L’immigrazione, soprattutto di massa, è sempre sbagliata, sia che si tratti di scandinavi, sia che si tratti di sub-sahariani. Certo, vi saranno popoli più compatibili di altri, ma ogni spostamento massiccio di popolazioni implica la distruzione del tessuto etno-razziale e culturale originario della nazione costretta ad accogliere. Nella Cisalpina è successo, appunto, anzitutto coi sud-italiani, che hanno aperto le danze e costituiscono senza dubbio il più nutrito elemento allogeno nei territori padano-alpini, arrivando poi a registrare l’afflusso di genti variopinte: negridi, nordafricani, albanesi, romeni, cinesi, sudamericani, arabi, asiatici.
A questi, e a molti altri, vanno sommati gli ebrei e gli zingari, allogeni storici del territorio europeo, che rappresentano comunità nelle comunità , contribuendo a disgregare il carattere indigeno dei Paesi europidi. Certo, l’immigrato più problematico è quello integrato, mimetizzato (si prendano i sud-italiani, dilagati nella valle del Po e rimescolatisi con gli indigeni), e la responsabilità degli autoctoni è sicuramente decisiva, specie considerando la violazione dell’endogamia. Le comunità chiuse di migranti, pensiamo ad esempio ai cinesi, non hanno una portata esiziale come quella di altri allogeni, per quanto, si capisce, costituiscano anch’esse un corpo estraneo, in terra granlombarda ed europea.
L’immigrazione viene fomentata, e giustificata, da quel parassitismo locale che sfrutta gli allogeni per il proprio tornaconto, in barba ai destini del popolo indigeno, che subisce il peso degli esodi. Invece di aiutare le genti sottosviluppate a casa propria, soprattutto per frenarne i selvaggi ritmi riproduttivi e disinnescarne la bomba demografica, si preferisce spalancare le porte a chicchessia con la scusa della solidarietà , della pietà cristiana, dell’umanitarismo e del terzomondismo, senza comprendere – o forse comprendendolo perfettamente – che così facendo non si risolvono i problemi di chi migra, ma si aumentano drammaticamente quelli di chi accoglie. Come se non ci fossero poveri, infelici ed emarginati nostrani, chiaramente liquidati per far posto a quelli esotici.
Inutile fare gli ipocriti benpensanti: gli immigrati alimentano inevitabilmente la criminalità , il degrado, il disagio, i casi di cronaca, le carceri, la sostituzione etnica e razziale dei vecchi e costosi europei. Sono la materia prima dello sfruttamento, l’esercito di riserva del grande capitale apolide, la massa amorfa ghettizzata da quelli bravi e buoni pronta ad esplodere e conquistare città e paesi lombardi, sempre che non l’abbia già fatto. A chi irride coloro che parlano di sostituzione etnica, ricordo sempre la questione sud-italiana, di gente venuta da un Paese straniero che ha preso il posto degli indigeni – ovvio, anche per colpa di quest’ultimi – nei loro centri e che, oltretutto, viene usata da Roma per controllare la Cisalpina. Ed è proprio questa l’assurdità della situazione nostrana (e di altri luoghi d’Europa), e cioè una nazione mai stata colonialista oggi ridotta a colonia di disparati gruppi etnici e razziali, a partire dagli italiani.
I Longobardi, gli “uomini dalle lunghe barbe”, già Vinnili (“i combattenti vittoriosi”), si stanziarono dunque in Lombardia e le tramandarono il nome.
Questo non fa di noi dei germanici, si capisce, bensì dei gallo-romani germanizzati in superficie, europei sudoccidentali con influenze centrali, dunque europei centromeridionali.
I Longobardi hanno corroborato, dove più e dove meno, la toponomastica, l’onomastica, gli usi e costumi, il diritto, gli idiomi, la mentalità e naturalmente l’etnia, ma tutto sommato in maniera contenuta.
Grazie ad essi in Lombardia sorsero il complesso di Castelseprio e il monastero di San Salvatore a Brescia, capolavori dell’arte longobarda oggi patrimonio dell’umanità (sebbene non serva certo l’Unesco per ritenerli tali). Anche la Corona Ferrea conservata a Monza è un gioiello dell’arte altomedievale, simbolo cisalpino prestato ad una dubbia italianità di cartapesta. Ricordiamo, naturalmente, l’importante lascito nordico in territorio friulano, pure in termini artistici.
Vengono convenzionalmente chiamati “barbari” ma l’appellativo è ingiusto; sebbene popolo straniero invasore, inizialmente duro conquistatore e padrone, col tempo i Longobardi assorbirono la cultura classica e la latinità fondendosi con gli autoctoni e guidando la nazione, assieme alla Toscana. L’eredità germanica in genere e longobarda nello specifico si mantenne viva segnatamente grazie ai nobili, anche se un apporto biologico e antropologico è ancor oggi riscontrabile in tutti i lombardi. E il Regno longobardo raggiunse un grado di civiltà unico, nel panorama dell’Europa occidentale del tempo.
La Lombardia divenne grande con Agilulfo e Teodolinda, e poi con Rotari (il sovrano dell’Editto del 643), Grimoaldo, Pertarito, Liutprando (con cui il regno giunse all’apogeo, annettendo i due ducati centromeridionali di Spoleto e Benevento), per quanto ormai la nostra terra fosse quasi del tutto cattolicizzata; nella battaglia di Cornate d’Adda, 689, il re cattolico Cuniperto e l’esercito sconfissero la fronda ariana del duca di Trento Alachis e dei rivoltosi dell’Austria longobarda, spianando così la strada alla conversione cattolica di tutti i Longobardi, certamente un fatale passo verso la Roma papalina.
Liutprando, il più grande sovrano longobardo, sostenendo il cattolicesimo a spada tratta spinse anche per la fusione definitiva dell’elemento longobardo con quello romanico, cosa che prima non era vista di buon occhio dai conquistatori, fautori di una rigida endogamia [1].
Con Ratchis e Astolfo l’epopea longobarda giunse ormai quasi al termine, nonostante il valore soprattutto dell’ultimo, fiero avversario della Chiesa, di Bisanzio e dei Franchi.
La Langobardia Maior aveva via via conquistato tutta la Val Padana, la Liguria, l’Emilia estrema, parte della Romagna, e i Longobardi si erano spinti nell’Italia etnica sconfiggendo ripetutamente i Bizantini, accaparrandosi territori italici, e ricongiungendosi alla riottosa Langobardia Minor meridionale.
I maneggi tra pontifici e Franchi segnarono il destino del regno dei Longobardi, ma non dei Longobardi che, di fatto, anche con i Franchi, continuarono a tenere ben salde le redini del comando territoriale, fondendosi sempre più con i vecchi autoctoni gallo-romani e mantenendo una certa autonomia dirigenziale.
Grazie a Pipino, che sconfisse per primo i Longobardi rompendo i buoni rapporti che intercorrevano con essi in quel momento storico, nacque lo Stato della Chiesa (756), e nel 773-774 scoppiò la fatale guerra tra i due popoli germanici che portò al tracollo del regno sotto Desiderio e suo figlio Adelchi; nel 774 i Franchi conquistarono Pavia e Carlo Magno, secondo vincitore dei Longobardi, divenne “gratia Dei rex Francorum et Langobardorum“. Egli riorganizzò l’entità statuale longobarda con conti al posto dei duchi, collocati nelle città già sedi di ducati.
Nel 776 fallì la ribellione anti-franca nella Padania orientale e la regalità longobarda si spostò così nel centrosud, a Spoleto, Benevento, Capua e Salerno.
Ciò nonostante il grosso dei Longobardi rimase al “nord”, la classe dirigente si mantenne longobarda e il diritto longobardo rimase in vigore sino a ‘400 inoltrato, in taluni casi, chiaro segno che l’etnia indigena non aveva perso e si era armonicamente fusa con i “vinti” di un tempo, gallo-romani, portando a compimento l’etnogenesi subalpina. Non dimentichiamoci però che i Longobardi influirono discretamente anche in Toscana e più a sud, in alcune località soprattutto del Sannio, sebbene nel meridione non siano state trovate necropoli di quel popolo.
Nel 781 Carlo Magno riconfermò a Pavia la dignità di sede centrale del Regno italico (o meglio, del Regno longobardo non più sovrano che assunse il nome di Regnum Italiae, fondamentalmente Padania e Toscana, già Langobardia Maior) ponendo sul trono suo figlio Pipino I. Successivamente, il potentato passò a Lotario, figlio di Ludovico il Pio, nuovo imperatore dopo il padre Carlo Magno, che lo strappò a Bernardo, figlio di Pipino I.
Le vicende franche prima ed imperiali poi, portarono alla calata in Lombardia di alcuni gruppi di immigrati teutischi tra cui, oltre ai Franchi, vanno ricordati Svevi, Alemanni, Bavari, stranieri che andarono a rimpolpare la nobiltà , più che il popolo.
Nell’888, in seguito allo sfaldamento dell’Impero carolingio, Berengario, marchese del Friuli, divenne il primo dei reucci italici, che battagliarono per il possesso dell’attuale nord della Repubblica Italiana. Di fatto, il Regno d’Italia, era un’entità vassalla dei transalpini, con un nome che rievocava fasti romani ma senza alcuna connessione al reale elemento etnico della Lombardia. Oltretutto, il regno si allargò poi comprendendo anche l’Italia mediana.
Nell’891 nacque invece la Marca di Lombardia, per volontà dell’imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica (succeduto a quello franco) Guido da Spoleto, che riuniva i comitati di Milano, Como, Pavia, Seprio, Bergamo, Lodi, Cremona, Brescia, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio di Lombardia, Modena.
Il Regno d’Italia medievale (781-1014) non fu mai una compagine statale capace di imporre la propria autorità , e la corona fu un titolo meramente formale, per quanto prestigioso e ambito potesse essere. Chi comandava fattivamente era l’imperatore germanico di turno.
Nel 950-951 il re Berengario II riorganizzò il territorio del nordovest “italiano” creando tre marche imperiali: Marca Aleramica (Liguria centro-occidentale e Piemonte centromeridionale), Marca Arduinica, già Anscarica (resto del Piemonte, Torino e Ivrea, con la Liguria occidentale) e la Marca Obertenga, che assorbì la precedente marca lombarda (Lombardia transpadana e cispadana più la Liguria orientale e l’Apuania). Queste tre entità territoriali presero il nome dai nobili che le governarono per primi.
Gli Obertenghi erano un nobile casato longobardo di origine milanese, il cui capostipite Oberto I fu il primo reggente della marca suddetta. Da essi si generarono grandi dinastie come i Pallavicino, i Cavalcabò, i Malaspina e soprattutto gli Estensi.
Le tre marche suddette riunivano il territorio della Grande Lombardia occidentale, che già a partire dalla tarda epoca imperiale (romana) veniva indicato come “Liguria” [2]. La porzione orientale, invece, come “Venetia” [3].
Nel 961-962 l’imperatore Ottone I unisce la corona d’Italia-Lombardia al Sacro Romano Impero; egli investì i vescovi di poteri politici inserendoli come vescovi-conti nel sistema feudale, aprendo le famigerate lotte per le investiture e gettando il seme dei futuri scontri tra autonomia comunale (e strumentalizzazione papalina) e autorità imperiale, tra guelfi e ghibellini, tra signori longobardi-lombardi (un esempio è la saga di Matilde di Canossa) e imperatori.
La corona d’Italia venne ereditata ai successori di Ottone fino al 1002. In quell’anno prese il potere Arduino d’Ivrea, desideroso di colmare il vuoto di potere lasciato dall’Impero nella Padania, divenendo re d’Italia.
Ebbe filo da torcere sia dalla Germania che dalla Chiesa e proprio per questo viene romanticamente visto, dalla retorica risorgimentale, come primo re “nazionale” d’Italia, per l’affrancamento dal potere d’Oltralpe e da quello clericale.
Regnò fino al 1014, quando, circondato da nemici, alleati dell’imperatore Enrico II, depose le insegne regali e si ritirò in un’abbazia. Con la sua abdicazione finì il Regnum Italiae.
Esso cessò di fatto di esistere con l’avvento delle autonomie comunali, volte a sostituire il potere politico dei vescovi.
Abbiamo così varcato il 1000, fine convenzionale dell’Alto Medioevo (e non del mondo), e germe della stagione comunale, certamente vanto e fiore all’occhiello della Lombardia medievale.
Chiudo questo articolo con una riflessione sul toponimo ed etnonimo lombardo: il susseguirsi delle vicende altomedievali fa capire come ‘Lombardia’ non sia che la contrazione di ‘Langobardia/Longobardia’, un nome di conio bizantino invalso ad indicare i possessi longobardi sia tosco-padani che italiani; mantenendo il potere, seppur simbolico, a Pavia (già capitale del Regno longobardo), il toponimo ‘Lombardia’ passò squisitamente a designare il settentrione [4] della RI, la Cisalpina, che diventò Regno d’Italia medievale, certo con Toscana e Italia centrale.
La frammentazione dei potentati padani portò Piemonte, Liguria, Emilia e Lombardia convenzionale a seguire strade differenti e tale nome, nell’accezione contemporanea, è passato ad indicare soltanto l’omonima regione creata da Roma.
Chiaro, la Regione Lombardia ha un precedente in quella che era la Lombardia austriaca, ma per come la conosciamo oggi resta un ente artificiale, un moncone di Lombardia etnica, per quanto centrale. Nondimeno, sino alla sciagurata unità ottocentesca, il concetto di Lombardia storica, figlio del Medioevo e dell’etnogenesi lombarda realizzatasi grazie proprio ai Longobardi, comprendeva buona parte della Cisalpina, soprattutto nel suo cuore padano.
Note
[1] Va comunque detto che la rilettura moderna dell’Editto di Rotari non mette in luce una chiara discriminazione nei riguardi degli assoggettati, perciò non si può parlare pacificamente di leggi atte alla difesa dell’endogamia germanica, e ad un “razzismo” nordico. Appare, altresì, utile rammentare che gli stessi Longobardi non erano un popolo puramente germanico.
[2] Gunther di Pairis compose un’opera, Ligurinus, dedicata alle gesta del Barbarossa proprio nella Padania occidentale.
[3] C’è da dire che il concetto di ‘Veneto’ è affatto moderno; prima di esso v’era la Serenissima e, prima ancora, la suddivisione medievale in comuni e signorie. Allo stesso modo, attorno al 1000, l’odierno Veneto era parte della Marca di Verona, eccettuate le lagune, erede del potere longobardo. Insomma, anche il Veneto è Lombardia storica.