi, l’inesistenza di una nazione italiana dal Brennero a Lampedusa. Granlombardi, italiani etnici e sardi (ricordiamo, infatti, il classico isolato della Sardegna, che la rende unica) non appartengono alla medesima etnia e questo vale prima di tutto per il sangue. Con la sunnominata parziale eccezione di corsi e toscani, noi padano-alpini potremmo definirci strettamente imparentati – anche per vincoli genetici – con i popoli della penisola iberica, della Francia centromeridionale e, in parte, dell’arco alpino e dei Balcani settentrionali. Ma con gli italiani, specie del mezzogiorno, non abbiamo davvero nulla a che fare, e nemmeno romanizzazione e meridionalizzazione postbellica hanno cambiato le cose: noi siamo un popolo della sezione meridionale dell’Europa occidentale, figlio di Celti, Romani e Longobardi, mentre l’Italia etnica si situa nell’Europa sudorientale, grazie alla netta impronta greca e grecula che caratterizza anche il centro (con l’elemento italico via via assottigliatosi e sommerso dal preponderante strato del Mediterraneo orientale).

Antropologia e identità: il caso cisalpino

L’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni, dunque lo studio del profilo biologico e razziale di una o più etnie e nazioni, rappresentano un caposaldo nell’ottica identitaria del lombardesimo, poiché l’identità dei lombardi riguarda anche e soprattutto il sangue. Un aspetto etnico cisalpino esiste e sussiste pure in termini antropologici, per quanto oggi si faccia di tutto per ridurre il concetto di etnia a qualcosa di meramente culturale, e innocuo. Ma è logico come la definizione di un’appartenenza comunitaria venga determinata da ciò che siamo biologicamente, essendo animali fatti di carne, ossa e sangue. E, naturalmente, di ADN. Coltivare, perciò, scibile antropogenetico permette di conoscersi, conoscere gli altri e comprendere la più che legittima vocazione indipendentista della Grande Lombardia.

Chi sa di antropologia fisica e genetica, non può ignorare la realtà dei fatti, e cioè che la Cisalpina sia un mondo a sé, rispetto all’Italia etnica, segnatamente meridionale. È chiaro come la luce del sole che le differenze nette che passano tra noi cisalpini e gli italiani riguardino pure la natura etno-razziale, dunque biologica, dell’identità continentale e peninsulare-insulare, perché i nostri popoli sono figli di geografie, climi, latitudini, etnogenesi, storie, stratificazioni demiche affatto diversi. Fa sorridere che taluno ritenga le differenze “interne” frutto di mera cultura, o di cucina (sic!), quando la cosiddetta Italia è l’ambito più eterogeneo d’Europa.

L’aspetto fisico delle popolazioni a sud delle Alpi varia sensibilmente da area ad area: oltre alle, evidenti, diversità di pigmento (pelle, capelli, occhi, peluria), vanno prese anzitutto in considerazione quelle craniologiche e antropometriche, e infatti statura, massa corporea e dimensione del cranio differiscono palesemente da settentrione a meridione. Mentre in Padania si fanno sentire gli influssi continentali, centroeuropei, che vanno a caratterizzare ulteriormente (specie lungo l’arco alpino) una popolazione di base sudoccidentale affine a francesi meridionali e iberici, ma con una craniometria decisamente mitteleuropea-balcanica, nell’Italia etnica predomina l’elemento mediterraneo, spesso con una sfumatura “greca”.

Il nord, dove più e dove meno, presenta un profilo intermedio tra continente e Mediterraneo nordoccidentale, includendo per certi versi Toscana e Corsica (comunque parte settentrionale dell’Italia etnica) che si avvicinano alla Romagna, all’Emilia e alla Liguria. L’area mediana, caratterizzata da mare e Appennini, fonde il precipuo strato mediterranide con componenti alpinoidi e dinaroidi, scolorando in direzione meridionale, dove alcuni elementi arcaici si mescolano al principale dato antropologico del sud, che è ovviamente quello mediterraneo: l’Ausonia, con la Sicilia, è il luogo d’incontro fra le correnti ibero-insulari e quelle greco-anatoliche. Sardegna, come sempre, isolata, anche se da un punto di vista fenotipico ricorda molto la penisola iberica meridionale e il mezzogiorno italico.

Abbiamo poi la genetica, che non fa altro che consolidare l’aspetto identitario corroborato dall’antropometria, con una Cisalpina essenzialmente sudoccidentale, in pari con Francia meridionale e Iberia, tendente ai popoli alpini e dei Balcani settentrionali; una Toscana intermedia fra nord e centrosud, con la Corsica (che risente comunque di un input sardo); un’Italia etnica mediana e meridionale di carattere sudorientale, ai livelli dei greci, che si fa sudorientale estremo nel caso del mezzodì, portando i suoi indigeni a rassomigliare profondamente agli isolani ellenici, ai maltesi, agli ebrei europei e, negli individui borderline, ai ciprioti. Checché ne possano pensare i nordicisti meridionali, il marcato elemento levantino, antico e recente, è una limpida realtà dei territori a sud della Toscana.

Avrò modo di offrire una rassegna dettagliata circa la facies antropologica e genetica della moderna “Italia”, pubblicando diversi articoli in materia, ma a tutti coloro che hanno occhi per vedere (e leggere) è ovvio come gli italiani, dalle Alpi alla Sicilia, non siano reali, soprattutto in chiave etnica. Nessuno nega che esistano differenze interne nella Grande Lombardia – soprattutto pensando alla dicotomia Alpi-pianura – ma sono nulla al cospetto della drammatica eterogeneità della Repubblica Italiana. Drammatica non perché la ricchezza identitaria sia indecente, ma perché, automaticamente, liquida tutte le fole retoriche sui “fratelli” che esistono soltanto nella testa dei patrioti tricolorati, denunziando l’assurdità dell’unità risorgimentale e lo statuto artificiale della pseudo-nazione peninsulare.

Repubblica o monarchia? Il pensiero lombardista

Il lombardesimo, fondamentalmente, opta per una forma di governo di ispirazione repubblicana, che sia alla base di un etnostato granlombardo presidenziale. L’opinione di Sizzi e Roncari, in merito, è sempre stata chiara: no alle monarchie, in quanto prodotto anacronistico di una forma di parassitismo che pone al di sopra del popolo una dinastia, o comunque una classe dirigente di estrazione nobiliare (sempre che tale aggettivo, oggi, possa avere ancora un senso), in nome di fole religiose o mitologiche. Lo stato, anzi, l’etnostato lombardo deve essere retto da un’aristocrazia in senso etimologico, un governo repubblicano dei migliori, in cui i politici chiamati a rappresentare la patria siano stati formati e forgiati in specifiche accademie.

Noi siamo da sempre allergici al binomio trono e altare, perché foriero di sfruttamento, oscurantismo e idea distorta di tradizione, messa al servizio di pochissimi a danno di moltissimi. Ma questa posizione non è giacobinismo, tutt’altro, è un repubblicanesimo basato sul sangue e sul suolo, che inquadri lo Stato come strumento al servizio della nazione, senza potere parassitario giustificato da vecchiume che nulla ha a che spartire con popolo, etnia e patria. La nostra idea di politica è laica, nazional-sociale, comunitaria, volta all’esaltazione razionale della stirpe cisalpina, che è la vera ricchezza di un ipotetico, e auspicabile, organismo statuale indipendente da Roma.

Prendiamo le distanze dal corrente concetto di democrazia, che non è altro che prostituzione antifascista in favore dell’alta finanza, del libero mercato, del sistema capitalista. È la nazione a giustificare uno stato, non viceversa, e anche per questo non vediamo di buon occhio una soluzione monarchica, dove le sorti della patria rischierebbero di venir messe in secondo piano rispetto ai privilegi di una casta, il cui unico merito sarebbe il pedigree nobiliare. Ma noi lombardisti crediamo nel valore del sangue, non del blasone, e siamo ostili al termine ‘suddito’, riferito al popolo. Così come siamo ostili a ciò che puzza di religione, specie se giudeo-cristiana, dal momento che la metafisica non può reggere il confronto con la verità etno-razziale.

Il vero problema della Rivoluzione francese fu la sua impronta borghese, che sviò la popolazione transalpina instradandola sui binari del cosmopolitismo, del laicismo (e non della laicità) e del progressismo. Il giacobinismo viene da noi condannato non certo per l’opposizione a preti e teste coronate, ma per il fatto che divenne in breve tempo funzionale a quel concetto di universalismo in base al quale la patria viene ridotta a stato, e cioè a qualcosa di artificiale cementato da egualitarismo, disprezzo di identità e tradizione, umanitarismo pezzente che calpesta le radici.

La soluzione al moderno marasma globalista non sta nell’innalzare troni e nell’insediarvi degli sfruttatori che si rifacciano ad un mitico passato, ma nell’erigere etnostati che diano un volto etnonazionale e razziale alla cosa pubblica, in nome di principi repubblicani e laici slegati da ogni zavorra “neo-giacobina”. Siamo a favore del presidenzialismo, del sistema unicamerale, di una visione economica corporativista, temprata dal comunitarismo. Non vorremmo indugiare troppo nel federalismo, per quanto si possa riconoscerne una forma blanda a livello cantonale, poiché siamo zelanti fautori di uno spirito unitario che anteponga agli interessi particolaristici il benessere della nazione lombarda. Vogliamo una repubblica granlombarda presidenziale, etnonazionale, comunitaria, lontana da ogni tentazione monarchica o teocratica.

Non c’è sangue senza suolo, e viceversa

In un’Europa sempre più vittima del sistema mondialista e dello status quo globale, la necessità di salvaguardare sangue e suolo, da cui lo spirito, è impellente poiché ne va della nostra stessa identità. Difendere il sangue procede di pari passo con la difesa del suolo, e non ci può essere sangue senza suolo, e viceversa: l’etnia lombarda sussiste grazie anche al solido legame con la terra natia, e l’humus patria acquisisce un significato unico grazie al sacrale vincolo con il popolo. Del resto, è dall’unione di sangue e terra che proviene lo spirito, inteso come elemento culturale, linguistico, civile, mentale, caratteriale, che anima una nazione.

Sappiamo bene che oggi l’ambientalismo è una sterile manifestazione progressista totalmente slegata dal concetto di etnia e di razza, un fenomeno salottiero che ha in non cale il sangue e, dunque, che non mostra alcun rispetto per l’identità biologica dei legittimi popoli indigeni, specie se si tratta di europei. Da questo equivoco, frutto delle politiche “verdi”, nasce la convinzione erronea che l’ecologismo possa essere soltanto di sinistra, e senza alcun sistema di valori identitari che si battano per la salvaguardia dell’ambiente e anche per la preservazione del popolo indigeno che lo abita. Noi lombardisti, invece, siamo fortemente persuasi del contrario, e cioè che il vero ambientalismo possa essere soltanto völkisch.

Il binomio sangue e suolo, nato sull’onda del romanticismo teutonico, afferma una verità sacrosanta, vale a dire che un popolo privato della propria terra natia rischia di diventare una torma di sradicati, preda dei fenomeni migratori e dell’agenda mondialista. Allo stesso modo, il suolo natio orbato della gente autoctona che l’ha caratterizzato e, pure, plasmato diviene bottino di guerra delle invasioni allogene, nonché terra di conquista da parte di multinazionali, banche, lobby e agenti internazionali votati alla distruzione della natura, oggi più che mai ostaggio della barbarie capitalistica.

Occorre quindi rimettere al centro di tutto i destini della comunità, affinché la dimensione più intima dell’essere umano, che è il contatto con la natura incontaminata, venga ripristinata, a tutto vantaggio della nazione. Il lombardesimo propugna l’adozione di una visuale econazionalista, ruralista, comunitarista, che possa essere di supporto alla dottrina etnonazionalista promossa dall’indipendentismo lombardo sizziano e che sia la riscossa di un ambientalismo finalmente liberato dalle catene del progressismo e votato alla salvazione di popolo, flora e fauna, senza più compromessi. Sangue, suolo e spirito sono i pilastri fondamentali dell’identitarismo etnico che abbiamo in mente, viatico per un’autoaffermazione lombarda all’insegna degli ideali völkisch.

E allora, consci dell’importanza del messaggio econazionalista, vogliamo batterci per una comunità che sappia coniugare l’orgoglio patriottico alla sensibilità ecologista, perché i destini dei nostri figli sono inscindibilmente legati a quelli di una terra che possa rinascere grazie ad oculate politiche ambientaliste. Ma va da sé: non si tratta di rinnegare i risvolti positivi del progresso e dello sviluppo, o di cavalcare un ipocrita anarco-primitivismo fuori tempo; si tratta di raggiungere un salutare equilibrio tra modernità e tradizione, e dunque tra modernità e tutela sacrosanta del territorio. La Padania versa in pessime condizioni ambientali, complice anche la sovrappopolazione allogena, ed è nostro diritto e dovere impegnarci per un futuro eco- ed etno-sostenibile.

Il problema migratorio nell’ottica lombardista

L’immigrazione è uno dei problemi più spinosi della contemporaneità, segnatamente nel mondo occidentale. L’Europa, in particolare, viene dal dopoguerra presa d’assalto da allogeni da ogni dove, e non solo negli ex Paesi colonialisti, ma pure in territori che non hanno alcuna tradizione coloniale, come nel caso della Grande Lombardia. In Padania, infatti, si sono riversate torme di immigrati, a partire dal colossale esodo sud-italiano verso il cosiddetto triangolo industriale, caratterizzati dalle origini più disparate, proprio perché nelle nazioni dell’Europa meridionale l’immigrazione ha un carattere nettamente scomposto e cosmopolita. Non soltanto, dunque, migrazioni “interne”, anche flussi provenienti da quattro continenti, in ossequio a quell’agenda mondialista che vuole spopolare il terzo/quarto mondo per far esplodere il nostro continente.

L’immigrazione, soprattutto di massa, è sempre sbagliata, sia che si tratti di scandinavi, sia che si tratti di sub-sahariani. Certo, vi saranno popoli più compatibili di altri, ma ogni spostamento massiccio di popolazioni implica la distruzione del tessuto etno-razziale e culturale originario della nazione costretta ad accogliere. Nella Cisalpina è successo, appunto, anzitutto coi sud-italiani, che hanno aperto le danze e costituiscono senza dubbio il più nutrito elemento allogeno nei territori padano-alpini, arrivando poi a registrare l’afflusso di genti variopinte: negridi, nordafricani, albanesi, romeni, cinesi, sudamericani, arabi, asiatici.

A questi, e a molti altri, vanno sommati gli ebrei e gli zingari, allogeni storici del territorio europeo, che rappresentano comunità nelle comunità, contribuendo a disgregare il carattere indigeno dei Paesi europidi. Certo, l’immigrato più problematico è quello integrato, mimetizzato (si prendano i sud-italiani, dilagati nella valle del Po e rimescolatisi con gli indigeni), e la responsabilità degli autoctoni è sicuramente decisiva, specie considerando la violazione dell’endogamia. Le comunità chiuse di migranti, pensiamo ad esempio ai cinesi, non hanno una portata esiziale come quella di altri allogeni, per quanto, si capisce, costituiscano anch’esse un corpo estraneo, in terra granlombarda ed europea.

L’immigrazione viene fomentata, e giustificata, da quel parassitismo locale che sfrutta gli allogeni per il proprio tornaconto, in barba ai destini del popolo indigeno, che subisce il peso degli esodi. Invece di aiutare le genti sottosviluppate a casa propria, soprattutto per frenarne i selvaggi ritmi riproduttivi e disinnescarne la bomba demografica, si preferisce spalancare le porte a chicchessia con la scusa della solidarietà, della pietà cristiana, dell’umanitarismo e del terzomondismo, senza comprendere – o forse comprendendolo perfettamente – che così facendo non si risolvono i problemi di chi migra, ma si aumentano drammaticamente quelli di chi accoglie. Come se non ci fossero poveri, infelici ed emarginati nostrani, chiaramente liquidati per far posto a quelli esotici.

Inutile fare gli ipocriti benpensanti: gli immigrati alimentano inevitabilmente la criminalità, il degrado, il disagio, i casi di cronaca, le carceri, la sostituzione etnica e razziale dei vecchi e costosi europei. Sono la materia prima dello sfruttamento, l’esercito di riserva del grande capitale apolide, la massa amorfa ghettizzata da quelli bravi e buoni pronta ad esplodere e conquistare città e paesi lombardi, sempre che non l’abbia già fatto. A chi irride coloro che parlano di sostituzione etnica, ricordo sempre la questione sud-italiana, di gente venuta da un Paese straniero che ha preso il posto degli indigeni – ovvio, anche per colpa di quest’ultimi – nei loro centri e che, oltretutto, viene usata da Roma per controllare la Cisalpina. Ed è proprio questa l’assurdità della situazione nostrana (e di altri luoghi d’Europa), e cioè una nazione mai stata colonialista oggi ridotta a colonia di disparati gruppi etnici e razziali, a partire dagli italiani.

Le comunità lombarde all’estero

Mercoledì scorso abbiamo passato in rassegna le comunità lombarde storiche presenti all’estero, frutto cioè di fenomeni coloniali medievali e rinascimentali che hanno portato genti lombarde a popolare territori extra-cisalpini. Oggi, invece, parleremo dei recenti fenomeni migratori riguardanti i lombardi, dall’800 in poi, segnatamente per quanto concerne una presa di coscienza identitaria che passa, ad esempio, per la lingua: gallo-italica, veneta, retoromanza. L’orgoglio e il senso d’appartenenza linguistici rappresentano un modo concreto di tramandare la propria identità, in questo caso in contesti esotici, lontano dalla madrepatria alpino-padana. Naturalmente, i lombardi all’estero possono essere benissimo rimescolati con geni indigeni, pur avendo una coscienza lombarda, e questo problema è un ostacolo ad un possibile rientro in patria degli oriundi.

Anni fa carezzavo l’ipotesi di una sorta di scambio, tra lombardi all’estero e allogeni: rimpatriare quest’ultimi richiamando gli emigrati nostrani. Ma la questione, per l’appunto, è delicata perché tali cisalpini all’estero potrebbero presentare commistioni esotiche, minando il concetto fondamentale di sangue. Allo stesso modo, se emigrati o nati all’estero, sono manchevoli del suolo patrio. Circa lo spirito, tuttavia, potrebbe esserci una coscienza identitaria che, nei fatti, si concretizzi grazie all’idioma nativo, e questo è sicuramente un dato positivo. In una Grande Lombardia sovrappopolata, comunque, non ci sarebbe spazio per oriundi rimescolati, perché la priorità è bloccare l’immigrazione e rimpatriare a tappeto. Una situazione diversa sarebbe il compromesso “retico” fra Cisalpina e mondo tedesco: i romanci scendono a sud delle Alpi, mentre i germanofoni cisalpini prendono la via teutonica (qualora non siano disposti a giurare fedeltà alla Grande Lombardia, lasciandosi assimilare).

Venendo al dunque, e considerando i fenomeni migratori che hanno portato alla formazione di comunità lombarde all’estero (tralasciando, dunque, l’emigrazione generica, senza conseguenze identitarie), per quanto concerne i gallo-italici (e cioè i lombardi etnici e gli altri cisalpini della Lombardia etnolinguistica) avremo una presenza sensibile in Sudamerica (Argentina e Brasile) soprattutto per quanto riguarda il lombardo grossomodo regionale, il piemontese e il ligure e l’interessante caso della comunità trentina di Å tivor, nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina; in questa circostanza si parla di trentini di tendenze linguistiche venete (Valsugana), mentre altri trentini “lombardo-veneti”, in senso parimenti idiomatico, sono presenti in Brasile. Nell’Agro Pontino laziale, in epoca fascista, si stabilirono, fra le altre, comunità emiliano-romagnole, e così in Sardegna (ferraresi).

I veneti sono senza dubbio la comunità granlombarda all’estero più numerosa, anche perché moltissimi di loro si spostarono internamente alla Cisalpina, verso ovest (triangolo industriale) e verso nord (Alto Adige); da vecchie stime lombardiste, concludemmo che tra veneti puri e “spuri” nella Lombardia etnica ci potessero essere circa un milione di individui, di origine orientale. Orbene, troviamo comunità venete, e venetofone, recenti in Brasile, Argentina, Messico e Romania; in Sudamerica e Centroamerica si costituirono varianti linguistiche venete, come il famoso talian, ma ciò accadde anche in Romania, Tirolo meridionale e – a livello storico – nella Venezia Giulia (vedi Trieste, Gorizia, Istria, nonché Dalmazia e Montenegro) e in alcune località friulane, come Udine. Ma i veneti emigrarono pure, durante il Ventennio, nell’Italia etnica (Toscana e Lazio) e in Sardegna, per via delle vaste opere di bonifica delle paludi. Esistono comunità di lingua veneta eziandio in Australia. Le cifre aumentano se consideriamo, fra gli altri, gli esuli giuliano-dalmati, presenti in maniera nutrita nella stessa Lombardia etnica.

Per quel che riguarda, invece, i retoromanzi (ladini, romanci, friulani), va fatto un discorso analogo a quanto sopra, e specialmente nel caso del Friuli ricordiamo le mete europee (Francia e Belgio, ad esempio), americane (Canada, Usa, Argentina, Brasile), australiane e sudafricane, senza contare i carnici emigrati internamente verso ovest (triangolo industriale) e nell’Italia etnica (Agro Pontino, Roma), o in Sardegna (Arborea, come per i veneti). Per chiudere rammentiamo l’immigrazione interna alla Padania, soprattutto in direzione est-ovest, con veneti, friulani, istro-dalmati, emiliani orientali, romagnoli ed orobici (pensiamo al fenomeno secolare dell’emigrazione bergamasca) verso le più prospere – un tempo – regioni della Grande Lombardia occidentale.

Abbiamo, insomma, considerato non il fenomeno generico dell’emigrazione granlombarda all’estero, bensì l’espatrio con conseguente formazione di comunità padano-alpine in loco, cementate da lingua, usi e costumi, cucina, tradizioni. Resta la problematica etnica: gli individui trasferitisi sono granlombardi? Se di sangue intatto, grazie all’endogamia comunitaria, certamente, per quanto ormai nati all’estero. Seppur integri appaiono però sradicati e un loro eventuale rientro, atto a sostituire gli allogeni rimpatriati, potrebbe rappresentare una grana a livello di densità demografica, che nella Cisalpina raggiunge valori folli. È però chiaro: meglio gli oriundi degli alloctoni, e un parziale ritorno alla madrepatria (dei soggetti etnicamente compatibili) può essere valutato.

Le comunità storiche lombarde all’estero

A volte mi si chiede un parere circa quelle comunità linguistiche storiche granlombarde ubicate al di fuori della Grande Lombardia, frutto di emigrazioni antiche. In modo particolare, mi viene posta la domanda a proposito della loro lombardità, e cioè se possano essere ritenute al pari delle popolazioni indigene della Padania. Considerando che stiamo parlando di comunità radicate da secoli in terre straniere e che, dunque, è stato inevitabile un rimescolamento con le popolazioni locali, direi che la mia risposta al quesito è tendenzialmente negativa, anche perché si tratta dei discendenti di individui sradicati secoli fa dalla Lombardia storica. Sarebbe perciò alquanto azzardato ritenere gli eredi delle colonie storiche lombardi al pari dei lombardi.

Ma quali sarebbero, oltretutto, queste colonie lombarde antiche all’estero? Presto detto: i lombardi di Basilicata (Potenza) e Sicilia (Enna, Messina, Catania, Siracusa); i liguri coloniali, tabarchini, di Sardegna (Carloforte e Calasetta), Corsica (Bonifacio) e Monaco; i veneti coloniali della Venezia Giulia storica (Istria, Quarnaro, Carso), della Dalmazia (Zara, Spalato, Sebenico, Ragusa) e dell’Albania Veneta (tra Montenegro e Albania). Si prendono qui in considerazione gli spostamenti medievali e rinascimentali, non recenti, frutto di sollecitazioni politiche, come nel caso dei lombardi dell’Italia meridionale, chiamati da Normanni e Svevi per rafforzare la latinità di aree ibride; di fenomeni coloniali legati all’espansionismo marinaro di Genova e Venezia; di altri tipi di trasferimento, come nel caso dei pescatori liguri – dapprima stanziati a Tabarca, in Tunisia – di Sardegna e dei coloni sempre liguri giunti in territorio monegasco.

Quelle suesposte sono comunità sicuramente fiaccate dal tempo ma ancora pressoché presenti. Parlando di domini marittimi, genovese e veneziano, c’è da dire che diverse comunità storiche sparse per il Mediterraneo sono oggi scomparse, assieme naturalmente alle lingue da esse impiegate. Per tale motivo si tratta di ligure e di veneto coloniali, poiché idiomi esportati dai colonizzatori e trapiantati in territori stranieri. Nel caso del gallo-italico (o lombardo, secondo l’accezione medievale del termine che riguardava l’intera Cisalpina, e che include il ligure) potremmo anche citare Briga, Gondo e Bivio (Confederazione Elvetica), un tempo linguisticamente lombardi; le isole liguri, cioè ancora galloromanze cisalpine, presenti nel Nizzardo (ancor oggi sopravvivono a Briga e Tenda, ma come naturale estensione del Genovesato) e in Corsica (Ajaccio e Calvi), rammentando che per taluni studiosi l’influsso idiomatico genovese si estendeva sino al nord della Sardegna; San Marino, che è un brandello di Romagna, anche a livello di loquela; l’area anconetana del Conero, dove vi è una piccola sacca gallo-italica, exclave in contrada italo-romanza.

In quasi tutti gli ultimi casi, tuttavia, non si può parlare esattamente di colonie storiche lombarde, bensì di territori un tempo lombardi oggi appannaggio di altre nazionalità. Per meri motivi geografici, come lombardisti, escludiamo pure quegli ambiti etnolinguisticamente granlombardi che però ricadono in domini geografici differenti: è il caso di Madesimo, di Livigno, di San Candido e di Tarvisio, e così le citate Briga e Bivio, svizzere, comunque ormai prive di viva lombardità. Ricordiamo, eziandio, che il quadro cisalpino include, anche in contesto di parlate, settori di confine con l’Italia: la provincia di Massa-Carrara (soprattutto la Lunigiana), alcune frazioni montane del Pistoiese, la Romagna toscana, l’intera Valmarecchia e, naturalmente, l’ager Gallicus (Pesaro-Urbino, fino a Senigallia, antica capitale senone), che è fascia di transizione gallo-picena.

Giustamente, nella coscienza storica e linguistica, le colonie gallo-italiche di cui discutiamo vengono chiamate lombarde (andrebbe fatto anche per quelle liguri di Sardegna, Corsica, Nizzardo; il caso veneto, come sappiamo, è diverso), poiché la Lombardia medievale, cioè quella genuina, riguardava l’intero “nord”, segnatamente la sua porzione occidentale. Si prendano in esame i lombardi di Lucania e Sicilia: tale etnonimo designava coloni di estrazione piemontese, ligure ed emiliana, dunque storicamente lombarda, e questo fa mirabilmente capire come il dominio grande-lombardo concerna tutta la Padania.

Tratteremo delle migrazioni lombarde moderne a parte, e tornando al quesito d’apertura, ribadiamo la risposta lombardista: queste colonie, sopravvissute – inevitabilmente “contaminate” – sino ad oggi, possono effettivamente dirsi appieno lombarde, dunque paragonabili all’antica madrepatria? Riteniamo di no, soprattutto venendo a parlare dei “lombardi” dell’Italia etnica meridionale, rimescolati con geni sud-italiani. È chiaro che un lombardo è chi ha genetica lombarda, e nel caso delle colonie ciò diventa proibitivo. I tabarchini di Sardegna, fondamentalmente, sono liguri anche in termini genetici, ma hanno comunque assorbito una piccola percentuale sarda. Consideriamo altresì che un individuo è pienamente lombardo se radicato in Lombardia almeno dal 1900, e cresciuto in un ambiente culturale cisalpino. Insomma, sangue, suolo e spirito, come sempre. Guardiamo con curiosità all’espansione medievale e rinascimentale dei granlombardi, ma i loro eredi non possono dirsi compiutamente granlombardi.

Mani orobiche sulla Lega Europa

Ebbene sì: a distanza di 61 anni dall’ultimo, e fino a ieri unico, trofeo vinto dall’Atalanta (la Coppa Italia 1963), ecco che i nerazzurri orobici si portano a casa la coppa della Lega Europa, dopo aver battuto per 3 reti a 0 il Bayer Leverkusen. Un traguardo storico, per il pallone bergamasco, ormai abituato a palcoscenici europei grazie alla gestione di Gian Piero Gasperini, tecnico subalpino di Grugliasco. Per la verità l’Atalanta non è nuova ad esperienze di respiro europeo, pensando soprattutto agli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ma la vera rivoluzione è certamente stata attuata grazie al canuto allenatore ex Genoa, a Bergamo dal 2016. Il calcio è pura futilità ma, come molto altro, sa divenire orgoglio cittadino e vale la pena parlarne. La squadra atalantina, negli ultimi anni, ha ingaggiato svariati giocatori stranieri, anche allogeni (non europidi), e se questo le ha garantito di potersi misurare con società titolate di prestigio internazionale, dall’altra parte ha comportato una de-bergamaschizzazione della rosa, perdendo i connotati di fucina di talenti nostrani (tranne rarissime eccezioni). È il destino di chi vuole giocarsela in Europa, ed essere competitivo, in un panorama calcistico mondializzato che ha in non cale le radici etniche e razziali, preferendo milioni, pubblicità, diritti televisivi.

Infatti, la fresca vittoria in Lega Europa è derivata dalla tripletta di un calciatore negride di etnia yoruba, Ademola Lookman, certo provetto ma ben poco lombardo… Per carità, il trionfo fa piacere, rende orgogliosi, entusiasma e gratifica – soprattutto chi segue l’Atalanta da quando navigava nei bassifondi della massima serie tricolore e della B, e non chi si è scoperto atalantino solo ora -, porta il nome di Bergamo sul tetto sportivo del continente, ma ha un retrogusto amaro e induce romanticamente a rimpiangere le formazioni ben più rustiche degli anni ’90. Personalmente, pur essendo felice per la conquista di questo trofeo, resto dell’idea che l’Atalanta abbia perso la ghiotta occasione di divenire l’Atletico Bilbao cisalpino, dimostrando che si può vincere e convincere anche senza imbarcare forestieri. Probabilmente sono un sognatore ed è per questo che ho nostalgia della Dea che fu, cioè quella della mia giovinezza: di certo meno vincente, e senza palcoscenici internazionali (per quanto l’Italia sia una nazione straniera), ma solidamente ancorata alla terra bergamasca. E il diporto dovrebbe, dopotutto, essere proprio questo, una palestra di fierezza patriottica, preferibilmente in chiave granlombarda.

Le minoranze della Grande Lombardia: una riflessione

Il territorio cisalpino è interessato dalla presenza di diverse minoranze etnolinguistiche, concentrate, fondamentalmente, in ambito prealpino e alpino. Si tratta, procedendo da ovest verso est, di occitani, arpitani, walser, romanci, cimbri, mocheni, ladini, austro-bavari, sloveni, croati, istro-romeni. Si considerano qui, ovviamente, le minoranze storiche, formate da popoli europei, e non le varie forme di recente immigrazione. Allo stesso modo vengono esclusi ebrei e zingari, storicamente attestati nei nostri territori ma di estrazione allogena. Ebbene, vogliamo qui parlare del fenomeno delle minoranze etnolinguistiche storiche, esponendo quello che è il punto di vista del lombardesimo in materia, ben sapendo che c’è del dibattito, su tale questione.

La Grande Lombardia è lo spazio vitale dell’etnia e della nazione lombarda, che chiaramente rappresentano la maggioranza della popolazione. Per etnia lombarda intendiamo, anzitutto, gli indigeni della Lombardia etnica (il bacino padano) e in secondo luogo tutte le altre popolazioni autoctone della Padania, che storicamente possono dirsi lombardi. Fatto ormai ben noto che nel Medioevo l’intera Cisalpina era detta, anche dai forestieri, Lombardia. Abbiamo poi le succitate minoranze etnolinguistiche, che non sono originarie dell’area grande-lombarda bensì il frutto di migrazioni storiche; questo anche perché, globalmente, il panorama cisalpino è geograficamente a sé stante, e i confini naturali sono sacri.

La Grande Lombardia comprende, infatti, tutti i territori che ricadono nel dominio padano-alpino e nord-appenninico, dunque oltre a Insubria, Orobia, Piemonte, Emilia, Romagna, Liguria e Triveneto vanno considerati Nizzardo, Valle d’Aosta, Alto Adige e Venezia Giulia storica irredenta, e altri ambiti minori di cui abbiamo già parlato diverse volte. Le minoranze sono presenti lungo l’arco alpino, le Prealpi e in settori come l’Istria o il bacino dell’Isonzo, e per quanto siano ivi attestate storicamente resta il fatto che le loro radici affondano in ambiti transalpini; per l’appunto, la Cisalpina nasce come dominio gallo-romano e galloromanzo, interessato poi dalla penetrazione longobarda.

Si tratta, insomma, di una realtà romanica occidentale, anello di congiunzione fra Mediterraneo ed Europa centrale, abitata in antico dalla massa delle genti alpine, prealpine, padane e appenniniche romanizzate, i cui avi erano Liguri, Celti, Reti, Veneti, Etruschi. Successivamente, al di là dei superficiali influssi di genti barbariche (Goti, Longobardi, Franchi), in alcune zone della Padania si sono stabiliti popoli alloctoni di origine celto-romanza, germanica, slava originari di aree d’oltralpe, che hanno così messo radici su suolo padano-alpino. Lungi da noi paragonare queste genti agli allogeni veri e propri, ma resta il fatto che anzitutto da un punto di vista geografico e “romano” la Cisalpina tutta sia la dimensione nazionale dei cisalpini.

Capiamoci, parliamo di minoranze del tutto compatibili coi lombardi – slavi esclusi – e infatti saremmo decisamente a favore dell’assimilazione. Occitani e arpitani sono fratelli celto-romanzi; i romanci, con ladini e friulani, sono la versione prisca dei cisalpini; walser, cimbri, mocheni e le varie isole baiuvariche sono certo germanici ma dai forti influssi alpini (celtici e retici); i sud-tirolesi, austro-bavaresi, sono il principale ethnos altoatesino, ma anche nel loro caso si tratta della germanizzazione di genti fortemente alpine. Restano sloveni e croati (a cui andrebbe aggiunta la sparuta minoranza istro-romena, ormai quasi estinta), ed effettivamente, in tal caso, si parla di genti molto diverse dai lombardi. Il lombardesimo propone assimilazione dei popoli compatibili e rimpatrio di quelli non compatibili, suggerendo l’introduzione di nuove “Opzioni”: fedeltà alla Grande Lombardia, e assimilazione, oppure ritorno nella terra dei padri.

La Cisalpina appartiene ai lombardi, ed è pertanto Grande Lombardia, dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone. I gruppi minoritari possono restare, se optano per la piena integrazione e la lenta assimilazione, altrimenti meglio che si ricongiungano alle popolazioni transalpine (che, peraltro, avrebbero davvero bisogno di rinsanguarsi grazie ai propri simili). Al contempo potrebbe anche essere promosso un interessante fenomeno, a mo’ di scambio nel contesto della Rezia cisalpina: spostare i romanci al di qua delle Alpi, essendo il Grigioni in buona parte transalpino, e trasferire oltralpe i sud-tirolesi che rifiutano il progetto grande-lombardo. Anche perché il lombardesimo non è per la cancellazione delle culture alpine non lombarde, ma è naturale che il progetto da seguire sia la lombardizzazione dell’intera Cisalpina.