Il mondo ladino

La famiglia linguistica ladina può essere interpretata in senso stretto ed in senso largo. In senso stretto indica i ladini, ossia la minoranza romanza stanziata a cavaliere tra Alto Adige, Trentino e Cadore, mentre in senso largo allude all’intera famiglia retoromanza che oltre ai ladini comprende i romanci e i friulani. Il mondo ladino, pertanto, si presta a due differenti interpretazioni, anche se al centro di tutto c’è il particolare statuto di questa realtà etnolinguistica. La famiglia retoromanza riguarda, perciò, gli indigeni neolatini dell’area alpina centro-orientale e l’etnonimo ladino può tranquillamente designarla in senso lato. Oltretutto il termine ‘retoromanzo’ potrebbe prestarsi a diverse ambiguità, come sottolineava il linguista Pellegrini.

Infatti il retoromanzo non ha sostrato retico, cioè nord-etrusco, a dispetto del nome, bensì celtico, come un po’ tutte le parlate della Romània occidentale, a partire naturalmente dalle lingue galloromanze. L’etichetta etnolinguistica suddetta, quindi, ha più che altro valenza territoriale, considerando che il ladino viene parlato nelle terre degli antichi Reti, una popolazione alpina appunto nord-etrusca. Si rischia di ingenerare confusione e di obliare il fatto che, nella tarda antichità e nel Medioevo, l’intera Cisalpina era linguisticamente omogenea, unita dal carattere galloromanzo cisalpino. Tale unità fu spezzata dall’affermarsi del veneziano, nel continente veneto, dall’influenza del toscano che andò a diluire i tratti galloromanzi del gallo-italico e naturalmente dalla presenza di diverse minoranze linguistiche alpine.

In antico sussisteva perciò una relativa omogeneità e la versione prisca del gallo-italico era certamente più galloromanza di oggi. Secondo diversi studiosi le parlate padane dovevano ricordare da molto vicino lo stesso ladino, che oggi ha l’aspetto del fossile e conserva tratti peculiari che nel gallo-italico sono andati perduti. Inoltre la Padania, sino a Medioevo inoltrato, appariva in stretta continuità con la Gallia Transalpina, la Francia, e con la Svizzera romanza tanto da potersi ancora definire Gallia (e, quindi, Gallo-Romània). Ci sono importanti studi in merito, studi che rimarcano l’estraneità del gallo-italico rispetto all’italo-romanzo, e viene dunque spontaneo citare autori come, oltre a Pellegrini, Zamboni, Bec, Pfister, Hull, senza dimenticare Biondelli e Ascoli.

Ancor oggi la Grande Lombardia resta distinta dall’Italia propriamente detta (il centro-sud, con Toscana e Corsica), e non solo per ragioni linguistiche, si capisce. Dal punto di vista della lingua, il gallo-italico appartiene al galloromanzo, nella sua versione cisalpina, e si accosta a franco-provenzale, occitano, francese e catalano. Forse non è galloromanzo propriamente detto, oggi, poiché l’italiano l’ha in parte snaturato e rimodellato (si pensi alla scomparsa del plurale sigmatico e della palatalizzazione di alcuni nessi e tratti latini, conservati in ladino) ma resta sicuramente una sottofamiglia linguistica a sé stante, ben distinta dall’italo-romanzo.

E poi c’è il retoromanzo, molto conservativo perché ha subito punto o poco l’azione livellatrice del toscano (a differenza del veneziano e, dunque, del veneto), che mostra cosa doveva essere l’arcaica unità etnolinguistica padana. Ma il ladino appartiene comunque alla Grande Lombardia, che non è Italia e che dal punto di vista linguistico rientra ancor oggi appieno nel mondo romanzo occidentale, anche per quanto concerne ligure e veneto. Tant’è vero che la presenza delle note vocali turbate in quasi tutto il gallo-italico, assenti invece in ladino, unisce fortemente la Cisalpina alla Transalpina, nel segno dei Celti e dei Germani. E, forse, tali vocali anteriori arrotondate vanno associate più a Longobardi e Franchi che ai Celti. Ma ne riparleremo. In conclusione, il retoromanzo inerisce al mondo grande-lombardo, ne è parte integrante, e in questo senso anche i romanci appartengono alla Cisalpina, se non geograficamente di certo etnicamente.

La Rezia cisalpina nell’ottica lombardista

La Rezia cisalpina, vale a dire il Tirolo storico primigenio (Trentino e Alto Adige), appartiene al dominio geografico granlombardo e pur avendo, nel caso altoatesino, caratteristiche proprie rientra perfettamente nel quadro cisalpino. Il territorio di Trento è, senza dubbio, lombardo: ad un occidente orobico rispondono un oriente veneto e un settore centrale “trentino”, considerando anche le sacche cimbre, mochene e ladine; il Tirolo meridionale, l’Alto Adige, è sicuramente più complesso e nonostante la minoranza ladina appare dominato dall’elemento germanico/germanofono, per quanto rimescolato con i nativi cisalpini. Tale situazione perdura dal Medioevo, perché, chiaramente, l’epoca antica preromana e romana vedeva come protagonista, viceversa, la popolazione indigena celto-retica, in un secondo momento romanizzata.

Sappiamo bene quanto l’Alto Adige sia orgoglioso delle proprie radici, della propria storia e della propria cultura, anche etnica e linguistica, e probabilmente persino in una Grande Lombardia indipendente porterebbe avanti istanze indipendentiste. Tuttavia, l’ambito tirolese meridionale – che è quello storico – è intimamente legato al Trentino, grazie al sostrato retico e celtico ma anche al superstrato longobardo, e la romanizzazione ha anticipato di secoli l’avvento austro-bavarese. Trentini e ladini rappresentano la componente indigena del Trentino-Alto Adige, che a nostro avviso ricade, perciò, appieno nell’ambito lombardo storico, allargato. E non solo per la geografia a sud delle Alpi. La Rezia cisalpina è connessa al resto della Padania, in quanto contesto cisalpino, per l’appunto, e dalle radici nord-etrusche, celtiche, longobarde, lombarde medievali.

Questo discorso vale anzitutto per Trento, città indubitabilmente lombarda, che per quanto abbia un territorio orientale molto influenzato dal venetismo nei secoli passati mostrava un’impronta etnolinguistica ancor più lombarda, cioè gallo-italica. Si consideri che gli stessi ladini, parlanti ladino, rientrano culturalmente nel dominio retoromanzo, cosiddetto, e quindi appartenevano un tempo all’unità etnica e linguistica padano-alpina, di marca galloromanza. Il ladino, in senso ampio, comprende il ladino propriamente detto, il romancio dei Grigioni, il friulano, ed è una famiglia linguistica strettamente imparentata col gallo-italico. Non sarebbe idea poi così balzana pensare di spostare al di là dello spartiacque alpino la popolazione “tedesca” (in realtà baiuvarica) per accogliere al di qua i romanci, nostri fratelli gallo-romanici.

Venetizzazione (o, meglio, venezianizzazione) e italianizzazione hanno interrotto questo continuum portando, linguisticamente, alla creazione di due tronconi padani: un ovest gallo-italico e un est reto-venetico, dai forti influssi mitteleuropei (nel settore settentrionale). Va comunque detto che l’etichetta retoromanza crea soltanto confusione: il ladino non ha sostrato etrusco, ha sostrato celtico, quanto il lombardo. Certo, sulle Alpi vi sono diverse minoranze, tanto a ponente quanto a levante: occitani, arpitani e walser nella Grande Lombardia occidentale, ladini (comunque cisalpini, etnicamente), cimbri, mocheni, altri germanofoni, sloveni e croati nella Grande Lombardia orientale. Una situazione complicata, anche se marginale, che comunque non inficia il nostro concetto di Lombardia storica, un territorio che abbraccia tutto lo spazio padano-alpino, per quanto in alcuni ambiti interessato dalla presenza di minoranze alloglotte.

Siamo per una Rezia cisalpina integralmente granlombarda, e siamo a favore dell’assimilazione dell’elemento germanico (o forse, più correttamente, germanofono). In tal senso non vediamo di cattivo occhio il ripristino delle famose “Opzioni”: gli altoatesini che non accettano la sovranità granlombarda e l’assimilazione possono sempre tornare oltralpe, nelle terre ancestrali dei loro padri. Fermo restando che il Tirolo meridionale non è indubitabilmente germanico, perché contempla anche e soprattutto la fortissima impronta celto-retica, assieme a quella longobarda, che lo connettono strettamente al Trentino (o Tirolo “italiano”, Welschtirol, termine dispregiativo che confonde le acque). “Tirolo” è toponimo cisalpino e indica anzitutto l’Alto Adige, ma storicamente include tutto il dominio retico cisalpino, perciò applicarlo al Tirolo austriaco è fuorviante. D’altra parte l’Austria non esiste, è soltanto la costola orientale della Baviera storica.

Genovesato, la porta della Lombardia

Quella che siamo soliti chiamare ‘Liguria’ è un territorio che, rispetto all’accezione ligure antica, appare molto ridimensionato, limitandosi all’area appenninica, ovviamente cispadana, e a quella costiera con l’immediato entroterra. In antico la Liguria comprendeva tutto il sudovest della Cisalpina e, nel Medioevo, indicava talvolta l’intero occidente padano, sulla scorta della romanità imperiale. La Liguria odierna, regione dello Stato italiano, sarebbe da chiamarsi, più correttamente, Genovesato, che è poi la terra della vecchia Repubblica di Genova. Allo stesso modo la lingua ligure odierna potrebbe tranquillamente chiamarsi genovese, proprio perché il significato contemporaneo di Liguria è qualcosa di artificiale, e parziale. L’eredità degli antichi Liguri, una popolazione fondamentalmente preindoeuropea ma con un forte superstrato ariano recato da genti assai prossime ai Celti, accomuna l’intera Padania occidentale, sebbene sia più forte nei territori “romani” dell’antica Liguria (che fu anche il nome di una regione augustea e, successivamente, dioclezianea).

Nondimeno, la Liguria è parte della Grande Lombardia, è una terra lombarda, e non solo perché nel Medioevo il capoluogo Genova era chiamato sovente, poeticamente, “porta della Lombardia”. La regione in questione riguarda delle popolazioni sorelle di quelle gallo-italiche propriamente dette (sebbene il ligure, linguisticamente, abbia tratti che lo inquadrano come idioma autonomo), legate al basso Piemonte e all’Emilia occidentale e comprendenti pure gli antichi abitatori del Nizzardo e di Montecarlo, così come della Lunigiana (e parte della Garfagnana). La lingua di Genova era, un tempo, molto più estesa ad ovest mentre, ancor oggi, travalica i confini regionali in direzione nord/nordest. Il lunense è, invece, una parlata a metà fra ligure ed emiliano, ma innestato su di un territorio fortemente ligure, in senso etnico.

Infatti, dovendo individuare una regione granlombarda ligure, per fini statistici e demografici, alla lombardista, oltre all’attuale ambito ligure al di fuori del bacino padano (alcuni lembi del Genovesato ricadono, appunto, nella Padania geografica e farebbero parte dei cantoni lombardisti a nord della Liguria costiera), prenderemmo in considerazione il Nizzardo, Montecarlo, Briga e Tenda all’estremo occidente, e la Lunigiana all’estremo oriente, tutte terre dalla storia ligure – anche in senso etnico e linguistico – che sono parte integrante della Grande Lombardia. La Liguria, diciamo convenzionale, è granlombarda, e per quanto non appartenga al dominio lombardo etnico è in tutti i sensi membro della Cisalpina. Viene spontaneo pensare al famoso, o famigerato, triangolo industriale.

Geografia continentale (non peninsulare), lingua gallo-italica (dai più ritenuta tale, pur avendo alcune peculiarità che la rendono originale), Romània occidentale, di clima costiero mediterraneo ma di aspetto parimenti montuoso, celtizzata e longobardizzata, antropologicamente padano-alpina: tutti questi elementi concorrono allo statuto granlombardo della Liguria, rendendola terra affratellata alle altre cisalpine. Etnicamente parlando le radici liguri sono liguri, scusate il giuoco di parole, con riferimento agli arcaici indigeni, celtiche (o celto-liguri; la necropoli di Ameglia ha restituito interessanti reperti gallici), gallo-romane e poi longobarde, ma deve essere esistito anche una componente etrusca, visto che Genova è di fondazione tirrenica, seppur di toponimo “lepontico”, e cioè neo-ligure, ariano.

E abbiamo poi la storia medievale, con un Genovesato alleato della Lega Lombarda e vera e propria porta della Lombardia, nel senso che Genova, anche come polo marittimo, costituiva e costituisce un imbocco in direzione della Pianura Padana, e nel Medioevo l’intera valle del Po era chiamata, giustamente, Lombardia. Il suddetto triangolo industriale, nella sciagura, ha contribuito ad irrobustire i vincoli con la capitale Milano e Torino. Non può esistere una Liguria slegata dal grosso della Padania, e per tale motivo fa parte della Grande Lombardia. Certo, ha una propria identità che per certi versi la smarca dalla Lombardia classica, ma la rivoluzione lombardista deve passare anche da e per quel territorio, sino a coinvolgere le contrade non ancora redente. Una Liguria indipendente non avrebbe alcun senso; una Liguria membro della Grande Lombardia, invece, si riconnetterebbe al proprio passato, verso un futuro di vera libertà identitaria.

Opinioni impopolari sul Veneto

Il lombardesimo ha in non cale il venetismo, e cioè una forma di regionalismo e campanilismo che spezza la sacrosanta unità della Grande Lombardia, e dunque della Cisalpina. Il venetismo, come ogni altro particolarismo, è divisivo, sterile, micro-sciovinistico e serve sicuramente più a Roma che a Milano (e, direi, pure a Venezia), avendo così gioco facile nell’opera di disgregazione della comunità nazionale padano-alpina. Esiste senza dubbio un popolo veneto, figlio dei Paleoveneti, ma troppo spesso ci si dimentica che, al pari delle altre aree granlombarde, esso ha elementi identitari preindoeuropei (reto-euganei), celtici e germanici, specialmente longobardi. Diciamocela tutta: il concetto di ‘Veneto’ è qualcosa di moderno, certo modellato sull’idioma di quelle terre, ma alquanto banale e parziale, pensando al profilo identitario della Grande Lombardia orientale.

Esatto, anche il Triveneto ricade nel contesto grande-lombardo, poiché in antico la Lombardia (storica) includeva pure le Venezie. Erano (e sono) lombardi a Verona, Padova, Treviso, come a Milano, Bergamo, Brescia, in quanto sovrapposizione della Langobardia Maior alla Gallia Cisalpina. La Lombardia è la continuazione della Longobardia, ma anche l’erede della Gallia al di qua delle Alpi, e il Veneto non fa eccezione. Il regionalismo venetico ha ridotto ad una farsa l’identitarismo, fossilizzandosi sulla Serenissima; realtà politica, del passato, di tutto rispetto, ma espressione, comunque sia, della talassocrazia mercantile, fortemente proiettata nel Mediterraneo orientale.

La Repubblica di San Marco non aveva collante etnico e non era, dunque, frutto di una nazione, anche perché l’unica nazione presente in Padania è la Lombardia storica, che ingloba l’intero “nord” (e non solo). E parlando eziandio di lingua c’è da dire che il veneto moderno, fondamentalmente modellato sul veneziano, ha interrotto l’antica unità linguistica alpino-padana, separando il gallo-italico dal retoromanzo che, un tempo, erano pressoché la stessa cosa. Il Veneto continentale medesimo aveva parlate diverse, rispetto alla loquela di Venezia, molto più prossime di oggi al lombardo, in senso stretto e in senso largo, per via del sostrato celtico e del superstrato longobardo, presenti pure ad est.

Ma, oltretutto, cos’è il Veneto moderno se non il prodotto dell’unione della Marca di Verona con quella di Treviso, con una pennellata “serenissima” recata dal cuore pulsante veneziano? Lo stesso Leone di San Marco è un simbolo veneziano, non veneto, poiché le restanti città venete continentali si riconoscono nei classici scudi crociati lombardi. E la Lega Lombarda si spingeva nel fulcro continentale di ciò che oggi è la Regione Veneto. Venezia è un’anomalia di retaggio bizantino; una città chiaramente densa di storia e di gloria ma espressione marginale della lombardità. Anzi, per certi versi il capoluogo non può essere considerato lombardo. Le lagune esulano dal contesto schiettamente padano, quasi un mondo a sé stante in cui si respira un’atmosfera particolare.

Il Venetorum angulus è parte integrante della Grande Lombardia, e il suo territorio ricade nel progetto lombardista. Ma, nell’ottica del lombardesimo, non può esserci più spazio per una regione veneta: al suo posto le entità cantonali blandamente federate alle restanti cisalpine, in nome dell’unità nazionale lombarda. Un discorso, questo, che vale anche per Insubria, Orobia, Piemonte, Emilia, Romagna, Liguria, Trentino, Friuli e la Venezia Giulia storica, segno che il nostro non è accanimento venetofobo. Noi rispettiamo i veneti, intesi come genti orientali dall’identità venetica, celtica, longobarda (ma anche reto-ligure, gallo-romana, gotica). Discorso diverso per il venetismo e per ogni altra nostalgia marciana che è utile soltanto a seminare zizzania tra cisalpini, occultando la vera ed unica nazione subalpina: la Lombardia.

Per l’indipendenza della Grande Lombardia

Qualcuno mi chiedeva un commento circa il primo sì all’autonomia differenziata, recentemente passato al Senato; si attende ora il voto alla Camera. E, già qui, stiamo parlando di apparati dell’entità italiana. L’ennesima trovata propagandistica della Lega, dopo secessione, devolution, federalismo solidale, sembra riscuotere successo anche presso alcuni indipendentisti lombardi, che vedono in essa un tentativo di disgregazione della compagine tricolore, forse dimentichi dei trascorsi “padani”. Ben sapendo che ogni iniziativa volta a fiaccare – seriamente – il nazionalismo e l’unionismo italiani va accolta positivamente, resta però il fatto che la Lega (ex) Nord è membro di un governo capeggiato dalla destra italianista, che farebbe di tutto per ostacolare un razionale identitarismo cisalpino. Ma, allo stesso tempo, la medesima Lega a trazione salviniana ha in non cale il nazionalismo etnico panlombardo, digiuna com’è di principi völkisch, e forse ci si scorda che il declino leghista comincia proprio col secessionista (a parole) Bossi. Mica col “capitano”, che è stata la logica conseguenza dei fallimenti del genio di Cassano Magnago. Non è la prima volta che via Bellerio propone soluzioni volte al decentramento, ma al di là del loro successo o meno sorge un interrogativo: i leghisti hanno a cuore l’identità nazionale padano-alpina o soltanto i danari? La sensazione è che nemmeno sappiano dove stia di casa la prima, zavorrati come sono di retorica patriottarda da Libro Cuore.

L’autonomia riguarda le regioni create da Roma, come la stessa “Lombardia”, e cioè vuoti contenitori privi di vera connotazione etnoculturale, non a caso targati tricolore. Qui bisogna capire che non abbiamo bisogno di autonomismi, regionalismi, campanilismi che spezzano l’unità etnonazionale della Grande Lombardia – peraltro motivati, appunto, da questioni fiscali – bensì di coesione, unione, spirito comunitario che vadano oltre il dato economico, per quanto importante. Non esistono regioni settentrionali (nord di cosa, oltretutto?), esiste la Lombardia etnica e storica, che abbraccia l’intera Padania. I pannicelli caldi leghisti li lascio a chi ormai, da decenni, è parte integrante del sistema italiano e delle sue disfunzioni, perché la Lega è ascaro di quello che simpaticamente chiamo fascio-terronismo. Non aspettatevi nulla di buono da chi, per sopravvivere, ha imparato il mestiere del romanissimo voltagabbana, perché sarà sempre schierato con il mortale avversario della libertà cisalpina. L’autonomia differenziata sarà anche un colpo al centralismo italico, che tanto irrita i progressisti e i patrioti ausonici (ma, dopotutto, è il solito teatrino alla romana), ma alla (vera) Lombardia serve ben altro, e solo il lombardesimo può assicurarglielo. Che poi, il problema non è il centralismo romano: è Roma, e dunque l’Italia. Vera identità, vera tradizione, vero nazionalismo in nome delle nostre radici e dei nostri padri, di questo abbisogniamo. Ché del regionalismo tricolore, dei baracconi politico-amministrativi plasmati da Roma, del cialtronesco autonomismo governativo il lombardista non sa che farsene.