Lombardia comunale

Croce di San Giorgio

Nell’XI secolo, dunque, con il termine ‘Lombardia’ si era soliti indicare buona parte dell’attuale nord della Repubblica Italiana, ad esclusione di poche aree: Regione Lombardia (con la Svizzera “italiana”), Emilia, Piemonte, Liguria, Verona, Trento e il Veneto continentale ricadevano nel suddetto concetto.

La Romagna, con Bologna e Ferrara, passò alla Chiesa; nel Triveneto, assieme alla Marca di Verona, andò affermandosi la Repubblica di Venezia; nel Tirolo storico si affacciarono genti baiuvariche. La Marca veronese venne poi sostituita dal Patriarcato di Aquileia, dal Principato vescovile di Trento e dalle varie signorie venete.

La Toscana, terra di cui i Longobardi si innamorarono e che assieme alla Padania rientrava nella Langobardia Maior, divenne invece Marca di Tuscia, e poi Margraviato di Toscana.

La Lombardia medievale rinsaldò la natura di anello di congiunzione tra mondo mediterraneo ed Europa centrale; chi doveva recarsi a sud delle Alpi, all’epoca, parlava di ‘Lombardia’, nonostante il Regno d’Italia, che era comunque un’entità inconsistente dal nome che si rifaceva retoricamente ai fasti romani.

‘Lombardia’, come etnico della nostra nazione, è preferibile a ‘Padania’, perché il secondo è un termine meramente geografico, al di là della politica, che può giusto indicare il bacino idrografico del Po, senza accezione etnoculturale.

Tornando a noi, nel 1097 si ha notizia certa a Milano dell’esistenza di un consulatus civium, prima espressione istituzionale del comune milanese, avviato a rivendicare la prerogativa di governo della città.

Il libero comune, fenomeno che prese piede nella Cisalpina e in Toscana, nacque per svincolare le città cisalpine e toscane dal controllo, a volte oppressivo, del potere imperiale, soprattutto in materia di esazioni; poté affermarsi, comunque, perché l’Impero latitava, ma si faceva sentire quando si trattava di riscuotere. Il feudalesimo, in ambito subalpino, attecchì poco e questo permise ai cittadini benestanti, borghesi diremmo oggi, di coagularsi attorno al potere vescovile, che supplì al vuoto lasciato dal potere laico sia reale (Regno Italico medievale) sia imperiale (Sacro Romano Impero). Il grosso dei signorotti longobardi, insediati nei loro castelli del contado, era dalla parte dell’imperatore.

Facile capire come, in un’epoca in cui infuriava la lotta per le investiture tra Papato e Impero, venissero a crearsi due opposte fazioni, guelfi e ghibellini, dove i primi oltre a sostenere le autonomie comunali parteggiavano per il papa.

Col tempo, il comune si svincolò però anche dal potere politico esercitato dal vescovo, nonostante che fosse proprio questi a legittimarlo.

Nel periodo 1110-1126, istituzioni comunali volte, per l’appunto, a sostituire il potere politico dei vescovi, si affermarono a Como, Cremona, Bergamo, Brescia e Mantova.

In breve tempo, nel XII secolo, il libero comune medievale divenne la predominante forma politica lombarda, fenomeno originale e originario proprio della nostra terra, e poi esteso al resto dell’Europa occidentale. Fu espressione della mentalità borghese, mercantile, artigiana, laica, cittadina dei lombardi, desiderosi di affrancarsi dal feudalesimo, per quanto debole, e dalle usurpazioni dei castellani di stirpe germanica delle campagne.

In realtà, l’incastellamento del contado portava anche benefici, visto che in un’epoca come quella medievale la protezione del signore locale faceva un po’ comodo a tutti.

Il comune era però espressione dei borghesi e dei loro interessi, non certo dei popolani.

Questa istituzione, nonostante che fosse cresciuta all’ombra dei vescovi e parteggiasse più per il papa che per l’imperatore, era mirata a difendere il tornaconto delle classi agiate, e non tanto i privilegi della Chiesa. La retorica moderna ha certamente esagerato le implicazioni ideologiche dello scontro fra guelfi e ghibellini, e fra comuni e Impero. La questione che teneva davvero banco era economica, e il cielo sa quanto sia cara in Lombardia (vedi la Lombard Street di Londra, la via dei banchieri, appunto, cisalpini [1]), una terra dominata dalla laboriosa, ma spesso anche gretta, mentalità alpina.

Le etichette ‘guelfo’ e ‘ghibellino’ (come la maggior parte delle etichette di comodo) non indicavano il bigotto e l’anticristo (bigotti, diremmo oggi, erano entrambi gli schieramenti) ma, per usare terminologie moderne, gli “autonomisti” e i “centralisti”, laddove i primi volevano, più che autodeterminazione, autonomia economica (essendo ceto mercantile, prevalentemente) e i secondi volevano rimanere fedeli all’imperatore in tutto (essendo per lo più ceto nobiliare). Naturalmente sorsero anche nobili guelfi, spesso però dalla mercatura, e non dal campo di battaglia, come i nobili guerrieri e proprietari terrieri di origine germanica.

I liberi comuni, tutto sommato, non mettevano in dubbio l’autorità dell’imperatore in Padania.

Nel 1155, Federico I Hohenstaufen detto “Barbarossa”, certamente uno dei più grandi, venne incoronato re d’Italia a Pavia, essendo tale titolo associato a quello di sacro romano imperatore.

I malumori lombardi crebbero perché il Barbarossa rivendicava pretese su tutta l'”Italia”, bramando un impero che fosse davvero europeo e che assorbisse tutta la penisola, sotto il suo diretto controllo. Un’idea che a suo dire poteva essere nobile, molto romana, ma perseguita male e lasciandosi andare troppo spesso alla violenza, calando a sud delle Alpi per castigare duramente chi si ribellava.

Egli si inserì nella politica cisalpina approfittando delle diatribe tra Milano e i comuni vicini, vessati dal capoluogo lombardo in espansione, prendendo le parti dei secondi, di Lodi soprattutto (da lui rifondata dopo che Milano la distrusse), e usando queste lotte come pretesto per intervenire cercando di assicurarsi così il dominio della Val Padana.

Le vessazioni, i taglieggiamenti, le prepotenze e le sanguinarie ritorsioni contro i milanesi, che videro a loro volta la propria città rasa al suolo, e contro coloro che non volevano piegare il capo di fronte all’esosa autorità imperiale crescevano, e anche il papa, Alessandro III (colui a cui fu dedicata la città piemontese di Alessandria) ne approfittò schierandosi dalla parte dei comuni ribelli. L’ingerenza clericale si è spesso rivelata fatale, nelle vicende nostrane, ma certamente ha ritardato l’innaturale processo di unificazione.

Cosicché, secondo la tradizione, il 7 aprile 1167 si giunse al fatidico giuramento nell’abbazia benedettina di Pontida, nel Bergamasco, dove Milano, Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia siglarono il patto della Concordia, che sancì la nascita della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda.

È stato fatto largo uso e abuso retorico di Pontida, come di Legnano, prima in chiave risorgimentale, poi in chiave leghista; il problema è che, nei fatti, si combatté il Barbarossa, e poi il nipote Federico II, in nome degli interessi economici e politici dei comuni, che nemmeno volevano staccarsi dall’Impero, ma semplicemente avere autonomia. Certo, la Lega Lombarda, già a partire dal nome, fu comunque espressione dei nostri territori, ed è quindi lecito ricordarla con orgoglio identitario.

Legnano ostacolò l’unificazione, ritardandola, anche se permise al papa di ficcare sempre più il naso negli affari delle città lombarde. D’altra parte, Federico I inseguì un ideale imperiale “universale” cioè di respiro europeo, ma lo fece in maniera troppo arrogante, prepotente e sanguinaria, inimicandosi la Padania.

Riprendendo il resoconto, nel giro di poco alla Lega aderirono la maggior parte delle principali città lombarde tra cui Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Reggio, Vercelli, Alessandria, Asti, Como, Novara, Pavia, Tortona, Varese e Vimercate.

I granlombardi occidentali ottennero l’appoggio della Lega Veronese (Verona, Padova, Treviso e Vicenza), che confluì nella Lega Lombarda, di Venezia, Genova, Torino, Ferrara, Bologna e Faenza e, come sappiamo, di Roma, che cavalcò a suo favore la questione, soffiando sul fuoco dell’anti-ghibellinismo.

La Lega si strinse attorno ai suoi simboli, e questo certamente è suggestivo: la croce rossa in campo bianco, di San Giorgio, stemma di Milano e bandiera storica di Lombardia (qualcuno dice mutuata da Genova ma più probabilmente dai blasoni dei primi vescovi milanesi), divenuta poi emblema di molte importanti città padane solidali con Milano, città odiatissima dal Barbarossa, come Mantova, Lecco, Vercelli, Ivrea, Alba, Alessandria, Reggio, Bologna, Padova, opposta all’imperiale Croce di San Giovanni Battista che ne è il negativo e che forse deriva dalla rossa Blutfahne, la bandiera da guerra dell’esercito imperiale; la croce di Ariberto da Intimiano; il carroccio, ideato nel 1033, pare dallo stesso vescovo milanese ribelle, che era in sostanza una sottospecie di carro da guerra, possente ed ingombrante, trainato da buoi, in cui stavano in bella mostra le insegne dei combattenti della propria fazione, e in cui il comandante assisteva alle operazioni belliche, e dove i preti celebravano i sacri uffici per accattivarsi i favori del Cristo e rincuorare i guerrieri durante la battaglia.

La Croce di San Giovanni è stemma di altre città “settentrionali”, come Cuneo, Asti, Novara, Pavia, Fidenza, Lugano, Como, Vicenza, Treviso, ma anche del Piemonte, del Monferrato, di località valtellinesi e ticinesi.

Il 29 maggio 1176 Lega e imperiali si scontrarono a Legnano, nell’Alto Milanese: le milizie lombarde, il cui nerbo era rappresentato dalla fanteria comunale, sicuramente non capitanate dall’immaginario Alberto da Giussano [2], sconfiggono l’esercito del Barbarossa, con la sua cavalleria pesante, che si vide costretto a riconoscere, tramite la pace di Costanza del 1183, diritti e autonomie comunali.

Per noi lombardisti, il 29 maggio è la festa della Lombardia etnica, anche se preferiamo non esagerarne l’esaltazione, ricordando comunque il 5 di settembre (1395), data di nascita del Ducato di Milano, ente ghibellino fedele all’Impero e territorialmente esteso in buona parte della Lombardia. La battaglia di Legnano rimane, ad ogni modo, profondamente affascinante, ed è giusto celebrarla ancor oggi, al netto della propaganda italianista e legaiola.

Tramontato il sogno imperiale del Barbarossa, i comuni lombardi, nati non per sentimento patriottico ma per spirito “liberale” (come diremmo oggi), per quanto certamente frutto della civiltà padana di cui siamo depositari, ripresero a scannarsi e a darsele di santa ragione, come del resto avevano fatto anche prima di Pontida e Legnano. E questo è il limite dell’epopea comunale, che fece leva sugli orgogli cittadini, più che su di un sentimento patriottico lombardo, anche se l’idea di patria è qualcosa di affatto moderno, romantico.

E come i litigiosi comuni, fecero poi le signorie, che invece di fare fronte comune per unire il Paese – la Lombardia, ovviamente – arrivarono a tirarsi in casa lo straniero per farsi la guerra, col risultato che questi se ne approfittò e finì per diventare, infine, il padrone delle terre lombarde per lungo, lungo tempo.

Note

[1] E questo perché, come dicevamo, i padani erano chiamati lombardi anche all’estero. Si pensi, ad esempio, ai banchieri piacentini e astigiani, o alle colonie gallo-italiche di Sicilia e Lucania.

[2] Secondo gli storici, tale ruolo è da attribuire a Guido da Landriano.

Lombardia germanica

L'”Italia” di Alboino

Eravamo rimasti a Odoacre.

Questo sciro re degli Eruli nel 476 divenne re d’Italia, fino al 493 quando, asserragliato a Ravenna, fu deposto e ucciso da Teodorico, re degli Ostrogoti.

Il regno romano-barbarico che ci interessa più da vicino è dunque quello dei Goti di Teodorico che durò più o meno dal 489 al 553.

Nel 489 egli invase la Pianura Padana e nel giro di 4 anni se ne impossessò scacciando Odoacre a Ravenna dove, capitolando nel 493, fu poi ucciso dal re goto durante un banchetto.

I Goti, Ostrogoti in questo caso, erano un popolo germanico originario della Svezia meridionale che verso il finire dell’Impero diedero moltissimo filo da torcere all’agonizzante Roma, anche per tutta una serie di batoste inflitte all’esercito romano.

Prima di giungere in Lombardia, erano stanziati nel settore orientale del Mar Nero, mentre in quello occidentale vi erano i Visigoti; pressati dalla minaccia unna che infuriava sul limes, sbaragliando i Romani si spostarono verso occidente sinché invasero l’Italia romana stabilendosi, più che altro, nel settore settentrionale e centrale.

Centri cruciali Pavia, Milano, Verona, Ravenna.

A Pavia Teodorico aveva il suo palazzo imperiale nonostante che la capitale fosse la romagnola Ravenna (dove fu poi tumulato).

I Goti erano di religione ariana, seguaci dell’eresia cristiana di Ario, ma una volta stanziati in Italia non diedero troppe rogne alla popolazione cattolica, al clero romano, o alla classe senatoria romana, che preservava ancora, in taluni casi, gli antichi culti pagani.

Il Regno ostrogoto non fu esperienza negativa, e col tempo risollevò la Lombardia sconquassata dal crollo romano, rinsanguando superficialmente la sua popolazione.

I guerrieri germanici comandavano e amministravano, combattendo, mentre i Latini badavano al diritto, all’arte, alla religione, alla cultura. Questa formula si rivelò vincente perché da una parte difese il territorio col valore dei combattenti goti, e dall’altra la mantenne a galla culturalmente evitando che sprofondasse del tutto nella barbarie. Un fatto che, ovviamente, non vale per il grosso del popolo, si capisce. Il crollo dell’Impero e l’inizio del Medioevo [1] furono vissuti drammaticamente dall’Europa romana e in particolar modo dall’Italia [2].

Si calcola che circa 250.000 individui [3] tra Ostrogoti e altri Germani (Rugi e Gepidi) calarono nella Pianura Padana agli ordini di Teodorico, provenienti dai Balcani; il loro impatto sulla popolazione autoctona fu del tutto contenuto, e i Longobardi influirono molto più di essi sull’Italia romana, specialmente su Padania e Toscana.

L’Italia gotica, però, aveva due problemi: Bisanzio e Roma.

I primi, in perenne combutta coi preti romani, intrigarono coi loro ruffiani d’Occidente per danneggiare in ogni modo gli Ostrogoti, tanto che nel 535 si arrivò alla famosa Guerra greco-gotica, culminata nel 553 con la vittoria di Bisanzio.

Lo scontro fra il mondo latino, cattolico, mediterraneo, e anche bizantino, e quello germanico, ariano, continentale, “barbarico” come ci si ostina ancor oggi a chiamarlo nonostante che i moderni migranti siano, invece, etichettati a guisa di “risorse” e “ricchezza” (i Goti, almeno, erano integralmente europei), sfociò in questa sanguinosissima guerra che vide soccombere soprattutto il popolo, sopraffatto da carestie, pestilenze, epidemie, e scorribande da ambo i lati.

La guerra impegnò celebri comandanti goti come Teodato, Vitige, Totila, Teia ma fu vinta dal valore di Belisario e dalla levantina scaltrezza dell’eunuco Narsete.

A dar man forte ai Goti vi furono anche Franchi e Alemanni.

Non per darsi al nordicismo, ma c’è da dire che Teodorico diede vita ad un regno comunque buono, per i tempi, e pian piano aiutò l’Italia ad uscire dalla crisi, per quanto la presenza gota fosse per lo più dislocata al di qua del Po, per motivi militari e strategici. Alla Roma senatoria e papalina questo non stava bene e fu il primo episodio di tutta una serie di ingerenze religiose negli affari di stato, che condussero a sud delle Alpi truppe straniere (e oggi allogeni).

La capitolazione degli Ostrogoti portò molti di essi ad emigrare, ma una minima parte rimase, nonostante l’intera Italia cadesse nelle mani di Giustiniano e dei Bizantini. E si diedero alla resistenza.

La Guerra greco-gotica fu un immane disastro per la popolazione, come ricordato, grandemente falcidiata soprattutto al “nord” dai mille flagelli che la guerra e la crisi recano seco.

Chiesa e Costantinopoli, deserto e Levante, parevano i vincitori, ma non durò a lungo.

Nel 568 un fiero e valoroso popolo nordico si affacciò sulla Carnia, provenendo dalla Pannonia, attuale Ungheria: i Longobardi, guidati dal loro re Alboino.

Tra il 569 e il 572 si impossessarono del grosso della Cisalpina e della Toscana, sbaragliando i fiacchi Bizantini e ricacciandoli da dove erano venuti, oppure costringendoli in sacche costiere come le Venezie e la Romagna (oltre naturalmente alla Roma del papa).

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, ma tale etnonimo le fu dato indirettamente dai Bizantini, che chiamavano Langobardia i territori soggetti ai Germani in questione, quindi la Padania, la Toscana, e chiaramente i successivi ducati di Spoleto e Benevento (Langobardia Minor).

Tuttavia, il nome ‘Lombardia’ divenne appannaggio del settentrione, grazie alla forte impronta lasciata dagli antichi Vinnili, e per questo è il miglior termine per indicare la nostra nazione.

I Longobardi conquistarono la parte continentale e la penisola, ma a noi interessa il fulcro del loro dominio ossia la Pianura Padana, la Lombardia storica.

Questi bellicosissimi Germani erano anch’essi originari della Scandinavia, della Scania pare, e in seguito a diverse peripezie attraversarono l’Europa centrale giungendo prima in Pannonia, via attuale Austria, poi appunto in Val Padana, dove, divenendo del tutto stanziali, portarono a termine la loro epopea.

In 150.000 al massimo [4], il 2 aprile 568, varcarono il Passo del Predil (o il Matajur) per dilagare nella pianura occupando saldamente quasi tutto il “nord”, ma è chiaro che i Longobardi di stirpe non fossero esattamente 150.000: al loro seguito, infatti, 20.000 Sassoni e altri fra Gepidi, Rugi, Svevi, Bavari, Alemanni, Bulgari.

La nobiltà longobarda, e il fulcro etnico del popolo conquistatore, erano razzialmente nordidi o cromagnonoidi, ariani di fede assieme al pagano culto di Godan-Odino. Tra di essi anche elementi fenotipicamente indogermanici come i Corded Nordid e i Battle-Axe. La presenza dell’aplogruppo protoindoeuropeo R1a1a nelle terre subalpine è da attribuirsi agli invasori germanici, oppure all’influsso slavo nel settore orientale estremo della Grande Lombardia.

Di certo i Vinnili incrementarono il nordicismo della Val Padana, soprattutto, e dell’Italia etnica peninsulare (Toscana, Umbria, Sannio), impattando più dei Goti e di altri Germani. Studi genetici recenti calcolano che l’apporto biologico nordeuropeo alla Lombardia storica ammonti ad un 20%. Avremo modo di riparlarne, a proposito del calcolatore Eurogenes Global25, grazie a cui alcuni sodali lombardisti hanno messo a punto interessanti modelli, indicativi del profilo antropogenetico della Padania. Anticipiamo, comunque, che le aree più germanizzate (al di là, per ovvie ragioni storiche, dell’arco alpino) paiono il Triveneto di terraferma e le plaghe a cavallo fra Insubria e Piemonte, oltre al Piemonte stesso.

Discreta ma decisiva fu l’influenza di questi nordici sul nostro territorio, nonostante la perdita della lingua e delle loro ancestrali credenze religiose e tradizioni, via via abbandonate stabilendosi nel dominio italico-romano; anche i Franchi, i Burgundi, i Visigoti, in parte gli Anglo-Sassoni, i Normanni, venendo in contatto con la superiorità culturale di stampo latino preferirono abbracciarla che combatterla e distruggerla, e questo fu certamente un bene per l’Europa. Col tempo giunsero anche a fondersi con gli indigeni romanici. La forza guerriera germanica e la grandezza culturale greco-latina furono la rinascita dell’Europa dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente.

Alboino conquistò Milano il 3 settembre 569 dando vita al Regno longobardo, e Pavia nel 572, ove pose la capitale del regno dopo un assedio durato anni.

Esso comprendeva quattro aree fondamentali: l’Austria (dall’Adda al Friuli), la parte più turbolenta del regno perché più bellicosa, aggressiva, conservatrice, ariana, pagana che in Bergamo, Brescia, Trento, Verona e Cividale aveva i suoi capisaldi; la Neustria (dall’Adda alla Val di Susa), ov’era la capitale della Langobardia Maior, il settore più pragmatico, realista, “civilizzato”, ma anche filo-romano e poi cattolico, i cui centri principali erano Milano, Pavia, il Seprio, il Ticino, Torino; l’Emilia fino a Spilamberto (degna di nota la germanizzazione degli Appennini); la Tuscia, che fu colonizzata e corroborata dal sangue longobardo così come da quello gotico, accostandola per molti versi alla Lombardia.

Successivamente nacquero il Ducato di Spoleto e quello di Benevento, piuttosto autonomi e riottosi al dominio centrale, sebbene venissero più tardi annessi.

I Longobardi si organizzarono in ducati ricalcando le precedenti suddivisioni bizantine, spesso in lotta col potere centrale pavese, e prima che la situazione si normalizzasse dovette esaurirsi la cosiddetta anarchia dei duchi, che durò una decina di anni, subito dopo la morte dell’indiscusso duce Alboino e del suo successore Clefi, e che terminò con l’avvento del figlio Autari.

Ancor più decisivo il regno di Agilulfo, con le sue grandi conquiste nella Pianura Padana bizantina (Cremona, Mantova, Padova), e Teodolinda, la regina cattolica di dinastia bavarese che molto incise sulle sorti del popolo longobardo.

Note

[1] Tradizionalmente, l’inizio del Medioevo a sud delle Alpi è sancito dall’invasione longobarda del 568-569.

[2] Se di tanto in tanto usiamo il termine equivoco ‘Italia’ è soltanto per indicare i territori che furono dell’Italia romana, dunque per comodità.

[3] Claudio Azzara fa una stima al ribasso, parlando di 100-125.000 unità, di cui 25.000 guerrieri.

[4] Stando alle classiche stime di studiosi come Jarnut, Gasparri, Azzara, Pohl.