Novembre – November

Bacco

Il mese di novembre (November) deve il suo nome al fatto di essere stato, nell’antichità romana, il nono dell’anno a partire da marzo, successivo a ottobre. L’attuale undicesimo mese del calendario era posto sotto la tutela di Diana e in Roma antica non era particolarmente caratterizzato dalla presenza di festività significative, ad eccezione dei Ludi Plebeii. Nei Menologia rustica, calendario romano che forniva indicazioni utili alle pratiche agresti, il mese novembrino era preposto alla semina di grano e orzo e all’esecuzione di scavi attorno agli alberi con lo scopo di raccogliere l’acqua piovana invernale per bagnare le piante durante le aride estati, ma anche per evitare esondazioni, controllare la crescita delle infestanti e convogliare materiali organici fertilizzanti. L’iconografia tradizionale, sempre presso i Romani, di novembre era costituita da un uomo con una zappa a quattro denti (un rastrello, praticamente) e, spesso, la deità atta a rappresentare il mese autunnale per antonomasia era Iside, figura divina allogena penetrata con l’ellenismo e celebrata negli Isia, tra ottobre e novembre. November inizia con il sole nel segno astrologico dello Scorpione e si conclude con il suo ingresso nel segno del Sagittario il giorno 22, sino al 21 dicembre, data solstiziale.

Personalmente, vedo bene la figura di Bacco, il Dioniso romano, dio del vino e della vendemmia, del piacere dei sensi e del divertimento, per incarnare novembre; questo perché in tal mese, tra la sua fine e l’inizio di dicembre, venivano celebrati i Brumalia romani, feste a base di libagioni e banchetti in onore del dio estatico e strepitante (portatore di baccano, da cui l’appellativo di origine greca Bromio) il cui etimo si ricollega alle brume, al periodo invernale. E sappiamo bene, soprattutto in ambito padano, quanto novembre sia il mese della nebbia… Inoltre, il periodo novembrino, da un punto di vista identitario, è ancor oggi simbolo di tenebre – vedi le giornate brevi -, freddo, morte (o, meglio, commemorazione dei defunti, in linea con il trapasso autunnale e invernale della natura), come del vino che fermenta al buio nei tini, del seme che riposa sotto il suolo nell’attesa di germogliare, della madre terra che abbraccia, nel riposo eterno, tanto i morti quanto i germi di rinascita, il cui avvento si avrà col solstizio d’inverno e il trionfo della luce del sole che vince la gelida oscurità, guadagnando terreno sulla notte. È sempre suggestivo pensare all’inscindibile legame tra sangue degli avi, e nostro, suolo patrio (anche come fonte di sussistenza), e spirito, ovviamente tradizionale e di matrice gentile, segnato dal calendario identitario ereditato dai nostri padri che, sebbene inflazionato dalle celebrazioni cristiane e consumistiche, si fa ancor oggi guida per tutti noi, lungo il cammino della vita.

31 ottobre-1 novembre: Calenda – Samonios

Samhain

Tra il 31 di ottobre e il 1 di novembre, più o meno in corrispondenza della data mediana tra equinozio d’autunno e solstizio d’inverno (che cade il giorno 6 o 7 di novembre), nel mondo celtico si celebrava Samonios/Samhain, l’antico Capodanno dei Galli. Sovrappostosi prima ai Lemuria romani primaverili e poi ai farseschi Ognissanti e morti della Chiesa (d’altronde nati appositamente per cancellare la memoria della ricorrenza pagana, rimpiazzandola), segnava la fine del periodo estivo-autunnale e l’inizio di quello invernale, con i ben noti riti di passaggio in onore degli avi, in cui il portale sacro che si apriva con le celebrazioni di questo periodo metteva in comunicazione i vivi con i morti. Il fuoco, i falò e le lanterne ricoprono un ruolo di primo piano, così come l’assemblea riunita che celebra il termine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo, con tutta una serie di riti giunti sino a noi grazie alle rustiche usanze contadine, e agli echi del mondo nordico, ancorché distorti dalla sottocultura-spazzatura nordamericana e dal relativo consumismo. Samonios è visto un poco come una sorta di festival dell’oscurità e delle tenebre (contrapposto a Beltane che è festa della luce e della fertilità primaverili), nonché periodo dell’anno in cui il velo tra la vita terrena e quella ultraterrena si fa più sottile.

La zucca svuotata, intagliata e contenente una candela accesa, non è solo retaggio britannico e anglosassone (vedi Halloween, cioè la vigilia celto-germanica della festa di tutti i santi del primo giorno di novembre, seguito dal secondo dedicato ai morti dalla liturgia cattolica, un trittico che risente profondamente dell’usanza di Samhain), ma anche cisalpino: le lümére hanno una funzione apotropaica nei confronti della morte (ricordano un teschio, ma anche le teste dei nemici mozzate dai Celti nelle battaglie, e usate come trofeo), e ce ne sono pervenute testimonianze da tutte le contrade della Grande Lombardia, in virtù anche della natura di regina autunnale, tra i prodotti della terra, che caratterizza la zucca. Pure le maschere, i costumi, i travisamenti del viso e del corpo obbediscono a riti scongiurastici atti a prevenire il riconoscimento da parte delle anime dei defunti. Da qui lo slittamento consumistico e orrifico verso il pattume statunitense, che al pari della cristianizzazione snatura e perverte l’essenza gentile della celebrazione. Il triduo dei morti, dunque, è ricorrenza cristianizzata che nasce dal cuore del tradizionalismo ariano, ed è occasione di commemorazione degli antenati e di meditazione sulla morte, in linea con la fine della stagione mite che sfocia nell’inizio di quella rigida e con le pratiche agresti relative alla raccolta degli ultimi frutti e delle bacche, come del ricovero delle bestie e della macellazione di quelle in eccesso.   

Economia

Il lombardesimo persegue un’idea economica che si colloca nella dottrina – perfezionata – della terza via, prendendo le distanze tanto dal sistema capitalista e liberale, tipico della decadenza occidentale, quanto dai vieti sottoprodotti del socialismo marxista, che puzzano di cosmopolitismo semitico. Parliamo di dottrina perfezionata per il semplice fatto che noi non si indugia nel socialismo nazionale, “rossobruno”, che può risultare logoro ed equivoco, bensì perché al socialismo preferiamo senza ombra di dubbio il concetto di comunitarismo, oggi basilare. Il culto razionale di sangue, suolo, spirito viene prima di ogni cosa e deve ispirare ogni campo dello scibile politico umano, dunque anche la dottrina economica. Il rischio dell’ideologia socialista convenzionale è quello di ridursi alla sterile lotta di classe, ancorché edulcorata dall’istanza nazionalista, mentre è evidente che il lombardesimo ponga enfasi sulla lotta identitaria ed etno-razzialista, senza per questo rivestirsi di ambigui connotati suprematisti. Sociali e nazionali? Certamente, ma in un’ottica non più neofascista o neonazista (caricatura di quelle originali), o nazi-maoista, perché sublimata in maniera inedita dal comunitarismo di stampo lombardista. Oltretutto espressione di un ambientalismo, o meglio econazionalismo, privo di strascichi liberal.

Lo Stato deve essere al servizio della patria, della comunità, poiché sono proprio quest’ultime a legittimarlo, a renderlo idoneo a rappresentare degnamente il popolo. In caso contrario, lo sapete, si otterrebbe un baraccone apolide all’italiana, non per nulla funzionale all’agenda europeista, atlantista e mondialista. E un organismo statuale degno di questo appellativo deve essere uno strumento che subordini il mercato al benessere della nazione, e che dunque non tramuti il capitale in un feticcio a cui tutto vada sacrificato; il lombardesimo crede nel protezionismo, nel corporativismo, nella nazionalizzazione della grande industria strategica, ma senza erigere una statolatria che rischia di spedire nel tritacarne l’identità in nome di un’idea di socialismo avulsa da sangue e suolo. Il dirigismo sta bene nella misura in cui il controllo dello Stato sia volto al vero progresso e al vero sviluppo della popolazione, mettendo economia e finanze a tutto vantaggio della patria. Pertanto, non occorrono bandiere rosse e deliri comunisti fuori tempo massimo, ma politiche economiche che rendano grande la Lombardia sfruttando le nostre indubbie, ancestrali, qualità. Al netto, si capisce, dello sciagurato culto del fatturato che è la cagione prima del nostrano tracollo etnico e nazionale.

20 ottobre (1944): la strage di Gorla (Giornata della memoria lombarda)

Strage di Gorla

La mattina del 20 ottobre 1944, a seguito di un massiccio bombardamento alleato che colpì il quartiere milanese di Gorla, perirono 614 persone innocenti, tra cui 184 bambini della scuola elementare “Francesco Crispi”, con l’intero corpo docente, la direttrice e il personale scolastico. La strage dei “piccoli martiri di Gorla” fu opera dei cosiddetti “liberatori”, delle forze aeree americane (USAAF), partite dall’Italia meridionale occupata dagli Alleati, e retta dai vigliacchi e traditori sabaudi, per distruggere gli stabilimenti meccanico-siderurgici della Breda di Sesto San Giovanni. Sembrerebbe che il massacro dei piccoli innocenti di Gorla sia stato frutto di errori, incidenti e fallimento militare della missione statunitense partita dalla Puglia, ma chi può escludere che non si sia trattato, invece, di deliberato terrorismo? Lo stesso che rase al suolo Dresda, Würzburg, Pforzheim, Hiroshima e Nagasaki o colpì mortalmente, per restare a sud delle Alpi, Foggia, Treviso, il quartiere San Lorenzo a Roma, Reggio Calabria, Zara e molte altre città. Senza dimenticare la distruzione di Montecassino…

Gli antifascisti che celebrano americani, inglesi e francesi (con tutti i loro bravi tirapiedi indigeni e allogeni) come paladini del bene e liberatori, celebrano orrende stragi di cui Gorla è il simbolo, messe sotto al tappeto per ingigantire le responsabilità nazifasciste e minimizzare il terrorismo delle democrazie borghesi occidentali (ma è accaduto anche nel caso dei crimini comunisti, basti pensare ai massacri dei partigiani e alle foibe titine). Insomma, chi vince la guerra scrive la storia, chi la perde finisce sui libri per venire demonizzato in eterno, con lo scopo anche di coprire le malefatte dei (presunti) eroi democratici e liberali. Non a caso, conosciamo a menadito i lager nazisti e i massacri hitleriani in “Italia”, mentre ignoriamo bombardamenti, stupri di guerra (vedi marocchinate), infamie partigiane, stragi alleate, campi di concentramento angloamericani. Gorla si fa dunque, doverosamente, Giornata lombarda della memoria, per non dimenticare le nostre innocenti vittime della guerra sterminate non dal “cattivo” repubblichino o germanico, ma dal tanto osannato “buono” statunitense, colui che col feticcio della (sua) libertà continua ancor oggi, come 80 anni fa, a seminare morte e distruzione in giro per il globo. Senza però volerne in casa propria.

10 ottobre (732): la battaglia di Poitiers

Battaglia di Poitiers

Il 10 di ottobre ricorre l’anniversario della battaglia di Poitiers (nell’odierna Francia centrale), avvenuta nel 732, quando i Franchi di Carlo Martello sconfiggono l’esercito arabo-berbero di al-Andalus, bloccando l’espansione islamica nell’Europa occidentale. Carlo Martello, maggiordomo di palazzo dei re merovingi, si trovava al comando di un esercito a maggioranza franca composto, però, anche da altri popoli germanici e da indigeni gallo-romanici, tra cui Alemanni, Burgundi, Bavari, Sassoni, Gepidi e Visigoti. Il significato della battaglia, anche detta di Tours, nell’immediato non fu molto importante, ma col tempo sancì l’ascesa della casata di Carlo Martello a dominio della Gallia Transalpina/Franchia, coronata dall’avvento del nipote Carlo Magno; altresì, pur proseguendo le loro incursioni nel settore meridionale del Regno franco, gli eserciti arabo-musulmani di stanza nella penisola iberica non si spinsero oltre e la loro avanzata nell’Europa occidentale fu dunque arrestata. La grande eco della vittoria franca è arrivata sino ai nostri giorni, per via della sua indubbia portata simbolica.

A questa, come alle battaglie successive di Lepanto e Vienna, viene attribuita una valenza meramente religiosa, cristiana e/o mariana, in quanto si sottolinea la cristianità degli eserciti occidentali che prevale sulla perversa aggressività dell’invasore islamico; direi, invece, come sempre, che questi scontri vittoriosi ebbero, e a tutt’oggi hanno, un importante significato culturale, civile ed etnico, dato che l’enfasi va posta sul carattere etno-antropologico europeo delle forze militari continentali, che riuscirono a sconfiggere e sgominare l’avversario allogeno (musulmano o meno poco importa, visto che il cristianesimo è parte dello stesso ceppo dell’islam, e dunque dell’ebraismo), bloccando l’avanzata in Europa di bellicose culture esotiche portatrici di geni parimenti esotici (sebbene sia mori che ottomani assorbissero, convertendole, masse di indigeni cristiani). Una cosa interessante sta nell’entusiasmo che suscitò la vittoria di Carlo Martello, come è logico che fosse, negli ambienti cattolici dell’Hispania, dove un monaco lusitano, Isidoro Pacensis, adoperò il termine collettivo di ‘europei’ – Europenses – per designare il carattere etnoculturale dei guerrieri che fermarono, per la prima volta, l’espansionismo moresco.

7 ottobre (1571): la battaglia di Lepanto

Battaglia di Lepanto

Il 7 di ottobre cade la ricorrenza della battaglia di Lepanto, avvenuta nel 1571, quando le flotte della Lega Santa, formate dagli antichi potentati “italici” e dall’Impero spagnuolo, sconfiggono quelle musulmane degli ottomani presso le isole greche delle Echinadi (o Curzolari), nel Mar Ionio. Schiacciante la vittoria delle forze navali guidate da don Giovanni d’Austria, che bloccarono (anche se non definitivamente) l’espansionismo turco in Europa. Sotto le insegne pontificie della suddetta Lega Santa si trovavano federate Venezia, spagnuoli (con Napoli e Sicilia), Stato Pontificio ovviamente, Genova, Savoia, i Cavalieri di Malta, la Toscana, Urbino, Lucca, Ferrara e Mantova; insomma, una grande coalizione marcatamente peninsulare – lato sensu – in cui si distinsero valenti comandanti nostrani quali Sebastiano Venier, Pietro Giustiniani, Agostino Barbarigo (perito in battaglia), Gianandrea Doria, ma pure Marcantonio Colonna. Alla guida delle forze alleate stava don Giovanni d’Austria, figlio dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, mentre le ottomane erano condotte dall’ammiraglio turco Alì Pascià, che perì nello scontro navale. Lepanto seguì la resa della veneziana Famagosta ai maomettani anatolici, e l’orribile fine subita per mano ottomana dal comandante veneto della fortezza Marcantonio Bragadin.

Come detto, la disfatta degli islamici non comportò la fine dell’espansionismo turco nell’area balcanica (l’assedio di Vienna del 1683 lo dimostra), e la Serenissima perdette gran parte delle isole dell’Egeo e la stessa Cipro. Ma i turchi non prevalsero in maniera duratura sul Mediterraneo orientale europeo, e non superarono né raggiunsero la potenza delle flotte “cristiane”. Infine, capitolarono a Vienna e furono costretti gradualmente ad abbandonare l’area carpatica e balcanica, anche se lasciando una traccia di islamizzazione in aree come Bosnia e Albania. Fu, ad ogni modo, una grande vittoria del nostro genio e della nostra stirpe, che ripropone una tematica ora più che mai attuale: lo scontro fra i patrioti indigeni e le pedine allogene (poco importa a quale religione appartengano), manovrate dall’alta finanza mondiale per sovvertire gli equilibri etnici, culturali e socioeconomici dei Paesi europei. Non è, infatti, uno scontro fra Europa cristiana e islam o tra Occidente e Levante, ma fra Europa identitaria dei popoli e Occidente plutocratico emanazione dell’imperialismo americano, che è del resto la cagione dell’immigrazione di massa e financo del terrorismo musulmano, e prima ancora dell’islamismo. Lepanto, come Poitiers e Vienna, ha assunto una grande valenza religiosa e culturale, ma io direi soprattutto etnoculturale, in quanto espressione della vittoriosa forza degli europei, che alleati possono davvero sconfiggere ogni minaccia, sia esterna che interna.

Ottobre – October

Cerere

Il mese di ottobre (October) deve il suo nome al fatto di essere stato, nell’antichità romana, l’ottavo a partire da marzo, successivo a settembre. L’attuale decimo mese dell’anno era posto sotto la tutela di Marte, e si situava alla chiusura delle attività belliche e agricole; si apre all’insegna di Cerere, materna dea italico-romana della fertilità, dei raccolti, della nascita di fiori, frutta ed esseri viventi. Essa viene sovente associata alla dea Tellus, protettrice della fecondità e dei morti, invocata anche contro i terremoti (e l’Italia etnica centrale, culla degli Italici, si sa quanto sia interessata da questi disastrosi fenomeni), e alla dea greca Demetra. Giorno dedicato a Cerere è il 12 aprile, per via dei Cerealia. In ottobre, tuttavia, si celebrava, il giorno 5, il mundus Cereris, oscura cerimonia romana di probabile origine etrusca (che cadeva anche il 24 di agosto e l’8 di novembre) in cui una fossa situata nel santuario di Cerere e consacrata agli dei Mani (le anime dei defunti) veniva ritualmente aperta per mettere in connessione il mondo dei vivi con quello dei morti, e purificare così chi prendeva parte alla celebrazione. Rito peraltro propedeutico ai seguenti eventi di novembre e dicembre (Saturnali e Natale solstiziale), che richiamava il ricordo della terra come madre, a guisa di utero dunque, ponendolo sotto la tutela di Cerere-Tellus, per l’appunto dea madre preposta alla fecondità della donna e della terra, così come alla protezione dai fenomeni tellurici e al mondo sotterraneo dei morti. Alla fine di ottobre i Celti festeggiavano Samhain (Halloween), celebrazione di passaggio in cui vivi e morti entravano in comunicazione.

Ottobre si apre quasi in concomitanza dell’equinozio di autunno (22-23 settembre), l’inizio dell’autunno, ed è a ridosso della festa di San Michele arcangelo (29 settembre), istituita dalla Chiesa per cancellare, come nel caso del Natale, della Pasqua, della festa di San Giovanni, il ricordo degli antichissimi riti della gentilità ariana. San Michele, pur essendo figura cristiana, incarna lo spirito guerriero di Celti e Germani, e veniva da questi associato a Lug e Odino, importantissime divinità dei loro pantheon; nota, infatti, è la devozione popolare longobarda, di carattere ariano, per l’arcangelo. Al santo è associata la spada come la bilancia, in quanto nemico del male e delle tenebre, e pesatore di anime; non a caso l’equinozio, e buona parte di ottobre, si pongono sotto il segno della Bilancia, costellazione con cui si apre l’autunno, e il sole segna il passo “morendo”, sino alla rinascita del 21 dicembre. Il mese si conclude con l’astro che entra nel segno dello Scorpione, il giorno 23. Tutte queste ricorrenze coincidono coi ritmi arcaici di agricoltura e allevamento, e il periodo tra equinozio autunnale e inizio di ottobre sancisce la fine del raccolto e dei processi produttivi, entrando nella fase del riposo invernale, causa freddo e tenebre. Solstizi ed equinozi sono riti di purificazione, iniziazione e passaggio sin dai tempi antichi, ovviamente pagani; la Chiesa si è appropriata di celebrazioni che non le appartengono. Da ultimo, si ricordi che il 23 di settembre (del 63 avanti era volgare) nasceva Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, in pieno equinozio d’autunno; anche per via del genetliaco del primo imperatore romano, l’evento astronomico assunse una valenza alquanto sacrale.

22-23 settembre: l’equinozio d’autunno

Mabon

Il 22-23 settembre (quest’anno 22) cade l’equinozio d’autunno, che segna la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, e che assieme al 21 di marzo, equinozio di primavera, è l’unico giorno dell’anno in cui la durata del dì e della notte si equivalgono. Questo giorno coincide con l’antica festa della vendemmia celebrata dai nostri avi, e non a caso il neopaganesimo celtico vi festeggia la ricorrenza di Mabon (dal nome del giovane dio della vegetazione e dei raccolti, figlio della Dea Madre, Modron), anch’essa forma di ringraziamento agli dei per i prodotti del raccolto, da spartirsi tra la comunità nei seguenti mesi invernali. È un tripudio di frutti tardivi, baccelli, castagne, piante e foglie secche, e degli straordinari colori caldi di cui si tinge l’autunno, soprattutto nei luoghi più selvaggi. La natura lentamente muore assieme al sole e alla luce diurna, ma matura la ferrea volontà di resistenza dell’uomo eroico, che si fa radiosa energia per vincere le tenebre e il freddo del decadimento, ovviamente da intendersi in chiave spirituale, sfociando nelle grandi celebrazioni del solstizio d’inverno (al 21-22 dicembre).

L’evento astronomico dell’equinozio d’autunno coincideva, in tempi ormai quasi del tutto andati, con attività agro-silvo-pastorali in previsione del riposo invernale, come ad esempio il ritorno delle mandrie dai pascoli di montagna a quelli di pianura, ed era segnato da due basilari operazioni agricole, quali la semina del grano e la vendemmia dell’uva; due momenti che comportano un passaggio, una trasformazione, e cioè quelli del seme, che nel ventre della terra muore per generare nuova vita, e dell’uva, che fermenta nel buio per diventare vino. L’equinozio d’autunno è così un avvenimento celeste che si verifica in concomitanza con il mutamento stagionale della natura, e che gli antichi percepivano anche come sacrale, sentendo assai più di noi quel vitale intreccio fra astrale, terreno e spirituale, alla base della sensibilità religiosa indoeuropea. Il cammino delle stagioni, scandito da solstizi ed equinozi, accompagna l’uomo nella sua vita mondana, e nel caso dell’equinozio in questione (ossia dell’ingresso nell’autunno) lo prepara, materialmente e mentalmente, al periodo di apparente morte della natura, rappresentato dall’inverno. Apparente, perché con il solstizio decembrino la vitalità della luce del sole rinasce, e con essa la terra e la vita (anche spirituale) della comunità.

Progresso e sviluppo

Il pensiero sizziano e lombardista crede fortemente in quel concetto di sviluppo che si slega dal feticcio del progresso ideologizzato, tipico di sinistre e liberali, mirato dunque al vero benessere della nostra comunità nazionale. Noi crediamo nel comunitarismo, nel nazionalismo etnico, nell’econazionalismo, in un ritorno alla natura che però non equivale ad anarco-primitivismo bensì al connubio tradizione-innovazione, perché non ci sogneremmo di ripudiare i benefici di modernità e tecnologia. Saremmo degli ipocriti. Si tratta, piuttosto, di raggiungere un optimum in cui la Grande Lombardia, fiera dei propri primati e della propria industriosa ricchezza, ottiene eco- ed etno-sostenibilità, salvando il nostro habitat dalle minacce mortali della perversione mondialista; tutelare ambiente, terra natia, agricoltura e allevamento, lavoro e popolo affinché vi sia un vero equilibrio tra giusto progresso e preservazione, per garantire quindi un futuro radioso alle nuove generazioni. Il lombardista ritiene un vanto la forza economica, industriale, civile della Padania, a patto che non vada a detrimento di ciò che ci assicura la sopravvivenza, e cioè sangue, suolo, spirito. Una sopravvivenza che è anche identitaria.

E allora, amici, va da sé che noi si condanni il progressismo, ma non il benefico progresso, e che si ripudi il capitalismo inteso come culto del fatturato che stritola lavoratori, e uomini, sacrificando la patria sull’altare del profitto e del dio danaro, ma non quello sviluppo che la Cisalpina medesima ha potuto raggiungere dopo secoli di fatiche, virtù, doti imprenditoriali e umane volte al dominio assennato della natura, per garantire prosperità alla comunità. Come potremmo rinnegare la plurisecolare ricchezza nostrana, che è frutto della nostra stessa etnia? Sarebbe come rinnegare la civiltà comunale, ad esempio, uno dei pilastri identitari e storici dei territori granlombardi. La vera sfida, come accennato sopra, è riuscire a conseguire un virtuoso equilibrio tra i positivi traguardi raggiunti dalla modernità e la sacrosanta salvaguardia di sangue e suolo, poiché il benessere può davvero venir ritenuto tale soltanto se non rinuncia allo spirito identitario, che passa per l’ambiente, il popolo e ogni risorsa locale, fonte di sussistenza da tempi immemori.

11 settembre (1683): la battaglia di Vienna (festa dell’Europa)

Battaglia di Vienna

L’11 di settembre cade la ricorrenza della battaglia di Vienna, avvenuta nel 1683, quando le truppe del Sacro Romano Impero e della Confederazione Polacco-Lituana levarono l’assedio ottomano dalla capitale austriaca, sconfiggendo l’invasore islamico. In questo modo venne così arrestata l’avanzata dei turchi nell’Europa centro-orientale, ed ebbe il “La” la riconquista europea dei Balcani. Grandi protagonisti della decisiva battaglia viennese furono il re polacco Giovanni Sobieski, comandante dell’esercito cristiano mitteleuropeo, il conte von Starhemberg, capo delle truppe austriache, ed Eugenio di Savoia, prode condottiero asburgico al comando di soldati austriaci e granlombardi, che esordì proprio a Vienna. Allo scontro coi turchi presero parte polacchi, cosacchi ucraini, austriaci, padani e toscani, tedeschi e altre milizie europee, mentre dalla parte degli invasori musulmani si trovavano stati vassalli come Moldavia, Valacchia, Transilvania, l’Alta Ungheria e il Khanato di Crimea. La battaglia di Vienna fu l’evento decisivo della Guerra austro-turca (1683-1699), conclusasi definitivamente con la vittoria dell’Impero ai danni degli ottomani, sancita dal Trattato di Karlowitz; con essa, Austria e Ungheria vennero finalmente liberate dall’incubo alieno maomettano.

Questo epico accadimento storico, da ricordarsi assieme a Poitiers (10 ottobre 732) e Lepanto (7 ottobre 1571), costituisce a mio avviso la miglior ricorrenza per celebrare la festa dell’Europa – che non è l’Unione Europea – intesa come grande e plurimillenaria famiglia continentale e imperiale. A Vienna una leggendaria alleanza paneuropea schiaccia l’intruso allogeno ricacciandolo verso sudest, segnando la riconquista delle terre centro-orientali e balcaniche. Si pone molta enfasi sul carattere cristiano della lotta europea contro i turchi ma, considerando che cristianesimo e islam sono religioni sorelle, credo che l’aspetto più importante stia nel piglio guerriero, nell’eroismo e nella forza vittoriosa delle genti europidi, che unite possono divenire invincibili. Vienna è celebrazione dell’orgoglio d’Europa, della grandezza della sua civiltà e cultura, certamente anche cristiane ma primariamente greco-romane, classiche e dunque gentili, indoeuropee, frutto dello spirito etno-razziale indigeno, che è del resto ciò che ha sempre armato il braccio degli europei. Non è certo azzardato dire che il primato europeo sia figlio anche delle innumerevoli guerre che hanno caratterizzato il nostro continente, e stimolato l’arte, la tecnica, la tecnologia, l’avanguardia e lo sviluppo, nonché la potenza. Vienna, a suo modo, si fa capitale imperiale del “vecchio continente”, crocevia storico e identitario, e quell’11 settembre 1683 (l’unico 11 settembre da ricordare) rimane nei secoli epocale avvenimento luminoso, faro della resistenza europea alle minacce antinazionali.