La Lombardia transpadana orientale (Orobia)

Swastika camuno allineato

La Lombardia transpadana orientale (volgarmente detta Orobia in contrapposizione all’Insubria, ma l’Orobia vera e propria sarebbe il solo Bergamasco) comprende i territori transabduani, alpini (retici) e di transizione fra Transpadana e Cispadana (Emilia). La fascia meridionale lombarda verrà comunque trattata a parte.

A differenza della Lombardia transpadana occidentale, l’Insubria, non ha mai avuto un grande centro catalizzatore che esercitasse anche una forma di koinè linguistica e culturale e questo perché la comunemente chiamata Lombardia orientale è un territorio composito e non omogeneo: geograficamente parlando, troviamo una Valtellina linguisticamente insubrica (quantomeno ad ovest) assieme al Grigioni lombardofono [1], un nerbo lombardo orientale bergamasco-bresciano, e una fascia di transizione meridionale.

Il nome convenzionale di ‘Orobia’ [2] può essere quindi usato solo per comodità; trattare di Lombardia transpadana (o transabduana) orientale è certamente meglio (in epoca italianista teorizzai un ‘Insubria orientale’, considerando l’inedita denominazione che mi venne in mente sulla scorta della lombardofonia tradizionale, ma ingenererebbe soltanto equivoci).

La Lombardia orientale, qui designata, comprende i territori di Sondrio, Valtellina, Bregaglia, Poschiavo, Bergamo e tutta la sua Val San Martino, Camunia, Brescia, Giudicarie, Riva del Garda [3], la sponda occidentale del Benaco, Crema, Cremona, Mantova. Alcune porziuncole di territorio come la Val di Lei (Madesimo), Livigno e l’Oltremincio sarebbero geograficamente extra-lombarde (in senso etnico), così come l’Oltrepò mantovano andrebbe considerato Emilia, sulla base dei confini naturali.

La Valtellina, seppur di idioma insubrico, non è certo centrale, è retica e orientale, e dunque va considerata assieme a Bergamo e Brescia, che sarebbero un po’ il fulcro della regione (le Alpi Orobie, peraltro, sono anche valtellinesi); Cremona è linguisticamente di transizione fra lombardo orientale e meridionale ma è al di qua del Po quanto Mantova, linguisticamente emiliana. L’alto Mantovano è invece orientale anche a livello di dialetto [4], così come il Trentino occidentale.

La parte meridionale della Regione Lombardia (Pavia, Cremona, Mantovano centrosud), assieme a Tortona, Voghera e Piacenza, che io colloco in Emilia, verranno trattate in un altro articolo, col resto della Lombardia cispadana, per quanto la Bassa occidentale sia considerabile Insubria e quella orientale Orobia in senso esteso.

La suddivisione amministrativa, cantonale e distrettuale, di queste terre potrebbe essere la seguente:

  • Brescia (Alta Cenomania), con Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Bergamo (Orobia), con Crema, Clusone e Zogno;
  • Cremona (Bassa Cenomania), con Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Sondrio (Vennonezia), con Tirano e Chiavenna.

Parliamo della provincia di Sondrio (con il Grigioni lombardo, ma senza Mesolcina che è ticinese); della provincia di Bergamo (con tutta la Val San Martino che in parte, dal 1992, è sotto Lecco e il Cremasco); della provincia di Brescia (con l’alto Mantovano ma senza l’estremo sud); di quelle di Cremona (senza Cremasco ma con l’estremo sud bresciano) e di Mantova (senza la zona settentrionale, l’Oltremincio e l’Oltrepò). Il cantone bresciano ingloba il Trentino occidentale, lombardofono, delimitato ad est dal Sarca-Mincio.

Gli stemmi cantonali si rifanno a quelli dei capoluoghi, e dunque l’inquartato bianco-azzurro per Sondrio (anche se esiste un vessillo storico valtellinese a strisce verticali bianche e rosse), il bipartito rosso-dorato per Bergamo, il bipartito bianco-azzurro per Brescia, il fasciato bianco-rosso per Cremona (in antico, il ghibellino capoluogo cremonese optava per la Croce di San Giovanni Battista).

La cosiddetta “rosa camuna” invece, ma non quella dell’attuale Regione Lombardia bensì lo swastika delle incisioni rupestri, è uno stemma che può designare, globalmente, l’Orobia in senso lato, anche se, come sapete, noi lombardisti non crediamo nelle classiche regioni, per quanto confortate da elementi storici. Meglio la soluzione cantonale che va a ricalcare i contadi medievali, spesso dalle radici romane.

La Lombardia etnica orientale, quindi, è costituita da un nucleo orobico-cenomane linguisticamente orientale, da un nord retico linguisticamente occidentale, o alpino, (eccetto le vallate orientali) e da un sud padano-cenomane linguisticamente di transizione, sebbene il dialetto mantovano di transizione non sia essendo tradizionalmente considerato emiliano.

I dialetti genuinamente orientali, da un punto di vista idiomatico, sono bergamasco, cremasco, alto mantovano, bresciano, camuno, trentino occidentale, parlate gardesane [5] e il famoso gaì, il gergo dei pastori bergamaschi e camuni.

Il valtellinese, con bormino, livignasco, chiavennasco e il dialetto del Grigioni lombardo, sono occidentali (o in taluni casi alpini, ma è quasi la stessa cosa); il cremonese è a cavallo tra lombardo classico ed emiliano; il mantovano è considerato emiliano.

Non esiste alcuna koinè orobica, nonostante il bergamasco sia per svariati motivi il dialetto lombardo orientale più prestigioso e noto, nonché parodiato. Si pensi, infatti, che nel ‘500 era riconosciuto dagli umanisti come uno dei principali volgari della cosiddetta Italia, senza dimenticare tutta la letteratura che ruota attorno a Bergamo, dalla Commedia dell’Arte alle traduzioni di testi toscani famosi, fino ai burattini e ad Olmi, passando per i saggi gallo-italici del Biondelli [6].

La Lombardia orientale insomma, a differenza di quella occidentale classica, non è molto omogenea. La Valtellina, che comprende anche il Grigioni lombardo, etnicamente è celto-retica e linguisticamente alpino-occidentale; così anche le Orobie e la Val Camonica soprattutto, sebbene esse siano orientali linguisticamente, pur risentendo del sostrato retico (pensate alle famose sorde aspirate); Bergamo e il Bergamasco occidentale facevano parte della Cultura di Golasecca e hanno quindi radici proto-celtiche (orobiche) ed insubriche (in senso gallico), ma il dialetto è orientale (in questo gli influssi veneti furono decisivi) quanto nel Bresciano e nei territori che gli gravitano attorno (Giudicarie, Garda, la Bassa, l’alto Mantovano); questi ultimi sono etnicamente cenomani allo stesso modo di Cremona e Mantova, e pure di Trento e Verona, solo che Cremona è “ibrida”, Mantova è padana, Trento sta bene col Tirolo storico, quello meridionale, e Verona col Veneto. Non dimentichiamoci poi dei forti influssi etruschi nella Lombardia etnica sudorientale.

Come ben sappiamo buona parte della Lombardia orientale finì nelle mani di Venezia e della Serenissima ma questo incise solo linguisticamente e in minima parte culturalmente; nonostante una porzione di questa regione lombarda, già in epoca romana, venisse associata alla Venetia, popoli venetici qui non ce ne furono, poiché gli Euganei delle valli bresciane erano reto-liguri. Gli influssi veneti sono sensibili nell’area bresciana orientale ma per questioni confinarie. D’altra parte, l’influsso è reciproco, e la stessa Verona nel Medioevo presentava aspetto idiomatico gallo-italico [7].

Riconosco il buongoverno cinque-secentesco di San Marco, rispetto al marasma franco-spagnolo che imperversava ad ovest, ma questo non giustifica nella maniera più assoluta le patetiche rivendicazioni dei venetisti che si aggrappano a tre secoli di politica glissando spaventosamente sulla vera storia delle nostre terre, che è storia eminentemente lombarda, come lombarda è la lingua e lombarda è l’etnia, plasmata da Celto-Liguri e Longobardi, comprendendo la romanizzazione su sostrato gallico. Piuttosto, parlando di Lombardia transpadana orientale, va riconosciuto il contributo tirrenico che era retico a nord ed etrusco a sud.

Il Veneto comprende i veneti e non gli ex sudditi della Repubblica di San Marco; pertanto lombardi etnici orientali, friulani, ladini, istriani, dalmati e abitanti vari del Mediterraneo orientale, se indigeni, non sono veneti. Non ci vuol poi molto a capirlo, non parlano nemmeno la lingua veneta.

A livello fenotipico i lombardi orientali sono essenzialmente alpinidi, con forti influssi dinaridi; trova spazio anche il consueto tipo padano del Biasutti (dinaride + atlanto-mediterranide) e qualche spruzzata nordide soprattutto lungo l’arco alpino. In Lombardia il tipo nordico è prevalentemente periferico, dunque miscelato con elementi autoctoni (nordo-mediterranide, alpino-nordide/sub-nordide, dinaro-nordide/noride).

La Lombardia etnica orientale fu Austria longobarda, ariana – se non sotto sotto pagana -, bellicosa e assai tradizionalista rispetto alla Neustria occidentale monarchica e cattolica, orbitante attorno a Pavia. Questo ha sicuramente inciso sui nostri popoli, anche a livello somatico e caratteriale.

Nonostante l’est, da un punto di vista economico e sociale, sia storicamente rimasto indietro, rispetto all’ovest, tra Ottocento e metà Novecento, il divario è stato ampiamente colmato e purtroppo il progresso ha avuto le sue velenose ricadute: immigrati da ogni dove, quartieri cittadini ridotti a ghetti, forte “meridionalizzazione”. La situazione si fa davvero drammatica soprattutto a Brescia e dintorni.

Se poi ci aggiungiamo l’atavico bigottismo cattolico, lo strapotere delle curie e la nefanda politica di radice democristiana, unita alla cialtroneria del fumo negli occhi verde, il quadro è ancor meglio definito. Un caso l’accoppiata Roncalli-Montini?

La nostra terra non è sicuramente rimescolata quanto il Piemonte e la povera Insubria, e lo stesso vale per la zona meridionale della Regione Lombardia, perché lo sviluppo ha attecchito più tardi e identità e tradizione, custodite dalle origini contadine, sono dure a morire, seppur inquinate da cattolicesimo e socialismo marxista.

La Lombardia transpadana orientale deve fare del proprio conservatorismo (non cristiano o reazionario) il punto di forza che aiuti la Cisalpina occidentale tutta a sbarazzarsi del laido disinteresse per le proprie radici e la propria storia e cultura.

Noi orientali abbiamo moltissimo da dare in termini di forze fresche, dure e pure, decise, determinate, pronte a correre in soccorso dei fratelli occidentali proprio come accadde nella battaglia di Legnano, in cui il nerbo guerriero era costituito in maniera consistente dalla fanteria transabduana.

D’altro canto, in tutta la Lombardia, è forte il campanilismo e la rivalità provinciale (Bergamo e Brescia, Monza e Como, Varese e Como, Cremona e Piacenza, e tutti contro Milano!) ma oggi come oggi può avere un senso solo a livello di intrattenimento, segnatamente sportivo.

Oggi occorre riscoprirsi lombardi, ed europidi naturalmente, per fare fronte comune contro il nemico mortale delle nostre terre, che è la globalizzazione, la quale si serve dell’Italia e di Roma per distruggere l’identità indigena.

Note

[1] Secondo alcuni linguisti nella Lombardia settentrionale si parla lombardo alpino, più che insubrico, ma si tratta di sottofamiglie affini.

[2] ‘Orobia’, nome coniato dagli umanisti, trae origine dai celto-liguri Orumbovii, popolo antico il cui etnico potrebbe, come viene suggerito da Delamarre, essere ricondotto al sostantivo plurale gallico orbioi significante ‘eredi’. Vedi qui.

[3] La lombardofonia trentina, teoricamente, riguarderebbe un territorio più esteso, in senso settentrionale, anche se linguisticamente in regresso.

[4] Usiamo il termine ‘dialetto’ inteso come variante, vernacolo, della famiglia linguistica lombarda (gallo-italica), che vede nel milanese il lombardo per antonomasia. Ma, si capisce, anche i “dialetti” sono lingue.

[5] Esiste un influsso di tipo bresciano anche lungo la sponda orientale del Garda.

[6] Che, addirittura, considera il bresciano suddialetto del bergamasco.

[7] Come ben sappiamo, nel Medioevo tutta la Cisalpina era Lombardia, e l’estensione linguistica lombarda riguardava anche il Triveneto.

L’intervista a “il Post”

Ol Pól (foto di Thomas Pololi)

Nell’estate del 2011, in piena temperie lombardista dei primordi, rilasciai un’intervista ad un giornalista indipendente, che poi la fece avere al noto quotidiano online sinistroide (e filo-americano) il Post, che la pubblicò il 12 luglio dello stesso anno. All’epoca avevo 26 anni e la fregola un po’ narcisistica di atteggiarmi a personaggio, il che può aver in parte inflazionato la bontà del  messaggio che volevo comunicare, e in cui ho sempre creduto: la fondamentale importanza, soprattutto in una temperie globalista, di difendere a tutti i costi identità e tradizione.

A quei tempi, essendo stato esponente del Movimento Nazionalista Lombardo, avevo tutto l’interesse di farmi pubblicità, sfruttando vari canali, e poco mi importava di come potevo venire raffigurato agli occhi dell’amorfa massa antifascista; del resto, il gioco di questa gente è quello di rappresentare gli identitari come pazzoidi e casi umani, è così da tempo: chi va contro la vulgata mondialista merita il pubblico ludibrio, una cosa che comunque ha anche i suoi vantaggi.

Personalmente ho sempre messo nome, cognome e faccia per diffondere ciò in cui credo, ed è quello che dovrebbe fare ogni patriota, per concretizzare la resistenza al sistema globale e globalizzante. Delle scomposte reazioni dei conformisti poco me ne cale; non mi ha mai preoccupato il giudizio altrui, pur riconoscendo di avere, in diverse occasioni, esagerato calcando la mano. Eccessivo zelo giovanile.

Naturale che gli avversari si occupino di te in maniera ferocemente critica o canzonatoria. Ma, se ti prendono in considerazione, vuol dire che, a tuo modo, fai pensare e in un certo senso fai anche paura ai benpensanti, e lo dimostra il fatto che sono stato sotto processo e condannato per ridicoli reati d’opinione (vilipendio del PdR e istigazione all’odio razziale, a mezzo blog).

La satira fa parte del gioco – sebbene il sottoscritto non sia certo un potente – e a differenza dei presidenti della Repubblica italiani non sono permaloso. A patto che non mi si diffami, ovviamente.

Le manifestazioni isteriche dei media, e del pubblico coi paraocchi in genere, sono sintomatiche dei riti apotropaici che la società buonista ancor oggi inscena per esorcizzare i fantasmi del passato, a dimostrazione che, nonostante il mare di ciarle retoriche con cui le istituzioni ci sommergono, non è affatto vero che la gente abbia sviluppato gli anticorpi necessari per combattere il “fascismo” e il “razzismo”. Di conseguenza, si ripescano tematiche di ottant’anni fa per far guardare da un’altra parte, sparigliando le carte in tavola col fine di impedire di capire dove stia il bene e dove il male.

Il sottoscritto, peraltro, tecnicamente non è né fascista né razzista, anche se fa comodo dipingermi così per, appunto, esorcizzare le proprie paure e banalizzare le tematiche scottanti che stanno a cuore ad ogni sincero nazionalista, e che solo i fessacchiotti di regime possono derubricare al rango di “deliri” di personaggi isolati e disadattati che “non trombano” (magari qualche bella meticcia sudamericana?). Curiosa l’ossessiva insistenza degli antifascisti sul “trombare” e lo “scopare”: sa tanto che ad andare in bianco siano loro…

Che dunque i perbenisti della vulgata antifascista e antirazzista continuino pure ad occuparsi ossessivamente di noi e a criminalizzarci; ci fanno solo un favore e le persone genuine e razionali valuteranno da sé dove stia la verità.

Nel luglio di una decina di anni fa, quindi, previo accordo telefonico, si presentarono a casa mia due tizi per intervistarmi e scattare qualche foto nell’agro brembatese (superiore), in cui felicemente vivo e che ha naturalmente condizionato la mia formazione. Nell’intervista, nonostante il cambio di registro e di prospettiva su alcune cose (maturando è giocoforza), dicevo ciò che potete leggere su questo blog; al netto di qualche esagerazione esibizionistica, io sono quello che emerge dall’articolo, al di là delle idee politiche: una persona rustica, schietta, genuina, vera, terragna, proba, fortemente attaccata al proprio sangue, al proprio suolo, al proprio spirito.

Signori, è ovvio: il giornalismo italiano (parlo dei media di regime) cerca di presentarti come un caso umano, lo scemo del villaggio, uno a metà strada fra un matto e un buffone, ma forse non lo sappiamo? Per questo dovremmo nasconderci e darci all’anonimato? Giammai, e ben vengano queste occasioni – a patto che non siano trappole – che permettono di esporci e di dire la nostra facendo valere le nostre ragioni. Spesso smentendo il prevenuto che ci troviamo davanti. Dipende, tuttavia, dalla serietà e dall’onestà dell’interlocutore: nei casi che vedremo nei prossimi articoli i giornalisti, se così possono chiamarsi, si sono dimostrati pessimi.

Superfluo dire, altresì, che io non sia un pazzo, un criminale e un cultore della violenza e quindi chi mi accusa di cose simili la fa fuori dal vaso, in cattiva fede, per portare avanti la sua patetica agenda di servo. C’è, infatti, la tentazione di dipingere l’etnonazionalista o il sovranista, il tizio di “estrema destra” insomma, come un pericolo pubblico, sulla scorta di qualche caso di cronaca d’oltreoceano (una realtà che nulla c’entra con l’Europa).

Ad ogni modo, l’intervistatore si mostrò gentile e ben disposto nei miei confronti, e devo dire che, nonostante qualche errore di trascrizione e qualche confusione, ha riportato fedelmente, nell’articolo, quanto ho avuto modo di dirgli all’epoca. Capiamoci: questo giornalista non era nella maniera più assoluta un mio ammiratore o un sostenitore della causa etnicista, anzi, e non era nemmeno neutro; la sua inclinazione antifascista era evidente (altrimenti dubito che il Post gli avrebbe pubblicato il pezzo).

L’intervista riguardò la mia biografia, il passaggio all’etnonazionalismo radicale come conseguenza del distacco dal cattolicesimo e dal pensiero cristiano, il Movimento Nazionalista Lombardo, la Weltanschauung sizziana e la passione per il sangue, il suolo e lo spirito, declinata anche in chiave antropologica e culturale.

Il titolo dell’articolo, “Non ho mai visto il mare”, nacque dalla mia dichiarazione di non essere mai stato in località marittime (pur avendo visitato Venezia nel 2004) e potrebbe celare qualche piccola malignità da apericena antifascista dell’autore, della serie: «Questo è un disadattato con l’apertura mentale di un talebano». In realtà, quel che volevo dire era che non ho mai vissuto il mare, e non ne sento il bisogno, essendo un lombardo coi piedi ben piantati per terra e amante di laghi, campagne, colline e montagne della mia patria. Naturalmente, il mare bagna anche la Grande Lombardia (Liguria, Romagna, Venezie) ma il suo nucleo etnico è squisitamente di terraferma.

In altre parole, alludevo alla mia idiosincrasia nei riguardi di quella mentalità italiana stereotipata incentrata su ‘o sole e ‘o mare; il mondo marittimo non fa parte della cultura e dell’esperienza padano-alpine, così come non fa parte della cultura alpina in genere. Ciò non toglie che, un domani, possa visitare le terre granlombarde o europee bagnate dai mari. Ma, di sicuro, non ho una mentalità “da spiaggia” e i miti melodrammatici e petalosi del “mare-che-apre-la-mente” e del “mare-che-unisce-i-popoli” mi provocano prurito alle mani.

La mia visione è un handicap? Direi proprio di no. Io so nuotare e non ho paura dell’acqua, ma al mare preferisco i miei fiumi, i miei laghi, le mie pozze orobiche alpine, i miei torrenti dagli antichi nomi indoeuropei. Anche questo è identitarismo.

Questa mitologia del mare, in chiave italiana, fa un po’ parte del lavaggio del cervello meridionalista operato da Roma, che prevede abbondanti dosi di pizza, spaghetti, sugo di pomodoro, esaltazione dell’olio d’oliva a scapito dei “barbari” derivati del latte e di sceneggiate napoletane assortite per farci credere tutti quanti uguali, da Bolzano a Pantelleria. L’Italia esiste, è innegabile, ma non comprende la Lombardia, che rispetto al centrosud e alle isole è un mondo a sé stante. L’appiattimento subculturale romanocentrico, attuato anche grazie agli esodi “interni” su vasta scala, ha tramutato lo Stato del tricolore in una grigia e tetra prigione di popoli disparati.

Ma il mare (inteso come Mediterraneo), notoriamente, è anche il simbolo del relativismo, dell’annientamento, dell’annullamento dell’individuo tra i flutti del nichilismo contemporaneo, e di un certo libertinaggio promiscuo ed edonista che vuole estirpare la moralità della tradizione per travolgere i popoli col conformismo, e dunque lo sprezzo o l’indifferenza per ogni vero valore degno di essere vissuto sino in fondo.

Non odio e non temo il paesaggio marino concreto, quello che riguarda le coste della stessa Grande Lombardia; stigmatizzo il “mare mentale”, null’altro che il dilagante nulla che invade la scatola cranica della moderna gioventù europea occidentale, e respingo lo stereotipo meridionaleggiante che vorrebbe tutti gli “italiani” appiattiti sul modello caricaturale del “terrone”.

Altro discorso è la sfera dei rapporti interpersonali, soprattutto col gentil sesso. Al giornalista dissi di non essere mondano, di non frequentare luoghi di divertimento di massa e di avere poche amicizie, preferendo la cultura alla “perdizione”; all’epoca (più di dieci anni fa) ammisi anche di non aver mai avuto relazioni concrete, snobbando l’idea del matrimonio in favore di un improbabile “sacerdozio laico e pagano del lombardesimo”. In questo passaggio sottolineai, in maniera fin troppo enfatica, la necessità di rieducare le masse lombarde, anche per prendere le distanze dalle fissazioni dei ventenni occidentali standardizzati.

Di acqua sotto i ponti ne è passata, da allora, e alla luce della vita vissuta e dell’esperienza maturata di sacerdozi, di qualsiasi forma, non voglio sentir parlare. Non ostenterò mai il mio privato (famigliare, sentimentale, lavorativo), coinvolgendo terzi, ma sarò ben felice di dare il mio contributo alla causa demografica, qualora ve ne siano le condizioni. Non ho mai vissuto la questione come un’ossessione.

Certo è che l’uomo qualunque di simpatie antifasciste e antirazziste, in una società ipersessualizzata e materialista fino al midollo, pensa che viaggiare in luoghi esotici, sguazzare in calde acque salate e copulare a tutti i costi sia la ricetta per non chiudersi in sé stessi e diventare “nazifasciorazzisti”; ma, forse, qualche imbecille pensa davvero che se io frequentassi assiduamente il Mediterraneo, viaggiassi in lungo e in largo e diventassi un Casanova cambierei visione del mondo? Sarei l’uomo più miserabile della terra.

Insomma, sono le solite balle dell’armamentario sinistroide o liberale di chi vuole demonizzare gli identitari perché tendono ad uscire dal coro dei pecoroni di regime. E così, magicamente, chi sostiene il pensiero forte contro la debolezza del pensiero unico diventa psicopatico, frustrato, represso (magari omosessuale!), caso umano, incel, emarginato, potenziale stragista e chi più ne ha più ne metta.

Se è l’identitario ad evadere questi diventa nemico pubblico numero uno, se invece lo fa qualche scrittore “illuminato” è un atto d’amore per la cultura (quale?), e così ogni capriccio radical chic diventa una moda da imitare.

Nella nota intervista alle Invasioni barbariche (2012), di cui parlerò successivamente, dissi di ritenermi, provocatoriamente, un «disadattato volontario». Nella misura in cui ripudio le schifezze moderniste anti-identitarie e anti-tradizionaliste, lo confermo in pieno ancor oggi: non mi sento figlio di questi tempi di… buona donna, e non mi conformo in maniera supina agli usi e costumi occidentali, che hanno ridotto gli europei a larve che vivacchiano cibandosi della spazzatura proveniente dalla pattumiera transoceanica.

Chi ha voluto occuparsi di me, al di là dei propri intenti, per certi versi mi ha fatto un favore, garantendo visibilità alle mie idee e al movimento di allora. Vorrei spronare tutti quanti la pensino come me ad uscire allo scoperto e ad unirsi alla battaglia etnonazionalista, senza vergognarsi di nulla perché chi, su questa terra, si deve vergognare e sotterrare, è l’agente internazionalista della globalizzazione, che ci vuole tutti uguali, bastardi, plagiati, imbelli, sudditi, idioti, buoni solo per rimpinzare lo spaventoso ventre senza fondo del mercato, solleticando i bassi appetiti consumistici ed edonistici dell’occidentale.

I pennivendoli vogliono raffigurarci ora come pazzi scatenati ora come fenomeni da baraccone? Facciano pure. La verità è dalla parte degli identitari e sempre, quando sorge qualcuno con idee forti, nascono trasversali alleanze di mediocri per abbatterlo. Non dico sia il mio caso, per carità, non mi ritengo un genio o un eroe (anche perché, in passato, ho posto in essere poco proficui eccessi) ma è certamente quello di uomini rivoluzionari di indubbio acume ed indubbia levatura, che nella loro vita sono stati circondati solo da nemici insipidi. E solo l’alleanza in blocco di costoro ha potuto toglierli di mezzo.

Le onde del mare globalista, mondialista, pluralista, multirazzialista, relativista e nichilista che ci vogliono travolgere ed inghiottire, si infrangono sugli scogli della natura dura e pura e della ferrea volontà socialista MA nazionalista. Ovviamente in accezione etnica: il patriottismo italiano tricolore non è coerente nemico del cosmopolitismo, essendo l’inesistente Italia dalle Alpi alla Sicilia – realtà multinazionale – sottoprodotto di una temperie culturale giacobino-massonica che teneva in non cale sangue e suolo.

Bergamo e il Covid-19: una disamina

Il bipartito rosso-dorato bergomense garrisce sul baluardo di San Giacomo (Bergamo alta).

Nel febbraio del 2020, poco prima che sulla Regione Lombardia e (soprattutto) sulla provincia di Bergamo si abbattesse la catastrofe del coronavirus, novella peste di manzoniana memoria [1], ricordo come, sul “Cinguettatore”, venni attaccato in massa per un tweet in cui esaltavo – non senza sapida ironia – le qualità cranio-facciali donatemi dalla natura. Come sapete, sono un grande appassionato di antropologia fisica e non perdo mai occasione di parlarne, anche in toni scanzonati, per divulgare le mie conoscenze in materia. Tra i caporioni che guidarono l’assalto al sottoscritto persino il virologo Burioni e il comico Bizzarri, evidentemente urtati dal termine ‘razza’ da me impiegato, sebbene persino un giornale insospettabile come Repubblica ne affermasse la bontà [2].

Era il 16 febbraio e la cosa andò avanti per giorni, mentre il 21 del mese si registrò il primo focolaio “italiano” di Covid, nel Lodigiano, e il giorno seguente i primi decessi [3]. Il virus irruppe prepotentemente sulla scena regionale lombarda e nel mese successivo fu chiaro come il moncone centrale della Lombardia storica fosse finito nell’occhio del ciclone. Il coronavirus imperversò con particolare furia nel territorio bergamasco, specialmente nei centri seriani di Alzano Lombardo e Nembro, tristemente noti per l’altissimo numero di dipartite e per la mancata istituzione della “zona rossa”, la quale travolse la città di Bergamo – poco distante dai due paesi – con conseguenze esiziali. Si è peraltro individuato un parallelo proprio tra la peste del 1630 e la diffusione del contemporaneo morbo nel Bergamasco, notando come le aree più colpite fossero precisamente quelle poste all’imbocco della Val Seriana [4].

Chiunque, cercando in rete, può documentarsi su quei terribili giorni di fine inverno 2020 [5], e d’altronde il martellamento mediatico, complici le misure del confinamento, fu alquanto intenso. Devo dire di non essermi mai occupato della faccenda, sul vecchio blog, per quanto proprio la mia terra fosse assurta all’onore delle cronache e rimbalzassero da un capo all’altro d’Europa, e forse del mondo, le immagini dei famigerati convogli militari italiani che trasportavano in altre città della Grande Lombardia le salme dei defunti bergamaschi, facendo fronte al collasso del forno crematorio cittadino. Allo stesso modo, prima ancora, divennero virali i filmati e le foto delle chiese stipate di bare, le pagine e pagine di necrologi de L’Eco di Bergamo e i reparti del Papa Giovanni XXIII in sofferenza, così come dell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano, che fu al centro della bufera per tutta una serie di sfortune, ritardi e sottovalutazioni del pericolo [6]. Inevitabilmente un nosocomio diviene centro propulsore del contagio.

Non intendo addentrarmi in delicate questioni (tra cui il ruolo delle istituzioni tricolori e degli industriali) che non competono certo a questa sede [7], anche perché chi vuole può documentarsi ampiamente su tutte le vicende riguardanti la prima ondata del Covid a Bergamo e in Lombardia compulsando internet; qui, piuttosto, vorrei interrogarmi sul perché tale epidemia abbia fatto scempio particolarmente nella terra orobica, al di là dell’inevitabile disorientamento di fronte ad una piaga sino ad allora sconosciuta e chissà come sbarcata nelle Lombardie. Ci ricordiamo tutti delle mirabolanti trovate di esponenti democratici che volevano combattere il “virus” del razzismo e della sinofobia incitando ad abbracciare cinesi, strafogarsi di involtini primavera nei loro ristoranti e correre, correre, correre, come esortava a fare la Confindustria bergamasca [8], riproponendo l’analogo cancelletto del sindaco meneghino “Milano-non-si-ferma”. Lo stesso primo cittadino progressista di Bergamo, Giorgio Gori, fece mea culpa per aver preso sottogamba la situazione iniziale, incoraggiando i bergamaschi a vivere la vita di tutti i giorni [9]. Gli aperitivi piddini di Zingaretti aprirono la sagra in grande stile.

Certo, nessuno s’aspettava che l’oscuro morbo della remota Wuhan potesse insinuarsi tra le pieghe del quotidiano lombardo, addirittura dilagando nell’industriosa Val Seriana per poi prostrare il capoluogo orobico, ma ormai tra globalizzazione, viaggi intercontinentali, capitalismo sfrenato, vita frenetica, intensi scambi e contatti sociali su più fronti e dabbenaggine xenofila (pensate, col senno di poi, a quanto strombazzarono la necessità di non discriminare i cinesi tacciandoli di venefiche unzioni, accusa successivamente rivolta con disinvoltura ai lombardi) bisogna mettere in conto il rischio del diffondersi di moderne pestilenze di provenienza esotica. Un po’ di sano isolazionismo non farebbe di certo male. Qualche genio locale (antifascista e leghista) [10] ha avuto la brillante idea di appellare Bergamo la “Wuhan d’Italia”; a parte che l’Italia sta al di sotto dell’Appennino tosco-lombardo, mi chiedo a che pro etichettare in questo modo la propria città, pur riconoscendo la plumbea cappa che gravava sull’Orobia in quei drammatici giorni.

Innegabile, infatti, che la Bergamasca sia stata tra le aree più colpite dal Covid-19 in Europa (ricordo, comunque, che anche Brescia, Crema, Cremona, Lodi e Piacenza furono piuttosto piagate), e infatti in questo articolo mi chiedo perché il virus abbia così falcidiato i bergamaschi (ovviamente di una certa età), ma proprio per tale ragione essa merita un minimo di rispetto, senza indugiare troppo nel sensazionalismo giornalistico. Persino il New York Times si è occupato a più riprese del caso bergamasco, e il presidente del comitato sanitario di Nuova York – un certo Levine – arrivò a dire che qui da noi si raccoglievano i morti per strada, un’idiozia ripresa dall’ausonico De Luca [11]. A certa gente non sembrava vero di poter dileggiare in libertà gli odiati “polentoni”, già bollati come pellagrosi. Finché si tratta di umorismo nero si può soprassedere – a patto che si soprassieda anche sulle amenità nei riguardi degli intoccabili – ma se si esonda nelle diffamazioni verso un intero popolo la situazione cambia.

Al di là di impreparazione e sottovalutazione di fronte ad una minaccia inedita (che secondo taluni circolava in Lombardia già da dicembre 2019), ritardi, errori, sfortuna, casualità e responsabilità di Italia e Pirellonia (non da ultime le sparate dem all’insegna dell'”abbraccia-un-cinese”, mentre i governatori leghisti invocavano restrizioni da e verso la Cina), tra le concause che portarono al dilagare del coronavirus nel territorio di Bergamo si potrebbero indicare le seguenti:

  1. L’anzianità della provincia bergamasca (e la penetrazione del virus negli ospizi, con conseguenze disastrose);
  2. La nota partita di Lega dei Campioni tra Atalanta e Valenza, disputata a Milano, con la presenza di 45.000 tifosi bergamaschi a contatto con quelli iberici (e anche Catalogna e Spagna soffrirono parecchio per il contagio), sorta di detonatore biologico che accelerò drammaticamente il diffondersi del Covid;
  3. La capillare rete bergamasca fatta di relazioni, attività, imprese, operosità, contatti tra paesi circonvicini, in particolare di quelli della bassa e media Val Seriana, che da sempre rappresenta un popoloso ganglio industriale della provincia (a differenza della più “chiusa” Val Brembana o Imagna);
  4. La critica qualità dell’aria padana tra smog, inquinamento, particolato, polveri sottili, fatto che non può che indebolire l’apparato respiratorio, magari già compromesso da un passato da fumatori e da malattie pregresse (la maggioranza delle vittime erano uomini di una certa età dalla salute valetudinaria);
  5. Il tasso di globalizzazione – frutto di commerci e immigrazione – del cuore lombardo, una terra orgogliosa delle proprie radici ma al contempo aperta, con ricadute tragiche, al sistema-mondo e alle sue storture. Lo stesso ateneo cittadino promuove a piene mani l’internazionalizzazione;
  6. La genetica, che potrebbe anche aver protetto l’Italia etnica, segnatamente meridionale [12], a riprova delle differenze etniche tra Lombardie e Ausonia.

Proprio quest’ultimo punto (messo in luce, dopo l’ecatombe, anche da uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri di Giuseppe Remuzzi [13]) destò da subito (nel marzo 2020) la mia curiosità, confortata da alcuni lavori trovati in rete [14]; se il Mario Negri indica nell’eredità neandertaliana – effettivamente più marcata nella Cisalpina che in Italia, e nel Nord Europa piuttosto che nel bacino mediterraneo [15] – una possibile predisposizione all’infezione da coronavirus, con un alto tasso di mortalità, ciò che attirò la mia attenzione fu il picco “italiano” dell’aplogruppo Y R1b, soprattutto del subclade R-S116 (da cui l’U152), che contraddistingue decisamente la provincia di Bergamo [16].

Tale lignaggio paterno (assente nelle donne, e infatti i più soggetti al Covid paiono essere proprio gli uomini) è riconducibile alle antiche popolazioni indoeuropee occidentali, soprattutto ai Celti/Galli, e per l’appunto le diverse ricerche reperite sottolineano l’altissima incidenza del contagio in aree europee a forte caratterizzazione etnica celtica – tra cui la stessa Bergamo – come Fiandre e Olanda (ma mettiamoci pure la celtibera Castiglia). Sembrerebbe, insomma, che la diffusione e la letalità del morbo abbiano avuto un tragico incastro con la linea genetica maschile, determinata dalla cospicua eredità gallica che proprio nel Bergamasco (ma anche nella Lombardia etnica in generale) vede la sua acme. L’impatto del coronavirus fu drammatico pure nelle aree contermini, come già ricordato, in particolare a Brescia.

Uno studio [17] di un ricercatore, tal Sebastiano Schillaci, riprese un mio cinguettio del 31 marzo 2020 in cui segnalavo – indipendentemente dalle osservazioni di altri – la possibile correlazione tra R1b e incidenza del virus; la mia riflessione era riferita alla situazione di Bergamo e di Brescia, in cui si registrano i picchi di R-U152, fors’anche a livello europeo, suggerendo un possibile legame tra lascito paterno celtico e suscettibilità/mortalità delle infezioni da Covid-19. Il tweet, con la chiusura del mio vecchio profilo, non è più visibile perciò riporto due ritagli di schermata relativi allo studio in oggetto:

Schillaci 1
Schillaci 2

Un’ultima considerazione riguarda il possibile statuto di isolato genetico, e dunque di accentuata omogeneità, rappresentato dalla Bergamasca, come si osserva in questo studio relativo ai geni responsabili della predisposizione a sviluppare il tumore al seno; anche se riguarda le donne le conclusioni possono tranquillamente essere estese a tutta la popolazione che, come avrò modo di illustrare venendo a trattare di genetica delle popolazioni, presenta un aspetto particolarmente conservativo, frutto anche della “chiusura” di una provincia prevalentemente montuosa che ha preservato più di altre l’aspetto mesolitico-neolitico, pur avendo una forte caratterizzazione maschile celtica [18]. Con tutta probabilità l’eredità celto-germanica – che biologicamente non è preponderante in Padania – si è concentrata all’imbocco delle valli, in città, nel contado e nella pianura, dove fra l’altro vi è capillare testimonianza di una toponomastica “nordica”. Valli e monti rimasero per lo più appannaggio di popolazioni reto-liguri, anche se il lignaggio paterno resta nella maggioranza dei casi di matrice gallica [19].

Pare che in seguito alla devastazione della prima ondata, e all’alto tasso di infettività, le genti bergamasche abbiano sviluppato, subito dopo, una sorta di immunità di gregge che le hanno avvantaggiate rispetto ad altre zone alle prese con la seconda ondata. Il bilancio di marzo-aprile 2020 resta comunque tragico, come si può leggere ad esempio qui o qui, o in questo articolo che traccia delle statistiche in idioma d’Albione. La tempesta che si è scatenata sull’Orobia in quel fosco periodo di due anni fa ha mietuto una generazione di bergamaschi depositari degli immortali valori identitari e tradizionali, nonché della sacralità del focolare domestico e della famiglia. La loro stessa morte, lontano dagli affetti e senza nemmeno un funerale, culminata in svariati casi in un viaggio fuori provincia per la cremazione, a bordo di lugubri mezzi dell’esercito italiano, fu un pugno nello stomaco per migliaia di famiglie orobiche, che legittimamente oggi chiedono chiarezza e giustizia alle istituzioni del tricolore. La lezione che se ne ricava? La necessità di preservare la sacralità della vita umana, e della salute della collettività, dai miti del profitto, del vivere-per-lavorare a tutti i costi, del dio pallone, della globalizzazione e dell’apertura mentale, dell’industrializzazione selvaggia, e di rompere quel rigido schema mentale tipicamente lombardo del laùra, übidìs, paga e fà sito che alla lunga è la tomba della nostra autoaffermazione.

Note

[1] Manzoni, nel suo romanzo, attinge informazioni circa la pestilenza in Lombardia anche dall’opera di Lorenzo Ghirardelli Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630, pubblicato nel 1681 dopo la morte dell’autore.
[2] Vedi qui.
[3] Per un resoconto delle vicende relative al contagio nella Repubblica Italiana si veda la voce Wikipedia.
[4] Ne parla il Corriere Bergamo qui.
[5] Si veda a titolo d’esempio questo articolo de Il Post.
[6] Sempre Il Post ne parla qui. La testata, mi rendo conto, ha un ben preciso orientamento ma questi scritti possono essere utili per ricostruire la cronologia degli eventi.
[7] Come saprete è stata istituita una commissione d’inchiesta per i fatti di Alzano, Nembro e Bergamo. Probabilmente l’indagine verrà archiviata.
[8] https://www.confindustriabergamo.it/aree-di-interesse/certificazioni-e-conformita/news?id=34774
[9] https://notizie.virgilio.it/coronavirus-covid-bergamo-sindaco-gori-ho-sbagliato-sottovalutare-mea-culpa-regione-lombardia-1391220
[10] https://www.repubblica.it/politica/2021/01/07/news/coronavirus_bergamo_wuhan_d_italia_lega-281511612/ – In realtà fu Berizzi a utilizzare per primo l’infelice epiteto (in un articolo del 10 marzo 2020).
[11] https://primabergamo.it/cronaca/in-lombardia-cerano-i-morti-per-strada-non-in-ospedale-daniele-belotti-querela-vincenzo-de-luca/
[12] https://tg24.sky.it/salute-e-benessere/2020/07/24/coronavirus-scudo-genetico-sud-italia
[13] https://www.bergamonews.it/2021/07/19/covid-perche-bergamo-e-stata-cosi-colpita-possibile-predisposizione-genetica/454106/
[14] Cito qui il primo rintracciato, ma ve ne sono altri.
[15] https://www.scienzainrete.it/articolo/ritratto-genetico-degli-italiani/alessandro-raveane-serena-aneli-francesco-montinaro
[16] Grugni et al. 2018. Le stime qui riportate ci dicono che l’R1b orobico, nelle valli, ammonta all’80,8%.
[17] https://osf.io/gvxjw
[18] Sembra che i Celti, anche nella Cisalpina, oltre che guerrieri fossero particolarmente prolifici. Vedi qui.
[19] https://www.eupedia.com/europe/Haplogroup_R1b_Y-DNA.shtml#S28-U152

Alcune noterelle sul cognome Sizzi

Blasone dei Sizzo de Noris

Sizzi è un raro [1] cognome bergamasco peculiare della Val di Scalve (tributaria orobica della Val Camonica), le cui origini sembrano però da attribuire al paese di Gandino, in Val Seriana, come ramo della famiglia Rudelli [2]. Secondo alcuni studiosi di araldica (Passerini [3], Tettoni-Saladini [4]) il casato sarebbe di origine toscana, Firenze per la precisione, ma la connessione non è documentata. Il cognome Sizzi (con la forma primigenia, unica, Sizi) è presente, scarsamente, tra il capoluogo toscano e Prato ma a tutta evidenza è un ceppo indipendente da quello bergamasco.

Sizzi potrebbe essere il frutto di un patronimico derivato da una versione ipocoristica di nomi germanici in *sig- (‘vittoria’) [5] che, come in tedesco, o meglio, in antico alto-tedesco, esprime l’ipocorismo, sulla base di leggi fonetiche, mediante la particella -zz- [6]; nella fattispecie, il nome abbreviato è Sizzo, che può essere confrontato con altri vezzeggiativi medievali di origine teutonica quali Frizzo, Azzo, Sigizzo, Uzzo, Wizzo, Gozo e via dicendo, testimoniati da fonti documentarie della Germania meridionale; fra i nomi tedeschi contemporanei vengono in mente Heinz, Fritz, Götz ecc. [7]. Diversi cognomi padani e toscani, frutto della forte impronta culturale – soprattutto longobarda – lasciata dalle élite germaniche, possono essere ricondotti al fenomeno in oggetto: citiamo Frizzi, Albizzi, Opizzi, Oppizzi, Obizzi, Azzi a mo’ d’esempio.

Sizzo è dunque riconducibile a Sighard o Sigfrid, tanto che, come si diceva, si trova anche oltralpe, sparso per la Germania centromeridionale, segnatamente in Turingia dove c’è un Sizzo capostipite della medievale casata di Schwarzburg, ed un principe ottocentesco del medesimo casato, anch’egli chiamato Sizzo [8]. Interessante notare come sia in Germania che in Toscana [9] Sizzo (o Sizo) proceda da Sigizo, ipocoristico già segnalato nelle note.

I Sizzi toscani, di stirpe notabile, sono probabilmente derivati dai Sizi (da Sizo/Sizio, altro vezzeggiativo germanico come abbiamo visto), ed erano una tra le prime famiglie storiche fiorentine, originaria di Fiesole e dunque del contado, imparentata coi Medici, proprietaria di torri e chiese, ricca di consoli e di parte guelfa (vedi segnatamente la testimonianza di Luigi Passerini indicata nelle note, reperibile su Google Libri).

Dante Alighieri cita i Sizi pure nella Commedia, per bocca dell’avo Cacciaguida, come una, per l’appunto, delle famiglie più antiche e illustri della prima cerchia di Firenze, grazie alle origini e al loro impegno consolare:

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
alle curule Sizii e Arrigucci.

(Paradiso XVI, 106-108)

Il blasone dei Sizi è «losangato di rosso e d’oro» [10] e quello dei Sizzi fiorentini «d’argento, alla banda alata di rosso» [11]. Il primo è visionabile qui, mentre del secondo non ho trovato traccia. L’argento (e prima ancora il bianco), comunque, era tradizionale colore guelfo; rosso ed oro sono, invece, classici colori nobiliari.

Secondo lo storico Lorenz Böninger vi fu, sul finire del ‘300, un’immigrazione di artigiani tedeschi nella città di Firenze tra cui dei “Sizzi” assimilati al tessuto etnoculturale e sociale della città toscana. Nel suo testo [12] egli dedica un capitolo apposito al successo professionale e all’integrazione di tre famiglie ritenute, appunto, di origine teutonica: Riccardi, Sizzi e Frizzi. Se questa tesi è concreta il cognome “Sizzi” sarà una toscanizzazione del casato originale (visto che i Sizi/Sizzi fiorentini esistevano già nel XII secolo). Potrebbe essere la riprova di un antroponimo germanico alla base della cognominazione ma, sicuramente, non vi è alcun legame tra il ceppo bergamasco e questi immigrati d’oltralpe.

Non si può escludere, comunque, che il mio cognome possa essere derivato, forse più verosimilmente (nonostante la radicata moda onomastica medievale di gusto germanico), dal nomen latino Sittius, (vedi la gens romana Sittia), il cui oscuro etimo potrebbe venir accostato a qualche significato connesso alla siccità, all’aridità, alla sete e dunque in senso lato alla brama [13]. Fra l’altro, i toponimi Siziano (Pavia) e Sizzano (Novara) credo siano da ricondurre al gentilizio latino in oggetto (anche alla luce della classica desinenza prediale latina -anus). Inoltre, per il Bergamasco, un atto del 1184 relativo alla località di Isola di Fondra (Val Brembana) ci tramanda il nome di un certo Sizio, evidentemente radicato anche nel nostro territorio [14].

In toscano esiste, curiosamente, il termine sizio [15], che indica un lavoro sedentario (vedi tedesco Sitz ‘seggio’), oppure un lavoro penoso (rifacendosi, in questo caso, all’espressione evangelica del Cristo in croce «Sitio» ossia «Ho sete»). Un’altra voce toscana interessante è sizza [16], “soffio di tramontana”, dal latino sidus ‘freddo’. Ma queste ultime voci si confanno, chiaramente, ai Sizzi gigliati; nel caso bergamasco, il mio, il casato Sizzi deve il suo nome sicuramente ad un patronimico, germanico o latino che sia.

Stando alle testimonianze incrociate di Passerini, Tettoni-Saladini e dell’Archivio di Stato di Firenze (interpellato anni orsono), il capostipite dei Sizzi fiorentini fu un certo Sizzo, della famiglia dei Sizi (le cui radici affondano almeno nel XII secolo), console di Firenze nel 1201. Quello bergamasco, come detto più sopra, era un membro della casata dei Rudelli, separatosi nel basso Medioevo. Si veda l’opera di Tullio Panizza citata nelle note. Rudelli è un tipico [17] cognome bergamasco, che suppongo derivato dal gentilizio romano Rutilius il cui significato va rintracciato letteralmente nel colore rosso o biondo scuro della capigliatura [18].

Dopo la battaglia di Montaperti del 1260, in cui i ghibellini senesi sconfissero i guelfi fiorentini, pare che alcuni Sizzi gigliati, stando alla testimonianza di Passerini e Tettoni-Saladini, ma anche di Roberto Ciabani [19], prendessero la via dell’esilio trapiantandosi altrove (persino in Francia) dandosi alla mercatura. Non ci sono comunque documenti che attestino la presenza di questi esuli toscani nel Bergamasco. Il fatto che il mio cognome sia presente a Bergamo e a Firenze – sebbene in ceppi distinti e indipendenti – può essere, qualora sia di etimo germanico, attestazione del prestigio goduto dai Longobardi tanto in Lombardia quanto in Toscana, e infatti diversi cognomi presenti nella prima ritornano nella seconda (forse pure per fenomeni migratori lombardi medievali [20]).

Ho notato che vi sono dei Sizzi anche a Taranto ma, documentandomi in passato, grazie alla testimonianza di alcuni di loro ho scoperto che non sono dei Sizzi reali (bergamaschi o fiorentini) bensì Ziz giuliani (di Pola) italianizzati durante il fascismo e trasferitisi in Salento nel secondo dopoguerra. Il loro cognome originario dovrebbe essere un etnico riferito alla Cicceria, regione storica del Carso terra degli istroromeni [21].

Dall’orobica Valgandino i Sizzi, derivati dai Rutellis de Noris (Rudelli e Noris sono ancor oggi cognomi squisitamente bergamaschi), si spostarono, sul finire del ‘300, a Brescia (ramo estinto) e a Trento – venendo ascritti alla nobiltà imperiale come Sizzo de Noris – dove tuttora risiede un conte discendente del vescovo-principe di Trento Cristoforo Sizzo de Noris. Le vicende dei Sizzo trentini sono state ricostruite, come ricordato supra, dall’araldista tridentino Tullio Panizza, nelle opere citate in calce all’articolo.

Non ho notizie di legami del mio ceppo famigliare paterno con questa aristocratica prosapia; come è noto chi, oggi, porta un cognome “illustre” lo ha ereditato biologicamente, con tutta probabilità, da coloni più che dai nobili medesimi. Ricordo solamente che in famiglia circolava una diceria di un prozio sacerdote (don Ariele Sizzi) relativa ad una lontana origine austro-ungarica, sicuramente motivata dai Sizzo de Noris di Trento (che però sono, appunto, originari del Bergamasco).

Ad ogni modo, io discendo dai Sizzi rimasti in Val Seriana, che poi verso l’800 si trasferirono in Val di Scalve, a Vilminore, e non so dire, come accennato, se questi fossero nobili spiantati o valligiani un tempo al servizio dei Sizzi patrizi. I Sizzi seriani sono documentati come una delle famiglie laniere del territorio di Gandino, parliamo del XVI secolo [22]. Bisognerebbe condurre serie e approfondite ricerche d’archivio per saperne di più. Comunque sia la provenienza etno-geografica è fuor di dubbio. Panizza riporta anche le oscillazioni grafiche del cognome Sizzo de Noris: Sicci, de Siciis, Sitius, Sitz, Siz, Sizo, Sizzi, Sizza.

In apertura ho inserito il blasone dei nobili trentini, riportato da Tettoni-Saladini e così descritto: «ancora di nero a 2 marre su scudetto di argento su – aquila di nero su oro – barca con albero e bandiera bifida svolazzante a destra recante 2 bambini nudi che si danno la mano tutto di argento su mare fluttuoso di azzurro su azzurro». Direi che l’aquila nera su sfondo dorato è un chiaro tributo al Sacro Romano Impero.

Per concludere la vicenda dei Sizzi bergamaschi diremo che, una volta estintosi il ramo gandinese, alcuni degli scalvini – divenuti artigiani – presero la via del Milanese e della pianura bergamasca; tra quest’ultimi mio nonno, divallato alla volta di Brembate di Sopra (pochi giorni prima del disastro della diga del Gleno, 1 dicembre 1923, a quanto sembra) dopo aver sposato una donna di Azzone, sempre in Val di Scalve. Impiantatisi a Brembate, i Sizzi si dedicarono, oltre al mestiere di artigiani, alla coltivazione e all’allevamento e, ovviamente, proliferarono. La mia famiglia nasce dunque dall’incontro fra le Orobie e l’Isola bergamasca.

Infine, una curiosità genetica di cui avrò modo di riparlare: come già dissi in passato, il mio lignaggio paterno (determinato dall’aplogruppo Y R1b-U152 (scoperto con il test di 23andMe) clade Z36 (celtico di La Tène [23][24], appurato grazie ad YSEQ) è diffusissimo nella Lombardia etnica (il bacino del Po) segnatamente orientale dove registra il suo picco “italiano” [25]. Anche questo depone a favore di un’origine indigena dei Sizzi bergamaschi, per quanto, da umanista, vedere un’omonimia nei Sizii fiorentini citati da Dante nell’acme paradisiaca del suo capolavoro letterario abbia indubbiamente un certo fascino [26].

Note

[1] Vedi Gens Labo e Cognomix.
[2] Le notizie circostanziate sui Sizzi bergamaschi e i Sizzo de Noris sono tratte da Tullio Panizza, Famiglie nobili trentine d’origine bergamasca. In: Bergomum – A. 8 (1933) e Tullio Panizza, Secondo contributo alla storia di famiglie nobili della Venezia Tridentina di origine bergamasca. In: Bergomum – A. 9 (1934).
[3] Luigi Passerini, Memorie storiche intorno alla famiglia fiorentina dei Sizzi, Milano, 1855.
[4] Leone Tettoni, Francesco Saladini, Teatro araldico ovvero raccolta generale delle armi e delle insegne gentilizie delle più illustri e nobili casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, Milano, 1847.
[5] Vedi Cognomix.
[6] Si vedano queste fonti reperite su Google Libri, dove si suggerisce che il vezzeggiativo Sizzo derivi da Sigizo, a sua volta diminutivo di Sigfrid.
[7] ibidem 
[8] Sizzonen
[9] Cfr. questa ricerca su Google Libri.
[10] Ceramelli Papiani 
[11] ibidem
[12] Die deutsche Einwanderung nach Florenz im Spätmittelalter, Leida, 2006, opera citata dal primo volume de La mobilità sociale nel Medioevo italiano, di Lorenzo Tanzini e Sergio Tognetti (Viella, 2016), presente su Google Libri.
[13] Dizionario Latino Olivetti
[14] Cenni storici
[15] Dizionario Etimologico Online
[16] ibidem
[17] Gens Labo
[18] Rutilio
[19] Le famiglie di Firenze, Bonechi, 1992. Tra i Sizzi toscani val la pena ricordare Francesco, astronomo fiorentino avversario di Galileo.
[20] Leonardo Rombai, Geografia storica dell’Italia, Le Monnier, 2002, p. 189.
[21] Nota di Marino Bonifacio di Trieste sulla Rivista Italiana di Onomastica, anno XXV (2019).
[22] Museo della Basilica di Gandino
[23] Eupedia
[24] «The Z36 sub-clade has also been associated with Celtic populations; as it occurs in moderately high frequencies, approximately 30-40%, in Italy including, Liguria and Lombardy, France, southwestern Germany (specifically Baden-Württemberg), and western Switzerland» Tratto da Mallory J. Anctil, Ancient Celts: A reconsideration of Celtic Identity through dental nonmetric trait analysis, 2020, consultabile qui.
[25] «Northwestern Italy has a very high percentage of haplogroup R1b (around 70 %) with the highest proportions in the area of Bergamo […]. In this pre-alpine region […] the percentage of individuals with haplogroup R1b-U152 is around 50 % […]. This local present day hotspot for haplogroup R1b-U152 fits quite well the ancient habitats of Celtic cultures» Tratto da questo studio di Martin Zieger e Silvia Utz, che cita quello di Grugni et al. 2018 in cui, per la Bergamasca, si danno le seguenti stime di R-U152: 46,2 per le valli e 53,2 per la pianura. Globalmente, R1b raggiunge l’80,8% nelle valli orobiche (il 70,9% in pianura).
[26] Ricordiamo, per completezza, che l’aplogruppo R-U152 è ben rappresentato anche in Toscana dove, tuttavia, è più probabile una sua filiazione villanoviana (vedi il collegamento ad Eupedia citato alla nota 23). In Lunigiana (che tecnicamente non è Toscana, bensì crocevia tra Liguria ed Emilia) sarà invece, più probabilmente, segnale ligure apuano, come suggerito da questo studio di Bertoncini et al. 2012. U152 è, genericamente, ritenuto una mutazione legata a genti protostoriche centroeuropee che irradiarono, pure verso sud, culture che potremmo definire italo-celtiche. In tale novero rientrano Celti, Liguri, Italici e Veneti, anche nella loro fase embrionale.