La Lombardia

La Lombardia in epoca carolingia

Il concetto di Lombardia etnica (o di Grande Lombardia per come lo interpretavo agli albori), di Lombardia storica, di Lombardia tout court, insomma, contrapposta alla “Pirellonia” già “Formigonia”, diffuso dal Movimento Nazionalista Lombardo, ricalcava più o meno quello che proposi nel settembre del 2009 sul mio vecchio blog.

Oggi, come sapete, in virtù dell’esperienza di GL, distinguo tra una Lombardia etnica padana (grossomodo il nordovest della Repubblica Italiana) e una Grande Lombardia cisalpina (il settentrione della RI), individuando anche una terza forma di lombardità data dal connubio linguistico-culturale (e qui si può, ulteriormente, separare una Lombardia etnolinguistica ristretta, “insubrica”, che ricalca la famiglia idiomatica lombarda dei linguisti, dal contesto gallo-italico).

Secondo alcuni, ‘Lombardia’ è un concetto vago, parziale, arbitrario che potrebbe essere applicato a buona parte dell’Italia (intesa in senso romano), in quanto ex Regno longobardo (Langobardia Maior /Langobardia Minor, un etnonimo impiegato dai Bizantini per riferirsi ai territori in mano longobarda, tanto che Lombardìa è accentato alla greca, non alla latina; in effetti, sarebbe meglio chiamarla Lombàrdia). Se i Franchi non avessero sgominato gli antichi Vinnili, forse, l’intera Italia sarebbe divenuta Lombardia, anche se il prestigio del coronimo italico, in definitiva, sarebbe stato più forte.

Tuttavia, per quanto mi riguarda – e non credo sia idea peregrina -, ‘Lombardia’ si attaglia perfettamente alla cosiddetta “Alta Italia”, alla Cisalpina, segnatamente alla sua porzione occidentale. Il fulcro del Regno longobardo, la Langobardia Maior, era il settentrione con la Toscana, e anche in quest’ultima, subito conquistata e colonizzata da Alboino, i Longobardi lasciarono una forte impronta, anche in senso genetico e fisico. Ciò nonostante, l’etnonimo lombardo raramente, nel Medioevo, designò i toscani, come lo stesso Dante dimostra distinguendo, linguisticamente, il tosco dal lombardo.

Da un punto di vista storico, etnico, geografico e linguistico-culturale col termine ‘Lombardia’ si suole indicare l’intera Cisalpina, in particolar modo il nordovest (con le ben note propaggini orientali trentine e veronesi). Peraltro, anche agli occhi degli stranieri dell’Età di mezzo, varcare le Alpi, o l’Appennino, significava recarsi in Lombardia, e i Lombards medievali non erano altro che i banchieri, i ricchi mercanti e i prestamonete dell’Alta Italia presenti nel Nord Europa. Questa era anche, più o meno, la mira panlombardista dell’MNL.

La mia idea primigenia di Grande Lombardia, poi nel tempo corretta, era la seguente: Regione Lombardia, Ticino, Grigioni lombardofono, Piemonte orientale, Trentino occidentale, Emilia, Bologna e Ferrara e pure la Lunigiana. Era piuttosto in linea, tra l’altro, con l’idea geografica padana che l’Alighieri palesò nella Commedia, parlando di un oscuro personaggio bolognese:

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.

(Inferno XXVIII, 73-75)

(Vercelli la conosciamo; Mercabò, o Marcabò, era una fortezza eretta dai veneziani sul Delta del Po.)

Correggendo il tiro, nei primi mesi del 2010 sistemai la mia vecchia idea grande-lombarda giungendo, anche grazie al confronto col sodale Adalbert Roncari, alla posizione dell’MNL: Regione Lombardia, Ticino, Grigioni lombardofono, tutto quanto il Piemonte, la Val d’Aosta, Trentino occidentale, Emilia priva della parte estrema fuori dal bacino del Po (dallo statuto ibrido lombardo-romagnolo) e alcune porzioncine di Veneto. Senza però Massa e Carrara che sono liguri anche se tendenti alla lombardofonia per influssi ducali padani.

Espongo, dunque, l’allora pensiero lombardista, tratto dai vecchi blog, che aderisce al concetto storico di Lombardia come marca terragna nata in epoca carolingia:

Parlando di Lombardia, la prima cosa di cui si deve tener conto, il primo punto fermo, sono i sacri ed intoccabili confini geografici: la Lombardia combacia col bacino idrografico del fiume Po.

Per questo, ma non solo, ritroviamo nella nostra idea di Lombardia territori franco-provenzali, occitani e liguri, perché facenti parte dell’ambito alpino-padano.

E davanti ai confini geografici, davanti ai baluardi naturali, signori miei, c’è poco da questionare.

In secondo luogo, abbiamo l’amalgama etnico gallo-germanico, celto-longobardo, che accomuna tutti i lombardi, quelli centrali (insubrici), orientali (valtellinesi, orobici, cenomani), occidentali (piemontesi) e meridionali (padano-emiliani); parimenti, l’amalgama linguistico galloromanzo cisalpino, escludendo la Romagna che non è lombarda (a cui possiamo tranquillamente aggiungere le papalino-bizantine Bologna e Ferrara) e la Liguria che è mediterranea.

Da ultimo, c’è la questione culturale e storica, nata nel Medioevo, che dopo la Gallia Cisalpina e la Langbobardia ha visto il sorgere della marca imperiale di Lombardia, dei liberi comuni, delle signorie germaniche, del Ducato di Milano e poi di Lombardia, prima della frammentazione cinquecentesca.

E, dunque, ecco una Grande Lombardia così ripartita: Lombardia centrale (Insubria), Lombardia orientale (Valtellina-Orobia-Cenomania), Lombardia occidentale (Piemonte, Val d’Aosta), Lombardia meridionale (Emilia-Padania).

All’interno del nostro territorio possiamo trovare minoranze franco-provenzali e provenzali a ovest, liguri a sud e alemanniche (walser) a nord.

Abbiamo pensato anche ad una ripartizione del territorio stesso.

Per mere questioni statistiche e di comodo suddividiamo la Lombardia in quattro aree geografiche (appunto centro-est-ovest-sud) a loro volta suddivise in cantoni con capoluoghi e distretti.

Avremo così: Lombardia centrale – Bassa Insubria (Milano capitale storica di Lombardia, con i distretti di Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia), Alta Insubria (Como, con i distretti di Lecco, Lugano e Varese), Lebecia (Novara, con i distretti di Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano), Leponzia (Locarno, con i distretti di Domodossola, Intra, Bellinzona); Lombardia orientale – Orobia (Bergamo, con i distretti di Crema, Clusone, Zogno), Rezia (Sondrio, con i distretti di Tirano e Chiavenna), Alta Cenomania (Brescia, con i distretti di Rovato, Desenzano, Darfo e Riva), Bassa Cenomania (Cremona, con i distretti di Casalmaggiore e Mantova); Lombardia occidentale – Alta Taurinia (Torino, con Ivrea, Lanzo, Pinerolo, Susa), Bassa Taurinia (Cuneo, con Alba, Mondovì, Saluzzo), Ambronia (Alessandria, con Asti, Casale, Acqui e Novi), Salassia (Aosta); Lombardia meridionale – Marizia Occidentale (Piacenza, con Voghera e Tortona), Marizia Orientale (Parma, con Fidenza e Fiorenzuola), Bononia (Modena, con Reggio di Lombardia e Carpi).

I nomi dei cantoni sono etnonimi che si rifanno alla principale popolazione, celtica o celto-ligure, che ha dato l’impronta fondamentale al territorio; i capoluoghi sono le città principali dei cantoni; i distretti sono le città minori.

Milano è la grande ed unica capitale di Lombardia, motore della sua potenza e della sua gloria, volano del lombardesimo assieme al nordico Seprio e al nucleo lombardo, lo zoccolo duro insubrico, (la grande Insubria golasecchiana dal Sesia al Serio che costituisce la Lombardia basica), guida aristocratica di tutta la nazione.

C’è da dire che la nostra ipotetica suddivisione amministrativa rispecchia anche la nostra idea politica di Lombardia che più che federalista è moderatamente centralista (a che serve il federalismo tra fratelli?), con Milano intoccabile capitale, presidenziale, repubblicana ma aristocratica, senza tutta quella patetica e farraginosa intelaiatura federale o pseudo tale che rischia di fomentare le solite grandi pecche lombarde ossia egoismo, particolarismo, campanilismo e materialismo.

Quella delineata qui sopra non è la Grande Lombardia (la Cisalpina) individuata nel 2013, e di cui tratto ancor oggi, ma la Lombardia etnica. Sul sito di Grande Lombardia (GL) è possibile osservare nel dettaglio, grazie a pregevoli cartine realizzate dal buon Ronchee, gli areali, le suddivisioni amministrative attuali e quelle cantonali ipotetiche tanto della Lombardia etnica (grossomodo il nordovest) quanto della Grande Lombardia (la Padania scientifica, non legaiola).

La concezione lombardista di Lombardia, stabilizzatasi nel tempo, si innerva dunque sulla distinzione in Lombardia etnica e Grande Lombardia. Più sopra accennavo, comunque, ad una terza forma di Lombardia (le tre lombardità di cui parlavo nel blog precedente), che è quella etnolinguistica: ristretta (la Regione Lombardia, senza gli Oltrepò, con Novarese, VCO, Tortonese, Svizzera lombarda e Trentino occidentale) e allargata (il continuum galloromanzo cisalpino, gallo-italico, cioè il settore occidentale della Cisalpina che include anche Romagna e Liguria).

C’è da dire, come ho sempre sostenuto, che la Regione Lombardia, la simpaticamente detta “Pirellonia”, pur essendo totalmente lombarda, è una boiata artificiale creata a tavolino dal centralismo romano, che si avvale di regioni pseudostoriche per banalizzare gli orgogli etnici (e genuinamente nazionali), facendo finire tutto nel tritacarne tricolore. Gli studiosi, giustamente, individuano una famiglia linguistica lombarda – ristretta – che va da Novara a Brescia e da Bellinzona a Cremona; ma va detto che le parlate cisabduane, insubriche, hanno più in comune con quelle del Piemonte orientale o del Piacentino, che con bergamasco e bresciano.

Gli stessi linguisti, qui colpevolmente, in ossequio all’italocentrismo, usano un’etichetta sciocca, “gallo-italico”, per evitare di impiegare il termine corretto (in senso allargato), “lombardo”, in riferimento alla macro-famiglia linguistica della Padania. Le lingue lombarde, che nel Medioevo interessavano anche il Veneto continentale e padano e il Trentino, hanno influenzato il ligure (che, oggi, è ritenuto gallo-italico, dunque lombardo), comprendono il romagnolo e si spingono fino alle Marche settentrionali e alla Lunigiana, con un’isola nel Conero e lambendo la Garfagnana.

L’esistenza di una nazione lombarda, anche linguisticamente, è insindacabile, corroborata dalla stretta affinità con gli idiomi retoromanzi (romancio, ladino e friulano), oggi distinti dalla famiglia lombarda ma un tempo ancor più prossimi alla stessa. La lingua veneta attuale, certo ben diversa dal lombardo, si è espansa in tutto il Veneto ma è modellata sul prestigio del veneziano (storicamente legato al toscano per questioni letterarie) e ha nei secoli rimpiazzato parlari affini a quelli lombardi contemporanei. Il sostrato celtico e il superstrato longobardo hanno riguardato anche il Triveneto.

La designazione altomedievale del territorio lombardo, modellato sulle suddivisioni politiche longobarde e franche, si concentrava sul settore “italiano” nordoccidentale tralasciando, per ovvie ragioni, la Romagna, ossia l’Esarcato bizantino. Anche Liguria ed Emilia orientale erano di statuto incerto, poiché conquistate tardivamente dai Longobardi; ciò nonostante, Genova era ritenuta la porta della Lombardia (anche grazie ad un bisticcio etimologico latineggiante) e, nella mappa postata in apertura, Bologna e Ferrara mancano in quanto donate da Carlo Magno al papa, pur essendo state alfine prese dai Longobardi.

Quest’area coincide con la Padania intesa come bacino imbrifero del fiume Po, col fulcro della Gallia Cisalpina e della Langobardia Maior (Pavia, Milano e Monza) e ricalca, inoltre, il territorio che con i Carolingi assunse per la prima volta il toponimo ‘Lombardia’: per l’appunto, il nordovest, la Lombardia etnica.

Il Triveneto, porzione orientale della Grande Lombardia, rientrava nella designazione più ampia di Lombardia medievale (vedi Lega Lombarda), ma assunse un proprio profilo politico peculiare grazie a Venezia, Aquileia, Verona, Trento; la Romagna è (quasi) sempre stata esclusa dall’ambito longobardo/lombardo, pur essendo anch’essa Gallia Cisalpina. Il “nord Italia”, ossia la nazione della Grande Lombardia, va, anche etno-culturalmente, dalle Alpi allo spartiacque appenninico (linea linguistica Massa-Senigallia) e dal fiume Varo al Monte Nevoso, nella Venezia Giulia storica.

Nessuno nega che il “nord” non sia del tutto omogeneo e che, al suo interno, vi siano alcune differenze peculiari. Lasciando da parte le minoranze storiche, esiste certamente una distinzione tra l’ambito alpino/prealpino e padano, così come tra ovest ed est, e la realtà romagnola appare periferica e tendente all’ambito tosco-mediano. Anche la geografia è variegata, sebbene l’areale grande-lombardo sia primariamente continentale e sub-mediterraneo. Ma è altrettanto innegabile che la dimensione nazionale abbracci l’intero contesto padano-alpino, a partire dalla Lombardia etnica.

Il percorso ideologico di Paolo Sizzi

P. Sizzi

Credo valga la pena stendere una riflessione su quel che è stato il mio periodo italianista, o meglio, su ciò che mi spinse ad allargare lo sguardo etnonazionalista al contesto panitaliano (termine improprio, ma impiegato per capirsi), e lo faccio approfittando di un articoletto di un tizio coperto da pseudonimo e pubblicato, nell’aprile 2014, su Giornalettismo, testata online il cui nome è fin troppo eloquente.

Fu scritto, per l’appunto, all’indomani del mio cambio di registro nei confronti dell’Italia (intesa come “nazione” storica, non come stato ottocentesco o repubblica partigiana postbellica, beninteso; non avrei, comunque, potuto nutrire alcuna simpatia nei confronti della RI) e l’unico intento che animò l’anonima penna fu, ovviamente, quello di pigliarmi per i fondelli, considerando che l’inclinazione del giornaletto multimediale è quella del più banale pressapochismo antifascista e petaloso.

La sicumera dei democratici è risaputa quando si tratta di analizzare fenomenologie identitarie: loro sono moralmente superiori in quanto sinistrorsi/sinistrati all’acqua di rose, tutti gli altri sono casi umani da compatire perché retrogradi, disadattati, repressi, complessati, pazzi e chi più ne ha più ne metta. Loro sono i geni, gli altri sono i reietti.

Di conseguenza, chi non si genuflette di fronte alla vulgata resistenzial-democratico-repubblicana, benedetta dagli americani (ossia dai paladini della sinistra italica ed europea), è un povero imbecille da guardare con compassione dall’alto in basso. E il nostro baldo orobico può, forse, fare eccezione, nella mente di cotanti intellettuali?

Il suddetto tizio mi sbrodolò addosso le consuete logore fesserie, da leggersi tra le righe: nazista da strapazzo, lombrosiano, caso umano, fenomeno da baraccone; altresì, ridicolizzando sia la primeva fase lombardista che la svolta italianista, ridusse ad una farsa opportunistica il passaggio dal lombardesimo all’italianesimo (così chiamato all’epoca), come se non fosse altro che una cialtronata di poco momento e non, piuttosto, il frutto di una approfondita riflessione, una sorta di maturazione (più che una conversione o, addirittura, un tradimento del prima lombardista, come l’individuo scrisse con assoluta leggerezza). A testimonianza della razionalità di questo articolo, comunque, ecco la perla: io sarei un tifoso laziale. Prego?

La sua “analisi” si incentrò su quanto di me noto tramite la rete, fra cui i documenti di cui ho già parlato in questo blog, ovvero l’intervista al Post e alle Invasioni barbariche.

L’anonimo si soffermò sulla mia passione per la razziologia considerandola alla stregua di ciarpame degno dell’astrologo giudeo Lombroso, mostrando grande ignoranza se si pensa che è la frenologia ad essere pseudoscienza, non la craniometria e la tassonomia delle razze e sottorazze umane, con relative varianti fenotipiche. Per non parlare della genetica delle popolazioni, che rimarca pure le note differenze tra “italiani”.

Illuminante, però, appare la chiusura del patetico scritto: «il nazionalismo che chiama in causa le aquile romane, pur declinato come etno-nazionalismo federale, ha invece tutt’altro sapore e non fa ridere come l’arianesimo orobico» – e ancora – «Una grande occasione d’intrattenimento persa e Sizzi che cade dalla padella alla brace». Capito?

Lo scopo dell’autore era palese: ridicolizzare e demonizzare l’area identitaria e i suoi protagonisti, soprattutto i più genuini e non corrotti dalla politica di professione, esprimendo ironico rammarico per l’abbandono delle posizioni lombardiste originarie; il soggetto sembrava più allarmato dall’aura fascistoide del cambio di rotta, minimizzando la portata dell’etnonazionalismo lombardo. L’insipiente non può che ridere (a denti stretti) di ciò che è per davvero rivoluzionario, palesando tutta la sua imbarazzante arroganza e ignoranza.

A quei tempi, convinto della bontà dell'”evoluzione” italianista, pensai che anche le scomposte reazioni di soggetti come quello citato fossero il tributo involontario ad una scelta ponderata e matura: mettendo da parte l’identitarismo “regionale” solleticato dall’indipendentismo, il nazionalismo italianista rispettoso dell’istanza etnofederale appariva meritorio nel contesto nostrano, perché unificante. Ma l’Italia, signori miei, come vado ripetendo spesso, non è la soluzione, è il problema, se interpretata come Stivale fantozziano che arriva sino alla Pianura Padana…

Nella primavera del 2014, e in quelle successive, l’intento sizziano fu di conciliare l’istanza lombardista con quella “nazionale” ma, più che altro, da un punto di vista civile, culturale, geopolitico; vedevo l’Italia come uno dei pilastri imperiali europei e difendevo la suggestione latina di grande civiltà romana, pagana, cattolica, italiana in senso moderno e contemporaneo, alla luce dell’unificazione linguistica. Fino all’estate del 2019 posi parecchia enfasi sulla questione delle radici precristiane – con toni non molto concilianti verso il cristianesimo cattolico – poi optai per un ammorbidimento poiché la Tradizione va difesa integralmente, ed equiparare il culto di Cristo a giudaismo e islam è una sciocchezza.

Tuttavia, smaltita la sbornia del neofita, mi assestai su posizioni comunque etnonazionaliste, dove prevalse – e non poteva essere altrimenti – la componente etnicistica: il mio faro è sempre stata la triade sangue, suolo, spirito e la realtà biologica (da cui tutto il resto) dell’Italia non poteva certo essere taciuta o distorta per fini propagandistici. E allora parlai estesamente, per anni, di Italie, di patto etnofederale, di etnonazionalismo declinato in chiave rigorosamente federale, perché le differenze tra “italiani” sono sotto gli occhi di tutti, retorica patriottarda a parte.

Alla lunga, come è poi avvenuto, l’esperienza italianista si è esaurita e ho preferito riabbracciare in toto, coerentemente, quanto da me teorizzato agli esordi, tornando ad affermare che se di Italia si può e, si deve, parlare va fatto riferendosi squisitamente al centrosud, ossia all’Italia primigenia. Lo capite che, se ci si dichiara nemici giurati del mondialismo, non è possibile indugiare oltre su posizioni che, involontariamente, diventano un servigio al moloc globalista: l’Italia artificiale in chiave 1861 non è altro che uno stato, non una nazione, e ripropone in piccolo la barbarie che il sistema-mondo pratica su vasta scala. Come non esiste una “razza umana” così non esiste una “razza italiana”: non si può combattere il nichilismo unipolare all’americana con quello in tredicesimi del tricolore.

Con buona pace delle aquile romane, la forza dell’etnonazionalismo non ha eguali, e la sacralità della lotta identitaria e tradizionalista deve necessariamente passare per la coscienza etno-razziale. Anche perché parlare di Italia dalle Alpi alla Sicilia in nome di latinità, romanità, echi gentili, religione cattolica e lingua fiorentina è un po’ pochino… Tolto l’idioma franco di Firenze, la romanitas è il comun denominatore di altri territori europei, mica solo di quelli a sud dell’arco alpino.

Se per sette anni mi sono professato italianista (ovviamente secondo la mia visione: prima bergamasco e lombardo, poi italiano) è stato in assoluta buonafede, non per opportunismo. Gli argomenti di cui mi sono occupato e mi occupo sono pura passione, e non ho mai avuto la fregola del soldo, della poltrona, della carica o del posticino al sole. Ho sempre preferito cultura e metapolitica alla politica, anche solo come velleità.

Per quanto concerne, invece, le trite e ritrite pagliacciate apotropaiche di gente che, come sempre, non ha nemmeno il coraggio di mostrare nome e faccia ma adora sputare sentenze (stile l’autore dell’articolo commentato), sono la regola, nonché l’indice della pochezza antifascista: di fronte alla radicalità del patriottismo völkisch i ragli d’asino non finiranno mai di cessare. E non fatevi ingannare dalla criminalizzazione lib-dem della galassia neofascista, poiché chi sventola tricolori, in un modo o nell’altro, fa un servizio alla piovra mondialista.

C’è di buono che, con il periodo italiano, per così dire, mi sono dato una regolata, fors’anche per l’età. Nel 2014 avevo 30 anni, una crescita dunque, e ho cominciato da quel momento a lasciarmi alle spalle gli eccessi e i furori ideologici (non la coerenza e la radicalità, ovviamente), evitando di impelagarmi in ulteriori grane. Anche la soluzione etnofederalista voleva essere un equilibrio tra due posizioni estreme e poco pratiche: indipendentismo da una parte e fascismo dall’altra. Ma l’Italia come sacrale federazione indoeuropea e romana di piccole patrie non è, dopotutto, da meno, considerando che razza di stato abbiamo per le mani, e il gioco non vale la candela.

Qualcuno pensa che un Paese diviso e litigioso faccia solo comodo allo straniero. Un Paese, appunto: l’Italia non lo è. E, fra l’altro, l’occupazione atlanto-americana continentale, peninsulare e insulare è possibile proprio grazie a questa artificiale unità, in cui Roma è una delle più fedeli pedine dell’Occidente a trazione statunitense. L’indipendentismo assennato, ossia quello etnonazionalista, non fa il gioco del forestiero, perché il vero ascaro del globalismo è lo stato senza nazione di matrice ottocentesca, perfettamente incarnato dalla Repubblica Italiana.

Da parte mia era doveroso il ritorno al lombardesimo, depurandolo dagli elementi controversi degli esordi (ero ventenne, d’altronde), non solo perché ideologia da me lanciata ma pure in quanto salutare riscoperta di quella coerenza necessaria per affrontare, col piglio giusto, le sfide del domani. L’italianismo di otto anni fa era animato da nobili intenti ma è inutile ai fini della battaglia etnonazionalista; il sottoscritto è utile, alla causa identitaria, come teorico lombardista, che prima dell’indipendenza della Lombardia auspica l’affrancamento della sua sopita identità nazionale.

Al di là della politica e delle beghe fra centralismo, federalismo, autonomismo ed indipendentismo, infatti, la cosa basilare rimane l’identitarismo etnico, la salvaguardia di sangue-suolo-spirito, fermo restando che la Grande Lombardia merita appieno la totale autoaffermazione nei confronti di Roma e dell’Italia. Non si tratta di fantasticare – come facevo agli albori –  di un nord celto-germanico “e basta” (manco fossimo inglesi o fiamminghi!), in ossequio a certo nordicismo neonazista, ma di contestualizzare le Lombardie nel quadro europeo centromeridionale, anello di congiunzione tra Mediterraneo e Mitteleuropa.

All’epoca del Movimento Nazionalista Lombardo, immaginavamo una Cisalpina inserita in una confederazione “gallo-teutonica”; da italianista la collocavo nel contesto panitaliano; adesso, razionalmente, la concepisco per conto proprio, poiché le macroregioni sono delle sciocchezze dal puzzo tecnocratico e affaristico. La famiglia imperiale eurussa sta bene, ma qui dobbiamo badare all’autodeterminazione nazionale dei lombardi, senza scendere a compromessi né con Roma né con Bruxelles. Degli altri nemmeno parlo. Al più, avrebbe senso un rapporto stretto con le realtà dell’arco alpino o della (vera) Alta Italia, ossia Toscana e Corsica, fermo restando che, nella storia, è certamente esistito uno spazio carolingio di impronta celto-germanica che comprendeva anche la Padania.

Volenti o nolenti, dobbiamo certamente fare i conti con la realtà, ma senza perdere di vista l’obiettivo fondamentale, che è quello di opporci risolutamente all’omologazione dello status quo divenendo esempio e applicando, nel concreto, i dettami del nazionalismo etnico. Come individui e come popolo. E senza dimenticarci che, prima della politica, viene la cultura poiché se mancasse quest’ultima la res publica sarebbe completamente svuotata di significato. A che giova portare alle urne i lombardi se questi non sanno nemmeno chi sono?  L’indipendenza e la liberazione della Lombardia cominciano dalle nostre menti e coscienze.

Non rinnego la fase italianista, così come non rinnego i primordi lombardisti, e se oggi posso gustare appieno, nella maturità dei miei quasi 40 anni, il lombardesimo è anche grazie a quei precedenti sette anni in cui tra meditazioni, riflessioni e studi ho fortificato la convinzione che ogni rinascita di orgoglio patrio deve necessariamente passare per la verità del sangue, la sacralità del suolo e la luminosità dello spirito. E, dunque, oggi più che mai affermo con convinzione che la mia patria è la Grande Lombardia.

Grande Lombardia

GL

Il 6 novembre 2013, data mediana tra equinozio d’autunno e solstizio d’inverno, nel suggestivo scenario medievale del Castello Visconteo di Pavia (la capitale morale lombarda), nasceva l’associazione politica Grande Lombardia, continuazione del fu Movimento Nazionalista Lombardo.

Ne uscii nell’aprile 2014 per via del desiderio, di allora, di recuperare la cornice italica, in chiave etnofederale, e prendere le distanze dall’indipendentismo, ma è stata un’esperienza degna di nota che ha certamente avuto il suo senso e rappresentato una tappa formativa del mio pensiero etnicista. Dopo essermi, nell’autunno 2021, riconciliato con le mie origini ideologiche, ne ho ulteriormente rivalutato la portata, confermando la natura rivoluzionaria del lombardesimo.

Nell’estate del 2013, il Movimento Nazionalista Lombardo, fondato da Adalbert Roncari e dal sottoscritto, fu sciolto per poter dare spazio a questo nuovo progetto lombardista, che senza rinnegare le posizioni di partenza le ha estese alla Lombardia storica orientale (nel Medioevo il termine ‘Lombardia’, come sappiamo, designava in buona sostanza la maggior parte del territorio “italiano” settentrionale).

Come MNL ci eravamo soffermati sulla Neustria longobarda, fondamentalmente, vale a dire Val d’Aosta, Piemonte, “Svizzera” lombarda, Regione Lombardia, Emilia fino al Panaro e altri brandelli di territorio padano appartenenti oggi a varie realtà amministrative; con GL si allargò il discorso lombardista all’Austria longobarda, ossia Trentino, Lombardia venetizzata e Friuli, escludendo per ragioni etno-storiche il Tirolo primigenio (ossia quello meridionale), il bacino dell’Isonzo, l’Istria, l’Emilia al di là del Panaro, la Romagna e le coste venete con l’entroterra.

Allo stesso modo escludemmo la Liguria dalla parte occidentale perché poco e tardi longobardizzata e, inoltre, quasi del tutto mediterranea a differenza del territorio lombardo etnico (che sarebbe un po’ anello di congiunzione fra Mediterraneo ed Europa centrale), e così Bolognese e Ferrarese, adriatici e solo all’ultimo conquistati dai Longobardi.

In un secondo momento integrammo anche i territori periferici suddetti, perché comunque parte del contesto geografico, storico, linguistico, culturale e politico alto-italiano (per capirsi), della Cisalpina, e per ragioni di logica e razionalità: che senso avrebbero una Liguria, una Romagna, un Alto Adige e una Venezia lagunare e giuliana indipendenti, staccati dal grosso del territorio padano-alpino e subcontinentale?

L’associazione politica Grande Lombardia, sorta nell’antica capitale longobarda, è stata fondata dall’Orobico, dal sepriese Adalbert Roncari (attuale presidente), dal pavese Achille Beltrami, dal friulano Ludovic Colomba e dall’oltrepadano Alessandro Poggi, e si propone di affrancare, mediante l’etnonazionalismo lombardo (lombardesimo), il sentimento identitario di tutte le genti cisalpine, che possono dirsi lombarde perché sviluppatesi dalla Langobardia Maior (e ‘Lombardia’ deriva da questo); logicamente, non si trattava di fare i germanisti e i nordicisti ma di preservare l’identità storica dei lombardi, che è il risultato della fusione tra Celti, Galli, Goti e Longobardi, senza dimenticare popoli come Liguri, Reti, Etruschi, Veneti antichi e Romani che hanno contribuito all’edificazione della Lombardia o, meglio ancora, della Grande Lombardia, che dà il nome al movimento.

Le posizioni di GL non sono mai state indipendentiste tout court, perché abbiamo sempre pensato che l’indipendenza sia un mezzo, non il fine, e perché l’enfasi lombardista è stata sempre posta, anzitutto, sulla questione etnica, biologica, antropologica, culturale, ambientale, storica. Altresì, l’etnonazionalismo, nel caso grande-lombardo, presuppone l’indipendentismo, ma non viceversa, come i separatismi storici europei dimostrano. Chi ha avuto modo di visitare il sito di Grande Lombardia avrà notato che l’impostazione non è secessionista, anche perché negli anni scorsi, durante la mia fase italianista, cercai di stabilire un contatto tra il gruppo lombardista superstite ed EreticaMente – per cui scrivevo – al fine di sviluppare una collaborazione.

Oggi GL è, per così dire, ibernata, attiva come pagina su Facebook ma per il resto dormiente; il sito non è più stato aggiornato. Chi ne fa parte (penso circa una decina di persone) ha sicuramente posizioni indipendentiste e anti-italiane, seppur il fine principale sia sempre stato quello dell’autodifesa etnoculturale e territoriale totale (vedi alla voce ‘comunitarismo’). Va da sé che la collocazione ideale della Grande Lombardia nella visione lombardista, e questo sin dagli albori, stia nella liberazione dal giogo tricolore. Io stesso, distaccandomi dalla passata esperienza patriottarda volta al tentativo di conciliare la Lombardia con l’Italia romana, mi sono riassestato su posizioni nettamente indipendentistiche, perché i palliativi, i brodini, i pannicelli caldi non sono consoni ad un’ideologia radicale, decisamente schierata contro il mondialismo (alimentato anche da Roma).

Grande Lombardia, indi, abbraccia le terre dalle Alpi Occidentali a quelle Orientali e da quelle Centrali all’Appennino settentrionale (cioè lombardo), accomunate dall’eredità innanzitutto gallica cisalpina romanizzata e in secondo luogo dall’impronta longobarda, che ha caratterizzato tutto il cosiddetto nord vero e proprio della Repubblica Italiana; nel Medioevo, se un transalpino doveva varcare le Alpi era solito dire: «Vado in Lombardia» (d’altro canto, nello stesso periodo, il termine ‘Italia’ designava più il centro-nord che il sud, ma questo per motivi di prestigio e di antico retaggio politico romano).

I territori inizialmente estromessi sono stati poco e tardi longobardizzati (Liguria, Padova, Bologna e Ferrara) o per niente colonizzati dai Longobardi (Romagna e coste venetiche), oppure appartengono geograficamente e storicamente alla Lombardia allargata (Tirolo meridionale, Isonzo, Istria) ma etnicamente sono popolati da, tecnicamente, allogeni (bavari, sloveni, croati). Perciò, nei primevi intenti di GL, la cartina grande-lombarda escludeva le coste liguri, le Romagne (Emilia orientale, Romagna e terre gallo-picene), il Veneto costiero al di sotto di una immaginaria linea delle risorgive, il mondo retico cisalpino germanofono a nord del confine etnico di Salorno e la Venezia Giulia storica oggi inglobata da Slovenia e Croazia.

Ricordo con simpatia i bei tempi in cui il duo Sizzi-Roncari, inebriato dal purismo continentale e terragno, discriminava i popoli settentrionali costieri e lagunari in nome di una talassofobia “longobarda” da impenitenti consumatori di burro e strutto, contrapposta agli amanti “bizantini” dei boccioni d’olio d’oliva, del pomodoro, dei latticini di pecora e capra in odore di intolleranza al lattosio. Il Panaro come confine enogastronomico e zootecnico, confortato dalla storica dicotomia tra Langobardia e Romandiola, fu per anni uno dei pezzi forti delle rivendicazioni lombardiste. Eravamo tutti più giovani.

Ad ogni modo, la tenzone identitaria grande-lombarda è rivolta alle realtà galloromanze cisalpine longobardizzate e, dal Medioevo, ritenute lombarde (e qui si pensi a chi costituì la Lega originale, la Societas Lombardiae). Città come Trento e Verona, in antico, parlavano lombardo e non è affatto peregrino affermare che la porzione di Regione Veneto inclusa nelle allora cartine lombardiste (quella continentale, in pratica) sia stata venetizzata dalla Serenissima, spezzando quel continuum linguistico che doveva esserci in tutta la Cisalpina – Dante docet – grazie alla sovrapposizione di Celti e Longobardi latinizzati.

Il movimento Grande Lombardia prende, dunque, le mosse dalla realtà etnoculturale e geografica genuina della Lombardia, lo zoccolo duro, unendo le due Lombardie storiche, occidentale e orientale, nel nome della loro comune eredità e delle sfide presenti e future che le attendono.

L’esperienza lombardista precedente, quella del Movimento Nazionalista Lombardo, è stata una sorta di laboratorio, di cammino preparatorio al grande salto di qualità che punta a riunire tutti i lombardi sotto l’insegna della Croce lombardista (GL unisce, nel suo vecchio simbolo, le due croci alpino-padane storiche, integrandole alla ruota solare indoeuropea che rappresenta la grande famiglia continentale d’Europa), dello Swastika camuno e del Ducale visconteo, del Biscione; Grande Lombardia è un movimento politico, ma anche culturale, che non punta ai voti, alle poltrone, ai quattrini, ma ai lombardi e alle lombarde in senso etnico e storico, che vogliono battersi per l’affrancamento, la difesa, la promozione e l’autoaffermazione, innanzitutto identitaria, delle genti in questione.

Questa battaglia è tanto comunitarista, ruralista, solidarista quanto ispirata ad un salutare razionalismo che non ripudi lo sviluppo, il progresso (scientifico, si capisce), la tecnologia (come potremmo?) ma dia ad essi un volto sociale e nazionale mirato al benessere della collettività lombarda, senza anarco-individualismi o sterili passatismi. Proiettare la Grande Lombardia nel futuro, onorando il passato, e concretizzando un presente di sacrosante lotte metapolitiche. Gli scopi statutari e programmatici di GL combaciano coi miei, per quanto l’associazione sia, ad oggi, ferma. Mi distacco, solamente, dal vecchio punto relativo alla critica indiscriminata nei riguardi del cattolicesimo, ovviamente tradizionale – confuso con forme spurie di cristianesimo, ebraismo e islam – e alla scristianizzazione, che all’epoca condividevo ma da cui poi ho preso le distanze. Oggi sono convinto che, religiosamente parlando, l’ideale sia una fusione della gentilità precristiana cisalpina con il cattolicesimo ambrosiano, dando vita ad una Chiesa nazionale l0mbarda.

Nella primavera del 2014 sentii l’esigenza, suggestionato dall’antichità italica, latina, romana, di ampliare il mio sguardo estendendolo al quadro panitaliano, cercando di conciliare la visuale lombardista – mai rinnegata – con quella di un italianismo etnofederale supportato dalle glorie di Roma antica e da altre esperienze comuni (la civilizzazione etrusca, l’Italia augustea, l’epopea longobarda, l’italianizzazione linguistica). Portai avanti per sette anni quest’ottica ma fu un periodo in cui la preponderante componente etnonazionalista necessitava di una certa coerenza, e la realtà dei fatti non poteva essere nascosta o distorta dall’ideologia; dopo gli ardori iniziali, il mio italianismo si assestò su posizioni culturali e civili, recuperando quasi in toto l’enfasi sugli aspetti genuinamente nazionali, ossia lombardi. Sicché, venendo meno nell’estate 2021, sulla scorta di nuovi dati biologici e scientifici, la bontà dello zelo patriottico all’italiana, mi sono riavvicinato con convinzione alle origini, impugnando nuovamente, e senza compromessi, la bandiera del lombardesimo.

Per chi pone la triade sangue-suolo-spirito al di sopra di tutto è impossibile, alla lunga, conciliare l’inconciliabile, e la dirompente forza dell’etnicismo avrà il sopravvento su ogni proposito meramente culturale o storico. Fermo restando che, sebbene con mille forzature, l’Italia può essere ritenuta una sorta di civiltà eterogenea, il concetto di cultura italiana è del tutto moderno, artificiale e disomogeneo, basato sulla lingua toscana e su elementi comuni a molte altre realtà europee. Cattolicesimo, romanità e ambito neolatino sono un po’ pochino per parlare di nazione italiana dalle Alpi alla Sicilia…

Una cosa da me rivalutata, dopo la fine del periodo italianista, pertinente al progetto originale di GL, è l’inserimento della Lombardia in una sorta di macroregione gallo-teutonica centro-europea, cuore della civiltà continentale. Abbiamo molti elementi in comune con l’arco alpino, soprattutto nelle stesse aree alpine grandi-lombarde, e anche se la Pianura Padana – per non dire delle coste – si avvicina più alla Toscana o alla Provenza che alla Svevia e alla Baviera, il medievale spazio carolingio d’Europa andrebbe rivitalizzato. Detto questo lasciamo pure perdere le macroregioni europee e concentriamoci sulla nostra realtà etnonazionale, quella lombarda, anche se di certo il cuore europeo, cui la Cisalpina appartiene, rappresenta la papabile classe dirigente euro-siberiana.

Il potenziale originario di Grande Lombardia era importante e interessante soprattutto in direzione comunitarista, per sviluppare quel salutare attaccamento alla stirpe e alla terra, quella genuina solidarietà tra connazionali, quel robusto senso montanaro e contadino, terragno oserei dire, che contraddistingue i lombardi. Ma la Lombardia è anche le città, l’economia, l’industria, le eccellenze, la qualità, la ricchezza frutto del duro lavoro e il lombardesimo non ignora tutto questo, anzi, vuole dargli la giusta rilevanza, comunque in un contesto di etnonazionalismo e visione nazional-sociale.

Parlo di lombardesimo, cioè dell’ideologia da me plasmata, e che fu il motore dottrinario dell’MNL e di GL; per quanto il primo non esista più e non faccia parte, da anni, della seconda resta il fatto che gli unici movimenti/associazioni cui mi sia sentito legato sono ovviamente quelli da me fondati, e di cui conservo con soddisfazione ed orgoglio ottimi ricordi.

Quando, nel 2014, mi sganciai dall’ambito indipendentista non rinnegai, comunque, la difesa seria e razionale dell’identità e della tradizione lombarde che continuai a sentire, negli anni seguenti, come le più vicine a me: prima ero bergamasco e lombardo e poi, italiano. E mi sembra naturale. Davo a quell'”italiano” una valenza linguistica, culturale e civile, più che propriamente nazionale (e, dunque, etnica), e va da sé che l’italianità della Lombardia – come della Sardegna, per dire – sia una finzione, un orpello retorico patriottardo. Gli italiani sono gli indigeni centromeridionali della Repubblica, tutti gli altri sono italiani, sostanzialmente, sulla base di un pezzo di carta e della burocrazia statolatrica romana. E non mi si venga a dire che: «Gnè gnè gnè, parli italiano anche tu!», perché questa è soltanto la lingua di Firenze, e se l’adopero è solo per educazione, comodità, convenienza e comprensione. A cà Siss si favella in bergamasco, e solamente in tempi recenti il toscano è diventato la lingua corrente delle Lombardie. D’altronde, anche gli irlandesi parlano inglese, senza essere inglesi.

L’esperienza del Movimento Nazionalista Lombardo

Movimento Nazionalista Lombardo

Nella prima fase del lombardesimo radicale, ebbi modo di dare vita, assieme ad altri camerati lombardi, a due movimenti politico-culturali, di cui uno tuttora esistente: il Movimento Nazionalista Lombardo, defunto, e Grande Lombardia. Qui tratterò del primo.

Tutto ebbe inizio verso la fine di aprile del 2008. Il mio primo approccio con la politica militata risale ad allora, quando decisi di schierarmi attivamente dalla parte del Fronte Indipendentista Lombardia, partito nato due anni prima e conosciuto grazie ad un forum etnonazionalista, poi chiuso per via delle solite ingerenze.

Ciò mi permise di entrare in contatto con alcuni giovani in gamba desiderosi di battersi per il bene della Lombardia, in particolar modo con Adalbert Roncari. Egli non era un tesserato del Fronte ma, quanto me, conosceva alcuni suoi esponenti.

La mia esperienza frontista, tuttavia, durò praticamente un mese e non produsse, chiaramente, nulla di che; questo perché nel giugno 2008 il FIL, guidato da Max Ferrari, confluì nel solito cartello regionalista pataccaro, questa volta denominato Lombardia Autonoma e capeggiato da uno dei principali legaioli pataccari in circolazione: Roberto Bernardelli.

Essendomi tesserato per l’etnonazionalismo e l’indipendentismo, mandai tutto a quel paese e aspettai tempi migliori, rimanendo in contatto con altri ex frontisti con cui decisi di collaborare, al fine di creare un serio soggetto identitario lombardista.

Questa fase transitoria durò un biennio e nel 2009 conobbi il sunnominato Adalbert Roncari, luinese classe 1988, con cui fu subito intesa. Ne nacque un confronto sincero e schietto che corroborò il reciproco cameratismo, al punto di consolidarsi in una irremovibile posizione etnonazionalista, nonostante il resto dei soggetti con cui si imbastiva il progetto identitario scivolasse inesorabilmente verso il trasversalismo e l’opportunismo politico.

E fu così che, nell’agosto 2010, noi e la combriccola di “indipendentisti-e-basta” giungemmo in rotta di collisione e ognuno andò per la sua strada; questo anche perché i benpensanti non riuscivano a tollerare le posizioni un po’ estreme del sottoscritto, palesate attraverso i miei blog.

Liberati dal fardello politicamente corretto decidemmo, il sottoscritto e il Roncari, di stendere un nostro personale progetto lombardista, abbandonando al loro destino gli ex frontisti da cui poi, per la cronaca, nel settembre 2011, nacque pro Lombardia Indipendenza, movimento assestatosi su posizioni lib-dem e sterilmente indipendentiste, sulla falsariga dei movimenti separatisti storici europei. Ci attivammo subito, altresì, contattando ipotetici compagni di viaggio che potevano tornare utili alla bisogna.

Punti fondamentali del nostro programma erano il panlombardismo, che riunisse tutti i popoli lombardi etnici (insubrici, alpini, orobici, cenomani, padani, subalpini), l’identitarismo etnico – che puntasse all’autodifesa totale dei lombardi, ma anche dei mittel e degli europei – e la caustica critica al cristianesimo, nel quadro di un ridimensionamento filo-pagano dei monoteismi “abramitici”. All’epoca ero fresco fresco di rottura col cattolicesimo e smanioso di dare concretezza a quella che ritenevo una piena coerenza völkisch. Il tutto racchiuso in una Weltanschauung schiettamente etnonazionalista, lombardista e, ovviamente, indipendentista (cioè anti-italiana).

Nome pensato per il soggetto fu “Grande Lombardia”, affinché fosse chiaro da subito il nostro afflato panlombardo, in senso storico ed etno-geografico; simbolo la Croce lombardista, l’integrazione della lombarda Croce di San Giorgio con l’indogermanica ruota solare; esordio ufficiale previsto per il 21 dicembre 2010, capodanno astronomico e vigilia dello sciagurato annus horribilis 2011, anniversario dei 150 anni di baraccone statolatrico d’Italia.

Qualcosa però andò storto e due mesi prima di tale data, il 21 ottobre, la questura di Bergamo vide bene di spedirmi a casa due tizi della digos e due della polizia postale per farmi le pulci e rendermi nota l’indagine per istigazione all’odio razziale e vilipendio a mezzo internet.

Era da mettere in preventivo, chiaramente: da mesi ormai progressisti, liberali, pretaioli, antifascisti assortiti giuravano di farmela pagare per i miei “incendiari” scritti, non avendo nulla di meglio a cui pensare.

Il progetto lombardista ebbe, così, una battuta d’arresto, e io e Roncari decidemmo di attendere tempi più proficui, lasciando che le acque si chetassero.

Nel gennaio-febbraio 2011 riprendemmo in mano il progetto senza mutarlo dal punto di vista ideologico, dottrinale, programmatico, mantenendo come simbolo la Croce lombardista, arricchendola tramite l’impiego del sacrale cromatismo tripartito di origine indoeuropea rosso-bianco-nero, ma cambiando il nome del soggetto in un più concreto ed esplicito “Movimento Nazionalista Lombardo”; in fondo, la vera Lombardia è la Grande Lombardia, e la REGIONE “Lombardia” non è che un troncone di nazione lombarda, neutralizzato, rattrappito e italianizzato fino all’infiltrazione mafiosa.

Presidente nazionale dell’MNL Adalbert Roncari, segretario nazionale il sottoscritto, per evitare problemi (essendo il Sizzi indagato ufficialmente e, successivamente, sotto processo). A ranghi serrati, giungemmo ad una decina di associati militanti, stante la difficoltà ovvia nel reperire tesserati attivi.

Capisaldi ideologici dell’MNL, un movimento metapolitico (senza intenti meramente politici), erano il lombardesimo etnonazionalista, il razionalismo che sempre, puntualmente, manca ad ogni soggetto identitario tricolore o legaiolo, la critica al fanatismo religioso – prestato alla militanza – e ad un certo tipo di metafisica, in particolar modo a quelli di ispirazione semitica.

Insomma: sangue e suolo, popolo e razza, identità e tradizione (slegata dal confessionalismo), i binomi vincenti del Movimento Nazionalista Lombardo (in cui credo ancora, si capisce).

Esso venne alla luce nella luinese Valtravaglia, già parte del nobile contado longobardo del Seprio, il 6 maggio 2011, data mediana tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate, con i suoi due padri fondatori Roncari e Sizzi; lo scenario uno splendido ambiente naturale poco sopra il Verbano, con tanto di sacre farnie, la cascata della Froda (toponimo celtico) e massi erratici con incisioni solari. Nella sella del Pian Nave, nel comune di Porto Valtravaglia, vicinissima al luogo della fondazione dell’MNL, i nostri antichi padri celtici festeggiavano con roghi e ruote lignee ricoperte di fronde e incendiate il solstizio d’inverno.

Colore sociale dei nostri vessilli e delle nostre divise, impiegati non per scimmiottare corpi paramilitari del passato ma per dare un senso d’appartenenza ad ogni associato e un salutare tocco d’ordine e disciplina al movimento, il grigio plumbeo, colore asettico, razionale, spartano, “prussiano”, che nulla ha a che vedere con il grigiore conformistico, bensì con la virile morale indoeuropea.

Il Movimento Nazionalista Lombardo era un soggetto metapolitico che lottava per l’affrancamento del sentimento nazionale lombardo, riunendo sotto le proprie insegne tutti gli orgogliosi patrioti lombardi; bramavamo la salvazione e la vittoria della Lombardia mediante lombardesimo, nazionalismo etnico, razionalismo, ed indipendentismo mai e poi mai staccato dall’identitarismo Blut und Boden.

Per noi l’indipendenza era un mezzo per raggiungere la totale autoaffermazione lombarda, e non lo sterile fine da perseguire con la bassa cucina politica fatta di compromessi e vittimismo, e trasversale a cani e porci (magari antifascisti).

Tale soggetto durò pochi anni, come si può immaginare, dal 2011 all’autunno 2013, e poté fare solo iniziative simboliche. Essendo esordienti e sparpagliati, con pochi soldi, militanti, risorse – e con idee del tutto impopolari – non si poteva fare altrimenti.

Ciò nonostante facemmo la nostra brava propaganda multimediale, e discretamente noto divenne il canale YouTube lombardista che aprimmo, con le famose “video-prediche” realizzate dal sottoscritto. Qualche spezzone di quei filmati circola ancora in rete.

Venni anche intervistato, come sapete, per il Post di Sofri e Le invasioni barbariche della Bignardi, su La7, esponendomi in prima persona. Il camerata Adalbert preferì una posizione più defilata, concentrandosi su scritti di carattere economico e scientifico pubblicati sui canali ufficiali dell’MNL.

Nell’aprile del 2013, in seguito alla condanna in primo grado per i noti (e ridicoli) fatti ideologici legati a miei blog personali, decisi di togliermi dal movimento per lasciare spazio agli altri contubernali ed evitare di andare a pesare sulle sorti dello stesso, dovendo poi badare ai miei affari giudiziari.

L’associazione si sciolse, comunque, nell’estate di quell’anno e nell’autunno confluì in Grande Lombardia, un nuovo soggetto politico lombardista aperto anche alla Lombardia storica orientale, il Triveneto. Di GL parlerò in un altro articolo.

Nonostante questa esperienza sia durata poco, e sia stata di scarso peso, costituisce comunque una tappa del mio percorso formativo ed è servita a farmi un’idea circa la militanza e l’organizzazione di un movimento politico-culturale. Altresì, a suo modo, fu un’iniziativa rivoluzionaria poiché la Lombardia ha profondamente bisogno del lombardesimo e sono convinto, nel mio piccolo, di aver plasmato e promosso un’ideologia originale, innovativa e, per l’appunto, degna di memoria.

Del Movimento Nazionalista Lombardo, confluito in Grande Lombardia, rimane vivido il ricordo romantico del lombardesimo dei primordi, con l’enfasi etnonazionalista posta sul contesto della Lombardia etnica, e di quello zelo giovanile fatto di sano particolarismo culturale che mi ha portato a gustare intensamente gli aspetti peculiari della mia Urheimat.

Una cosa che faccio a tutt’oggi, chiaramente, inserita nell’ambito grande-lombardo, ma che allora era arricchita da quel rituale völkisch tradizionale condiviso che in un certo senso mi manca, ora, non essendo in alcun soggetto metapolitico, politico o anche solo culturale. Rimango, come è noto, vicino alle posizioni di Grande Lombardia ma per il momento marcio individualmente.

Forse, il retrogusto nazisteggiante del primo movimento lombardista può averne un po’ inflazionato l’efficacia; non si può certo negare che l’MNL abbia raccolto suggestioni nazionalsocialiste. D’altro canto, l’etnonazionalismo affonda le proprie radici in quell’humus etnicistico peculiare dell’epoca a cavaliere tra ‘800 e ‘900 in ambito germanico, debitore del romanticismo Blut und Boden e delle dottrine razziste (razziste in senso originale, si capisce, razziologiche). Oggi dobbiamo, certamente, adoperarci per nuovi modi di testimoniare l’identitarismo, ma senza rinnegare quei principi perenni basati sulla triade sacrale di sangue, suolo, spirito e sull’arianesimo, inteso come recupero e riscoperta del retaggio indoeuropeo. Hitler non ha inventato nulla.

Le plumbee casacche, il saluto lombardista, la simbologia potrebbero anche evocare certi scenari novecenteschi ma in quello stentoreo Salut Lombardia! elevato ai notturni cieli insubrici dal sottoscritto e dai sodali, attorno a crepitanti falò solstiziali, vi era, e vi è, tutta la dirompente potenza del nazionalismo etnico finalizzato all’affrancamento e all’autodeterminazione della nostra vera patria. Non certo l’artificiale Italietta giacobino-massonica, o antifascista, ma la terra di Celti, Galli e Longobardi, la Lombardia.

Sizzi alle “Invasioni barbariche”

Sizzi alle “Invasioni barbariche”

Veniamo alla famosa intervista rilasciata a Le invasioni barbariche di Daria Bignardi, andata in onda il 13 aprile 2012 su La7, di cui, credo, potete trovare ancora qualche spezzone su YouTube.

Reperirete, probabilmente, anche le immancabili parodie seguite alla pubblicazione di alcuni miei datati video propagandistici, forse un po’ pittoreschi essendo vecchia scuola (quelli in primeva camicia plumbea, per capirsi), ma non mi crucciano: fanno parte del gioco, e state tranquilli che non ho fregole liberticide, a differenza della Repubblica Italiana (che fa rima con “colonia americana”).

Venni intervistato da una troupe televisiva del programma il 23 dicembre 2011; lo scenario fu attorno a casa mia e al vecchio cascinale paterno, che si trovano nel medesimo fondo denominato Gér (ossia ‘luogo ghiaioso’, perché un tempo qui ci arrivava il Brembo), nel comune di Brembate di Sopra, tra campi, boschi, vigneti, orti, pollai.

L’intervista durò tre ore buone con un fuori programma finale proprio in riva al fiume succitato, sulla cui destra orografica sorge il mio paese. Siamo nel nordest dell’Isola bergamasca, cosiddetta perché incuneata tra i fiumi Adda e Brembo, appunto.

Anche in questo caso, come nell’intervista de il Post, dissi cose contenute in questo blog, sebbene in modalità più “rozza”, e quindi è inutile ripeterle: si parlò di me, della mia storia, della mia famiglia, della mia formazione, delle mie idee, dell’allora Movimento Nazionalista Lombardo.

Sarei dovuto andare in onda il 20 gennaio 2012, durante la prima puntata delle Invasioni, su La7, ma per tutta una serie di problematiche logistiche slittai all’ultima, quella del 13 aprile, che fra le altre cose si occupava dei famigerati scandali leghisti relativi a Belsito, al “Trota” Bossi e Rosi Mauro che portarono alle dimissioni di Bossi senior e alla smania di repulisti incarnata da Maroni, il segretario della Lega Nord subentrato al genio di Cassano Magnago. Successivamente, Maroni divenne governatore della Pirellonia (la Regione Lombardia) e al suo posto venne eletto l’uomo della (finta) svolta, Matteo Salvini.

Dico “finta”, sì, perché l’italianismo di via Bellerio era in fieri e l’ex felpato del Giambellino (Salvini) si è solo limitato a prendere atto della vera natura italiana del leghismo, in senso soprattutto deteriore, sgombrando il campo da annosi equivoci frutto della propaganda secessionista.

Piccolo inciso: ma mentre la Lega andava a passeggiatrici, grazie al “cerchio magico” ausonico stretto attorno all’Umberto (e capeggiato dalla sua seconda mogliettina per metà sicula), Maroni e Salvini dov’erano? Veramente non sapevano nulla?

La puntata della trasmissione in oggetto si concentrò anche sugli umori della base padana e sulla voglia di “identità” dei “militonti” leghisti, traditi dai loro magnogreci dirigenti/digerenti, al che si inserì la mia intervista.

In studio con la Bignardi, tale Michele Serra Errante (un nome un programma), giornalista sud-italiano (ovviamente) di Repubblica che ama farsi gli affari nostri – nostri di noi lombardi – pontificando sull’italianità di cartapesta e sul padanismo con un sarcasmo piuttosto untuoso e patetico.

Tre ore di riprese condensate in pochissimi minuti, in cui il girato originale si alternava a stralci del mio video di presentazione del vecchio canale YouTube dei Lombardisti. Il filmato finale risultò così essere una “demonizzazione” del sottoscritto, con tanto di musichetta lugubre e di Hitler sbraitante in sottofondo.

C’è da stupirsi che La7 di De Benedetti abbia deciso di presentarmi così? Assolutamente no, era prevedibile e difatti decisi di affrontare il rischio, conscio comunque dell’esposizione mediatica e della pubblicità gratuita, per me e pel movimento lombardista. Valgono, insomma, gli stessi ragionamenti fatti per la precedente intervista a il Post. Bisogna osare, signori miei, altrimenti possiamo anche lasciar perdere di fare (meta)politica e di portare la nostra rivoluzionaria testimonianza, in questo mare di conformismo tricolore e, quindi, mondialista.

Le tragicomiche iniziarono quando, al termine dell’intervista taglia&cuci, la radical chic Bignardi chiese al buon compagnuccio Serra sue impressioni circa il sottoscritto. L’enotrico sputasentenze, con un’espressione tra il sorpreso e l’imbarazzato stampata in volto, si produsse allora in considerazioni banali, scontate, infantili, che qualunque attivista da cesso sociale poteva rilasciare.

Approfittando della mancanza di contraddittorio, si permise pure di fare il fenomeno, aizzato dalla claque del programma, insultando e usando turpiloquio nei miei riguardi, come se fosse un comunistello “terruncello” qualunque e non un giornalista di professione. Che poi, per carità, non pretendo troppo da chi scrive su certe testate, anche perché l’odierna qualità del giornalismo italico la conosciamo tutti…

Il tizio si lasciò andare alle seguenti esternazioni:

«bisogna essere drastici con uno come questo» – “questo” ha un nome, ma stai forse istigando?;

«uno può inventarsi le identità che vuole» – ha parlato il trombone itaglione, per dirla alla Oneto, difensore dell’italianità posticcia e dell’anti-identità mondialista;

«ogni identità su base etnica è razzista» – ecco il solito benpensante ignorante che confonde la razza con l’etnia e che reputa l’identità null’altro che un documento rilasciato dallo Stato senza nazione (peraltro, il razzismo cosa c’entra?);

«bisogna che qualcuno gli vada a dire, affettuosamente ma fermamente, che dice puttanate» – paternalismo misto a pacchiana prosopopea, da suprematismo sinistrato con tanto di trivialità ben poco “signorile”, ne abbiamo, Serra?;

«il razzismo non è un gioco» – non sono razzista, caro Michele, e chi gioca, surriscaldato dagli applausi pilotati e dalla compiacente Bignardi, sei tu vecchio mio;

«sangue e suolo producono morte, paranoia, follia» – a parte il fatto che nel video mandato in onda non parlavo di sangue e suolo – avranno mica imbeccato un sapientone come te, Michele? – vogliamo trattare di tutto il criminale degrado prodotto da oltre 75 anni di repubblica partigiana, atlantista e democristiana? Tutto produce morte, paranoia e follia comunque, se interpretato da menti malate, ma non devo certo farmi carico io dell’assistenza sociosanitaria “nazionale”;

«ha la camicia bruna, poverino anche lui» – il poverino sei tu, la camicia era grigio piombo, mettiti gli occhiali;

«il simbolo (la Croce lombardista, NdA) ricorda pateticamente il nazismo» – a parte la confusione della ruota solare, volgarmente detta “celtica”, con la croce uncinata nazionalsocialista, vogliamo dire, o Serra, quanta morte e distruzione produssero la Rivoluzione francese e i tuoi amati “liberatori” americani, assieme agli zelanti tirapiedi partigiani di ogni colore (in particolar modo i traditori rossi al soldo dei titini) o a quelli della Brigata Ebraica, che poi finirono nelle file degli aguzzini israeliani?;

«costui è una persona abbandonata perché non si è stati severi» – sono grato ai miei genitori per l’educazione ricevuta, grazie a cui sono cresciuto tradizionalista, identitario, rustico, immune ai veleni modernisti, altrimenti oggi sarei un Michele Serra qualsiasi;

«qualche adulto gli dovrebbe dire che sta dicendo cose imbecilli e pericolose, inaccettabili» – ed ecco ancora la sciocca paternale democratica di chi non ha alcun titolo per farla, come se per forza di cose il bamboccio fossi io (all’epoca ventisettenne) e non, piuttosto, i giovani reggicoda del regime antifascista fossilizzato nei liberticidi reati d’opinione e di vilipendio delle istituzioni tricolori. Cosa c’è di più infantile del seguire il sentiero battuto, acriticamente, magari indicando come soluzione l’emigrazione di massa verso la Babilonia americana o i “civili” Paesi nordici? Ma l’adulto chi sarebbe, poi? Uno come l’Errante Serra?

Il soggetto terminò sparando a zero sulla Lega Nord, dicendo che essa ha fallito il suo obiettivo che era quello di fare la Padania e i padani mentre il padanismo non è che identità di pochi imposta a molti.

Questa sua ultima affermazione mi fa ancora sorridere, a distanza di dieci anni: la Padania certamente non esiste, ma la Lombardia sì, come ben sappiamo; non c’è bisogno di inventarsi proprio nulla, in questo caso, perché i lombardi e la Lombardia sono realtà a prescindere da ogni propaganda e da ogni forzatura politica. Bisogna solo prenderne atto, senza farsi venire la schiuma alla bocca, delirando di “padanismi” imposti.

Chi, oltretutto, ha imposto qualcosa agli altri sono proprio coloro che hanno creato il baraccone ottocentesco italiano, fregando decine di milioni di persone a tutto vantaggio di una sparuta minoranza di maneggioni massonici (sul libro paga dei forestieri), quindi non fatemi venir da ridere. Non lo dico certamente per difendere i legaioli, sia chiaro, dato che si sono spensieratamente adattati alla temperie della capitale dell’Italia etnica (cioè “Roma ladrona”).

Serra e i suoi epigoni, da indefessi democratici, concepiscono l’Italia come un mero staterello senza sangue e senza suolo, aperto a cani e porci e in vendita al miglior offerente mondialista, e ci può anche stare, capiamoci, se la intendiamo come “unica famiglia dalle Alpi alla Sicilia”, appiattita sulla linea della statolatria di marca giacobina e antifascista.

La vera Italia è il territorio centromeridionale, e solo laggiù uno Stato unitario italiano potrebbe avere un senso; in caso contrario, allargando l’italianità a terre che italiche e italiane non sono mai state, non si può che ottenere la contemporanea repubblica-canaglia del tricolore, entità multietnica inevitabilmente – per coerenza cosmopolita (dunque apolide) – schierata dalla parte della globalizzazione e dei nemici della sovranità nazionale dei veri popoli storici.

Ai Michele Serra di turno parlare di identità va bene solo ed esclusivamente quando si tratta di popolazioni del terzo mondo, da strumentalizzare abilmente per gli scopi cari agli idoli della sinistra progressista occidentale: gli americani, preferibilmente in stile Obama.

Cari i miei sommi sacerdoti del giornalismo italiano, avete uno Stato ma non avete una nazione, non avete unità, non avete fraterna solidarietà perché questa repubblica è sbagliata e campata per aria, e di conseguenza fa solo il gioco del nemico. E la situazione non può essere certo sanata dalla retorica patriottarda dei Napolitano e dei Mattarella. Non posso riconoscermi nell’Italia etnica e storica, perché sono lombardo; pur avendo, per sette anni, lasciato perdere la soluzione indipendentista carezzando una forma di etnofederalismo volto alla coesione delle “Italie”, sono sempre rimasto fermo (e non solo per le inique grane giudiziarie) nel mio giudizio negativo circa lo Stato italiano, che di identitario non ha praticamente nulla (basti pensare, ad esempio, al fatto che la lingua italiana – cioè l’idioma di Firenze – non è riconosciuta come lingua ufficiale dalla “sacra” costituzione).

Il concetto contemporaneo di democrazia non è altro che una forma di sudditanza, della politica dell’arco parlamentare, in favore della plutocrazia e dell’alta finanza il cui obiettivo è annientare le radici delle genti estirpandole e bruciandole con l’infernale fuoco anti-identitario e anti-tradizionalista, che alimenta l’odio mondialista delle moderne dittature finanziocratiche basate sulla debolezza del pensiero unico. I politici? Camerieri lautamente ricompensati al servizio dei potenti e degli intoccabili.

Costoro non difendono e rappresentano, dunque, il popolo, non difendono la gente comune, non difendono il sangue (perché l’identità è sangue, altrimenti è ius soli, o ius sanguinis da strapazzo stile RI): incarnano le istituzioni, e uno stato-apparato che non ha un’ossatura identitaria e genuinamente nazionale, in quanto espressione di un’accezione di Italia del tutto fallace.

Il concetto artificiale di italianità è odioso e insopportabile, prevede una massa amorfa di cittadini che sono “italiani” sulla base di un pezzo di carta burocratico, o quando si tratta di pagare esorbitanti tasse (in cambio di servizi da sottosviluppo) e strisciare muti obbedendo al padrone internazionalista di Roma.

L’italianità può essere un concetto vivo e guizzante se applicato alla sua reale sfera etnonazionale, che è quella toscana, còrsa, mediana, siculo-ausonica, maltese, altrimenti diventa il moloc che ancor oggi ci fa scannare senza alcun vantaggio per nessuno, o meglio, per i nostri parassitari nemici.

Io non mi invento proprio nulla quando parlo di Lombardia e lombardi, perché esistono, a differenza degli italiani caricaturali “spantegati” sino alla Vetta grande-lombarda (il Klockerkarkopf), concepiti come sguaiati tifosi bardati d’azzurro, mangia-spaghetti, mammoni, servi papisti, mandolinari dai baffi neri, mafiosi o cibo per altri stereotipi americani (fondamentalmente basati sul meridione italico) e perché io non difendo il mondialismo e il suo sottoprodotto all’amatriciana, ma la natura, la verità, la libertà.

Tutte cose che fanno un male cane a quelli come Serra e colleghi che difendono Stati e non nazioni, e che gli fanno letteralmente perdere le staffe al punto di insultare, frignare e volgarizzare con termini da bar sport le sacrosante ragioni identitarie dei lombardi e di ogni vero popolo d’Europa.

L’intervista a “il Post”

Ol Pól (foto di Thomas Pololi)

Nell’estate del 2011, in piena temperie lombardista dei primordi, rilasciai un’intervista ad un giornalista indipendente, che poi la fece avere al noto quotidiano online sinistroide (e filo-americano) il Post, che la pubblicò il 12 luglio dello stesso anno. All’epoca avevo 26 anni e la fregola un po’ narcisistica di atteggiarmi a personaggio, il che può aver in parte inflazionato la bontà del  messaggio che volevo comunicare, e in cui ho sempre creduto: la fondamentale importanza, soprattutto in una temperie globalista, di difendere a tutti i costi identità e tradizione.

A quei tempi, essendo stato esponente del Movimento Nazionalista Lombardo, avevo tutto l’interesse di farmi pubblicità, sfruttando vari canali, e poco mi importava di come potevo venire raffigurato agli occhi dell’amorfa massa antifascista; del resto, il gioco di questa gente è quello di rappresentare gli identitari come pazzoidi e casi umani, è così da tempo: chi va contro la vulgata mondialista merita il pubblico ludibrio, una cosa che comunque ha anche i suoi vantaggi.

Personalmente ho sempre messo nome, cognome e faccia per diffondere ciò in cui credo, ed è quello che dovrebbe fare ogni patriota, per concretizzare la resistenza al sistema globale e globalizzante. Delle scomposte reazioni dei conformisti poco me ne cale; non mi ha mai preoccupato il giudizio altrui, pur riconoscendo di avere, in diverse occasioni, esagerato calcando la mano. Eccessivo zelo giovanile.

Naturale che gli avversari si occupino di te in maniera ferocemente critica o canzonatoria. Ma, se ti prendono in considerazione, vuol dire che, a tuo modo, fai pensare e in un certo senso fai anche paura ai benpensanti, e lo dimostra il fatto che sono stato sotto processo e condannato per ridicoli reati d’opinione (vilipendio del PdR e istigazione all’odio razziale, a mezzo blog).

La satira fa parte del gioco – sebbene il sottoscritto non sia certo un potente – e a differenza dei presidenti della Repubblica italiani non sono permaloso. A patto che non mi si diffami, ovviamente.

Le manifestazioni isteriche dei media, e del pubblico coi paraocchi in genere, sono sintomatiche dei riti apotropaici che la società buonista ancor oggi inscena per esorcizzare i fantasmi del passato, a dimostrazione che, nonostante il mare di ciarle retoriche con cui le istituzioni ci sommergono, non è affatto vero che la gente abbia sviluppato gli anticorpi necessari per combattere il “fascismo” e il “razzismo”. Di conseguenza, si ripescano tematiche di ottant’anni fa per far guardare da un’altra parte, sparigliando le carte in tavola col fine di impedire di capire dove stia il bene e dove il male.

Il sottoscritto, peraltro, tecnicamente non è né fascista né razzista, anche se fa comodo dipingermi così per, appunto, esorcizzare le proprie paure e banalizzare le tematiche scottanti che stanno a cuore ad ogni sincero nazionalista, e che solo i fessacchiotti di regime possono derubricare al rango di “deliri” di personaggi isolati e disadattati che “non trombano” (magari qualche bella meticcia sudamericana?). Curiosa l’ossessiva insistenza degli antifascisti sul “trombare” e lo “scopare”: sa tanto che ad andare in bianco siano loro…

Che dunque i perbenisti della vulgata antifascista e antirazzista continuino pure ad occuparsi ossessivamente di noi e a criminalizzarci; ci fanno solo un favore e le persone genuine e razionali valuteranno da sé dove stia la verità.

Nel luglio di una decina di anni fa, quindi, previo accordo telefonico, si presentarono a casa mia due tizi per intervistarmi e scattare qualche foto nell’agro brembatese (superiore), in cui felicemente vivo e che ha naturalmente condizionato la mia formazione. Nell’intervista, nonostante il cambio di registro e di prospettiva su alcune cose (maturando è giocoforza), dicevo ciò che potete leggere su questo blog; al netto di qualche esagerazione esibizionistica, io sono quello che emerge dall’articolo, al di là delle idee politiche: una persona rustica, schietta, genuina, vera, terragna, proba, fortemente attaccata al proprio sangue, al proprio suolo, al proprio spirito.

Signori, è ovvio: il giornalismo italiano (parlo dei media di regime) cerca di presentarti come un caso umano, lo scemo del villaggio, uno a metà strada fra un matto e un buffone, ma forse non lo sappiamo? Per questo dovremmo nasconderci e darci all’anonimato? Giammai, e ben vengano queste occasioni – a patto che non siano trappole – che permettono di esporci e di dire la nostra facendo valere le nostre ragioni. Spesso smentendo il prevenuto che ci troviamo davanti. Dipende, tuttavia, dalla serietà e dall’onestà dell’interlocutore: nei casi che vedremo nei prossimi articoli i giornalisti, se così possono chiamarsi, si sono dimostrati pessimi.

Superfluo dire, altresì, che io non sia un pazzo, un criminale e un cultore della violenza e quindi chi mi accusa di cose simili la fa fuori dal vaso, in cattiva fede, per portare avanti la sua patetica agenda di servo. C’è, infatti, la tentazione di dipingere l’etnonazionalista o il sovranista, il tizio di “estrema destra” insomma, come un pericolo pubblico, sulla scorta di qualche caso di cronaca d’oltreoceano (una realtà che nulla c’entra con l’Europa).

Ad ogni modo, l’intervistatore si mostrò gentile e ben disposto nei miei confronti, e devo dire che, nonostante qualche errore di trascrizione e qualche confusione, ha riportato fedelmente, nell’articolo, quanto ho avuto modo di dirgli all’epoca. Capiamoci: questo giornalista non era nella maniera più assoluta un mio ammiratore o un sostenitore della causa etnicista, anzi, e non era nemmeno neutro; la sua inclinazione antifascista era evidente (altrimenti dubito che il Post gli avrebbe pubblicato il pezzo).

L’intervista riguardò la mia biografia, il passaggio all’etnonazionalismo radicale come conseguenza del distacco dal cattolicesimo e dal pensiero cristiano, il Movimento Nazionalista Lombardo, la Weltanschauung sizziana e la passione per il sangue, il suolo e lo spirito, declinata anche in chiave antropologica e culturale.

Il titolo dell’articolo, “Non ho mai visto il mare”, nacque dalla mia dichiarazione di non essere mai stato in località marittime (pur avendo visitato Venezia nel 2004) e potrebbe celare qualche piccola malignità da apericena antifascista dell’autore, della serie: «Questo è un disadattato con l’apertura mentale di un talebano». In realtà, quel che volevo dire era che non ho mai vissuto il mare, e non ne sento il bisogno, essendo un lombardo coi piedi ben piantati per terra e amante di laghi, campagne, colline e montagne della mia patria. Naturalmente, il mare bagna anche la Grande Lombardia (Liguria, Romagna, Venezie) ma il suo nucleo etnico è squisitamente di terraferma.

In altre parole, alludevo alla mia idiosincrasia nei riguardi di quella mentalità italiana stereotipata incentrata su ‘o sole e ‘o mare; il mondo marittimo non fa parte della cultura e dell’esperienza padano-alpine, così come non fa parte della cultura alpina in genere. Ciò non toglie che, un domani, possa visitare le terre granlombarde o europee bagnate dai mari. Ma, di sicuro, non ho una mentalità “da spiaggia” e i miti melodrammatici e petalosi del “mare-che-apre-la-mente” e del “mare-che-unisce-i-popoli” mi provocano prurito alle mani.

La mia visione è un handicap? Direi proprio di no. Io so nuotare e non ho paura dell’acqua, ma al mare preferisco i miei fiumi, i miei laghi, le mie pozze orobiche alpine, i miei torrenti dagli antichi nomi indoeuropei. Anche questo è identitarismo.

Questa mitologia del mare, in chiave italiana, fa un po’ parte del lavaggio del cervello meridionalista operato da Roma, che prevede abbondanti dosi di pizza, spaghetti, sugo di pomodoro, esaltazione dell’olio d’oliva a scapito dei “barbari” derivati del latte e di sceneggiate napoletane assortite per farci credere tutti quanti uguali, da Bolzano a Pantelleria. L’Italia esiste, è innegabile, ma non comprende la Lombardia, che rispetto al centrosud e alle isole è un mondo a sé stante. L’appiattimento subculturale romanocentrico, attuato anche grazie agli esodi “interni” su vasta scala, ha tramutato lo Stato del tricolore in una grigia e tetra prigione di popoli disparati.

Ma il mare (inteso come Mediterraneo), notoriamente, è anche il simbolo del relativismo, dell’annientamento, dell’annullamento dell’individuo tra i flutti del nichilismo contemporaneo, e di un certo libertinaggio promiscuo ed edonista che vuole estirpare la moralità della tradizione per travolgere i popoli col conformismo, e dunque lo sprezzo o l’indifferenza per ogni vero valore degno di essere vissuto sino in fondo.

Non odio e non temo il paesaggio marino concreto, quello che riguarda le coste della stessa Grande Lombardia; stigmatizzo il “mare mentale”, null’altro che il dilagante nulla che invade la scatola cranica della moderna gioventù europea occidentale, e respingo lo stereotipo meridionaleggiante che vorrebbe tutti gli “italiani” appiattiti sul modello caricaturale del “terrone”.

Altro discorso è la sfera dei rapporti interpersonali, soprattutto col gentil sesso. Al giornalista dissi di non essere mondano, di non frequentare luoghi di divertimento di massa e di avere poche amicizie, preferendo la cultura alla “perdizione”; all’epoca (più di dieci anni fa) ammisi anche di non aver mai avuto relazioni concrete, snobbando l’idea del matrimonio in favore di un improbabile “sacerdozio laico e pagano del lombardesimo”. In questo passaggio sottolineai, in maniera fin troppo enfatica, la necessità di rieducare le masse lombarde, anche per prendere le distanze dalle fissazioni dei ventenni occidentali standardizzati.

Di acqua sotto i ponti ne è passata, da allora, e alla luce della vita vissuta e dell’esperienza maturata di sacerdozi, di qualsiasi forma, non voglio sentir parlare. Non ostenterò mai il mio privato (famigliare, sentimentale, lavorativo), coinvolgendo terzi, ma sarò ben felice di dare il mio contributo alla causa demografica, qualora ve ne siano le condizioni. Non ho mai vissuto la questione come un’ossessione.

Certo è che l’uomo qualunque di simpatie antifasciste e antirazziste, in una società ipersessualizzata e materialista fino al midollo, pensa che viaggiare in luoghi esotici, sguazzare in calde acque salate e copulare a tutti i costi sia la ricetta per non chiudersi in sé stessi e diventare “nazifasciorazzisti”; ma, forse, qualche imbecille pensa davvero che se io frequentassi assiduamente il Mediterraneo, viaggiassi in lungo e in largo e diventassi un Casanova cambierei visione del mondo? Sarei l’uomo più miserabile della terra.

Insomma, sono le solite balle dell’armamentario sinistroide o liberale di chi vuole demonizzare gli identitari perché tendono ad uscire dal coro dei pecoroni di regime. E così, magicamente, chi sostiene il pensiero forte contro la debolezza del pensiero unico diventa psicopatico, frustrato, represso (magari omosessuale!), caso umano, incel, emarginato, potenziale stragista e chi più ne ha più ne metta.

Se è l’identitario ad evadere questi diventa nemico pubblico numero uno, se invece lo fa qualche scrittore “illuminato” è un atto d’amore per la cultura (quale?), e così ogni capriccio radical chic diventa una moda da imitare.

Nella nota intervista alle Invasioni barbariche (2012), di cui parlerò successivamente, dissi di ritenermi, provocatoriamente, un «disadattato volontario». Nella misura in cui ripudio le schifezze moderniste anti-identitarie e anti-tradizionaliste, lo confermo in pieno ancor oggi: non mi sento figlio di questi tempi di… buona donna, e non mi conformo in maniera supina agli usi e costumi occidentali, che hanno ridotto gli europei a larve che vivacchiano cibandosi della spazzatura proveniente dalla pattumiera transoceanica.

Chi ha voluto occuparsi di me, al di là dei propri intenti, per certi versi mi ha fatto un favore, garantendo visibilità alle mie idee e al movimento di allora. Vorrei spronare tutti quanti la pensino come me ad uscire allo scoperto e ad unirsi alla battaglia etnonazionalista, senza vergognarsi di nulla perché chi, su questa terra, si deve vergognare e sotterrare, è l’agente internazionalista della globalizzazione, che ci vuole tutti uguali, bastardi, plagiati, imbelli, sudditi, idioti, buoni solo per rimpinzare lo spaventoso ventre senza fondo del mercato, solleticando i bassi appetiti consumistici ed edonistici dell’occidentale.

I pennivendoli vogliono raffigurarci ora come pazzi scatenati ora come fenomeni da baraccone? Facciano pure. La verità è dalla parte degli identitari e sempre, quando sorge qualcuno con idee forti, nascono trasversali alleanze di mediocri per abbatterlo. Non dico sia il mio caso, per carità, non mi ritengo un genio o un eroe (anche perché, in passato, ho posto in essere poco proficui eccessi) ma è certamente quello di uomini rivoluzionari di indubbio acume ed indubbia levatura, che nella loro vita sono stati circondati solo da nemici insipidi. E solo l’alleanza in blocco di costoro ha potuto toglierli di mezzo.

Le onde del mare globalista, mondialista, pluralista, multirazzialista, relativista e nichilista che ci vogliono travolgere ed inghiottire, si infrangono sugli scogli della natura dura e pura e della ferrea volontà socialista MA nazionalista. Ovviamente in accezione etnica: il patriottismo italiano tricolore non è coerente nemico del cosmopolitismo, essendo l’inesistente Italia dalle Alpi alla Sicilia – realtà multinazionale – sottoprodotto di una temperie culturale giacobino-massonica che teneva in non cale sangue e suolo.

Note politiche

Sizzi

La mia visione politica è solidamente ancorata al credo völkisch. Non può esistere una politica fatta di compromessi, trasformismi e ribaltoni in tale ottica proprio perché prima di darsi a quest’arte ci sarebbe l’impellente necessità di riabituare la popolazione ai sani dettami etnonazionalisti, ormai sepolti sotto metri di letame liberale e progressista.

Gli stessi soggetti (meta)politici che animavo in precedenza, a differenza della galassia pataccara leghistoide, prima di imbarcarsi in avventure elettorali e amministrative decisero, assai saggiamente, di informare, formare e catechizzare i lombardi, per farli sentire tali, per acculturarli, per svolgere tra di essi una doverosa e costruttiva attività “missionaria” che mai nessun movimento/partito s’è preso la briga di condurre, essendo tarantolato dall’ansia elettorale e dalla fame di voti, poltrone e stipendi dorati.

La visuale indipendentista, maturata nel 2006 e relegata in soffitta (per fallace realpolitik) dal 2014 fino all’estate 2021, è fondamentale e più che mai attuale, doverosa per sgombrare il campo da ogni equivoco circa l’inesistente italianità della Grande Lombardia. La mia visione politica è assai realista e concreta e prima dello strumento governativo avverte tutta la necessità di rieducare i lombardi; ma l’obiettivo finale rimane la liquidazione della Repubblica Italiana e la totale autoaffermazione della nazione grande-lombarda, anche se ora può parere utopico.

Prima, comunque sia, si fa cultura, dottrina, propaganda ideologica e identitaria – lombardista nel nostro caso – e poi, se si hanno tutte le carte in regola, si può intraprendere la carriera politica. Farlo prematuramente sarebbe un suicidio per tutte le parti coinvolte. Però è chiaro: un soggetto politico ben avviato non deve più sottrarsi alla pugna e deve scendere in campo concretamente, dandosi da fare per la nazione lombarda, altrimenti la politica rimarrà sempre tra le grinfie dei plutocrati e degli utili idioti.

Ciò nonostante ho ben chiaro che tipo di politica io voglia per la Lombardia e l’Europa e non può che essere etnonazionalista e comunitarista, del tutto aliena dalle classiche politiche bizantine, liberali o progressiste, attuali. Degne dunque della repubblica che rappresentano, dell’occupazione italiana delle Lombardie.

Una delle tipiche tare della politica mediterranea orientale, ma ormai globale, è quella del compromesso, del cavillo, dell’inciucio, del cosiddetto politicamente corretto basato sulla perversa logica del do ut des, che ha un tremendo fortore mafioso.

Oggi la politica occidentale funziona così: americani ed ebrei, dunque israeliani, hanno sempre ragione, pertanto tutto il resto – a partire dall’Europa ridotta a Ue (ossia a cagna al guinzaglio dei ricchi padroni) – deve ruotare attorno ai loro capricci; non c’è alcuna possibilità di fare politica realmente basata sui bisogni del popolo amministrato, si deve sempre e solo sottostare ai dettami che provengono da oltreoceano, filtrati dagli enti supini come, appunto, l’Unione Europea e gli stati-apparato ottocenteschi, nati per strozzare le genti europee in favore del danaro, delle logge, delle mafie e degli interessi di pochissimi a scapito di moltissimi.

Sicché, chi decide di far politica deve ingoiare tutta una serie di rospi che portano inevitabilmente al crollo del proprio partito, se radicale, ma in compenso alla poltrona sicura per il politicante maneggione di turno, che ben si adatta ai vizi dei potenti. Camerieri in giacca e cravatta lautamente stipendiati.

Io sono del tutto nemico di una squallida politica simile; da lombardista, etnonazionalista, socialista nazionale non posso che avere in ispregio il compromesso e la modernità amministrativa che gira attorno al soldo e si dimentica del popolo; proprio per questo ritengo che prima di far politica si debba fare metapolitica, militanza con le mani libere (ma col cervello nel cranio, ovviamente) volta all’educazione degli elettori di domani, che oggi non sono altro che pecoroni, o figli di pecoroni, abituati a dire sempre di sì ai capricci dei poteri forti in cambio del classico panem et circenses.

Non auspico una dittatura, ci mancherebbe, ma vorrei che il dibattito politico non fosse inficiato dal dogmatismo liberale e socialdemocratico che pone mille paletti, mille tabù, mille bavagli a proposito di delicate e scottanti tematiche d’attualità, e che si configura – quello sì – come un regime dispotico. Si parla sempre, e sempre a sproposito, di libertà, e poi si finisce puntualmente con le censure, le leggi liberticide, le denunce con condanne, il tutto semplicemente perché si rivendica la libertà di pensiero e d’espressione che dovrebbe essere uno dei valori più cari di questa corrotta società “illuminista” e democratica.

Sappiamo però bene che l’Illuminismo non sia affatto sinonimo di libertà, semmai di semi-libertà all’interno di un regime carcerario che dura dal ‘700, salvo brevi luminose parentesi. E non parliamo delle rivoluzioni borghesi (o bolsceviche): scaturite da presupposti rispettabili – sbarazzarsi, cioè, dei parassiti – non sono state altro, nella loro degenerazione, che uno strumento anti-tradizionale nelle grinfie dei soliti noti. I padri “nobili” di antifascismo e antirazzismo vanno rintracciati in questi foschi periodi di egualitarismo sanguinario.

Non c’è spazio, oggi, per gli identitari seri in questa politica fatta mercimonio, una politica infida, mafiosa, massonica, vassalla del mondialismo e dei ricchi sfondati senza alcun merito e qualità. Ma è ora che gli identitari seri si diano da fare per poter, un domani, avere seriamente voce in capitolo.

Rivendico una visione politica schiettamente etnonazionalista, che nel caso lombardo traghetti l’attuale, inventata, Regione Lombardia dallo status quo italiano di artificiale entità amministrativa senza storia a motore insubrico di un’unificazione nazionale panlombarda che si batta per la libertà da Roma e dalla baracca euro-levantina del tricolore (così come da ogni altro ente sovranazionale che tiene l’Italia per le gonadi).

L’indipendenza è la tappa finale, cui si spera di approdare dopo aver posto le basi dell’irredentismo grande-lombardo: Insubria, Piemonte (e Val d’Aosta), Emilia, Orobia, Liguria, Romagna per la Lombardia occidentale “gallo-italica”, Veneto, Rezia cisalpina (Trentino e Alto Adige, cioè il vero Tirolo), Friuli e Venezia Giulia (storica, il Quarnaro è il confine naturale) per la Lombardia orientale reto-venetica. Questo per capirci; la distinzione canonica sizziana, come sapete, è quella tra Lombardia etnica e Grande Lombardia.

C’è una bella distinzione tra indipendentismo e famigerato “handipendentismo”: il primo è la sacrosanta battaglia di una nazione per l’affrancamento da una malata e corrotta entità statuale senza storia (Lombardia ∼ Repubblica Italiana), il secondo è una pagliacciata libertaria alla leghista, o alla progressista, fondata su tragicomiche rivendicazioni pseudo-nazionali dove l’oggetto del contendere è spesso una patetica micronazione. Gli stati-apparato vanno liquidati, ma non certo per fare spazio ad un’Europa ridotta a spezzatino in stile Liechtenstein, San Marino, Lussemburgo.

L’esempio negativo della Lega Nord è emblematico, anche perché funzionale all’inflazione e alla banalizzazione di tematiche altrimenti importantissime. A cosa sono serviti trent’anni di servaggio repubblicano (spesso governativo), nonostante una marea di proclami smargiassi prima autonomisti, poi federalisti, poi secessionisti, e ritorno? Dopo la farsa elettorale padanista, infatti, ecco di nuovo il federalismo, poi la devolution (termine molto padano, devo dire) e il federalismo solidale (?), tutto questo finalmente negato da una patetica svolta italianista dettata dal più becero opportunismo poltronaro. A che sono serviti, dicevamo? A nulla, se non a ridicolizzare l’istanza identitaria doverosamente indipendentista. Il leghismo, oltretutto, è sempre stato un fenomeno libertario, ora pitturato di rosso ora di nero a seconda della convenienza politica, del tutto avulso dall’etnonazionalismo (dunque dal razionale culto di sangue, suolo, spirito).

I furbastri verdoni (già, il verde, pacchiana trovata mercatistica) hanno però ottenuto – alle spalle dei cosiddetti “militonti” e dell’elettorato boccalone – poltrone, incarichi, ministeri, stipendi dorati, lauti vitalizi, ricche prebende, agevolazioni danarose d’ogni genere, scandalose immunità e la missione, per loro, è più che compiuta. Da qualche anno, per sopravvivere, colmano il vuoto lasciato dalla dipartita di Alleanza Nazionale nella destra italiana, anche se devono fare i conti col postfascismo meloniano, che è il vero erede di Almirante e Fini. Che triste epilogo, il “carroccio”…

Salvini ha definitivamente sgombrato il campo dagli equivoci padanisti della Lega, ma la situazione fu da subito evidente a tutti coloro che avevano un minimo di sale in zucca: la degenerazione italiana fu cagione dello stesso Bossi, uno che non disdegnava di circondarsi di “terroni” assorbendone il malcostume. Quelli con la cravatta verde – un po’ come oggi i pentastellati – dovevano conciare Roma per le feste rivoluzionandola, ma è stato l’esatto contrario: l’icastica immagine di un Umberto invalido, ingozzato di rigatoni dagli italici Alemanno e Polverini, è il ritratto perfetto della Lega Nord.

La scomparsa del leghismo vecchia scuola è un bene, perché non è mai stato nulla di genuinamente lombardista, anti-italiano, indipendentista. A livello locale, sicuramente, la Lega può anche aver avuto qualche merito, e alcuni personaggi vicini ad essa non sono stati degli imbecilli (penso a Gilberto Oneto). Oggi non esistono più partiti di peso che si occupino – anche se in maniera approssimativa e cialtronesca – dell’autodeterminazione grande-lombarda; ma, come dicevo sopra, prima occorre informare, rieducare, formare i popoli lombardi tramite l’acculturazione e la presa di coscienza della propria genuina identità, altrimenti è tutto inutile.

Esistono diversi soggetti politici padano-alpini che si occupano, senza la benché minima base ideologica e culturale, di fumosa indipendenza (per questioni meramente economiche, si capisce); sono gli orfani della Lega bossiana, fondamentalmente, che animano patacche e liste-civetta finalizzate ad ottenere qualche poltrona e nulla più. Oppure sono associazioni un po’ più serie, ma velleitarie, che ricalcano alcune realtà straniere per accreditarsi agli occhi dell’europeismo di Bruxelles, eleggendo a proprio campo d’azione regioni inventate dall’odiata Roma. L’indipendentismo privo di solido retroterra culturale (lombardista, nello specifico) è inutile e non farà altro che ricalcare gli errori “padani”, impelagandosi senza via d’uscita nelle solite faccende finanziarie.

Per carità, lasciamo perdere i replicanti leghisti e battiamoci, invece, per una vera e propria rivoluzione culturale etnonazionalista, che sia l’anticamera di una futura azione politica genuinamente indipendentista, non più fondata su finte nazioni, regioni artificiali, macroregioni di comodo ma sull’unica nazione dei popoli cisalpini, che è la Lombardia. E, naturalmente, giustificata non, o perlomeno non solo, da banali pretese pecuniarie (per quanto importanti) ma da ragioni etniche, culturali, linguistiche, geografiche, ambientali, antropologiche, storiche, civili, spirituali, folcloriche e così via.

Abbiamo tremendamente bisogno, anzitutto, di cultura militante, e poi, se tutto va per il verso giusto, di politica militante dura e pura che tenga in non cale la modernità e si batta con ogni mezzo per i diritti sacrosanti della Lombardia indipendente e di un’Europa confederale, imprigionate in gabbie amministrative e sovranazionali antistoriche che le opprimono in maniera inaccettabile.

Valori sacri come il sangue, il suolo, lo spirito (inteso come identità e tradizione) non possono essere negoziati, perché non si può negoziare sulla libertà e sulla vita degli europei. È una questione di civiltà, una civiltà ormai da troppo tempo violentata dal regime antifascista che tiranneggia il continente, soprattutto ad occidente, riannodandosi all’infame mentalità contemporanea che è il frutto del 1789.

La politica deve finalmente essere radicale, rinnovata da una salutare palingenesi, perentoria, e deve attingere da forze fresche che sappiano conciliare a meraviglia la formazione spirituale con quella fisica, partendo dal presupposto che si debba avere le carte in regola anche da un punto di vista etno-razziale. Altrimenti tanto vale rimanersene a casa a poltrire in pantofole, piuttosto che fare danni su danni che, naturalmente, si ripercuotono sul popolo e non sui politicanti di turno.

Servono uomini, servono lombardi, non polentoni, “italiani del nord” o “padani” (intesi in accezione legaiola). Vogliamo davvero farla finita con il perverso sistema-Italia (e il mendace concetto di nazione italiana) e il nefando sistema-mondo? Benissimo, dimostriamolo rivoluzionando la politica stessa sennò, davvero, la si smetta di bestemmiare il nome lombardo e si vada ad ingrassare le file dei partiti italiani di destra-centro-sinistra, tutti uniti nel leccare e riverire i padroni, essendo emanazione della rivoluzione borghese partita dalla Francia (altra finta nazione, sebbene non ai livelli demenziali dell’Italia).

Pertanto, prima si crei la base mediante cultura e attiva militanza metapolitica, mediante dottrina etnonazionalista, e poi e solo poi, se tutto va per il verso giusto, si scenda in politica come se si scendesse in battaglia, perché mentre si va al mercato delle vacche la gente ci rimette ogni giorno di più, schiacciata com’è da immigrati, regimi antifascisti e mondialisti, squali, rossi annacquati, preti degeneri, tasse, riforme suicide, reati d’opinione e via dicendo.

Prima lombardi, poi politici, non il contrario, altrimenti è davvero la pietra tombale dell’autodeterminazione etnica. Allo stesso modo, prima l’etnonazionalismo, poi le politiche economiche, sennò sembra che ogni scelta partitica debba venire dettata dal soldo e dal materialismo consumistico: la Lombardia non è la Regione Lombardia, la si smetta di confondere colpevolmente le due cose, come se l’unica cosa che contasse per davvero fosse il fatturato.

La vita è guerra, signori; traccheggiare in giacca e cravatta è solo opportunismo auto-genocida e credo sia davvero il caso che la Lombardia riveda il suo pantheon ideale: dall’eroe imprenditoriale, all’eroe patriottico, in senso lombardista, ovviamente.

Bergamo e il Covid-19: una disamina

Il bipartito rosso-dorato bergomense garrisce sul baluardo di San Giacomo (Bergamo alta).

Nel febbraio del 2020, poco prima che sulla Regione Lombardia e (soprattutto) sulla provincia di Bergamo si abbattesse la catastrofe del coronavirus, novella peste di manzoniana memoria [1], ricordo come, sul “Cinguettatore”, venni attaccato in massa per un tweet in cui esaltavo – non senza sapida ironia – le qualità cranio-facciali donatemi dalla natura. Come sapete, sono un grande appassionato di antropologia fisica e non perdo mai occasione di parlarne, anche in toni scanzonati, per divulgare le mie conoscenze in materia. Tra i caporioni che guidarono l’assalto al sottoscritto persino il virologo Burioni e il comico Bizzarri, evidentemente urtati dal termine ‘razza’ da me impiegato, sebbene persino un giornale insospettabile come Repubblica ne affermasse la bontà [2].

Era il 16 febbraio e la cosa andò avanti per giorni, mentre il 21 del mese si registrò il primo focolaio “italiano” di Covid, nel Lodigiano, e il giorno seguente i primi decessi [3]. Il virus irruppe prepotentemente sulla scena regionale lombarda e nel mese successivo fu chiaro come il moncone centrale della Lombardia storica fosse finito nell’occhio del ciclone. Il coronavirus imperversò con particolare furia nel territorio bergamasco, specialmente nei centri seriani di Alzano Lombardo e Nembro, tristemente noti per l’altissimo numero di dipartite e per la mancata istituzione della “zona rossa”, la quale travolse la città di Bergamo – poco distante dai due paesi – con conseguenze esiziali. Si è peraltro individuato un parallelo proprio tra la peste del 1630 e la diffusione del contemporaneo morbo nel Bergamasco, notando come le aree più colpite fossero precisamente quelle poste all’imbocco della Val Seriana [4].

Chiunque, cercando in rete, può documentarsi su quei terribili giorni di fine inverno 2020 [5], e d’altronde il martellamento mediatico, complici le misure del confinamento, fu alquanto intenso. Devo dire di non essermi mai occupato della faccenda, sul vecchio blog, per quanto proprio la mia terra fosse assurta all’onore delle cronache e rimbalzassero da un capo all’altro d’Europa, e forse del mondo, le immagini dei famigerati convogli militari italiani che trasportavano in altre città della Grande Lombardia le salme dei defunti bergamaschi, facendo fronte al collasso del forno crematorio cittadino. Allo stesso modo, prima ancora, divennero virali i filmati e le foto delle chiese stipate di bare, le pagine e pagine di necrologi de L’Eco di Bergamo e i reparti del Papa Giovanni XXIII in sofferenza, così come dell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano, che fu al centro della bufera per tutta una serie di sfortune, ritardi e sottovalutazioni del pericolo [6]. Inevitabilmente un nosocomio diviene centro propulsore del contagio.

Non intendo addentrarmi in delicate questioni (tra cui il ruolo delle istituzioni tricolori e degli industriali) che non competono certo a questa sede [7], anche perché chi vuole può documentarsi ampiamente su tutte le vicende riguardanti la prima ondata del Covid a Bergamo e in Lombardia compulsando internet; qui, piuttosto, vorrei interrogarmi sul perché tale epidemia abbia fatto scempio particolarmente nella terra orobica, al di là dell’inevitabile disorientamento di fronte ad una piaga sino ad allora sconosciuta e chissà come sbarcata nelle Lombardie. Ci ricordiamo tutti delle mirabolanti trovate di esponenti democratici che volevano combattere il “virus” del razzismo e della sinofobia incitando ad abbracciare cinesi, strafogarsi di involtini primavera nei loro ristoranti e correre, correre, correre, come esortava a fare la Confindustria bergamasca [8], riproponendo l’analogo cancelletto del sindaco meneghino “Milano-non-si-ferma”. Lo stesso primo cittadino progressista di Bergamo, Giorgio Gori, fece mea culpa per aver preso sottogamba la situazione iniziale, incoraggiando i bergamaschi a vivere la vita di tutti i giorni [9]. Gli aperitivi piddini di Zingaretti aprirono la sagra in grande stile.

Certo, nessuno s’aspettava che l’oscuro morbo della remota Wuhan potesse insinuarsi tra le pieghe del quotidiano lombardo, addirittura dilagando nell’industriosa Val Seriana per poi prostrare il capoluogo orobico, ma ormai tra globalizzazione, viaggi intercontinentali, capitalismo sfrenato, vita frenetica, intensi scambi e contatti sociali su più fronti e dabbenaggine xenofila (pensate, col senno di poi, a quanto strombazzarono la necessità di non discriminare i cinesi tacciandoli di venefiche unzioni, accusa successivamente rivolta con disinvoltura ai lombardi) bisogna mettere in conto il rischio del diffondersi di moderne pestilenze di provenienza esotica. Un po’ di sano isolazionismo non farebbe di certo male. Qualche genio locale (antifascista e leghista) [10] ha avuto la brillante idea di appellare Bergamo la “Wuhan d’Italia”; a parte che l’Italia sta al di sotto dell’Appennino tosco-lombardo, mi chiedo a che pro etichettare in questo modo la propria città, pur riconoscendo la plumbea cappa che gravava sull’Orobia in quei drammatici giorni.

Innegabile, infatti, che la Bergamasca sia stata tra le aree più colpite dal Covid-19 in Europa (ricordo, comunque, che anche Brescia, Crema, Cremona, Lodi e Piacenza furono piuttosto piagate), e infatti in questo articolo mi chiedo perché il virus abbia così falcidiato i bergamaschi (ovviamente di una certa età), ma proprio per tale ragione essa merita un minimo di rispetto, senza indugiare troppo nel sensazionalismo giornalistico. Persino il New York Times si è occupato a più riprese del caso bergamasco, e il presidente del comitato sanitario di Nuova York – un certo Levine – arrivò a dire che qui da noi si raccoglievano i morti per strada, un’idiozia ripresa dall’ausonico De Luca [11]. A certa gente non sembrava vero di poter dileggiare in libertà gli odiati “polentoni”, già bollati come pellagrosi. Finché si tratta di umorismo nero si può soprassedere – a patto che si soprassieda anche sulle amenità nei riguardi degli intoccabili – ma se si esonda nelle diffamazioni verso un intero popolo la situazione cambia.

Al di là di impreparazione e sottovalutazione di fronte ad una minaccia inedita (che secondo taluni circolava in Lombardia già da dicembre 2019), ritardi, errori, sfortuna, casualità e responsabilità di Italia e Pirellonia (non da ultime le sparate dem all’insegna dell'”abbraccia-un-cinese”, mentre i governatori leghisti invocavano restrizioni da e verso la Cina), tra le concause che portarono al dilagare del coronavirus nel territorio di Bergamo si potrebbero indicare le seguenti:

  1. L’anzianità della provincia bergamasca (e la penetrazione del virus negli ospizi, con conseguenze disastrose);
  2. La nota partita di Lega dei Campioni tra Atalanta e Valenza, disputata a Milano, con la presenza di 45.000 tifosi bergamaschi a contatto con quelli iberici (e anche Catalogna e Spagna soffrirono parecchio per il contagio), sorta di detonatore biologico che accelerò drammaticamente il diffondersi del Covid;
  3. La capillare rete bergamasca fatta di relazioni, attività, imprese, operosità, contatti tra paesi circonvicini, in particolare di quelli della bassa e media Val Seriana, che da sempre rappresenta un popoloso ganglio industriale della provincia (a differenza della più “chiusa” Val Brembana o Imagna);
  4. La critica qualità dell’aria padana tra smog, inquinamento, particolato, polveri sottili, fatto che non può che indebolire l’apparato respiratorio, magari già compromesso da un passato da fumatori e da malattie pregresse (la maggioranza delle vittime erano uomini di una certa età dalla salute valetudinaria);
  5. Il tasso di globalizzazione – frutto di commerci e immigrazione – del cuore lombardo, una terra orgogliosa delle proprie radici ma al contempo aperta, con ricadute tragiche, al sistema-mondo e alle sue storture. Lo stesso ateneo cittadino promuove a piene mani l’internazionalizzazione;
  6. La genetica, che potrebbe anche aver protetto l’Italia etnica, segnatamente meridionale [12], a riprova delle differenze etniche tra Lombardie e Ausonia.

Proprio quest’ultimo punto (messo in luce, dopo l’ecatombe, anche da uno studio condotto dall’Istituto Mario Negri di Giuseppe Remuzzi [13]) destò da subito (nel marzo 2020) la mia curiosità, confortata da alcuni lavori trovati in rete [14]; se il Mario Negri indica nell’eredità neandertaliana – effettivamente più marcata nella Cisalpina che in Italia, e nel Nord Europa piuttosto che nel bacino mediterraneo [15] – una possibile predisposizione all’infezione da coronavirus, con un alto tasso di mortalità, ciò che attirò la mia attenzione fu il picco “italiano” dell’aplogruppo Y R1b, soprattutto del subclade R-S116 (da cui l’U152), che contraddistingue decisamente la provincia di Bergamo [16].

Tale lignaggio paterno (assente nelle donne, e infatti i più soggetti al Covid paiono essere proprio gli uomini) è riconducibile alle antiche popolazioni indoeuropee occidentali, soprattutto ai Celti/Galli, e per l’appunto le diverse ricerche reperite sottolineano l’altissima incidenza del contagio in aree europee a forte caratterizzazione etnica celtica – tra cui la stessa Bergamo – come Fiandre e Olanda (ma mettiamoci pure la celtibera Castiglia). Sembrerebbe, insomma, che la diffusione e la letalità del morbo abbiano avuto un tragico incastro con la linea genetica maschile, determinata dalla cospicua eredità gallica che proprio nel Bergamasco (ma anche nella Lombardia etnica in generale) vede la sua acme. L’impatto del coronavirus fu drammatico pure nelle aree contermini, come già ricordato, in particolare a Brescia.

Uno studio [17] di un ricercatore, tal Sebastiano Schillaci, riprese un mio cinguettio del 31 marzo 2020 in cui segnalavo – indipendentemente dalle osservazioni di altri – la possibile correlazione tra R1b e incidenza del virus; la mia riflessione era riferita alla situazione di Bergamo e di Brescia, in cui si registrano i picchi di R-U152, fors’anche a livello europeo, suggerendo un possibile legame tra lascito paterno celtico e suscettibilità/mortalità delle infezioni da Covid-19. Il tweet, con la chiusura del mio vecchio profilo, non è più visibile perciò riporto due ritagli di schermata relativi allo studio in oggetto:

Schillaci 1
Schillaci 2

Un’ultima considerazione riguarda il possibile statuto di isolato genetico, e dunque di accentuata omogeneità, rappresentato dalla Bergamasca, come si osserva in questo studio relativo ai geni responsabili della predisposizione a sviluppare il tumore al seno; anche se riguarda le donne le conclusioni possono tranquillamente essere estese a tutta la popolazione che, come avrò modo di illustrare venendo a trattare di genetica delle popolazioni, presenta un aspetto particolarmente conservativo, frutto anche della “chiusura” di una provincia prevalentemente montuosa che ha preservato più di altre l’aspetto mesolitico-neolitico, pur avendo una forte caratterizzazione maschile celtica [18]. Con tutta probabilità l’eredità celto-germanica – che biologicamente non è preponderante in Padania – si è concentrata all’imbocco delle valli, in città, nel contado e nella pianura, dove fra l’altro vi è capillare testimonianza di una toponomastica “nordica”. Valli e monti rimasero per lo più appannaggio di popolazioni reto-liguri, anche se il lignaggio paterno resta nella maggioranza dei casi di matrice gallica [19].

Pare che in seguito alla devastazione della prima ondata, e all’alto tasso di infettività, le genti bergamasche abbiano sviluppato, subito dopo, una sorta di immunità di gregge che le hanno avvantaggiate rispetto ad altre zone alle prese con la seconda ondata. Il bilancio di marzo-aprile 2020 resta comunque tragico, come si può leggere ad esempio qui o qui, o in questo articolo che traccia delle statistiche in idioma d’Albione. La tempesta che si è scatenata sull’Orobia in quel fosco periodo di due anni fa ha mietuto una generazione di bergamaschi depositari degli immortali valori identitari e tradizionali, nonché della sacralità del focolare domestico e della famiglia. La loro stessa morte, lontano dagli affetti e senza nemmeno un funerale, culminata in svariati casi in un viaggio fuori provincia per la cremazione, a bordo di lugubri mezzi dell’esercito italiano, fu un pugno nello stomaco per migliaia di famiglie orobiche, che legittimamente oggi chiedono chiarezza e giustizia alle istituzioni del tricolore. La lezione che se ne ricava? La necessità di preservare la sacralità della vita umana, e della salute della collettività, dai miti del profitto, del vivere-per-lavorare a tutti i costi, del dio pallone, della globalizzazione e dell’apertura mentale, dell’industrializzazione selvaggia, e di rompere quel rigido schema mentale tipicamente lombardo del laùra, übidìs, paga e fà sito che alla lunga è la tomba della nostra autoaffermazione.

Note

[1] Manzoni, nel suo romanzo, attinge informazioni circa la pestilenza in Lombardia anche dall’opera di Lorenzo Ghirardelli Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630, pubblicato nel 1681 dopo la morte dell’autore.
[2] Vedi qui.
[3] Per un resoconto delle vicende relative al contagio nella Repubblica Italiana si veda la voce Wikipedia.
[4] Ne parla il Corriere Bergamo qui.
[5] Si veda a titolo d’esempio questo articolo de Il Post.
[6] Sempre Il Post ne parla qui. La testata, mi rendo conto, ha un ben preciso orientamento ma questi scritti possono essere utili per ricostruire la cronologia degli eventi.
[7] Come saprete è stata istituita una commissione d’inchiesta per i fatti di Alzano, Nembro e Bergamo. Probabilmente l’indagine verrà archiviata.
[8] https://www.confindustriabergamo.it/aree-di-interesse/certificazioni-e-conformita/news?id=34774
[9] https://notizie.virgilio.it/coronavirus-covid-bergamo-sindaco-gori-ho-sbagliato-sottovalutare-mea-culpa-regione-lombardia-1391220
[10] https://www.repubblica.it/politica/2021/01/07/news/coronavirus_bergamo_wuhan_d_italia_lega-281511612/ – In realtà fu Berizzi a utilizzare per primo l’infelice epiteto (in un articolo del 10 marzo 2020).
[11] https://primabergamo.it/cronaca/in-lombardia-cerano-i-morti-per-strada-non-in-ospedale-daniele-belotti-querela-vincenzo-de-luca/
[12] https://tg24.sky.it/salute-e-benessere/2020/07/24/coronavirus-scudo-genetico-sud-italia
[13] https://www.bergamonews.it/2021/07/19/covid-perche-bergamo-e-stata-cosi-colpita-possibile-predisposizione-genetica/454106/
[14] Cito qui il primo rintracciato, ma ve ne sono altri.
[15] https://www.scienzainrete.it/articolo/ritratto-genetico-degli-italiani/alessandro-raveane-serena-aneli-francesco-montinaro
[16] Grugni et al. 2018. Le stime qui riportate ci dicono che l’R1b orobico, nelle valli, ammonta all’80,8%.
[17] https://osf.io/gvxjw
[18] Sembra che i Celti, anche nella Cisalpina, oltre che guerrieri fossero particolarmente prolifici. Vedi qui.
[19] https://www.eupedia.com/europe/Haplogroup_R1b_Y-DNA.shtml#S28-U152

Alcune noterelle sul cognome Sizzi

Blasone dei Sizzo de Noris

Sizzi è un raro [1] cognome bergamasco peculiare della Val di Scalve (tributaria orobica della Val Camonica), le cui origini sembrano però da attribuire al paese di Gandino, in Val Seriana, come ramo della famiglia Rudelli [2]. Secondo alcuni studiosi di araldica (Passerini [3], Tettoni-Saladini [4]) il casato sarebbe di origine toscana, Firenze per la precisione, ma la connessione non è documentata. Il cognome Sizzi (con la forma primigenia, unica, Sizi) è presente, scarsamente, tra il capoluogo toscano e Prato ma a tutta evidenza è un ceppo indipendente da quello bergamasco.

Sizzi potrebbe essere il frutto di un patronimico derivato da una versione ipocoristica di nomi germanici in *sig- (‘vittoria’) [5] che, come in tedesco, o meglio, in antico alto-tedesco, esprime l’ipocorismo, sulla base di leggi fonetiche, mediante la particella -zz- [6]; nella fattispecie, il nome abbreviato è Sizzo, che può essere confrontato con altri vezzeggiativi medievali di origine teutonica quali Frizzo, Azzo, Sigizzo, Uzzo, Wizzo, Gozo e via dicendo, testimoniati da fonti documentarie della Germania meridionale; fra i nomi tedeschi contemporanei vengono in mente Heinz, Fritz, Götz ecc. [7]. Diversi cognomi padani e toscani, frutto della forte impronta culturale – soprattutto longobarda – lasciata dalle élite germaniche, possono essere ricondotti al fenomeno in oggetto: citiamo Frizzi, Albizzi, Opizzi, Oppizzi, Obizzi, Azzi a mo’ d’esempio.

Sizzo è dunque riconducibile a Sighard o Sigfrid, tanto che, come si diceva, si trova anche oltralpe, sparso per la Germania centromeridionale, segnatamente in Turingia dove c’è un Sizzo capostipite della medievale casata di Schwarzburg, ed un principe ottocentesco del medesimo casato, anch’egli chiamato Sizzo [8]. Interessante notare come sia in Germania che in Toscana [9] Sizzo (o Sizo) proceda da Sigizo, ipocoristico già segnalato nelle note.

I Sizzi toscani, di stirpe notabile, sono probabilmente derivati dai Sizi (da Sizo/Sizio, altro vezzeggiativo germanico come abbiamo visto), ed erano una tra le prime famiglie storiche fiorentine, originaria di Fiesole e dunque del contado, imparentata coi Medici, proprietaria di torri e chiese, ricca di consoli e di parte guelfa (vedi segnatamente la testimonianza di Luigi Passerini indicata nelle note, reperibile su Google Libri).

Dante Alighieri cita i Sizi pure nella Commedia, per bocca dell’avo Cacciaguida, come una, per l’appunto, delle famiglie più antiche e illustri della prima cerchia di Firenze, grazie alle origini e al loro impegno consolare:

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
alle curule Sizii e Arrigucci.

(Paradiso XVI, 106-108)

Il blasone dei Sizi è «losangato di rosso e d’oro» [10] e quello dei Sizzi fiorentini «d’argento, alla banda alata di rosso» [11]. Il primo è visionabile qui, mentre del secondo non ho trovato traccia. L’argento (e prima ancora il bianco), comunque, era tradizionale colore guelfo; rosso ed oro sono, invece, classici colori nobiliari.

Secondo lo storico Lorenz Böninger vi fu, sul finire del ‘300, un’immigrazione di artigiani tedeschi nella città di Firenze tra cui dei “Sizzi” assimilati al tessuto etnoculturale e sociale della città toscana. Nel suo testo [12] egli dedica un capitolo apposito al successo professionale e all’integrazione di tre famiglie ritenute, appunto, di origine teutonica: Riccardi, Sizzi e Frizzi. Se questa tesi è concreta il cognome “Sizzi” sarà una toscanizzazione del casato originale (visto che i Sizi/Sizzi fiorentini esistevano già nel XII secolo). Potrebbe essere la riprova di un antroponimo germanico alla base della cognominazione ma, sicuramente, non vi è alcun legame tra il ceppo bergamasco e questi immigrati d’oltralpe.

Non si può escludere, comunque, che il mio cognome possa essere derivato, forse più verosimilmente (nonostante la radicata moda onomastica medievale di gusto germanico), dal nomen latino Sittius, (vedi la gens romana Sittia), il cui oscuro etimo potrebbe venir accostato a qualche significato connesso alla siccità, all’aridità, alla sete e dunque in senso lato alla brama [13]. Fra l’altro, i toponimi Siziano (Pavia) e Sizzano (Novara) credo siano da ricondurre al gentilizio latino in oggetto (anche alla luce della classica desinenza prediale latina -anus). Inoltre, per il Bergamasco, un atto del 1184 relativo alla località di Isola di Fondra (Val Brembana) ci tramanda il nome di un certo Sizio, evidentemente radicato anche nel nostro territorio [14].

In toscano esiste, curiosamente, il termine sizio [15], che indica un lavoro sedentario (vedi tedesco Sitz ‘seggio’), oppure un lavoro penoso (rifacendosi, in questo caso, all’espressione evangelica del Cristo in croce «Sitio» ossia «Ho sete»). Un’altra voce toscana interessante è sizza [16], “soffio di tramontana”, dal latino sidus ‘freddo’. Ma queste ultime voci si confanno, chiaramente, ai Sizzi gigliati; nel caso bergamasco, il mio, il casato Sizzi deve il suo nome sicuramente ad un patronimico, germanico o latino che sia.

Stando alle testimonianze incrociate di Passerini, Tettoni-Saladini e dell’Archivio di Stato di Firenze (interpellato anni orsono), il capostipite dei Sizzi fiorentini fu un certo Sizzo, della famiglia dei Sizi (le cui radici affondano almeno nel XII secolo), console di Firenze nel 1201. Quello bergamasco, come detto più sopra, era un membro della casata dei Rudelli, separatosi nel basso Medioevo. Si veda l’opera di Tullio Panizza citata nelle note. Rudelli è un tipico [17] cognome bergamasco, che suppongo derivato dal gentilizio romano Rutilius il cui significato va rintracciato letteralmente nel colore rosso o biondo scuro della capigliatura [18].

Dopo la battaglia di Montaperti del 1260, in cui i ghibellini senesi sconfissero i guelfi fiorentini, pare che alcuni Sizzi gigliati, stando alla testimonianza di Passerini e Tettoni-Saladini, ma anche di Roberto Ciabani [19], prendessero la via dell’esilio trapiantandosi altrove (persino in Francia) dandosi alla mercatura. Non ci sono comunque documenti che attestino la presenza di questi esuli toscani nel Bergamasco. Il fatto che il mio cognome sia presente a Bergamo e a Firenze – sebbene in ceppi distinti e indipendenti – può essere, qualora sia di etimo germanico, attestazione del prestigio goduto dai Longobardi tanto in Lombardia quanto in Toscana, e infatti diversi cognomi presenti nella prima ritornano nella seconda (forse pure per fenomeni migratori lombardi medievali [20]).

Ho notato che vi sono dei Sizzi anche a Taranto ma, documentandomi in passato, grazie alla testimonianza di alcuni di loro ho scoperto che non sono dei Sizzi reali (bergamaschi o fiorentini) bensì Ziz giuliani (di Pola) italianizzati durante il fascismo e trasferitisi in Salento nel secondo dopoguerra. Il loro cognome originario dovrebbe essere un etnico riferito alla Cicceria, regione storica del Carso terra degli istroromeni [21].

Dall’orobica Valgandino i Sizzi, derivati dai Rutellis de Noris (Rudelli e Noris sono ancor oggi cognomi squisitamente bergamaschi), si spostarono, sul finire del ‘300, a Brescia (ramo estinto) e a Trento – venendo ascritti alla nobiltà imperiale come Sizzo de Noris – dove tuttora risiede un conte discendente del vescovo-principe di Trento Cristoforo Sizzo de Noris. Le vicende dei Sizzo trentini sono state ricostruite, come ricordato supra, dall’araldista tridentino Tullio Panizza, nelle opere citate in calce all’articolo.

Non ho notizie di legami del mio ceppo famigliare paterno con questa aristocratica prosapia; come è noto chi, oggi, porta un cognome “illustre” lo ha ereditato biologicamente, con tutta probabilità, da coloni più che dai nobili medesimi. Ricordo solamente che in famiglia circolava una diceria di un prozio sacerdote (don Ariele Sizzi) relativa ad una lontana origine austro-ungarica, sicuramente motivata dai Sizzo de Noris di Trento (che però sono, appunto, originari del Bergamasco).

Ad ogni modo, io discendo dai Sizzi rimasti in Val Seriana, che poi verso l’800 si trasferirono in Val di Scalve, a Vilminore, e non so dire, come accennato, se questi fossero nobili spiantati o valligiani un tempo al servizio dei Sizzi patrizi. I Sizzi seriani sono documentati come una delle famiglie laniere del territorio di Gandino, parliamo del XVI secolo [22]. Bisognerebbe condurre serie e approfondite ricerche d’archivio per saperne di più. Comunque sia la provenienza etno-geografica è fuor di dubbio. Panizza riporta anche le oscillazioni grafiche del cognome Sizzo de Noris: Sicci, de Siciis, Sitius, Sitz, Siz, Sizo, Sizzi, Sizza.

In apertura ho inserito il blasone dei nobili trentini, riportato da Tettoni-Saladini e così descritto: «ancora di nero a 2 marre su scudetto di argento su – aquila di nero su oro – barca con albero e bandiera bifida svolazzante a destra recante 2 bambini nudi che si danno la mano tutto di argento su mare fluttuoso di azzurro su azzurro». Direi che l’aquila nera su sfondo dorato è un chiaro tributo al Sacro Romano Impero.

Per concludere la vicenda dei Sizzi bergamaschi diremo che, una volta estintosi il ramo gandinese, alcuni degli scalvini – divenuti artigiani – presero la via del Milanese e della pianura bergamasca; tra quest’ultimi mio nonno, divallato alla volta di Brembate di Sopra (pochi giorni prima del disastro della diga del Gleno, 1 dicembre 1923, a quanto sembra) dopo aver sposato una donna di Azzone, sempre in Val di Scalve. Impiantatisi a Brembate, i Sizzi si dedicarono, oltre al mestiere di artigiani, alla coltivazione e all’allevamento e, ovviamente, proliferarono. La mia famiglia nasce dunque dall’incontro fra le Orobie e l’Isola bergamasca.

Infine, una curiosità genetica di cui avrò modo di riparlare: come già dissi in passato, il mio lignaggio paterno (determinato dall’aplogruppo Y R1b-U152 (scoperto con il test di 23andMe) clade Z36 (celtico di La Tène [23][24], appurato grazie ad YSEQ) è diffusissimo nella Lombardia etnica (il bacino del Po) segnatamente orientale dove registra il suo picco “italiano” [25]. Anche questo depone a favore di un’origine indigena dei Sizzi bergamaschi, per quanto, da umanista, vedere un’omonimia nei Sizii fiorentini citati da Dante nell’acme paradisiaca del suo capolavoro letterario abbia indubbiamente un certo fascino [26].

Note

[1] Vedi Gens Labo e Cognomix.
[2] Le notizie circostanziate sui Sizzi bergamaschi e i Sizzo de Noris sono tratte da Tullio Panizza, Famiglie nobili trentine d’origine bergamasca. In: Bergomum – A. 8 (1933) e Tullio Panizza, Secondo contributo alla storia di famiglie nobili della Venezia Tridentina di origine bergamasca. In: Bergomum – A. 9 (1934).
[3] Luigi Passerini, Memorie storiche intorno alla famiglia fiorentina dei Sizzi, Milano, 1855.
[4] Leone Tettoni, Francesco Saladini, Teatro araldico ovvero raccolta generale delle armi e delle insegne gentilizie delle più illustri e nobili casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, Milano, 1847.
[5] Vedi Cognomix.
[6] Si vedano queste fonti reperite su Google Libri, dove si suggerisce che il vezzeggiativo Sizzo derivi da Sigizo, a sua volta diminutivo di Sigfrid.
[7] ibidem 
[8] Sizzonen
[9] Cfr. questa ricerca su Google Libri.
[10] Ceramelli Papiani 
[11] ibidem
[12] Die deutsche Einwanderung nach Florenz im Spätmittelalter, Leida, 2006, opera citata dal primo volume de La mobilità sociale nel Medioevo italiano, di Lorenzo Tanzini e Sergio Tognetti (Viella, 2016), presente su Google Libri.
[13] Dizionario Latino Olivetti
[14] Cenni storici
[15] Dizionario Etimologico Online
[16] ibidem
[17] Gens Labo
[18] Rutilio
[19] Le famiglie di Firenze, Bonechi, 1992. Tra i Sizzi toscani val la pena ricordare Francesco, astronomo fiorentino avversario di Galileo.
[20] Leonardo Rombai, Geografia storica dell’Italia, Le Monnier, 2002, p. 189.
[21] Nota di Marino Bonifacio di Trieste sulla Rivista Italiana di Onomastica, anno XXV (2019).
[22] Museo della Basilica di Gandino
[23] Eupedia
[24] «The Z36 sub-clade has also been associated with Celtic populations; as it occurs in moderately high frequencies, approximately 30-40%, in Italy including, Liguria and Lombardy, France, southwestern Germany (specifically Baden-Württemberg), and western Switzerland» Tratto da Mallory J. Anctil, Ancient Celts: A reconsideration of Celtic Identity through dental nonmetric trait analysis, 2020, consultabile qui.
[25] «Northwestern Italy has a very high percentage of haplogroup R1b (around 70 %) with the highest proportions in the area of Bergamo […]. In this pre-alpine region […] the percentage of individuals with haplogroup R1b-U152 is around 50 % […]. This local present day hotspot for haplogroup R1b-U152 fits quite well the ancient habitats of Celtic cultures» Tratto da questo studio di Martin Zieger e Silvia Utz, che cita quello di Grugni et al. 2018 in cui, per la Bergamasca, si danno le seguenti stime di R-U152: 46,2 per le valli e 53,2 per la pianura. Globalmente, R1b raggiunge l’80,8% nelle valli orobiche (il 70,9% in pianura).
[26] Ricordiamo, per completezza, che l’aplogruppo R-U152 è ben rappresentato anche in Toscana dove, tuttavia, è più probabile una sua filiazione villanoviana (vedi il collegamento ad Eupedia citato alla nota 23). In Lunigiana (che tecnicamente non è Toscana, bensì crocevia tra Liguria ed Emilia) sarà invece, più probabilmente, segnale ligure apuano, come suggerito da questo studio di Bertoncini et al. 2012. U152 è, genericamente, ritenuto una mutazione legata a genti protostoriche centroeuropee che irradiarono, pure verso sud, culture che potremmo definire italo-celtiche. In tale novero rientrano Celti, Liguri, Italici e Veneti, anche nella loro fase embrionale.

Paolo Sizzi, una biografia

Il Sizzi

Paolo Sizzi nasce venerdì 5 ottobre 1984, alle 10:25, presso la clinica di Ponte San Pietro (Bergamo). Terzo di tre figli, appartiene ad una famiglia bergamasca dalla notte dei tempi e di estrazione rustica che lo cresce secondo i dettami cattolici e tradizionalisti. Il ramo paterno è originario della Val di Scalve, mentre quello materno è nativo dell’Isola, ossia di quel territorio incuneato tra i fiumi Adda ad ovest e Brembo ad est. La coscienza e l’orgoglio identitari, derivanti da un fortissimo senso di appartenenza, non abbandoneranno mai il giovane orobico, segnando indelebilmente il suo percorso ideologico-politico e portandolo ad una adesione entusiastica al pensiero etnonazionalista.

Seppur residente a Brembate di Sopra, a mo’ di segno del destino, Sizzi frequenta l’asilo di Cerchiera, frazione di Pontida, a poca distanza da quell’abbazia che secondo la tradizione fu sede del celebre giuramento, atto fondativo della Lega Lombarda (7 aprile 1167). Questo offre il destro per ribadire, ancora una volta, come la vera Lombardia sia l’intero settentrione della Repubblica Italiana, e non soltanto l’artificiale regione del Pirellone; la Lombardia è la Padania medievale, grazie a cui potevano dirsi lombardi tanto a Vercelli quanto a Ferrara (Dante insegna) e tanto a Bergamo quanto a Treviso. Del resto, ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’ non vogliono dire nulla, e il Triveneto (concetto risorgimentale), prima dell’espansione del veneziano, parlava lombardo, come testimoniano ladino e friulano che gli sono affini.

Nel paese dell’Isola suddetto, Brembate di Sopra, Sizzi cresce e frequenta le vecchie scuole elementari e medie, rimanendo nell’ambito di parrocchia e oratorio, da cui del resto si distaccherà alla soglia dei 25 anni. L’educazione impartita dalla famiglia all’Orobico è rigorosamente cattolica osservante, ma assieme a ciò trova spazio una vigorosa presa di coscienza identitaria che lo ancora solidamente al territorio bergamasco e lombardo concretizzandosi, ad esempio, nell’uso quotidiano dell’idioma di Bergamo, pressoché unica lingua impiegata in ambito famigliare, con orgoglio. È suggestivo che Brembate Superiore si trovi a metà strada fra Sotto il Monte – paese natale del Roncalli – e la già citata Pontida, quasi a rimanervi doppiamente influenzato; d’altra parte, il giovanissimo Paolo matura negli anni ruggenti del leghismo secessionista.

Dopo le medie inferiori, nel 1998, ecco le superiori in Bergamo, grafica pubblicitaria presso un istituto professionale. L’impatto con la realtà cittadina rappresenta per il rustico virgulto brembatese un’esperienza spiazzante; Sizzi deve misurarsi con un ambiente caratterizzato da pluralismo (tanto etnico – significativa presenza di italiani etnici e qualche gettone allogeno – quanto ideologico) e dall’inevitabile strascico frutto di un relativismo ormai imperante presso la gioventù occidentale: blasfemia, libertinaggio, immoralità, crisi valoriale, progressismo, deviazioni assortite, uso e abuso adolescenziale di bacco e tabacco (e non solo), deliri da centro sociale, occupazioni/autogestioni e via di questo passo. Superfluo dire che questi 5 anni acuiranno il temperamento reazionario del Nostro, portandolo ad un’idiosincrasia per tutto quello che puzza di sinistra mondialista e libertarismo.

Ottenuta la maturità nel 2003, Sizzi consegue un attestato post-diploma in e-commerce, per perfezionare le conoscenze multimediali. Ma la vera svolta, assieme alle prime esperienze lavorative, è data dall’iscrizione alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bergamo, coronando la propria passione umanistica, sopitasi negli anni precedenti a vantaggio della vena grafica e artistica. Paolo si laureerà nel 2014 in Lettere, e nel 2017 diverrà dottore magistrale in Culture moderne comparate. Il periodo universitario coincide con la scoperta dell’etnonazionalismo, risalente al 2006; una rivoluzione ideologica e culturale nel mondo dottrinale dell’Orobico, principio della personale saga lombardista. Cerchiamo di ripercorrerne le tappe salienti.

Nel 2006, come detto, Sizzi si avvicina all’etnonazionalismo, grazie alle opere di Federico Prati divulgate sulla rete da un forum völkisch della vecchia Politica On Line; parimenti, il Nostro comincia ad appassionarsi all’antropologia fisica – dunque alla craniologia – e alla genetica delle popolazioni, scoprendo gli scritti antropologici di alcuni autori fondamentali quali Coon, Biasutti, Sergi, Günther, von Eickstedt, Lundman, Deniker, Hooton, Angel, Baker e altri, e seguendo i vari studi in materia di genetica via via pubblicati anche su internet, a partire dalla fondamentale opera di Cavalli-Sforza e dei suoi collaboratori. La biologia e la razziologia ricoprono un ruolo basilare nel pensiero sizziano, perché se l’identitarismo non è etnoantropologico si riduce a flatus vocis, soprattutto alla luce della situazione “italiana” (cioè di un quadro pseudonazionale, data la sua estrema diversità).

Nel medesimo anno Paolo scopre il Fronte Indipendentista Lombardia, soggetto nato da fuoriusciti leghisti in polemica con Bossi, e comincia ad interessarsi alla questione nazionale lombarda nella sua reale estensione etno-storica; l’etnonazionalismo lo distacca pian piano dalla sfera reazionaria e cattolica, in favore di una dimensione più intimamente legata alle origini e alle radici (anche spirituali) cisalpine. Due anni più tardi si tessera per il FIL entrando in contatto con diversi indipendentisti lombardi, fra cui il compianto Simone Riva. Sino al 2010 collaborerà con quest’ultimi al progetto di un coerente e radicale movimento lombardista che – con loro – non verrà mai alla luce. In compenso Sizzi conosce Adalbert Roncari, con cui stringe un sodalizio che porterà alla fondazione del Movimento Nazionalista Lombardo (2011) e di Grande Lombardia (2013).

Nel 2009 il Nostro getta le basi del lombardesimo mediante la creazione di alcuni blog. Il lombardesimo è l’etnonazionalismo lombardo, ovviamente indipendentista, che rappresenta il fecondo incontro fra il filone völkisch e l’identitarismo cisalpino; inizialmente esso incarna anche una durissima polemica contro il cristianesimo, dopo che Sizzi decide di abbandonare la fede cattolica per sposare una linea culturalmente paganeggiante e spiritualmente nativista, senza comunque aderire ad alcun credo specifico. Sono, infatti, gli anni dell’etno-razionalismo, un connubio che conduce il Bergamasco ad una visuale tendenzialmente atea ma rispettosa dei culti tradizionali europei. Sempre nel 2009 Sizzi diviene membro del senato accademico di Bergamo per la facoltà di Scienze umanistiche (Lettere), esperienza che lo espone all’inquisizione progressista con conseguenti denunce per i caustici contenuti dei suoi blog. Da questa vicenda matura il noto infortunio giudiziario per reati d’opinione: offese al PdR e istigazione alla discriminazione razziale.

Come ricordato, la fondazione del primo soggetto lombardista, l’MNL, risale al 2011, e il campo d’azione era rappresentato dalla Lombardia etnica, cioè il territorio nazionale lombardo racchiuso dal bacino del Padus (Insubria, Orobia, Emilia fino al Panaro, Piemonte); successivamente, nel 2013, il Movimento confluisce in Grande Lombardia e apre all’intero panorama storico lombardo, ossia alla Padania nella sua globalità. La riflessione sizziana, tuttavia, non si fermerà qui, e nell’aprile 2014 Paolo decide la svolta: esce da GL e coniuga l’istanza etnicistica con l’idea di un federalismo italico, per cercare di non buttare il bambino assieme all’acqua sporca. Questa sorta di etnonazionalismo patriottardo, in senso antico-romano ma per nulla statuale/repubblicano, si prefigge il recupero della nobiltà dell’ideale panitaliano, senza comunque rinnegare il prima lombardista ma adeguandolo alla nuova bisogna. Per un settennio la linea di Sizzi sarà, dunque, etnofederale, italico-romana, lombardista epperò sposata ad un italianismo che si voleva animato da un sacrale afflato ispirato alla terra di Saturno.

Ciononostante, questa esperienza, caratterizzata anche da diversi anni di collaborazione con il consorzio di EreticaMente, sarà destinata ad esaurirsi nell’estate del 2021, sia per un rinnovato fervore lombardista di Paolo, desideroso di radicalità, sia per le riflessioni maturate alla luce dei più recenti studi di genetica delle popolazioni, che sottolineano non solo l’eterogeneità italiana (unica nel continente) ma pure il dato esotico, antico e recente, che contraddistingue l’Italia vera e propria, cioè la penisola e la Sicilia. Cosicché, per ragioni di coerenza, serietà e maturità, Sizzi abbandona l’italianismo, ancorché etnofederale, e riabbraccia la causa lombardista tornando sulle primigenie posizioni etnonazionaliste in chiave panlombarda. Il blog da cui si scrive nasce da tale riscoperta delle origini, conseguenza della chiusura del vecchio Il Sizzi, e questa volta non si tornerà più indietro. Unica sensibile differenza, rispetto agli albori del 2009, sta nella cessata ostilità nei riguardi del cristianesimo cattolico (tradizionalista), per cercare una convergenza tra lo spirito pagano e quello romano-cristiano d’Europa.

Attualmente Paolo Sizzi non fa parte di alcun movimento o associazione, ma rimane idealmente vicino alle posizioni di MNL e GL, soggetti da lui fondati. Indipendentemente dalla militanza, la testimonianza sizziana continua all’insegna del lombardesimo dei primordi, insistendo soprattutto sulla bontà del panlombardismo etnico; va da sé, comunque, che anche i restanti territori cisalpini siano parte integrante della propria idea di Lombardia, essendo storicamente ancorati alla dimensione padano-alpina e, dunque, granlombarda. Non avrebbe senso, infatti, lasciare Liguria, Romagne, Venezie, Friuli, Trentino e Tirolo meridionale al proprio destino: devono anch’essi partecipare al consesso lombardo, sebbene non rientrino nell’ambito propriamente etnico. Da notare che la divulgazione delle idee sizziane è stata agevolata da alcune interviste (televisive e radiofoniche) e da qualche polemica sulle reti sociali animata persino da noti tromboni liberal; il regime cerca in ogni modo di mettere in cattiva luce chi esce dal coro di belanti pecoroni antifascisti, ma così facendo gli regala visibilità e pubblicità. Ecco il perché del mio espormi con nome, cognome e faccia, nonostante tutto e tutti.

Oggi, assieme al lavoro, Sizzi porta avanti il proprio impegno, soprattutto culturale, per rendere giustizia all’identità etnica e storica lombarda, dopo essersi assestato sulle posizioni etnonazionaliste primigenie. Egli auspica l’autoaffermazione delle genti lombarde tutte, e di conseguenza un’Europa delle (vere) nazioni affrancate da ogni giogo statolatrico (e sovranazionale) insensibile ai richiami di sangue, suolo e spirito. La cultura è fondamentale, per riscoprire sé stessi, e l’Orobico vuole insistere per l’appunto sulla bontà della battaglia identitaria, che viene prima di quella politica. Non si esclude, in futuro, una nuova sfida lombardista in chiave associazionistica, ma per il momento ciò che importa è non perdere di vista la basilare dottrina völkisch, declinandola in senso etnoantropologico e spirituale; la tenzone culturale va portata avanti giorno dopo giorno, in nome dei valori più alti e nobili che animano uomini e donne desiderosi di vera identità, dunque di vera libertà.

SL!

Aggiornamento

Nella primavera del 2024 ho recuperato appieno il purismo lombardista dei primordi, riabbracciando l’etno-razionalismo e, di conseguenza, la critica caustica nei confronti del monoteismo desertico del “libro”, cristianesimo incluso, e della metafisica (specie universalista e apolide). L’etnonazionalismo razionale è la cifra filosofica del lombardesimo militante ed era necessario – sebbene a livello pragmatico possa avere un senso tentare una conciliazione tra radici gentili e cattoliche, in nome del tradizionalismo – ristabilire in toto la prisca verità in camicia plumbea. Il brembatese (superiore), cioè io, è fondamentalmente disinteressato alla religione dal 2009, ateo ma rispettoso nei confronti del solare ethos indoeuropeo, e se il popolo granlombardo avesse davvero bisogno di un culto ecco la soluzione della Chiesa nazionale ambrosiana, trasmutata in gentile (preromana, gallo-romana, etena) e subordinata all’etnostato cisalpino.

Inoltre, il 23 dicembre 2024 è nata ufficialmente a Bergamo l’associazione politico-culturale Nazione Lombarda, di cui sono padre fondatore e presidente. Alfine, il Movimento Nazionalista Lombardo e Grande Lombardia, parimenti creati dal sottoscritto, hanno il loro naturale erede, che è l’approdo, il coronamento e la piena e totale realizzazione delle istanze etniciste e nazionaliste care ai veri patrioti cisalpini, che si riconoscono cioè nel quadro comunitario della Lombardia storica. NL è il movimento dei lombardi, volto alla difesa, al recupero e all’affrancamento dell’identità della nostra vera patria, che non è Italia e che per tale motivo merita la libertà, dopo 4.000 anni di storia e di gloria. Un’associazione politica che si occupa di politica (non in senso elettorale) ma che fa della cultura militante un irrinunciabile baluardo: senza dottrina lombardista e divulgazione culturale e razziologica diverrebbe impossibile risollevare dalla polvere il nostro sopito popolo, il quale può trovare in Nazione Lombarda anche la propria naturale guida in chiave metapolitica.