Parlando di simboli, insegne, stemmi, bandiere, vessilli vari, la Lombardia può fregiarsi di un nutrito armoriale che all’occorrenza fornisce emblemi di tutto rispetto e di sicuro prestigio.
La sua bandiera storica potrebbe essere la milanese Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco, nonostante personalmente non nutra molta simpatia verso di essa in quanto simbolo precipuamente genovese e legato al cristianesimo.
Però è chiaro: essendo vessillo plurisecolare legato alla Lega Lombarda, alla battaglia di Legnano, ai liberi comuni lombardi che si contrapponevano all’Impero e alla sua insegna di guerra con croce bianca in campo rosso (Croce di San Giovanni Battista o Blutfahne, nel caso appunto del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica), è degna di nota e considerazione, anche se francamente, a mio modesto parere, è più indicata per il comune di Milano e il cantone lombardista che prende il nome dalla capitale, dato che da lì proviene. Fermo restando che la suddetta Croce di San Giovanni ricorre spesso come emblema delle città storicamente ghibelline.
La Croce di San Giorgio è il simbolo per antonomasia delle crociate, e per qualcuno anche il vessillo della “vera croce”, basti pensare a certi dipinti in cui il Cristo risorto la impugna.
Queste due tipologie di croci, a sud delle Alpi, sono tipiche della Pianura Padana e sintomatiche dell’antica contrapposizione tra guelfi e ghibellini. E lo stesso cromatismo bianco-rosso è un simbolismo spiccatamente cisalpino, che lega la nostra terra al resto dell’arco alpino.
Ad ogni modo, le mie simpatie vanno innanzitutto al Biscione, el Bisson, emblema dei Visconti, della Milano ducale, della Lombardia longobarda e pagana, uno splendido simbolo assieme all’Aquila imperiale del Sacro Romano Impero (ovviamente retaggio romano delle legioni, passato in eredità alla Germania). Ritengo questa insegna – il noto Ducale visconteo – degna bandiera del popolo lombardo.
Tuttavia, è interessante constatare un certo sincretismo simbologico nell’attuale Bissa, o comunque la possibilità di una lettura ampia, frutto della stratificazione identitaria lombarda.
La Lombardia regionale occidentale (Insubria vera e propria) si fregia anche della famosa Scrofa semilanuta, simbolo della Milano gallica di Belloveso, mentre la Lombardia regionale orientale (cosiddetta Orobia) ha il nobile Swastika camuno, che non è la castrata rosa pirelloniana ma una vera e propria croce solare ariana, scavata in diverse incisioni nelle rocce della Val Camonica, millenario emblema solare della nostra gente che accomuna tutti gli europei grazie al loro retaggio indoeuropeo.
Pure lo Swastika è un prestigioso segno di riconoscimento identitario della terra padano-alpina, e non a caso è stato da me scelto come simbolo del lombardesimo, integrato nell’ipotetica bandiera nazionale della Grande Lombardia: fusione delle due Croci bianco-rosse padane con al centro, appunto, la vera “rosa” camuna.
Ad arricchire il quadro simbologico identitario, ecco la Razza viscontea, araldico motivo dei Visconti, che consiste in una raggiera gialla e rossa, che rappresenta il Sole Invitto, avente nel mezzo uno scudo vagamente tedesco argenteo contenente il Biscione azzurro coronato, un simbolo formidabile, ariano, pagano, terragno (per quanto, al solito, inflazionato dalla cristologia); la sunnominata Aquila latino-germanica, nera, ad una testa, parimenti coronata e su sfondo dorato, emblema classico della continuità imperiale romana ereditata dal mondo teutonico, a cui la Lombardia storica si ricollega; e naturalmente la ruota solare, il disco solare nero, schietta e perentoria insegna indoeuropea, banalizzata dal cristianesimo ma senza dubbio di filiazione pagana, che per noi rappresenta l’intera Europa e il suo retaggio ario.
Ci sarebbe anche la sacra tripartizione cromatica bianco-rosso-nera della parimenti tripartita società indoeuropea, ma per approfondire vi rimando alla più dettagliata pagina in materia di panoplia identitaria ed etnonazionalista di tutte le Lombardie, non solo di quella regionale.
Il piatto, ad ogni modo, è davvero ricco e la Lombardia in fatto di simboli non ha nulla da invidiare a nessuno, ed è chiaro sintomo di identità , di tradizione, di più che lecite aspirazioni all’autodeterminazione indipendentista, chiaramente su basi etniche, in virtù di una storia e di una civiltà , parte del cuore europeo, senza eguali.
La concreta risposta alla funerea barbarie universalista figlia del giudeo-cristianesimo, del giacobinismo, del marxismo e dell’attuale mondialismo capitalistico e affaristico, è la simbologia tersa, solare, fulgida, retaggio di tutta Europa, destinata a concretizzarsi nella lotta identitaria per la salvaguardia del nostro lignaggio etnico, spirituale, nazionale.
Se essere lombardi ed europei, di stirpe indogermanica, ha ancora un senso per noi, è giunto il momento di farci valere per non soccombere di fronte al dilagante relativismo, frutto eziandio, e nemmeno troppo paradossalmente, dell’assolutismo cristiano basato sull’unico dio straniero di matrice semitica, e sulla sua opera di desertificazione e di castrazione delle genti continentali.
Suggestioni, appunto. All’epoca, volendo dare una pennellata di nobiltà e di aulici rimandi all’idea di Italia che propugnavo, concepii il cosiddetto “Tricolore Italico del Sangue”, una versione tradizionalista e paganeggiante della bandiera italiana che potete trovare qui sotto, in due varianti:
Quadrato con aquila dorataRettangolare con aquila nera
Anche altri identitari rielaborarono il vessillo tricolore (la Societas Hesperiana, ad esempio) con soluzioni analoghe, cercando di dare una veste aristocratica e accattivante ad una bandiera che, in realtà , è estremamente prosaica. La vera storia del drappo italiano non ha nulla a che vedere con Indoeuropei, Italici, Romani ma, in quel periodo, al sottoscritto piaceva dare un’inclita insegna alla propria visione di Italia etnofederale. Fra gli altri che cercarono di nobilitare il tricolore italiano val la pena ricordare Mario Enzo Migliori e Adriano Scianca.
Forse, l’unico tentativo storico apprezzabile, in questo senso, fu la bandiera da combattimento della Repubblica Sociale Italiana, con la sua aquila col fascio littorio fra gli artigli, un simbolo che al sacro animale latino unisce l’emblema romano repubblicano per antonomasia, di origine etrusca.
La bandiera dell’ottocentesco stato italiano e della Repubblica Italiana non è nulla di speciale e, soprattutto, di originale. Non è altro che la brutta copia del più noto tricolore parigino della Repubblica Francese, che ha fatto da modello a svariate bandiere contemporanee, europee e non; si tratta, dunque, di un panno di origine giacobina e molto caro in ambienti massonici, un po’ come la bandiera messicana che lo ricorda da molto vicino.
D’altra parte, il tricolore italiano, come quello francese, rappresenta un’entità statuale senza nazione, un mero baraccone politico e burocratico, e non può che essere, dunque, qualcosa di piatto, triste e spoglio. Artificiale e senza storia e identità , senza radici. Per queste ragioni, cercando di proporre una visione etnonazionale italica, tentai anche di dare forma ad una bandiera che potesse avere una simbologia di tutto rispetto, sebbene avulsa dalla realtà (e da ciò che frullava nella testa di chi concepì il tricolore nostrano). Una cosa, comunque, va detta: non è un emblema ausonico.
La sua versione originale, cispadana (1796-’97), presentava bande orizzontali con il rosso sopra, il bianco al centro, il verde in basso e con una forma piuttosto quadrata; nel mezzo della striscia centrale bianca v’era un turcasso, ossia una sorta di faretra, contenente quattro frecce a simboleggiare il sodalizio di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio di Lombardia, le città repubblicane dalla cui unione nacque, appunto, la Repubblica Cispadana. Era questa un’emanazione dell’occupazione francese del Bonaparte, che portò il vento giacobino, rivoluzionario, anche al di qua delle Alpi.
Un’altra bandiera italiana degna di menzione è quella del Regno d’Italia del 1805-1814: rettangolare, con un rombo bianco al suo interno, su sfondo rosso, contenente a sua volta un rettangolo verde con l’aquila napoleonica, che non è altro che un’aquila imperiale romana sul trespolo con le saette di Giove fra gli artigli, emblema delle legioni romane. Innegabili i suggestivi echi romani, ma anche e soprattutto il puzzo massonico… Per quanto il giacobinismo primigenio sia, a suo modo, una specie di antesignano di fascismo e nazionalsocialismo – in opposizione al parassitismo antinazionale reazionario – non possiamo dimenticare come Illuminismo e Rivoluzione francese (con le sue scempiaggini egualitariste) siano l’inizio della fine della civiltà europea.
Qualche paragrafo sopra dicevo che, nonostante tutto, il tricolore italiano è un vessillo indiscutibilmente padano. Esso sta sul gozzo ai duosiciliani, con le loro litanie anti-risorgimentali sul Piemonte razzista e colonialista e, sebbene vi sia un nesso tra il rosso-bianco-verde italico e il blu-bianco-rosso transalpino (dove il blu e il rosso sono colori di Parigi e il bianco della monarchia francese), nel caso cisalpino si può leggere un cromatismo lombardo: il bianco e il rosso sono colori classici delle croci padano-alpine dei liberi comuni medievali, a partire dall’insegna di Milano (Croce di San Giorgio guelfa, Croce di San Giovanni Battista ghibellina), mentre il verde è colore visconteo di gusto ghibellino, reimpiegato per le uniformi della Legione Lombarda napoleonica.
Il rosso è il colore del cuore e della scintilla vitale, dunque dello spirito luminoso e solare che secondo gli antichi albergava appunto in quell’organo, che si pone in cima in quanto segno superiore di forza virile, razionale, “cerebrale”, centrale anche nel corpo umano; il bianco, sotto il rosso, è simbolo di anima e mente, della luna che non brilla di luce propria ma viene rischiarata dalla fondamentale luce del sole, un colore “femminile” e simbolo di passioni, pensieri ed emozioni, regolate dal cuore-cervello; infine il nero, in basso, la parte corporea e materiale dell’io, il livello inferiore collegato al ventre, ai visceri, ai genitali.
Tali divinità erano preposte a particolari funzioni che venivano rispecchiate dalla società degli uomini indoeuropei, così ad esempio Giove, il dio padre celeste, trovava un parallelo nella casta sacerdotale romana; Marte, dio della guerra, nella classe degli aristocratici-guerrieri; Quirino, dio delle curie e delle arti liberali, nel ceto dei produttori (contadini, artigiani, lavoratori), probabilmente, questa, arcaica reminiscenza dei culti preindoeuropei legati alla fertilità e a figure di divinità femminili.
Il sistema delle caste in India è ancor oggi esemplare, per illustrare il concetto: alle quattro classi sociali (bramini, kshatriya, vaishja, shudra = sacerdoti, guerrieri, commercianti, contadini e facchini), rigidamente separate ed ereditarie, corrispondono il colore bianco della spiritualità luminosa, il rosso del sangue e del fuoco, il giallo dell’oro e il nero della terra; infine i fuori casta, cioè i paria, gli impuri. Si pensa che questa stratificazione sociale introdotta dagli Arya rifletta anche la suddivisione etnica tra conquistatori indoeuropei e sottomessi dravidici.
La suesposta strutturazione sociale tripartita, correlata alla sfera della religione, collega così alle divinità triadiche basilari (e alle loro funzioni incarnate dagli uomini) il bianco (Giove/clero), il rosso (Marte/guerrieri), il nero (Quirino/produttori). Essa non corrisponde pienamente a quanto detto circa la bandiera della Tradizione, ma ispirò in me alcune riflessioni riguardo il tricolore italiano. Ripeto, stiamo parlando di anni fa, e queste dotte elucubrazioni lasciano il tempo che trovano, non avendo riscontri nella vera natura della bandiera italiana. Le ripropongo, come detto in apertura, con le necessarie chiose.
L’attuale tricolore è troppo artificiale, asettico, privo di attrattiva dettata da identitarismo e patriottismo: bandiera anonima e disadorna, replica di quella francese. Naturalmente, le strisce orizzontali si confonderebbero con la bandiera ungherese, ma la versione originale dell’insegna italica era a strisce orizzontali e nata ben prima di quella magiara (1796-’97, 1848 la seconda), di foggia differente e con un simbolo nel mezzo. Il tricolore rinnovato si meriterebbe, infatti, anche un simbolo da porvi al centro, che ovviamente non riguarda la ruota dentata repubblicana inventata settant’anni fa.
Come potete leggere qui, o in questo articolo, i colori rosso, bianco e verde erano presenti nell’ethos ariano dell’antica Roma per i motivi triadici già citati, in riferimento sia alla pietas che alla società , ma anche per questioni ludiche (le fazioni del circo), etniche (le tribù alla base di Roma, ossia Ramnes, Tities e Luceres e quindi Latini, Sabini ed Etruschi) e ancora sacrali (Giove, Marte, Venere-Flora che si collegano a Quirino per ragioni relative alla fecondità ). In questa tripartizione cromatica italico-romana, il verde sostituisce il nero, o anche il blu scuro, ma parimenti rappresenta la terra, il suolo, il lavoro agreste; inoltre, è interessante e suggestivo constatare come la livrea del picchio verde, animale totemico dei Piceni (ramo italico umbro-sabino) sia rossa, bianca e verde.
Questo “Tricolore Italico del Sangue” che avevo in mente incarnava anche dei precisi valori patri riferiti alla “nazione” e alle aree che la compongono. Ecco ciò che scrivevo 5 anni fa:
Assieme a tale cromatismo, e nell’ordine illustrato, calzava la foggia quadrata del vessillo, come nell’originale, a ricordare il solco quadrato tracciato con l’aratro secondo il classico rituale ariano delle fondazioni sacre, delle città italiche e non, come di Roma, e nel mezzo, sovrapposto, un simbolo patriottico emblema storico d’Italia, quale l’aquila imperiale romana insegna delle legioni. Le immagini che ho postato all’inizio presentano, difatti, nella striscia bianca centrale, questa versione di rapace.
L’aquila è simbolo uranico per eccellenza, e il centrosettentrionale B(u)onaparte la elesse a propria insegna, sgraffignandola dall’antichità italica. Tale simbolo è legato a doppia mandata all’Italia (quella vera, il centrosud) e assieme al lupo (altro animale totemico spiccatamente italico e romano), incarna i più arcaici aspetti dell’ethos, relativi alla patria plasmata dalla romanitas.