La questione linguistica

Carlo Porta

La mia visione politica della vera Lombardia, quella etnica e storica, è dunque etnonazionale ed indipendente, libera dall’Italia ed inserita nel più ampio quadro identitario della confederazione euro-siberiana

L’etnonazionalismo è doveroso, per una patria plurisecolare come quella lombarda, al fine di preservarne il carattere comunitario e di affrancarlo dalla statolatria italico-romana che ci affligge, e che conosciamo ormai tutti benissimo, sperimentandola quotidianamente sulla nostra pelle.

In Lombardia, a proposito di identità, si pone una questione linguistica.

Che lingua usare nelle nostre terre, accanto – inizialmente – all’idioma franco toscano, per garantire la conservazione della specificità culturale cisalpina?

Da tempo penso che l’ideale, a livello ufficiale e nazionale, sia l’adozione del milanese classico, volgare, emendato dagli influssi forestieri (cioè italiani), essendo la variante lombarda più prestigiosa, codificata e conosciuta; è anche il gallo-italico più centrale, immerso nel cuore della Padania, miglior candidato storico ad assurgere a lingua di tutti i granlombardi. Questo, è chiaro, non esclude che, essendo la Lombardia relativamente variegata, si possa far sì che ogni territorio avente una precisa koinè istituzionalizzata (come, ad esempio, il bergamasco cittadino nella provincia orobica) la mantenga e la utilizzi a livello locale, come veicolo espressivo per la difesa del proprio retaggio.

L’italiano, idioma imposto alla popolazione cisalpina dalla scuola, dalla televisione e dai media, dalla burocrazia romana e ovviamente dalla politica, venne adottato in epoca moderna anche dalle corti lombarde per via del prestigio dei suoi modelli letterari, ma non è altro che la lingua italo-romanza di Firenze. Emerse, nel Medioevo, come il più illustre dei volgari “italiani”, dominando successivamente il panorama culturale della penisola grazie alla fama delle “tre corone” gigliate Dante, Petrarca, Boccaccio e anche diversi autori lombardi contribuirono al suo rigoglio (vedi Alessandro Manzoni su tutti). Resta però il fatto che il fiorentino letterario sia una loquela straniera, in terra padano-alpina, poiché la nostra nazione appartiene alla famiglia linguistica galloromanza allargata, al pari di occitano, arpitano, catalano, francese.

Vero, in Padania si parla il veneto, che non è una lingua esattamente gallo-italica, ma con un proprio peculiare carattere. Oggi deve molto all’influsso di Venezia sul continente (e il veneziano si avvicina al toscano), ma un tempo, come testimonia lo stesso Dante nel suo De vulgari eloquentia, i veneti erano ritenuti lombardi e usavano un eloquio assai simile al lombardo canonico. Lo stesso dicasi del retoromanzo, il ladino in senso lato, che al pari del gallo-italico è considerato galloromanzo. Anzi, questa sottofamiglia alpina presenta aspetti ancor più conservativi dei vari dialetti padani, purtroppo via via annacquati dall’influenza dell’italiano.

Da un mero punto di vista sociolinguistico, le lingue locali parlate in Lombardia vengono definite dialetti; questo non perché, come qualche idiota pressapochista crede, siano derivate dall’italo-toscano (cosa falsissima) ma per via del loro uso eminentemente orale, ristretto perlopiù agli anziani e limitato ad alcune sfere rustiche della quotidianità. Il fiorentino divenuto italiano, nella distorta idea nazionale di Italia, ha primeggiato, garantendosi il predominio letterario e culturale, e di conseguenza gli altri volgari riconosciuti sono arretrati adattandosi alla situazione locale.

Verrebbe, perciò, da chiedersi se, ad oggi, esista una vera e propria lingua lombarda, naturalmente unitaria. La risposta è no, perché il panorama linguistico della Grande Lombardia, e della Lombardia etnica, è frammentato, non foss’altro per il condominio di gallo-italico, veneto e ladino (romancio, ladino dolomitico, friulano). Si può dire, senza dubbio, che esista una famiglia linguistica lombarda, e cioè gallo-italica, storicamente estesa al retoromanzo: il galloromanzo cisalpino, dunque. E, in questa famiglia, a far la parte del leone c’è, con tutta evidenza, il meneghino, logico candidato a divenire il lombardo tout court.

Adottare il milanese classico volgare, emendato – anche ortograficamente – dai toscanismi, in qualità di lingua nazionale della Grande Lombardia non sarebbe un’operazione all’italiana, come le malelingue vanno cianciando: non si tratta, infatti, di imporre nella Padania una lingua straniera (cioè italo-romanza o altro), bensì di agire con salutare buonsenso identitario adoperando un idioma nostrano, cisalpino, non snaturato quale l’attuale veneto, pure per semplificare la burocrazia, l’amministrazione, l’istruzione e l’informazione. L’impiego del milanese/lombardo andrebbe di pari passo, localmente, con quello della variante indigena più prestigiosa, evitando il caos vernacolare.

Una lingua lombarda unitaria, oggi, non esiste, ma con la nobiltà della Milano incontaminata è del tutto possibile. Nel Medioevo è esistita una koinè padana, colta, la cosiddetta scripta, ma si trattava chiaramente di un esperimento letterario privo della robustezza genuinamente volgare, presentando essa tratti sovradialettali limati ed ingentiliti. Sono, invece, esistiti diversi volgari, predecessori dei moderni dialetti, quali milanese e bergamasco ad esempio, che non avevano nulla da invidiare, in fatto di dignità linguistica e letteraria, al toscano. Questo nonostante la bocciatura dell’italo-centrico Alighieri (la cui madre, ricordiamo, era cisalpina, di Ferrara).

Le lingue locali sono una ricchissima ed inestimabile fonte culturale per il nostro Paese, la Lombardia, da tutelare, difendere, preservare, tramandare e non da stroncare come fece l’ottusa politica fascista, ma pure l’attuale regime figlio della temperie partigiana e americana, incarnato da roba come il Pd.

L’identità verace sta sulle scatole a tutti quelli che vogliono forzatamente livellare, per una ragione o per un’altra, la cultura dei legittimi popoli, e proprio per questo noi dobbiamo salvaguardarla e trasmetterla di generazione in generazione.

Logicamente, bisogna anche capire che a livello nazionale la lingua ufficiale e letteraria deve essere una sola, nella misura in cui la Lombardia storica è una sola, altrimenti si rischia di incorrere nel minestrone multilinguistico alla svizzera.

L’italiano andrà gradualmente abbandonato. Esso nasce come volgare del capoluogo toscano, Italia etnica e Romània orientale, ed è estraneo alla tradizione linguistica genuina della continentale Cisalpina, area neolatina occidentale. Certo, non possiamo ignorare il fatto storico che, da secoli, il fiorentino sia divenuto, in parte, patrimonio letterario anche della Grande Lombardia, e che ormai sia la vera lingua materna di tutti i lombardi. Ma ciò non cambia la verità genetica di un parlare che non nasce nella nostra nazione. Anche gli irlandesi, purtroppo, parlano più inglese che gaelico, ma questo non li rende connazionali degli albionici.

Le loquele autoctone delle plaghe a sud delle Alpi sono tutte romanze, seppur diversificate dai fenomeni di substrato e superstrato, e le più prossime al latino sono sardo e toscano. Ma il patriottismo tricolore si basa su un concetto artificiale di romanità e latinità che, assieme al cattolicesimo, riguarda peraltro una buona fetta dell’Europa. E la lingua italiana, come detto, è un prodotto culturale toscano, per quanto esteso nei secoli all’intera “Italia”.

Noi lombardisti siamo convinti che la lingua di Milano, classica, rappresenti il lombardo per antonomasia, e debba dunque divenire lingua nazionale. Qualche bello spirito preferisce baloccarsi con improbabili koinài create a tavolino nel XXI secolo, mischiando le varianti occidentale ed orientale del lombardo regionale, dando vita ad una sorta di mini-esperanto che confonda le carte in tavola invece di chiarire la situazione. Meglio la naturalità all’artificio, soprattutto a proposito di identità. Oltretutto, il cisabduano è più simile al piemontese orientale o al piacentino, che all’orobico, ulteriore sintomo di una mera creazione italiana come la Regione Lombardia.

La vera Lombardia è quella etnica (bacino del Po) e storica (la Cisalpina), e ‘gallo-italico’ è, a ben vedere, sinonimo di ‘lombardo’. Il concetto di dialetti lombardi contemporanei è una forzatura, che grossomodo ricalca i confini regionali, e non rispecchia le varie affinità tra parlari padani. Esiste, pertanto, un lombardo ristretto e uno allargato: il primo coincide con milanese, bergamasco, bresciano, ticinese, novarese, cremonese ecc. mentre il secondo abbraccia tutto il gallo-italico. Ma la prima accezione ha poca logica, poiché esiste un serio discrimine tra insubrico e transabduano, ed è più che altro dettata da motivi di comodo.

Sarebbe consigliabile che tutti i veri lombardi, e cioè i cisalpini a partire da quelli occidentali, prendessero confidenza col milanese e lo studiassero in quanto, certamente, idioma schiettamente lombardo, rispetto agli altri, che subiscono diverse influenze per via della loro posizione geografica. Il Piemonte risente di francese e ligure; l’Orobia del veneto; l’Emilia e la Romagna subiscono il toscano, come la Liguria; le altre regioni granlombarde non sono, ovviamente, gallo-italiche. Tuttavia, per assurdo, il padano primevo aveva un profilo similare a quello del retoromanzo, quindi guardiamo con una certa simpatia al ladino.

Nelle scuole della Lombardia il “dialetto” andrebbe assolutamente insegnato, assieme alla storia linguistica della nostra nazione e delle varie province e territori storici. Scuole, ovviamente, liberate dal tricolore, in cui l’italiano ceda il posto al milanese/lombardo.

Un processo, per ovvie ragioni, graduale, principiando da una fase iniziale di bilinguismo, ma che promuova da subito la riscoperta e l’uso del morente idioma locale. Le nostre loquele sono la ricchezza culturale più evidente e significativa, all’interno del patrimonio identitario padano-alpino, e non possiamo permettere che vengano a mancare. Un popolo senza la propria lingua non ha futuro, e non può essere in alcun modo rappresentato concretamente da un mezzo espressivo straniero.

Il milanese, tra le varianti subalpine, ha una tradizione prestigiosa e ben attestata, fior fior di autori, di opere, di vocabolari e ha una fonetica e un’ortografia precise e normate, in quanto stabilmente codificato (si parla della versione classica). È conosciuto da tutti i lombardi, quantomeno di fama, ed è sicuramente il miglior prodotto della famiglia linguistica lombarda per via della sua centralità e purezza.

Milano è il perno della Lombardia, nostra capitale indiscussa, e tutte le aree storicamente influenzate dalla sua potenza sono certamente di pertinenza lombarda: l’Insubria, l’Orobia, il Piemonte, l’Emilia, vale a dire la Lombardia etnica. Forse, il discorso potrebbe farsi più complicato nelle Romagne, in Liguria e, ovviamente, nel Triveneto, oltre che nelle terre abitate dalle minoranze storiche, ma siamo dell’idea che l’adozione del milanese a lingua panlombarda costituisca un’occasione imperdibile, sulle ali del patriottismo e dello spirito unitario cisalpini. Fermo restando che nessuno si sognerebbe di chiedere ai granlombardi, specie periferici, di abbandonare i propri usi, costumi, tradizioni e idiomi. Il lombardesimo può tranquillamente conciliarsi col tollerabile particolarismo locale, in un’ottica di blando federalismo cantonale. E questo sebbene la nostra posizione su alcuni fenomeni, come il venetismo e la moderna “lingua” veneta, sia fortemente critica.

Lombardia moderna

Ducato di Milano

Mentre il Ducato di Milano cominciava il valzer degli occupanti coi francesi, il 14 maggio 1509 la Serenissima venne sconfitta dagli stessi ad Agnadello, nella guerra della Lega di Cambrai, con cui perdeva provvisoriamente i suoi possedimenti lombardi orientali.

Nel periodo 1512-1515 gli svizzeri, aderenti all’alleanza anti-francese, presero Milano strappandola ai transalpini e vi insediarono il figlio del Moro, Massimiliano Sforza; la Valtellina e i contadi di Chiavenna e Bormio passarono ai Grigioni; nella battaglia di Marignano (Melegnano), francesi e veneziani alleati sconfissero gli svizzeri e i milanesi dello Sforza, che perse così il Ducato; Bergamo, Brescia e Cremona tornarono sotto le insegne della Repubblica di San Marco.

Tra il 1521 e il 1525 si riaccese la guerra per il possesso del Ducato milanese: se lo contesero Francesco I re di Francia e l’imperatore Carlo V che, vittorioso nella decisiva battaglia di Pavia, insediò a Milano il fratello di Massimiliano, Francesco II Sforza.

Lo Sforza morì senza eredi nel 1535; lo Stato milanese, con Cremona tolta a Venezia, passò così alle dirette dipendenze degli spagnoli e fu una catastrofe: oscurantismo cattolico, anarchia, torbidi, carestie, epidemie, guerre, scorrerie, pestilenze, ecatombe di milanesi nel 1630 per via della peste “manzoniana” furono le conseguenze del malgoverno iberico targato Asburgo.

Il Cinquecento fu però, anche per la Lombardia, un periodo florido artisticamente parlando e non mancarono artisti di fama internazionale che accorsero alle corti lombarde: Leonardo, Lotto, Tiziano, Giulio Romano, Paolo Giovio, Scamozzi ecc.

Inoltre, prolifica l’attività architettonica, con la costruzione di bastioni e cinte murarie a Milano come a Bergamo, di logge, di teatri, di piazze, di musei, di biblioteche e di pinacoteche (da segnalare quelle ambrosiane volute dal cardinale Federico Borromeo).

Il ‘5-600 fu anche periodo di gravi lotte religiose e politiche; l’Europa si spaccò in due per via dello scisma scatenato da Lutero e pure la Lombardia, comunque soggiogata alle conseguenze del Concilio di Trento e al dispotismo papista e confessionale di spagnoli e personaggi come i Borromeo, risentì a nord degli influssi protestanti d’oltralpe.

L’episodio più clamoroso fu certamente il cosiddetto “sacro macello” del 15 luglio 1620 in Valtellina, in cui una rivolta popolare anti-protestante fece centinaia di morti riformati.

Ciò comunque non valse a liberare Chiavenna, Sondrio e Bormio dal dominio dei Grigioni.

L’epoca moderna fu segnata anche dalla Guerra dei Trent’anni, fra Impero e potentati protestanti, e pure in questo caso la Lombardia subì i letali contraccolpi di eventi, principalmente, stranieri.

Tra il 1627 e il 1631 l’estinzione del ramo principale dei Gonzaga diede il via alla guerra per la successione di Mantova: Carlo Emanuele I di Savoia, alleato degli spagnoli, venne battuto dall’esercito francese; 25.000 lanzichenecchi forieri di peste, luterani ma al servizio della Spagna, saccheggiarono Mantova nel luglio del 1630; con il Trattato di Cherasco, il pretendente sostenuto dalla Francia, Carlo di Gonzaga-Nevers, ottenne il Ducato mantovano.

Tra il 1628 e il 1631 a Milano, per effetto della peste “manzoniana”, della precedente carestia, della calata dei lanzi, la popolazione urbana passò da circa 130.000 a 60.000-70.000 abitanti.

Mirabile affresco di questi cataclismi, scatenati anche dal servaggio insubrico per il forestiero e dalla mancanza di unità nazionale cisalpina, è offerto dal Manzoni nel suo capolavoro de I promessi sposi, il romanzo storico tutto lombardo ambientato tra Ducato di Milano e Orobia marciana, in cui una frase colpisce su tutte, una frase che il Manzoni riferisce allo scenario cui Renzo Tramaglino assiste durante gli orrori della peste in quel di Milano e che sintetizza la natura etno-razziale lombarda: “quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo” (in riferimento alla madre di Cecilia).

La Lombardia transabduana non subì i tracolli che purtroppo subì quella cisabduana perché la Serenissima, sicuramente più rispettosa dell’identità e delle autonomie locali degli Asburgo di Spagna, garantì ai suoi sudditi maggior protezione, relativo buongoverno, tolleranza e liberalità, e una gestione, per quanto possibile, razionale e illuminata della carestia e della peste che attanagliavano la Pianura Padana; inoltre serbò le popolazioni dalle scorrerie dei lanzichenecchi mediante i presidi sul confine bergamasco abduano e montano. I danni furono dunque limitati, in un certo senso, e non si ebbero le brutture e il soqquadro milanese, di una città, Milano, che mentre affondava veniva abbandonata a se stessa. Venezia, del resto, era un potentato autonomo.

La squallida situazione, che durò praticamente per tutto il Seicento, non sfuggì all’attento occhio dei visitatori stranieri che denotavano la contraddittoria situazione di una regione frammentata di per sé ricca, florida, gloriosa, sviluppata, ma barbarizzata da un governo ottuso, superstizioso, corrotto, rapace, ed alieno come quello spagnolo del tempo.

Ma la ruota gira per tutti, anche per la Spagna, che con l’avvento del Settecento conobbe il suo inesorabile declino durato sino agli anni settanta del Novecento.

Nel 1707, nel corso della guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano in nome dell’imperatore Giuseppe I, ponendo fine allo scellerato dominio iberico in Lombardia; il passaggio all’Austria delle terre milanesi e di Mantova venne confermato dalla Pace di Utrecht e dal Trattato di Rastadt (1713-14).

Nel 1738 la Pace di Vienna sanzionò le modificazioni territoriali intervenute con la guerra di successione polacca: Carlo Emanuele III di Savoia ottenne a spese di Milano Novara, Tortona e le Langhe.

Tra il 1740 e il 1748, ecco la Guerra di successione austriaca: la Pace di Aquisgrana riconfermò all’imperatrice Maria Teresa d’Austria il possesso della Lombardia occidentale e meridionale; Voghera con l’Oltrepò, Vigevano con la Lomellina, Ossola e Valsesia, invece, passano ai sabaudi di Carlo Emanuele III.

Il Settecento fu anche l’epoca dei Lumi, cosiddetti, che sfociò nella borghese Rivoluzione francese, intenta a seppellire l’Europa nella fossa scavata per secoli dal giudeo-cristianesimo; la farsa di un oscurantismo universalista, che ne vuole sostituire un altro, a scapito delle vere radici europee, dell’identità, della tradizione (già pervertite dal monoteismo abramitico).

Illuminismo e Rivoluzione potevano certo avere nobili propositi, come l’affrancamento del popolo dalla dittatura papista, clericale, “aristocratica” (si fa per dire), parassitaria e la battaglia contro l’oscurantismo di una religione assolutista straniera, ma i risultati furono disastrosi e tutto andò nella direzione del relativismo borghese che ha gettato le basi della contemporanea Europa auto-genocida e asservita ai loschi poteri internazionali e mondialisti.

Ma di Illuminismo, massoneria, giacobinismo, ebraismo internazionale, Rivoluzione francese e Napoleone ci occuperemo nel prossimo appuntamento sulla Lombardia contemporanea.

Lombardia medievale

Lombardia viscontea

La Lega Lombarda non mise a tacere le rivalità territoriali tra liberi comuni e infatti, sconfitto il Barbarossa, il carroccio fu archiviato e riemersero i campanilismi che ancora oggi, magari sotto forma di tifo calcistico, affliggono la Lombardia e altre plaghe (ad esempio la Toscana).

Bergamo contro Brescia, Milano contro Como, Cremona contro Piacenza, e così via.

Sicuramente, una delle principali cause della frammentazione e della debolezza lombarde è il micro-sciovinismo, l’egoismo, l’individualismo forsennato, la fobia di perdere il controllo del proprio orticello e la mania di avercela con tutti, anche se si tratta di fratelli. Prima di essere europei (italiani sicuramente no) siamo lombardi e quindi l’armonia comincia dalla nostra comunità, dalla nostra nazione. Non confondiamo le odierne rivalità del diporto con la vita reale.

Chi approfittò di questa situazione furono le signorie, altro fenomeno tipicamente tosco-padano, che solitamente parteggiavano per l’Impero e non per le autonomie comunali, essendo, agli esordi, di origine germanica, dunque guerriera e feudale; finirono, tuttavia, per appoggiare unicamente la propria causa, e si divisero in guelfi e ghibellini: i primi dalla parte del papa e del particolarismo, i secondi dalla parte dell’imperatore e dell’ideale imperiale (che, col senno di poi, avrebbe forse potuto condurre all’unificazione nazionale della Lombardia in seno al SRI, con le giuste scelte).

Il libero comune si evolvette così nella signoria cittadina, attorno alla seconda metà del ‘200, grazie alla forza e all’egemonia territoriale del signore.

La lotta per il potere dilaniò guelfi e ghibellini, che si contesero il dominio dei centri precipui. A Bergamo, ad esempio, i guelfi Colleoni (derivati dai Suardi, e non sempre di parte guelfa), Bonghi e Rivola si misurarono per il predominio con i ghibellini Suardi e coi Mozzo, Terzi e Lanzi. I più vicini al popolo erano tradizionalmente i guelfi, mentre gli altri incarnavano l’ideale aristocratico vecchio stampo e filo-imperiale.

In Lombardia si affermò a livello “regionale” la signoria milanese, vicina all’Impero, dei Visconti, che sconfissero i rivali insubrici, guelfi di origine franca, dei della Torre.

Frattanto ci fu anche la rivincita imperiale, con la schiacciante vittoria di Federico II, nipote del Barbarossa, che a Cortenuova, nel Bergamasco, sbaragliò le milizie della Lega nel 1237, contando sui dissidi fratricidi dei comuni; il carroccio fu preso e spedito al papa, protettore dei guelfi, la Lega si sciolse ma il successo dell’imperatore non colse i frutti sperati, per le solite esose pretese d’oltralpe, cosicché la Lombardia rimase tutto sommato autonoma, con Milano in testa.

Federico II trovò la rovina a Parma (1248) e il figlio Enzo a Fossalta (1249), e con queste sconfitte svanì, fortunatamente, il sogno imperiale degli Hohenstaufen di unire l’Italia innaturale, e di sbarazzarsi del potere temporale del papa. Nel 1268, con la battaglia di Tagliacozzo, i guelfi Angioini conquistarono il Regno svevo di Sicilia, giustiziarono Corradino e misero fine al potere degli Staufer in meridione. Questa capitolazione fu letale per il desiderio unitario e universale dell’Impero ma, soprattutto, inaugurò la stagione italiana etnica del “Francia o Spagna, basta che se magna“, nonché del secolare degrado e malgoverno del sud.

Tornando alla Lombardia, i Visconti, famiglia del Seprio di supposta origine longobarda, ebbero nel Biscione il proprio famosissimo simbolo e vessillo, la cui origine è ancora dibattuta. Per alcuni, è un antichissimo simbolo sacrale longobardo che si ricollega al culto ctonio delle vipere (i Longobardi ne portavano al collo una riproduzione azzurra come monile e amuleto); per altri è un emblema orientale, strappato ai Saraceni durante le Crociate, e capovolto nel suo significato, poiché l’omino che il Biscione ingolla sarebbe proprio un Moro; infine viene talvolta considerato come uno dei tanti draghi acquatici padani delle tradizioni e leggende celto-liguri, più precisamente il drago Tarantasio mangia-fanciulli del mitico Lago Gerundo (Gera d’Adda), che il capostipite mitologico dei Visconti avrebbe sconfitto liberando la terra lombarda a cavallo tra Orobia e Insubria, e guadagnandosi così Milano. La tesi forse più probabile è comunque quella che vede nella Bissa un emblema araldico, ctonio e affine al basilisco, da cui la vita nasce, invece di venire inghiottita, e non è detto che fosse sin dagli inizi viscontea.

Accanto al Biscione i Visconti posero l’Aquila imperiale, a simboleggiare la propria ghibellina fedeltà all’ideale imperiale. Noi lombardisti vediamo in essa anche l’appartenenza storica della Lombardia al cuore dell’Europa, e accostata alla Vipera nazionale rappresenta il più papabile stemma della nostra patria, accanto alle Croci lombarde e allo Svastika camuno, che formano la bandiera granlombarda.

Il cromatismo del campo è d’oro per l’Aquila, nera, e d’argento per il Bisson, riprendendo così l’insegna degli Ottoni e degli Staufer (nel primo caso), che è poi l’insegna dell’Impero, e ponendo la Biscia azzurra su uno sfondo nobile e regale.

Staccandosi dalla leggenda, comunque sia, il capostipite reale dei Visconti fu Ottone, arcivescovo di Milano e capo del partito nobiliare e filo-ghibellino; costui nel 1277 guidò le proprie milizie contro i signori guelfi di Milano, i franchi Torriani della Valsassina, e sconfiggendo a Desio il capo della fazione opposta, Napo della Torre, divenne nuovo signore di Milano nel 1278.

Ha così inizio la fulgida signoria dei Visconti che scalzò dal potere i primi signori di Milano, i Torriani appunto, che tra l’altro avevano esteso la loro influenza a buona parte dei territori occidentali della Regione Lombardia.

Nel 1328, con l’aiuto degli Scaligeri veronesi, Luigi Gonzaga eliminò i Bonacolsi e iniziò a Mantova la signoria della propria famiglia.

Nel 1330 Azzone Visconti, vicario imperiale dal 1329, venne proclamato a Milano dominus generalis; egemone su gran parte della Lombardia, nell’arco di una decina di anni ne riconobbero formalmente la signoria tutte le principali città.

Nel 1361 Galeazzo II Visconti ottenne dall’imperatore Carlo IV un diploma che istituì a Pavia lo Studium generale, primo nucleo dell’Università.

Nel 1386 prese il via, sotto Gian Galeazzo Visconti, la lunga vicenda costruttiva del Duomo di Milano.

Nel 1395 lo stesso Gian Galeazzo ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano (5 settembre); nel 1397 (30 marzo) ha quello di duca di Lombardia; il suo Ducato si estese su quasi tutta la Lombardia regionale, etnica e storica, e oltre l’Appennino lombardo, su Pisa, Siena e Perugia.

Nel 1396 cominciò l’edificazione della Certosa di Pavia, che il Visconti volle come mausoleo famigliare.

Nel 1402 il grande Gian Galeazzo morì, ed ebbe inizio il processo di sfaldamento che sembrò investire lo stato visconteo.

Tra il 1404 e il 1412 emersero le figure di Pandolfo III Malatesta, che si proclamò signore di Bergamo e Brescia, e di Facino Cane, che estese i suoi possedimenti dal Piemonte all’Insubria.

Tra il 1413 e il 1422, ecco il decennio che vide Filippo Maria Visconti, figlio di Gian Galeazzo, riprendere le redini del Ducato e ricostituirne l’unità territoriale.

Il Ducato di Milano/Lombardia confinava a ovest con quello di Savoia e col Monferrato, a sud con la Repubblica di Genova e con i possedimenti degli Estensi, a est con il Ducato di Mantova, la Repubblica di San Marco veneta, il Principato vescovile di Trento e a nord con la Confederazione Elvetica e l’Impero.

Nel 1428 ci fu la Pace di Ferrara: Filippo Maria Visconti fu costretto a cedere la Lombardia orientale a Venezia, in seguito alla sconfitta di Maclodio dell’anno prima.

Il dominio marciano durerà, su queste terre, tre secoli, ma nonostante il relativo buongoverno della Serenissima l’Orobia rimase lombarda; lapalissiano per chi ha buonsenso, non troppo per gli ultrà moderni della Venethia da Bergamo a Perasto, gente che confonde il Veneto con la vecchia Repubblica di San Marco, potentato aristocratico e mercantile senza accezione etnica e nazionale.

Nel 1450, Francesco Sforza, romagnolo genero di Filippo Maria Visconti (morto senza eredi nel 1447), occupò Milano e liquidò l’effimera Aurea Repubblica ambrosiana; l’anno seguente vi chiamò, per le fabbriche della Cà Granda (l’Ospedale Maggiore), del Duomo e del futuro Castello Sforzesco, il Filarete.

Il 1454 è l’anno della Pace di Lodi, che sancì la legittimità di Francesco Sforza quale duca di Milano e il passaggio di Crema a Venezia.

Nel 1482 arrivò a Milan Leonardo da Vinci, dove gli vennero commissionati diversi lavori e onorò la Lombardia con le sue opere.

Giunsero però anche le note dolenti. Nel 1499-1500 il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, venne sconfitto dall’esercito francese di Luigi XII, guidato dal Trivulzio, e tradotto prigioniero in Francia; il Ducato passò al re francese, la Gera d’Adda e Cremona a Venezia, Bellinzona col Canton Ticino agli Svizzeri.

Così, mentre ad ovest i Savoia consolidavano il proprio Ducato annettendo tutto il Piemonte, a sud emergevano i ducati padani, dei Farnese e degli Estensi, ad est dominava la Serenissima, il nocciolo del Ducato di Lombardia di matrice viscontea finiva nelle mani dei forestieri e lo resterà praticamente fino ad oggi, epoca della cattività tricolore.

Le vicende dal Medioevo al Risorgimento, mostrano come la Lombardia etnica, e il suo cuore insubrico, abbiano perso l’occasione di farsi motore dell’unificazione nazionale granlombarda, affrancandosi dal potere imperiale (che comunque incarnava sotto certi riguardi la Gallo-Teutonia in cui noi lombardisti crediamo), dal particolarismo (e dalle ingerenze pontificie) e dall’idea distorta di Italia, retaggio romano. Così non è stato e, infatti, la nostra patria è da secoli preda dello straniero.

Sarà invece il Piemonte sabaudo a farsi carico della sciagurata unità pseudo-nazionale italiana, in questo appoggiato da Francia e Inghilterra, e se da una parte ciò fu il prodotto del ruolo storico piemontese, relativamente autonomo, dall’altra fu la proiezione “imperialista” di una casata straniera, i Savoia, che ereditarono poi allo stato italiano parecchie delle loro magagne post-illuministe.

Lombardia comunale

Croce di San Giorgio

Nell’XI secolo, dunque, con il termine ‘Lombardia’ si era soliti indicare buona parte dell’attuale nord della Repubblica Italiana, ad esclusione di poche aree: Regione Lombardia (con la Svizzera “italiana”), Emilia, Piemonte, Liguria, Verona, Trento e il Veneto continentale ricadevano nel suddetto concetto.

La Romagna, con Bologna e Ferrara, passò alla Chiesa; nel Triveneto, assieme alla Marca di Verona, andò affermandosi la Repubblica di Venezia; nel Tirolo storico si affacciarono genti baiuvariche. La Marca veronese venne poi sostituita dal Patriarcato di Aquileia, dal Principato vescovile di Trento e dalle varie signorie venete.

La Toscana, terra di cui i Longobardi si innamorarono e che assieme alla Padania rientrava nella Langobardia Maior, divenne invece Marca di Tuscia, e poi Margraviato di Toscana.

La Lombardia medievale rinsaldò la natura di anello di congiunzione tra mondo mediterraneo ed Europa centrale; chi doveva recarsi a sud delle Alpi, all’epoca, parlava di ‘Lombardia’, nonostante il Regno d’Italia, che era comunque un’entità inconsistente dal nome che si rifaceva retoricamente ai fasti romani.

‘Lombardia’, come etnico della nostra nazione, è preferibile a ‘Padania’, perché il secondo è un termine meramente geografico, al di là della politica, che può giusto indicare il bacino idrografico del Po, senza accezione etnoculturale.

Tornando a noi, nel 1097 si ha notizia certa a Milano dell’esistenza di un consulatus civium, prima espressione istituzionale del comune milanese, avviato a rivendicare la prerogativa di governo della città.

Il libero comune, fenomeno che prese piede nella Cisalpina e in Toscana, nacque per svincolare le città cisalpine e toscane dal controllo, a volte oppressivo, del potere imperiale, soprattutto in materia di esazioni; poté affermarsi, comunque, perché l’Impero latitava, ma si faceva sentire quando si trattava di riscuotere. Il feudalesimo, in ambito subalpino, attecchì poco e questo permise ai cittadini benestanti, borghesi diremmo oggi, di coagularsi attorno al potere vescovile, che supplì al vuoto lasciato dal potere laico sia reale (Regno Italico medievale) sia imperiale (Sacro Romano Impero). Il grosso dei signorotti longobardi, insediati nei loro castelli del contado, era dalla parte dell’imperatore.

Facile capire come, in un’epoca in cui infuriava la lotta per le investiture tra Papato e Impero, venissero a crearsi due opposte fazioni, guelfi e ghibellini, dove i primi oltre a sostenere le autonomie comunali parteggiavano per il papa.

Col tempo, il comune si svincolò però anche dal potere politico esercitato dal vescovo, nonostante che fosse proprio questi a legittimarlo.

Nel periodo 1110-1126, istituzioni comunali volte, per l’appunto, a sostituire il potere politico dei vescovi, si affermarono a Como, Cremona, Bergamo, Brescia e Mantova.

In breve tempo, nel XII secolo, il libero comune medievale divenne la predominante forma politica lombarda, fenomeno originale e originario proprio della nostra terra, e poi esteso al resto dell’Europa occidentale. Fu espressione della mentalità borghese, mercantile, artigiana, laica, cittadina dei lombardi, desiderosi di affrancarsi dal feudalesimo, per quanto debole, e dalle usurpazioni dei castellani di stirpe germanica delle campagne.

In realtà, l’incastellamento del contado portava anche benefici, visto che in un’epoca come quella medievale la protezione del signore locale faceva un po’ comodo a tutti.

Il comune era però espressione dei borghesi e dei loro interessi, non certo dei popolani.

Questa istituzione, nonostante che fosse cresciuta all’ombra dei vescovi e parteggiasse più per il papa che per l’imperatore, era mirata a difendere il tornaconto delle classi agiate, e non tanto i privilegi della Chiesa. La retorica moderna ha certamente esagerato le implicazioni ideologiche dello scontro fra guelfi e ghibellini, e fra comuni e Impero. La questione che teneva davvero banco era economica, e il cielo sa quanto sia cara in Lombardia (vedi la Lombard Street di Londra, la via dei banchieri, appunto, cisalpini [1]), una terra dominata dalla laboriosa, ma spesso anche gretta, mentalità alpina.

Le etichette ‘guelfo’ e ‘ghibellino’ (come la maggior parte delle etichette di comodo) non indicavano il bigotto e l’anticristo (bigotti, diremmo oggi, erano entrambi gli schieramenti) ma, per usare terminologie moderne, gli “autonomisti” e i “centralisti”, laddove i primi volevano, più che autodeterminazione, autonomia economica (essendo ceto mercantile, prevalentemente) e i secondi volevano rimanere fedeli all’imperatore in tutto (essendo per lo più ceto nobiliare). Naturalmente sorsero anche nobili guelfi, spesso però dalla mercatura, e non dal campo di battaglia, come i nobili guerrieri e proprietari terrieri di origine germanica.

I liberi comuni, tutto sommato, non mettevano in dubbio l’autorità dell’imperatore in Padania.

Nel 1155, Federico I Hohenstaufen detto “Barbarossa”, certamente uno dei più grandi, venne incoronato re d’Italia a Pavia, essendo tale titolo associato a quello di sacro romano imperatore.

I malumori lombardi crebbero perché il Barbarossa rivendicava pretese su tutta l'”Italia”, bramando un impero che fosse davvero europeo e che assorbisse tutta la penisola, sotto il suo diretto controllo. Un’idea che a suo dire poteva essere nobile, molto romana, ma perseguita male e lasciandosi andare troppo spesso alla violenza, calando a sud delle Alpi per castigare duramente chi si ribellava.

Egli si inserì nella politica cisalpina approfittando delle diatribe tra Milano e i comuni vicini, vessati dal capoluogo lombardo in espansione, prendendo le parti dei secondi, di Lodi soprattutto (da lui rifondata dopo che Milano la distrusse), e usando queste lotte come pretesto per intervenire cercando di assicurarsi così il dominio della Val Padana.

Le vessazioni, i taglieggiamenti, le prepotenze e le sanguinarie ritorsioni contro i milanesi, che videro a loro volta la propria città rasa al suolo, e contro coloro che non volevano piegare il capo di fronte all’esosa autorità imperiale crescevano, e anche il papa, Alessandro III (colui a cui fu dedicata la città piemontese di Alessandria) ne approfittò schierandosi dalla parte dei comuni ribelli. L’ingerenza clericale si è spesso rivelata fatale, nelle vicende nostrane, ma certamente ha ritardato l’innaturale processo di unificazione.

Cosicché, secondo la tradizione, il 7 aprile 1167 si giunse al fatidico giuramento nell’abbazia benedettina di Pontida, nel Bergamasco, dove Milano, Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia siglarono il patto della Concordia, che sancì la nascita della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda.

È stato fatto largo uso e abuso retorico di Pontida, come di Legnano, prima in chiave risorgimentale, poi in chiave leghista; il problema è che, nei fatti, si combatté il Barbarossa, e poi il nipote Federico II, in nome degli interessi economici e politici dei comuni, che nemmeno volevano staccarsi dall’Impero, ma semplicemente avere autonomia. Certo, la Lega Lombarda, già a partire dal nome, fu comunque espressione dei nostri territori, ed è quindi lecito ricordarla con orgoglio identitario.

Legnano ostacolò l’unificazione, ritardandola, anche se permise al papa di ficcare sempre più il naso negli affari delle città lombarde. D’altra parte, Federico I inseguì un ideale imperiale “universale” cioè di respiro europeo, ma lo fece in maniera troppo arrogante, prepotente e sanguinaria, inimicandosi la Padania.

Riprendendo il resoconto, nel giro di poco alla Lega aderirono la maggior parte delle principali città lombarde tra cui Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Reggio, Vercelli, Alessandria, Asti, Como, Novara, Pavia, Tortona, Varese e Vimercate.

I granlombardi occidentali ottennero l’appoggio della Lega Veronese (Verona, Padova, Treviso e Vicenza), che confluì nella Lega Lombarda, di Venezia, Genova, Torino, Ferrara, Bologna e Faenza e, come sappiamo, di Roma, che cavalcò a suo favore la questione, soffiando sul fuoco dell’anti-ghibellinismo.

La Lega si strinse attorno ai suoi simboli, e questo certamente è suggestivo: la croce rossa in campo bianco, di San Giorgio, stemma di Milano e bandiera storica di Lombardia (qualcuno dice mutuata da Genova ma più probabilmente dai blasoni dei primi vescovi milanesi), divenuta poi emblema di molte importanti città padane solidali con Milano, città odiatissima dal Barbarossa, come Mantova, Lecco, Vercelli, Ivrea, Alba, Alessandria, Reggio, Bologna, Padova, opposta all’imperiale Croce di San Giovanni Battista che ne è il negativo e che forse deriva dalla rossa Blutfahne, la bandiera da guerra dell’esercito imperiale; la croce di Ariberto da Intimiano; il carroccio, ideato nel 1033, pare dallo stesso vescovo milanese ribelle, che era in sostanza una sottospecie di carro da guerra, possente ed ingombrante, trainato da buoi, in cui stavano in bella mostra le insegne dei combattenti della propria fazione, e in cui il comandante assisteva alle operazioni belliche, e dove i preti celebravano i sacri uffici per accattivarsi i favori del Cristo e rincuorare i guerrieri durante la battaglia.

La Croce di San Giovanni è stemma di altre città “settentrionali”, come Cuneo, Asti, Novara, Pavia, Fidenza, Lugano, Como, Vicenza, Treviso, ma anche del Piemonte, del Monferrato, di località valtellinesi e ticinesi.

Il 29 maggio 1176 Lega e imperiali si scontrarono a Legnano, nell’Alto Milanese: le milizie lombarde, il cui nerbo era rappresentato dalla fanteria comunale, sicuramente non capitanate dall’immaginario Alberto da Giussano [2], sconfiggono l’esercito del Barbarossa, con la sua cavalleria pesante, che si vide costretto a riconoscere, tramite la pace di Costanza del 1183, diritti e autonomie comunali.

Per noi lombardisti, il 29 maggio è la festa della Lombardia etnica, anche se preferiamo non esagerarne l’esaltazione, ricordando comunque il 5 di settembre (1395), data di nascita del Ducato di Milano, ente ghibellino fedele all’Impero e territorialmente esteso in buona parte della Lombardia. La battaglia di Legnano rimane, ad ogni modo, profondamente affascinante, ed è giusto celebrarla ancor oggi, al netto della propaganda italianista e legaiola.

Tramontato il sogno imperiale del Barbarossa, i comuni lombardi, nati non per sentimento patriottico ma per spirito “liberale” (come diremmo oggi), per quanto certamente frutto della civiltà padana di cui siamo depositari, ripresero a scannarsi e a darsele di santa ragione, come del resto avevano fatto anche prima di Pontida e Legnano. E questo è il limite dell’epopea comunale, che fece leva sugli orgogli cittadini, più che su di un sentimento patriottico lombardo, anche se l’idea di patria è qualcosa di affatto moderno, romantico.

E come i litigiosi comuni, fecero poi le signorie, che invece di fare fronte comune per unire il Paese – la Lombardia, ovviamente – arrivarono a tirarsi in casa lo straniero per farsi la guerra, col risultato che questi se ne approfittò e finì per diventare, infine, il padrone delle terre lombarde per lungo, lungo tempo.

Note

[1] E questo perché, come dicevamo, i padani erano chiamati lombardi anche all’estero. Si pensi, ad esempio, ai banchieri piacentini e astigiani, o alle colonie gallo-italiche di Sicilia e Lucania.

[2] Secondo gli storici, tale ruolo è da attribuire a Guido da Landriano.

Lombardia gallo-romana

Gallia Cisalpina

Nel V-IV secolo avanti era volgare, dunque, i Galli storici si insediarono nella Pianura Padana, sconfiggendovi gli Etruschi e stabilendo una continuità coi Liguri, già celtizzati dalla Cultura di Hallstatt. Nacque così la Gallia Cisalpina.

Gli Etruschi, fondamentali per l’antica cultura italica e per la formazione della civiltà romana, si attestarono primariamente in Toscana e Lazio (l’Etruria padana era più che altro un’espansione commerciale degli stessi); nel Lazio antico, invece, gli Italici protovillanoviani (Villanova era primariamente associata ai Tirreni), Latini, migrati, in forma embrionale, dalla valle del Po, fondarono Roma nel 753 a.e.v., sovrapponendosi alla civilizzazione etrusca e gettando le basi della Repubblica romana (che venne dopo il periodo monarchico). Nell’epoca che va dal 264 al 146 a.e.v., essa conquistò il Mediterraneo e quasi tutta l’Italia [1] romana, unificandola.

Grazie a campagne militari che andarono dal 225 al 194 a.e.v., i Romani si assicurarono il controllo della Gallia Cisalpina, che venne annessa così all’organismo romano. Fondarono diverse colonie tra cui Piacenza, Lodi, Cremona, Acerrae (Pizzighettone).

Prima delle conquiste romane, i Galli Cenomani, stanziati nel territorio della Lombardia etnica orientale e nel Veneto occidentale, si allearono coi Venetici e giunsero in conflitto con i Galli Insubri, che invece legarono con i Boi dell’Emilia in funzione anti-romana. I Cenomani divennero, come i Venetici, alleati dei Romani, più o meno stabilmente.

Nel 222 a.e.v. i Romani sconfissero proprio gli Insubri nella battaglia di Clastidium, Oltrepò pavese, ne distrussero l’esercito e ne approfittarono per conquistare Mediolanum, estendendo così il dominio dell’Urbe alla regione gallica transpadana. Il pericolo gallico, che portò al sacco senone di Roma ad opera di Brenno (390 a.e.v.), fu scongiurato.

Tre anni prima, gli Insubri si resero assai minacciosi, costituendo una “lega” celtica che invase il territorio italico, venendo però sconfitta dai Romani a Talamone.

Durante la Seconda guerra romano-punica (218-202 a.e.v.), il cartaginese Annibale, che dilagò nel territorio romano dalle Alpi, sobillò Insubri e Boi contro Roma. Qualche osservatore moderno di area vetero-leghista vede in tale evento un’occasione di unità per i popoli celtici della Cisalpina; fu per certi versi così, e chissà se la storia sarebbe andata altrimenti, ma resta il fatto che i Celti si misero dalla parte di un più forte invasore nordafricano, che calò nella Pianura con tanto di elefanti, divenendo suoi mercenari per avversare Roma. I Romani erano forestieri, in Padania, ma pure i Cartaginesi.

Annibale sconfisse i Romani sul Ticino e sul Trebbia, scese lungo la penisola e, sempre grazie all’appoggio insubrico, li batté sul Trasimeno (qui si mise in mostra il leggendario Ducario). Poi venne la volta della disastrosa, per i Romani, Canne (216 a.e.v.). Il vittorioso epilogo della guerra però, come sappiamo, arrise a Roma grazie a Scipione l’Africano che sconfisse Annibale a Zama, ridimensionando le ambizioni di Cartagine.

La Gallia Cisalpina divenne così una provincia romana. Le colonie portarono all’insediamento in terra padana di elementi italico-romani, mentre l’elemento gallico venne in parte sterminato, schiavizzato o disperso, segnatamente in area boica e senone. Questi dati non sono da esagerare, anche per quanto concerne la Cispadana. I Boi, secondo gli storici romani, presero in massa la via della migrazione transalpina, verso la Boemia che, come Bologna, prende il loro nome [2].

Nell’89-88 avanti era volgare, la cittadinanza romana venne estesa alla Cispadana mentre la Transpadana ricevette lo ius Latii, con il quale i Celti al di là del Po e i Liguri vennero latinizzati tramite deduzione di colonie fittizie.

Nell’81 a.e.v. il confine italico venne posto lungo le Prealpi e la Gallia Cisalpina divenne provincia armata, mentre nel 49 a.e.v. Giulio Cesare concesse la cittadinanza romana ai transpadani.

Nel 42-41 avanti era volgare, la provincia della Gallia Cisalpina venne abolita e la Padania annessa all’Italia augustea.

La Lombardia etnica fu così suddivisa in (Gallia) Transpadana (dal Sesia all’Oglio), Venetia et Histria (Brescia, Cremona, Mantova, e cioè l’area cenomane), (Gallia) Cispadana (l’Emilia) e il Piemonte meridionale nella Liguria.

I Cenomani alleati dei Veneti, e dunque dei Romani, vennero “premiati” annettendoli al resto dei loro alleati, staccandoli dallo zoccolo duro della Gallia togata; da qui nasce l’equivoco della Lombardia orientale “veneta”, poi corroborato dalla dominazione marciana moderna. I Veneti non misero mai piede al di qua del Garda, e la Lombardia etnica orientale è galloromanza e gallo-italica, al pari del resto del fulcro lombardo [3].

La guerra contro le popolazioni alpine (celto-reto-liguri), invece, continuò anche dopo il 42 a.e.v., con Augusto e i suoi figli, e l’esito fu scontato: popoli come Vennoneti, Bergalei, Camuni e Triumplini dovettero arrendersi di fronte allo strapotere romano, che portò così il confine dell’Italia romana sino alle Alpi.

I Romani diffusero l’uso del latino, delle loro leggi, dei loro costumi, della loro religione e realizzarono numerose opere di urbanistica e infrastrutturali. Dobbiamo ad essi reti viarie, idriche, fognarie. In questo periodo fiorirono i commerci e l’agricoltura, sorsero e si ingrandirono città e villaggi, fermo restando che Roma beneficiò grandemente della naturale prosperità celtica.

La romanizzazione della Gallia Cisalpina fu un passo fondamentale per i nostri avi e per noi, inserendoci nella civilizzazione latina. Non fu solo conquista militare, politica, culturale, amministrativa, fu anche etnica, sebbene il grosso del popolo rimase di estrazione indigena celto-ligure, per quanto romanizzato. E va anche messo in conto l’influsso tardo-imperiale esercitato dai coloni del Mediterraneo orientale, e poi riequilibrato dall’apporto germanico soprattutto dei Longobardi. Nulla, comunque sia, di paragonabile all’Italia etnica.

La romanizzazione non rende la Padania Italia, perché Roma antica non era quella moderna, e quindi non era l’Italia per come la conosciamo. I Galli divennero col tempo Gallo-Romani per lingua, religione, cultura, usi e costumi, progresso, civiltà, infrastrutture e servizi, ma questo non implicò l’eradicamento totale della stirpe gallica, specie a nord del Po. Altrimenti, anche oggi, l'”Italia” sarebbe un blocco unico dalle Alpi a Lampedusa, coeso dall’ADN romano (qualsiasi cosa voglia dire).

Certamente, noi lombardi (etnici) non siamo gallici e basta, o celto-germanici e basta. Siamo eminentemente celto-liguri, dove più e dove meno, e poi gallici e, in misura minore, germanici, anche qui dove più e dove meno. Ma siamo altresì romani (o, meglio, romanici, e romanzi), anche per sangue, non solo per lingua e cultura. Sicuramente, la romanizzazione portò in Padania geni italici e geni levantini. La primaria linea paterna lombarda è celtica/celto-ligure, e il nostro ADN è primariamente dell’Europa sudoccidentale, per quanto il concetto di Europa meridionale sia sterminato. La Cisalpina, come più volte ricordato, è a metà strada fra il Mediterraneo e il continente.

Diversi funzionari romani si stabilirono in Gallia Cisalpina, così come i veterani di guerra ricevettero, in virtù delle loro prestazioni, terreni lombardi [4]. La Lombardia diede i natali, fra gli altri, a tre autorità del mondo culturale romano: Virgilio, di Mantova, Plinio il Vecchio, di Como e Cornelio Nepote, di Pavia od Ostiglia (Mantova). Per non parlare di Catullo e di Livio, ma qui siamo in territorio venetico.

Si registrarono delle infiltrazioni germaniche nella Val Padana, ben prima delle invasioni storiche che portarono alla creazione dei regni romano-barbarici sul finire dell’Impero romano d’Occidente: Cimbri, Teutoni, Ambrones, Taifali, assieme a schiavi germanici e gallici deportati in Lombardia come forza lavoro, e ai famosi laeti, coloni nordici del tardo Impero.

Il dominio di Roma, repubblicano ed imperiale, su quella che oggi è Lombardia etnica e storica, durò 700 anni. Un periodo che non si può certo ignorare, è evidente, ma nemmeno va ingigantito in chiave retorica. La romanità non ha reso la Padania Italia, altrimenti mezza Europa andrebbe considerata italiana.

Nel 292 Diocleziano, con la riforma politico-amministrativa, designò Milano a residenza di uno degli imperatori, Massimiano. Milano divenne capitale dell’Impero romano d’Occidente, fino al 402 era volgare, quando Onorio trasferì la capitale a Ravenna. Le riforme dioclezianee, peraltro, vennero seguite da quelle di Costantino che divisero l’Italia romana, ormai una provincia come tutte le altre, in Annonaria e Suburbicaria: la prima coincise grossomodo con tutta la Grande Lombardia, e ne faceva parte pure l’intera Rezia. La Suburbicaria era invece la vera Italia, quella etnica, pur comprendendo anche la Sardegna.

Certamente Roma, sul finire della sua potenza, divenne un ente accentuatamente parassitario che sfruttava e strizzava le varie province per arricchirsi sulle loro spalle, succhiandole come un vampiro, vessandole con rapaci funzionari, lasciandole sguarnite di fronte alla crescente aggressività dei popoli germanici e barbarici che premevano lungo il famoso limes, minacciati com’erano da altri popoli barbari, nemmeno di origine europea, quali gli Unni. Chiaramente sono i difetti – ereditati dai Bizantini – di tutti gli imperi che non siano un’armonica confederazione di realtà etnonazionali. Ma questo è un concetto moderno, caldeggiato dal lombardesimo.

La decadenza romana, da una parte fisiologica, venne acuita dall’orientalismo, dall’effeminatezza e dal prolasso dei costumi, dal meticciamento e dall’eresia giudaica cristiana che sfilacciava l’ethos romano, già corrotto ed indebolito dall’età imperiale.

Diocleziano tentò di salvare il salvabile, rinviando di due secoli il crollo del gigante romano dai piedi d’argilla. Già in quel periodo, ormai, Roma contava poco o nulla.

L’Editto di Caracalla (212 era volgare), sull’universalità dell’Impero (tutti “romani”), e l’Editto milanese di Costantino nel 313, che garantiva libertà religiosa a tutti i cittadini romani, avviarono l’Europa sulla strada della dittatura cristiana bimillenaria. Teodosio compì l’opera proclamando il cristianesimo unica religione obbligatoria del mondo romano.

Il cristianesimo si diffuse in Lombardia, con tutto il suo strascico di magagne mediorientali, e nel 374 Ambrogio fu acclamato vescovo di Milano.

Nel 402, come ricordato più sopra, la capitale venne spostata nella paludosa Ravenna, in un clima congeniale allo stuolo di parassiti statali che ormai di romano non avevano più nulla. La stessa culla della romanità versava in pessime condizioni, preda del malgoverno, della corruzione, dell’incuria, dei liberti, dei cristiani e dei dinosauri senatori attaccati tenacemente ai loro privilegi. Una situazione che ricorda invero quella attuale.

Il destino dell’Impero era segnato, e nonostante che buona parte dell’esercito romano fosse rimpinguata da freschi soldati germanici (la schiatta guerriera “italica” era ormai esausta) la relativa vicinanza della Lombardia al confine danubiano favorì numerose incursioni di popoli barbarici nordici nel suo territorio, che poi venne trascinato nella polvere, nel fango e nelle macerie dall’inesorabile crollo della, comunque da tempo, ingessata potenza romana, decentratasi a nord e ad est (Costantinopoli).

Lo sciro Odoacre depose Romolo Augustolo, un ragazzino fatto ultimo imperatore-fantoccio dalle congiure di palazzo. Era il 476 dell’era volgare e il dominio di Roma, la prima Roma, ebbe fine, per convenzione. Infatti, più che di crollo, la storiografia moderna parla di dissoluzione, o di trasformazione.

Con il definitivo tramonto dell’Occidente, si contesero il possesso della Lombardia Ostrogoti e Bizantini, e fu la volta del grande Teodorico.

Note

[1] Sarà utile ricordare che l’Italia primigenia era la punta della Calabria e poi, in senso lato, la vera terra degli Italici, il centrosud. La Gallia Cisalpina venne, fondamentalmente, conquistata e annessa per ragioni militari, portando il confine dell’Italia romana allo spartiacque alpino.

[2] Lo strato gallico sopravvisse certamente anche a sud del Po, come ci testimonia la stessa genetica. Le notizie di stermini di massa sono dunque esagerazioni propagandistiche belle e buone. A nord del fiume, invece, come risaputo, la penetrazione romana fu soprattutto culturale, perlomeno inizialmente, e avvenne pacificamente.

[3] Sappiamo invece che sia proprio il Veneto ad essere parte della Grande Lombardia, e prima ancora della Gallia Cisalpina.

[4] La romanizzazione viaggiò anche grazie agli stessi indigeni cisalpini che, in veste di legionari, importarono usi e costumi di Roma nelle proprie terre natie. O anche grazie alle magistrature delle élite galliche.

Suddivisione cantonale della Grande Lombardia

Credo sia cosa utile e, si spera, gradita presentare la ripartizione amministrativa lombardista della Grande Lombardia indipendente, che come sapete segue criteri cantonali. Scenderemo nel dettaglio, allegando una cartina esplicativa, disegnata da Adalbert Roncari, ed elencando entità cantonali e loro distretti, con tanto di emblemi realizzati dallo stesso Roncari e da una militante, su indicazione di Paolo Sizzi, che qui ci limiteremo a descrivere. Vale la pena ricordare che, secondo il lombardesimo, il concetto di regione non sussiste più, se non per meri fini demografici e statistici, poiché fomite di regionalismi e poiché gli preferiamo, come detto, quello di cantone, sulla base delle vicende storiche delle città padane precipue e dei relativi comitati/contadi. Ma un criterio importante è dato anche dai confini naturali, specie idrografici, impiegati per conferire forma concreta alla suddivisione politica. Illustreremo per prime le entità amministrative della Lombardia etnica, che è il cuore della Lombardia storica, e via via tutte le altre.

Cartina cantonale della Grande Lombardia

Lombardia subalpina (Piemonte, in giallo):

  • Canton Turin (Taurasia), con i distretti di Torino (capoluogo), Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Canton Coni (Bagiennia), con i distretti di Cuneo (capoluogo), Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Canton Lissandria (Ambronia), con i distretti di Alessandria (capoluogo), Asti e Acqui.

Lo stemma di Torino è la bandiera crociata con croce bianca in campo blu, orlata d’oro, risalente all’assedio francese del 1706; quello di Cuneo è l’insegna storica del Marchesato di Saluzzo, d’argento al capo d’azzurro; quello di Alessandria, parimenti, riprende il simbolo del Marchesato e del seguente Ducato del Monferrato, d’argento al capo di rosso.

Lombardia cispadana (Emilia, in rosso):

  • Canton Parma (Marizia Orientale), con i distretti di Parma (capoluogo), Fidenza e Fiorenzuola;
  • Canton Moddena (Boica Occidentale), con i distretti di Modena (capoluogo), Reggio e Carpi;
  • Canton Piasenza (Marizia Occidentale), con i distretti di Piacenza (capoluogo), Voghera e Tortona.

Lo stemma di Parma è la nota bandiera crociata, con croce blu in campo giallo; quello di Modena è il bipartito giallo-blu del comune omonimo; quello di Piacenza è il bipartito rosso-bianco del comune piacentino.

Lombardia transpadana occidentale (Insubria, in azzurro):

  • Canton Milan (Bassa Insubria), con i distretti di Milano (capitale della Lombardia e capoluogo), Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia (capitale morale della Lombardia);
  • Canton Comm (Alta Insubria), con i distretti di Como (capoluogo), Lecco, Lugano e Varese;
  • Canton Noara (Lebecia), con i distretti di Novara (capoluogo), Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano;
  • Canton Locarn (Leponzia), con i distretti di Locarno (capoluogo), Domodossola, Intra e Bellinzona.

Lo stemma di Milano è la Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco; quello di Como lo scaccato bianco-rosso del Seprio; quello di Novara la Croce di San Giovanni Battista, bianca in campo rosso; quello di Locarno il bipartito rosso-blu del Ticino.

Lombardia transpadana orientale (Orobia lato sensu, in verde):

  • Canton Bressa (Alta Cenomania), con i distretti di Brescia (capoluogo), Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Canton Bergom (Orobia), con i distretti di Bergamo (capoluogo), Crema, Clusone e Zogno;
  • Canton Cremona (Bassa Cenomania), con i distretti di Cremona (capoluogo), Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Canton Sondri (Vennonezia), con i distretti di Sondrio (capoluogo), Tirano e Chiavenna.

Lo stemma di Brescia è il bipartito bianco-azzurro del comune omonimo; quello di Bergamo il bipartito d’oro e di rosso del municipio bergomense; quello di Cremona il fasciato bianco-rosso del comune cremonese; quello di Sondrio riprende il bianco e l’azzurro della bandiera comunale sondrasca, inquartandoli.

Veniamo ora ai restanti ambiti cantonali della Grande Lombardia, dopo aver passato in rassegna quelli della Lombardia etnica.

Lombardia genovese (Liguria, in marrone):

  • Canton Sgenoa (Ingaunia), con i distretti di Genova (capoluogo), Savona, Rapallo, La Spezia e Massa;
  • Canton Nizza (Intimilia), con i distretti di Nizza (capoluogo), Sanremo e Imperia.

L’insegna di Genova è la classica Croce di San Giorgio, orlata d’oro; quella di Nizza è un fasciato bianco-azzurro che riprende le onde presenti nel simbolo nizzardo (a partire da quello della Contea omonima), sotto all’aquila rossa e ai tre monti.

Lombardia romagnola (Romagne, in arancione):

  • Canton Bologna (Boica orientale), con i distretti di Bologna (capoluogo), Imola, Ferrara e Comacchio;
  • Canton Ravenna (Romagna), con i distretti di Ravenna (capoluogo), Cesena e Forlì;
  • Canton Rimin (Senonia), con i distretti di Rimini (capoluogo) e Pesaro.

Il simbolo di Bologna è, anche in questo caso, la Croce di San Giorgio, orlata di blu; quello di Ravenna è il troncato giallo-rosso della bandiera tradizionale romagnola; quello di Rimini riprende lo scaccato, parimenti giallo-rosso, del blasone dei Malatesta.

Lombardia tirolese (Rezia cisalpina, in blu):

  • Canton Trent (Anaunia), con i distretti di Trento (capoluogo), Cavalese e Cles;
  • Canton Bolzan (Tirolo), con i distretti di Bolzano (capoluogo), Merano, Bressanone, Brunico e Silandro.

Lo stemma trentino riprende quello del Principato vescovile di Trento, con le tre bande orizzontali porpora-bianco-porpora; quello di Bolzano la bandiera bianco-rosso-bianca a strisce orizzontali del comune di Bolzano, con un cromatismo che rimanda alla Contea del Tirolo.

Lombardia veneta (Veneto, in rosa):

  • Canton Venezzia (Venethia), con i distretti di Venezia (capoluogo), Chioggia, Padova, Treviso e Rovigo;
  • Canton Visenza (Cymbria), con i distretti di Vicenza (capoluogo), Bassano e Schio;
  • Canton Verona (Euganea), con i distretti di Verona (capoluogo), Bussolengo, Legnago e Villafranca;
  • Canton Bellun (Catubrinia), con i distretti di Belluno (capoluogo), Pieve di Cadore, Conegliano e Castelfranco.

Lo stemma di Venezia, tramite le bande orizzontali giallo-rosse, riprende la bandiera storica della Serenissima, caratterizzata soprattutto dal Leone di San Marco; quello di Vicenza allude al blasone a strisce orizzontali giallo-verdi dei da Romano (Ezzelini), signori medievali di Vicenza originari del suo territorio; quello di Verona è la nota bandiera crociata con croce gialla in campo blu; quello di Belluno, di nero al capo d’argento, riprende il blasone dei da Camino, casata trevigiana che esercitò il proprio potere fra Treviso e il Cadore.

Lombardia giuliana (Carnia e Istria, in grigio):

  • Canton Triest (Istria), con i distretti di Trieste (capoluogo), Pola e Fiume;
  • Canton Gorizzia (Julia), con i distretti di Gorizia (capoluogo), Aidussina e Tolmino;
  • Canton Udin (Carnia), con i distretti di Udine (capoluogo), Cividale, Gemona, Cervignano e Tolmezzo;
  • Canton Pordenon (Friuli), con i distretti di Pordenone (capoluogo), Maniago e Portogruaro.

Simbolo di Trieste è lo spiedo da guerra, “alla furlana”, bianco in campo rosso; quello di Gorizia il troncato giallo-azzurro tratto dalla bandiera della provincia; quello di Udine il tradizionale scudo bianco-nero della nobile famiglia dei Savorgnan; quello di Pordenone riprende i colori della bandiera pordenonese, rosso-bianco-rossa a bande verticali.

Presentiamo qui, a mo’ di esempio, l’insegna cantonale del Canton Milan – e Milano è la capitale storica della Lombardia etnica e della Grande Lombardia -, per dare un’idea di come siano stati concepiti gli stemmi. Potete reperire gli altri sul profilo Instagram di Paolo Sizzi.

Canton Milan

Ovviamente, le città alpino-padane hanno anche altri simboli, che non sono stati da noi impiegati poiché gli stemmi dei cantoni devono essere semplici e immediati. Gli emblemi peculiari di ogni centro restano patrimonio comunale, naturalmente inscritto nella più ampia realtà cantonale. Il nostro intento, pensando anche alla stessa suddivisione amministrativa di una Grande Lombardia indipendente, è quello di dare degna rappresentanza a tutte le genti cisalpine, dalla politica alla simbologia, nel novero di un etnostato sicuramente unito, coeso e forte ma aperto a blande forme di federalismo, appunto, cantonale. Nulla di paragonabile alla Confederazione Elvetica, fortunatamente, poiché la Lombardia esiste ed è una nazione, dal Monviso al Nevoso e dal Gottardo al Cimone, mentre la Svizzera vera e propria è giusto un cantone alemanno, per quanto dilatata all’inverosimile sino ad inglobare territori granlombardi.

La Lombardia cispadana (Emilia)

Torino, Statua al fiume Po

La Lombardia meridionale tradizionale, che comprende parte della Val Padana, riguarda i territori di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. Nella visione lombardista che ho teorizzato, i due Oltrepò, pavese e mantovano, sarebbero da assegnare all’Emilia, per motivi linguistici e geografici.

E, infatti, la vera Lombardia meridionale comprende i territori cispadani sino al Panaro, inclusi gli Oltrepò e il Tortonese. Per ragioni di influssi culturali le aree di Tortona, Voghera, Piacenza e Suzzara sono le prime ad essere associate alla Transpadana; nel caso del Piacentino si tratta soprattutto della parte centrosettentrionale della provincia, perché quella restante è di influenza ligure. Tuttavia, venendo a parlare di suddivisione cantonale della Lombardia etnica, in questo caso della sezione cispadana, anche le zone tendenti alla Liguria rientrano nel dominio etnico.

La Lombardia meridionale tradizionale, in senso allargato, comprende dunque Tortona, Voghera, l’Oltrepò pavese, Piacenza (fino all’angolo nordoccidentale della provincia di Parma, zone come Busseto, Fidenza e Salsomaggiore), Pavia (con la Lomellina, Vigevano, tendenti al Piemonte), Lodi, Cremona, Casalmaggiore, Mantova e l’Oltrepò mantovano. La Lombardia meridionale lombardista, invece, racchiude tutti i territori a sud del Po, sino almeno al confine orientale costituito dal corso del fiume Panaro.

Grande protagonista delle vicende meridionali è il Padus che dà il nome alla Pianura Padana e che costituisce una frontiera naturale, sebbene non troppo severa viste le reciproche influenze, fra Transpadana e Cispadana. Il vero confine meridionale della Grande Lombardia corre lungo lo spartiacque appenninico, che poi coincide con l’isoglossa Massa-Senigallia.

Il termine ‘Padania’, che non è un etnonimo e si presta a mille inflazioni e banalizzazioni politiche, può essere un utile coronimo da impiegare per definire fondamentalmente l’Emilia, che è il fulcro della Val Padana, della pianura dell’Eridano, per dirla in chiave mitologica. Come sappiamo, l’Emilia deve il suo nome latino alla via che collega Piacenza a Rimini, costruita da Marco Emilio Lepido, console romano. ‘Padania’ può comunque essere un sinonimo geografico di Cisalpina.

La Lombardia medievale inglobava tutta la Padania, specie quella occidentale, dunque Insubria, Orobia, Piemonte, Liguria ed Emilia (basti pensare alla città di Reggio, che prima della sciagurata unificazione tricolore si chiamava Reggio di Lombardia), e il lombardesimo ricalca pertanto l’etnogenesi medievale del popolo lombardo, a partire dal contesto etnico, cioè del bacino padano. Oggi, conservare le specificità regionali classiche appare poco utile, poiché fiacca il nazionalismo lombardo; per tale motivo puntiamo sui cantoni, dunque sui contadi storici, anche perché sovente i toponimi delle regioni sono privi di significato etnoculturale (vedasi ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’).

Ci sarebbe poi la Romagna, storicamente distinta dall’Emilia ma non certo remota da essa, soprattutto pensando a Bologna e Ferrara (che il lombardesimo è propenso ad associare alla prima). Linguisticamente si può dire che vi sia un continuum tra Emilia orientale e Romagna, ma la tendenza si può registrare a partire dall’area orientale del Parmense, dove non per caso principia l’assenza delle vocali turbate. C’è pure da aggiungere che diversi linguisti parlano di dialetti emiliano-romagnoli.

A livello miseramente amministrativo, allo stato dell’arte, la Lombardia meridionale comprende le province di Pavia (contigua a quella di Lodi, città fortemente legata alla capitale longobarda, alleata fedele del Barbarossa e in lotta con Milano), Cremona (a cui va tolto il Cremasco ma non l’area di Soresina) e Mantova (a cui andrebbe Casalmaggiore, oggi sotto Cremona e senza Suzzara e l’Oltrepò).

In termini lombardisti, invece, la suddivisione amministrativa ideale della Cispadana ragionata, in cantoni e distretti, sarebbe la seguente:

  • Parma (Marizia Orientale), con Fidenza e Fiorenzuola;
  • Modena (Boica occidentale), con Reggio e Carpi;
  • Piacenza (Marizia Occidentale), con Voghera e Tortona.

La sciocca distinzione tra (Regione) Lombardia ed Emilia banalizza la vera accezione etnica di Lombardia, che riguarda anche il territorio piemontese. Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, tradizionalmente meridionali – ma non cispadane -, appartengono a domini distinti: Pavia e Lodi al contesto insubrico, Cremona e Mantova a quello orobico, anche se zone di transizione (eccetto il Lodigiano).

Insegne cantonali di queste province sono la croce parmense blu su sfondo giallo, il bipartito giallo-blu modenese e il bipartito rosso-bianco piacentino. Menzioniamo, comunque, anche la Croce di San Giovanni Battista pavese, lo scudo crociato giallo-rosso lodigiano e la Croce di San Giorgio (con aquile imperiali nere) mantovana.

La Bassa della Regione Lombardia è area ibrida, per così dire, e vi sono influenze reciproche con l’Emilia. Il Po non è un’opinione, e viene adottato anche da noi lombardisti come confine fra Transpadana e Cispadana, ma ribadiamo che entrambe, almeno fino al Panaro nel caso meridionale, sono Lombardia etnica.

I dialetti della famiglia linguistica lombarda, cioè gallo-italica, parlati in queste terre sono quelli classicamente considerati emiliani: tortonese, oltrepadano, piacentino, parmigiano, reggiano, modenese a cui va senz’altro aggiunto il mantovano, specie dell’area oltrepadana. Il pavese è ibrido insubrico-emiliano e il cremonese orobico-emiliano , mentre il lodigiano è piuttosto cisabduano [1]. L’area casalasco-viadanese è mantovana, ricordiamo.

Gli influssi milanesi sul Pavese sono assai forti e lo orientano più verso Milano che verso l’Emilia, e infatti il territorio di Pavia (senza Lomellina e Oltrepò) rientra nel Canton Milano (Bassa Insubria). E, allo stesso modo, anche il Lodigiano è milanese, mentre Cremonese e Mantovano (senza Oltrepò) si associano nel Canton Cremona (Bassa Cenomania).

Tortonese, oltrepadano e piacentino, invece, hanno influssi transpadani che si notano bene, ad esempio, nella presenza delle vocali turbate di origine celto-germanica œu e u e di altri fenomeni, anche a livello di lessico e di costrutti fraseologici. Ma rimangono parlate cispadane, “emiliane”.

In fondo, queste aree, come il resto di Lombardia odierna ed Emilia, hanno conosciuto le medesime popolazioni: Liguri, Celto-Liguri, Galli, Romani, Longobardi (giunti tardi nel Bolognese e nel Ferrarese).

Quel che separa Transpadana e Cispadana, oltre alla geografia, è l’antica impronta etnoculturale emiliana, di tendenza italica, villanoviana e dai più forti influssi etruschi (vedasi l’Etruria padana), che oltre il Po giungevano sino a Mantova (ivi si trovava l’emporio del Forcello) [2]. Ricordiamo, ad ogni modo, gli Anamari, o Anari, tra Piacenza e Parma, popolazione forse celto-ligure.

Nella Regione Lombardia meridionale trovarono spazio Liguri (tra cui Levi e Marici ad occidente, ma anche a sudovest del Fiume), Celto-Liguri, Galli (Insubri, Boi, Cenomani) ed alcuni generici influssi proto-italici, villanoviani e quindi etruschi, soprattutto a Cremona e Mantova.

Forte la romanizzazione delle terre meridionali, come dimostrano centuriazioni e rete viaria, e le svariate colonie dedotte (tra cui Cremona, Pavia, Lodi, Piacenza, Fidenza ad ovest). La colonizzazione romana fu fitta e portò, sicuramente, ad un drastico ridimensionamento dell’elemento gallico, anche se la romanofilia esagera palesemente nel cianciare di massacri ai danni dei nativi. Peraltro, un bel termine per definire la Lombardia etnica meridionale potrebbe essere ‘Boica’ [3].

Gli Etruschi, spesso inquadrati come invasori levantini, erano il risultato della sedimentazione locale di più popoli: autoctoni mediterranei [4], “Italici” indoeuropei (protovillanoviani e villanoviani) e, forse, una tarda classe dominante di egeo-anatolici [5]. Stando ai più moderni studi genetici, pare tuttavia che gli Etruschi fossero geneticamente indistinguibili dai Latini, senza apporti levantini sospetti. Fu la romanizzazione a recare geni recenti originari del Mediterraneo orientale nelle aree tirreniche, andando ad intaccare il genoma indigeno.

I Liguri, invece, erano prevalentemente autoctoni mediterranei, sebbene fortemente indoeuropeizzati (celtizzati, in particolar modo). In antropologia fisica, il cosiddetto tipo ligure è l’atlanto-mediterranide, ossia un fenotipo mediterraneo fortemente dolicocefalo, alto, robusto e più chiaro di quello basico, progressivo per usare un termine caro a certi ambienti antropogenetici amatoriali.

I Longobardi fecero la loro parte, fino a Spilamberto segnatamente, e colonizzarono sensibilmente l’area appenninica tosco-padana (si può rintracciare un curioso picco di biondismo nella Lunigiana settentrionale).

La Lombardia meridionale presenta un aspetto sub-razziale atlanto-mediterranide, alpinide o padanide, ossia, come abbiamo già visto, risultante dall’incrocio tra tipo ligure e quello adriatico (dinaride). Un’area certamente più mediterranea della Lombardia transpadana. Anche gli Etruschi tardi, i coloni romani e i Bizantini hanno contribuito, e lo si vede nella componente genetica anatolico-caucasica che si fa più marcata varcando il Po a sudest (specie se si parla della zona ferrarese). Si tratta comunque di componenti secondarie, non di ceppo predominante. Geneticamente parlando, la Padania si colloca globalmente nell’Europa sudoccidentale [6], assieme a Iberia e Occitania, a differenza dell’Italia etnica che ha un maggiore input sudorientale, in particolar modo nel meridione.

La Lombardia amministrativa di mezzogiorno, per così dire, fa degnamente parte della Lombardia transpadana, anche per via dei determinanti influssi signorili milanesi. Zone come Pavia, Lodi e Cremona hanno sempre orbitato attorno alla capitale lombarda, e questo si fa sentire parimenti a livello linguistico ed etnico.

Del resto, pure una città come Piacenza è decisamente più legata a Milano che a Bologna, e le influenze ambrosiane arrivano sino ad Alessandria e Vercelli, in Piemonte, i cui stemmi sono copia di quello milanese, marca della Lega Lombarda come tutti gli altri scudi crociati, col Sangiorgio, della Cisalpina. Ma eguale importanza ricopre il negativo di tale vessillo, che è la croce ghibellina di San Giovanni Battista, forte in Piemonte, Insubria, Ticino, e presente qua e là in tutta la Padania.

Una mentalità “lombarda” imprenditoriale, industriale, liberale (ma non lo dico certo con vanto, anzi) contraddistingue l’Emilia nordoccidentale nei confronti del resto della regione e la accosta proprio alla Regione Lombardia meridionale, tanto che per certi versi, come abbiamo visto, può esserne una sua propaggine.

Il mondo emiliano stereotipato è fatto di tortellini, salumi, formaggi, motori, vino, cantautori, spirito dissacrante, comunismo e sindacalismo, e capite bene che una città come Piacenza tenda a sottrarsi da questo contesto, virando sul mondo transpadano.

Ma da un punto di vista linguistico, e nonostante i ben noti influssi, il piacentino è certamente più emiliano che cisabduano, al pari di tortonese e oltrepadano, e così a livello geografico essendo cispadano. Per questo manteniamo, come confine amministrativo cantonale, il grande fiume delle pianure.

Possiamo dire che esista una Lombardia al di qua del Po e una al di là, adottando il punto di vista milanese [7], ma sono entrambe parte del medesimo contesto etnico, e della medesima nazione, la Grande Lombardia.

Note

[1] Alcuni dialettologi affermano l’esistenza di un lombardo della bassa Regione Lombardia, da Pavia a Mantova, ma è soltanto una suddivisione di comodo.

[2] A sud del Po, civiltà quali le terramare (che avevano comunque propaggini transpadane), il protovillanoviano e il villanoviano si inscrivono, tradizionalmente, nel contesto italico ed etrusco, dove per ‘italico’ si intende comunque una fase protostorica ed embrionale, non storica.

[3] I Galli Boi devono il loro etnico o ad una derivazione “bovina” oppure ad una guerriera; nel secondo caso, vedi l’ipotesi formulata da Pokorny. In rete si parla del celtico bogos ‘distruggere’, ma non ho trovato validi riferimenti al riguardo.

[4] Imparentati coi Reti e locutori dell’etrusco, fossile linguistico preindoeuropeo.

[5] Vedasi anche la fase finale orientalizzante della civiltà etrusca.

[6] Si consideri, comunque sia, che più si procede verso nord e verso est, nel contesto padano-alpino, e più aumenta la tendenza centro-europea.

[7] I concetti correnti di Transpadana e Cispadana sono, in realtà, il frutto della visione romana.

L’idea della Chiesa nazionale ambrosiana

La posizione ufficiale del lombardesimo in materia di religione e spiritualità ormai la conosciamo, ed è l’etno-razionalismo; l’unione, cioè, di etnonazionalismo e razionalismo che rimette al centro di tutto sangue, suolo, spirito, in nome del bene più importante che abbiamo, la patria. Il lombardesimo crede fortemente nel valore della ragione, che è il faro dell’essere umano, segnatamente bianco, e lo coniuga con il nazionalismo etnico, ideologia guida lombardista, in un’Europa sempre più in balia di relativismo e progressismo. Pur condannando i concetti moderni di ateismo, laicità e secolarizzazione, il lombardista coerente ripudia la metafisica, specialmente se si tramuta in universalismo abramitico.

C’è però da dire che, in linea teorica, abbiamo pensato ad una forma di religiosità destinata a quanti, in Lombardia, aspirino ad una vita spirituale, e che potesse essere del tutto compatibile coi destini etno-razziali della nazione. Come lombardisti non siamo per forza di cose empi, e capiamo bene che possano esserci lombardi interessati alla dimensione non strettamente materiale dell’esistenza. Dal punto di vista sizziano questa esigenza non si pone perché Paolo è razionalista, realista, materialista nel giusto, ma chiaramente non siamo tutti uguali; per tale ragione lo stesso Sizzi ha individuato un tipo di spiritualità che risulti essere compatibile e tollerabile, nell’ottica völkisch, e quindi inscindibile dal vincolo biologico.

Ebbene tale nuova, rivoluzionaria, religione va sotto il nome di Chiesa nazionale ambrosiana. Nulla di cristiano o cattolico, nonostante il nome, bensì una trasmutazione gentile del cattolicesimo latino insubrico. In altre parole, un culto pagano che sublimi ed emendi dalla patina giudeo-cristiana gli elementi tollerabili della religione ambrosiana, eliminando ogni riferimento al mondo ebraico e scristianizzando la dottrina, lasciando così spazio all’eredità solare della tradizione religiosa milanese. Come sapete il rito ambrosiano, che è una variante del cattolicesimo latino, viene adottato storicamente in quella che è l’arcidiocesi di Milano, ma un tempo riguardava un territorio assai più esteso coincidente almeno con l’intera Padania geografica (il bacino del Po).

Le origini stesse del cattolicesimo ambrosiano vanno ricercate nei riti cristiani occidentali, latini, di matrice gallica (rito celtico e rito gallicano), che hanno non a caso assorbito elementi della spiritualità indigena celtica. Anzi, parrebbe che proprio dal culto ambrosiano derivino le liturgie altomedievali cosiddette gallicane, segno della preminenza del rito nostrano. Certo, stiamo parlando di Sant’Ambrogio, di Chiesa, di cristianesimo ma questa discussione non può assolutamente prescindere dalle radici, anche spirituali, galliche del territorio granlombardo. La spiritualità cristiana occidentale, cattolica, è certamente debitrice dell’esperienza religiosa cisalpina, anche se non tutti gli studiosi concordano sulle origini della liturgia ambrosiana.

Ciò che a noi interessa è la questione della trasmutazione pagana del rito ambrosiano, che chiamiamo ambrosiano per comodità e per radicamento storico dell’aggettivo. Non si tratta infatti di mantenere tale e quale il cattolicesimo insubrico, ma di trasformarlo in gentilità, cosicché sulla base autoctona pagana possa innestarsi l’elemento uranico confluito nel cattolicesimo, recuperandolo dalla distorsione biblica ed evangelica, dunque ebraica, e dalla depravazione universalista. Niente più scenari palestinesi, divinità giudaiche, messia desertici, morale mesopotamica, personaggi da presepe, ma solo accezione solare e, dunque, indoeuropea. Perché i nostri padri ariani rappresentano il modello da seguire, in materia di spiritualità. Per chi ha a cuore la questione, si capisce.

Tutto questo non è in contraddizione con l’etno-razionalismo, che resta la posizione ufficiale del lombardesimo. Paolo Sizzi è ateo ma capisce bene che il vuoto lasciato dal cattolicesimo, in terra lombarda, non possa essere colmato dalla spazzatura laicista di conio giacobino-massonico, progressista, ed è perciò necessario offrire una nuova via religiosa a quanti avvertono il bisogno di realizzarsi anche spiritualmente. Non più cristianesimo, cattolicesimo romano, ma gentilità, fondata sui veri culti tradizionali delle nostre terre. Il termine ‘Chiesa’ impiegato per definire la fede patriottica granlombarda non deve confonderci: non si allude più a Roma, ma ad una Chiesa come assemblea fraterna, etimologicamente parlando, che vada a designare il consesso dei credenti ambrosiani, cementato dal sangue lombardo. Il legame tra sacro ed etnia deve essere totale.

I culti tradizionali che contribuirebbero alla formazione del nuovo, rivoluzionario, credo sarebbero quelli preromani, soprattutto celtici, ma anche la religione gallo-romana che come la famiglia linguistica galloromanza è il frutto culturale dell’unione di mondo latino e mondo autoctono celtico. Infine va considerato anche l’apporto di superstrato germanico, nello specifico longobardo, per quanto il paganesimo (o etenismo, diremmo oggi) nordico sia stato presto abbandonato dai Longobardi calati nella valle del Po, in favore del cristianesimo, prima ariano poi cattolico. Anzi, una volta nella Cisalpina il culto dei padri era già quasi del tutto sopito, a livello ufficiale, sopravvivendo nelle credenze del popolo, più che della classe aristocratica.

Si tratterebbe, dunque, di modellare una religione fondamentalmente pagana grazie ai vari contributi spirituali degli antichi padri, contestualizzandola nell’oggi della Grande Lombardia, preservando la tradizione per come ci è giunta grazie al retaggio indogermanico, ariano, e preservando magari quei pochi elementi tollerabili del cattolicesimo ambrosiano. Tollerabili perché indigeni. Evidente come la Chiesa abbia assorbito echi di origine pagana, trasformandoli in cattolici; ebbene, noi dobbiamo recuperarli e decantarli dalle scorie desertiche, dando loro nuova linfa vitale in chiave gentile. L’operazione, personalmente, mi intriga da un punto di vista culturale, non certo spirituale, visto che sono ateo e non votato alla ricerca di un qualcosa che ritengo non esista (il trascendente).

Calendario liturgico, festività, uso del greco e del latino, gerarchia ecclesiastica, culto dei santi e delle madonne (che sovente sono figure pagane), trasvalutazione europide di fatti culturali semitici, credo trinitario, dualismo tra bene e male, la solarità del Cristo, figure angeliche e demoniche, la simbologia della croce sono tutte caratteristiche di origine pagana cristianizzate da Roma (e la stessa centralità dell’Urbe è una ripresa della religio antica). Perciò questi elementi potrebbero in qualche modo venir preservati, immettendoli direttamente nella fede della Chiesa nazionale ambrosiana, a sua volta trasvalutata dall’ethos ariano. Per ‘ariano’ intendo indoeuropeo, ma c’è da dire che anche l’arianesimo longobardo era interessante, in quanto forma di culto patriottico e nazionalista, contrapposto alle mene ecumeniche papaline.

I tratti solari del cattolicesimo sono d’altra parte il frutto del retaggio indoeuropeo, i preti non si sono inventati nulla: la divinità uranica del Diespiter celeste (il Dio Padre della luce diurna), la vita oltremondana dei morti in sedi celesti, l’aspirazione al cielo delle anime liberate dal corpo grazie all’incinerazione (ove il fuoco assume un valore sacrale non solo di purificazione ma anche di culto degli antenati), il valore della luce contro le tenebre, la società patriarcale, la monogamia, i legami eterosessuali depongono a favore di una religione cattolica profondamente debitrice della gentilità. Ma il cattolicesimo ha distorto e pervertito il paganesimo, storpiandolo con tutto il ciarpame desertico di Bibbia e Vangelo, e con una morale plebea e volgare che inevitabilmente si tramuta in egualitarismo, umanitarismo, terzomondismo, andando a braccetto con il regime dello status quo.

La Chiesa nazionale ambrosiana, che allo stato attuale delle cose è una mera idea, sarebbe il trionfo della vera identità e della vera tradizione, e il trionfo di Milano, della vera Milano, sulla Roma corrotta figlia del marasma imperiale. La capitale granlombarda era già stata sede del santuario di mezzo (da cui il toponimo) celtico, luogo sacro federale dei Galli cisalpini, ed è legittimo che ambisca ad un rinnovato ruolo anche in chiave spirituale. Milano è la patria del Tredesin de marz, l’equinozio di primavera meneghino, ricorrenza cristianizzata ma dalle ovvie radici pagane; sarebbe interessante, infatti, che il simbolo dell’ambrosianesimo fosse la pietra forata dei tredici raggi, detta di San Barnaba, un’antica mola di epoca gallica reimpiegata in senso cristiano. O in alternativa il noto Sole delle Alpi, un emblema radioso che dai Celto-Liguri passò ai Gallo-Romani e ai Longobardi.

La Lombardia transpadana occidentale (Insubria)

Biscione visconteo

La Lombardia transpadana occidentale, o Insubria [1] etnica come la si potrebbe chiamare per comodità, è il fulcro della Grande Lombardia, il centro della nazione, suo cervello, cuore e motore.

‘Insubria’ deriva dal termine celtico, rafforzato, *suebro- ‘forte, violento’, riferito agli antichi celto-liguri Insubri [2]. Tale etnonimo passò poi ai Galli storici del IV secolo avanti era volgare (probabilmente Biturigi) che occuparono il territorio lombardo fino al fiume Oglio (a Bergamo, contrariamente a quanto si crede comunemente, si stanziarono proprio questi, e non i Cenomani, e il Bergamasco infatti venne inserito, dai Romani, con Milano nella Gallia Transpadana, e non nella Venetia con Brescia). Anche la Cultura di Golasecca andava dal fiume Sesia fino al Serio, altro corso d’acqua locale, in territorio orobico, dove si trovavano appunto i celto-liguri Orobi.

L’Insubria corrisponde all’antico territorio abitato fondamentalmente dai celto-liguri Insubri e Leponzi, e dopo Roma discretamente germanizzato dai Longobardi che si diedero come centri vitali Milano, Monza, e il Seprio (Pavia, la capitale, è situata nella fascia insubrica meridionale, influenzata dal mondo padano) e che più tardi corrisponderà al nerbo del Ducato di Milano.

Milano, la grande capitale della Lombardia etnica e della Lombardia storica, è da sempre il perno dell’Insubria, la città che ha plasmato il territorio circostante, da Lodi al Ticino. Socialmente, politicamente, culturalmente, linguisticamente.

L’area insubrica genuina è formata dalle terre di Milano, Lodi, Monza, Brianza, Lecco, Como, Legnano, Busto Arsizio, Varese, Novara, Intra e Pallanza (Verbania), Canton Ticino e Mesolcina (quest’ultimi, oggi, sotto la Confederazione Elvetica). La Svizzera inoltre comprende anche la valle del Sempione, essa pure parte insubrica del bacino del Po, come la restante regione lombarda. Noi lombardisti tendiamo inoltre a legare all’Insubria, intesa in senso statistico e demografico, Pavia, Valsesia, Vercelli e Biella.

Si tratta, come fulcro storico, di una regione piuttosto omogenea, sia etnicamente che culturalmente, con un solido sostrato proto-celtico/celto-ligure (Golasecca e Canegrate) e gallico (Insubres romani), corroborato dalla dominazione longobarda che ha profondamente inciso sul territorio, e poi dalla signoria dei Visconti, che sotto l’egida del germanico Bisson ha retto le sorti dell’Insubria ducale si può dire fino al 1500.

La romanizzazione, per quanto fondamentale in termini culturali e identitari, non stravolse il territorio, e portò ad una lenta assimilazione dell’elemento celtico nativo, che adottò spontaneamente i costumi latini. Questo, certamente, dopo i ben noti fatti bellici che contrapposero i Galli ai Romani, portando alla sconfitta e alla pacificazione dei primi.

L’area è omogenea pure linguisticamente perché la koinè milanese ha costituito un ottimo collante politico-culturale, anche se degni di nota sono pure il ticinese, il brianzolo, il laghee, il lodigiano e le parlate più occidentali influenzate dal piemontese.

Parimenti, Valtellina, Grigioni lombardofono e Pavese risentono degli influssi del milanese e le parlate di quei luoghi, i primi due soprattutto, sono classificate come lombardo occidentale (che nella terminologia dei moderni linguisti indica l’insubrico/cisbaduano). I dialetti di Pavia (eccetto quelli della Lomellina), invece, sono di transizione con l’emiliano. Un discorso simile si potrebbe fare con la Valsesia, stretta fra Piemonte e Insubria, fermo restando che il piemontese orientale mostra certamente alcuni fenomeni di transizione.

Volendo suddividere amministrativamente la Lombardia transpadana occidentale, che è poi la Lombardia etnica centrale di noi lombardisti (con l’aggiunta del territorio pavese e del Piemonte orientale), avremmo i seguenti ambiti cantonali, con relativi distretti:

  • Milano (Bassa Insubria), con Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia;
  • Como (Alta Insubria), con Lecco, Lugano e Varese;
  • Novara (Lebecia), con Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano;
  • Locarno (Leponzia), con Domodossola, Intra e Bellinzona.

Attenzione: il lombardesimo non propugna, nel contesto grande-lombardo, la creazione di vere e proprie regioni, bensì di cantoni, e loro distretti,  blandamente federati. Non siamo certo regionalisti, anche se riconosciamo tranquillamente l’esistenza di realtà storico-culturali, come la stessa Insubria in termini correnti (e poetici).

Non serve dunque un’insegna globale insubrica perché quella classica del Ducale visconteo (Aquila imperiale e Biscione), a mio avviso, è l’ideale stemma della Lombardia intera, emblema dell’etnostato cisalpino. I cantoni, invece, possono tranquillamente utilizzare le insegne delle loro città precipue (o dei territori storici), e dunque Croce di San Giorgio per Milano, bandiera sepriese a scacchi bianco-rossi per Como, Croce di San Giovanni Battista per Novara, bipartito rosso-blu ticinese per Locarno. Segnaliamo, comunque sia, la nota Scrofa semilanuta, uno dei simboli gallici della capitale lombarda.

La Croce di San Giorgio milanese, anche se non può vantare le origini e la storia della genovese (che ha inciso su quella d’Albione), ha un profilo autonomo, all’interno delle vicende medievali; emblema del comune di Milano, della Lega Lombarda, di moltissime città padane guelfe esprime la coscienza patriottica dei lombardi e il loro spirito d’appartenenza, mirabilmente sfociati nel giuramento di Pontida e, soprattutto, nella battaglia di Legnano. Unita alla Croce di San Giovanni Battista, ghibellina, e allo Swastika camuno, appare quale ideale bandiera nazionale cisalpina.

Naturalmente abbiamo poi il Biscione e il Ducale viscontei, originari dell’Insubria, che costituiscono, il primo, il simbolo se vogliamo del popolo lombardo, del suo retaggio celto-germanico (essendo di ascendenze nordiche) e della sua cultura storica, il secondo, il miglior emblema possibile per la nazione lombarda, rappresentato da un quadripartito bianco-dorato in cui, alternandosi, troviamo l’Aquila del Sacro Romano Impero, latino-germanica, e il Bisson, blasone prima visconteo (ma in origine della città ambrosiana e delle sue milizie comunali) e poi sforzesco, indissolubilmente legato a Milano e alla Lombardia intera.

Per quanto riguarda invece la questione linguistica diamo qui una veloce carrellata dei principali dialetti occidentali – in realtà centrali – del lombardo: milanese (il lombardo per antonomasia), dialetti milanesi, legnanese, brianzolo, ticinese, ossolano, varesotto, bustocco, comasco, laghee, lecchese, lodigiano, novarese, lomellino e alcune parlate gergali. Inoltre, dobbiamo aggiungere le parlate della Valtellina e del Grigioni lombardo, in territorio orientale ma tassonomicamente insubriche.

Questione etnica. Il grosso della Lombardia transpadana occidentale è etnicamente celto-romanzo, gallo-italico, e le sue componenti principali sono la ligure arcaica, la celto-ligure, la gallica (insubrica), la coloniale italo-romana e quella germanica (Goti e Longobardi). A livello sub-razziale/fenotipico, predomina il tipo alpino assieme a quello atlanto-mediterranide, o meglio ancora padanide (dinaride + atlanto-mediterranide), con spruzzate nordiche qua e là, soprattutto in area prealpina e alpina. L’unica minoranza indigena è quella degli alemannici walser che si trovano nel nordovest del territorio.

L’Insubria tradizionale è racchiusa nel bacino imbrifero del Padus, zona tipicamente lacustre, ed è delimitata a nord dalle Alpi Lepontine, ad ovest dal Sesia, a sud dal Po, e ad est dall’Adda. Pavia, come abbiamo visto, è una via di mezzo tra Insubria e Padania (intesa qui come Emilia), rammentando che l’Oltrepò è da considerarsi cispadano in tutti i sensi.

È da sempre il motore della Lombardia, l’area economicamente più ricca e avanzata, animata da intraprendente spirito imprenditoriale perfettamente incarnato dai milanesi e dal Ducato che fu. Dal secondo dopoguerra, per via del boom economico e anche di sciagurate politiche romane, il cosiddetto triangolo industriale capeggiato da Milano è stato investito da milioni di sud-italiani che hanno, volenti o nolenti, stravolto il tessuto etnico e sociale del cuore etnico lombardo, soprattutto per arricchire i soliti noti, a scapito degli indigeni.

Tutte le immigrazioni di massa sono sbagliate, in particolare qualora comportino l’afflusso di realtà etniche e razziali incompatibili. Se l’Insubria oggi annaspa sotto il peso di smog, cemento, inquinamento e traffico “indiano” è anche per questo.

Assieme agli italiani meridionali, circa un milione di veneti si è spostato in territorio occidentale, uniti agli esuli istro-dalmati cacciati dal criminale Tito. Anche molti orobici cercarono fortuna ad ovest.

L’Insubria oggi è piuttosto malridotta e martoriata da una densità demografica mostruosa, dovuta a immigrazione selvaggia (da ogni dove), e dall’industrializzazione scriteriata, ed è un vero peccato perché il territorio insubrico è incantevole, tra laghi prealpini, fiumi, aree collinari, campi e pianure, risaie, e ovviamente Prealpi e Alpi.

La soluzione a questi guai, ovviamente, è l’indipendentismo. Prima ancora, il comunitarismo, che permette il recupero della solidarietà fondamentale, tra connazionali, al fine di riscoprire e dunque difendere le proprie radici.

Gli insubrici sono in via d’estinzione, e in talune zone purtroppo già estinti, anche per colpe proprie, si capisce. Dobbiamo promuovere serie politiche etniciste per far riguadagnare ad essi terreno, perché con la loro scomparsa parlare di Insubria non avrebbe più senso. E allo stesso modo, parlare di Lombardia e di Europa senza più i rispettivi autoctoni.

Note

[1] In senso geografico può essere chiamata Insubria tutta la fascia prealpina e collinare della Regione Lombardia.

[2] L’etimologia viene suggerita qui.