La questione linguistica

Carlo Porta

La mia visione politica della vera Lombardia, quella etnica e storica, è dunque etnonazionale ed indipendente, libera dall’Italia ed inserita nel più ampio quadro identitario della confederazione euro-siberiana

L’etnonazionalismo è doveroso, per una patria plurisecolare come quella lombarda, al fine di preservarne il carattere comunitario e di affrancarlo dalla statolatria italico-romana che ci affligge, e che conosciamo ormai tutti benissimo, sperimentandola quotidianamente sulla nostra pelle.

In Lombardia, a proposito di identità, si pone una questione linguistica.

Che lingua usare nelle nostre terre, accanto – inizialmente – all’idioma franco toscano, per garantire la conservazione della specificità culturale cisalpina?

Da tempo penso che l’ideale, a livello ufficiale e nazionale, sia l’adozione del milanese classico, volgare, emendato dagli influssi forestieri (cioè italiani), essendo la variante lombarda più prestigiosa, codificata e conosciuta; è anche il gallo-italico più centrale, immerso nel cuore della Padania, miglior candidato storico ad assurgere a lingua di tutti i granlombardi. Questo, è chiaro, non esclude che, essendo la Lombardia relativamente variegata, si possa far sì che ogni territorio avente una precisa koinè istituzionalizzata (come, ad esempio, il bergamasco cittadino nella provincia orobica) la mantenga e la utilizzi a livello locale, come veicolo espressivo per la difesa del proprio retaggio.

L’italiano, idioma imposto alla popolazione cisalpina dalla scuola, dalla televisione e dai media, dalla burocrazia romana e ovviamente dalla politica, venne adottato in epoca moderna anche dalle corti lombarde per via del prestigio dei suoi modelli letterari, ma non è altro che la lingua italo-romanza di Firenze. Emerse, nel Medioevo, come il più illustre dei volgari “italiani”, dominando successivamente il panorama culturale della penisola grazie alla fama delle “tre corone” gigliate Dante, Petrarca, Boccaccio e anche diversi autori lombardi contribuirono al suo rigoglio (vedi Alessandro Manzoni su tutti). Resta però il fatto che il fiorentino letterario sia una loquela straniera, in terra padano-alpina, poiché la nostra nazione appartiene alla famiglia linguistica galloromanza allargata, al pari di occitano, arpitano, catalano, francese.

Vero, in Padania si parla il veneto, che non è una lingua esattamente gallo-italica, ma con un proprio peculiare carattere. Oggi deve molto all’influsso di Venezia sul continente (e il veneziano si avvicina al toscano), ma un tempo, come testimonia lo stesso Dante nel suo De vulgari eloquentia, i veneti erano ritenuti lombardi e usavano un eloquio assai simile al lombardo canonico. Lo stesso dicasi del retoromanzo, il ladino in senso lato, che al pari del gallo-italico è considerato galloromanzo. Anzi, questa sottofamiglia alpina presenta aspetti ancor più conservativi dei vari dialetti padani, purtroppo via via annacquati dall’influenza dell’italiano.

Da un mero punto di vista sociolinguistico, le lingue locali parlate in Lombardia vengono definite dialetti; questo non perché, come qualche idiota pressapochista crede, siano derivate dall’italo-toscano (cosa falsissima) ma per via del loro uso eminentemente orale, ristretto perlopiù agli anziani e limitato ad alcune sfere rustiche della quotidianità. Il fiorentino divenuto italiano, nella distorta idea nazionale di Italia, ha primeggiato, garantendosi il predominio letterario e culturale, e di conseguenza gli altri volgari riconosciuti sono arretrati adattandosi alla situazione locale.

Verrebbe, perciò, da chiedersi se, ad oggi, esista una vera e propria lingua lombarda, naturalmente unitaria. La risposta è no, perché il panorama linguistico della Grande Lombardia, e della Lombardia etnica, è frammentato, non foss’altro per il condominio di gallo-italico, veneto e ladino (romancio, ladino dolomitico, friulano). Si può dire, senza dubbio, che esista una famiglia linguistica lombarda, e cioè gallo-italica, storicamente estesa al retoromanzo: il galloromanzo cisalpino, dunque. E, in questa famiglia, a far la parte del leone c’è, con tutta evidenza, il meneghino, logico candidato a divenire il lombardo tout court.

Adottare il milanese classico volgare, emendato – anche ortograficamente – dai toscanismi, in qualità di lingua nazionale della Grande Lombardia non sarebbe un’operazione all’italiana, come le malelingue vanno cianciando: non si tratta, infatti, di imporre nella Padania una lingua straniera (cioè italo-romanza o altro), bensì di agire con salutare buonsenso identitario adoperando un idioma nostrano, cisalpino, non snaturato quale l’attuale veneto, pure per semplificare la burocrazia, l’amministrazione, l’istruzione e l’informazione. L’impiego del milanese/lombardo andrebbe di pari passo, localmente, con quello della variante indigena più prestigiosa, evitando il caos vernacolare.

Una lingua lombarda unitaria, oggi, non esiste, ma con la nobiltà della Milano incontaminata è del tutto possibile. Nel Medioevo è esistita una koinè padana, colta, la cosiddetta scripta, ma si trattava chiaramente di un esperimento letterario privo della robustezza genuinamente volgare, presentando essa tratti sovradialettali limati ed ingentiliti. Sono, invece, esistiti diversi volgari, predecessori dei moderni dialetti, quali milanese e bergamasco ad esempio, che non avevano nulla da invidiare, in fatto di dignità linguistica e letteraria, al toscano. Questo nonostante la bocciatura dell’italo-centrico Alighieri (la cui madre, ricordiamo, era cisalpina, di Ferrara).

Le lingue locali sono una ricchissima ed inestimabile fonte culturale per il nostro Paese, la Lombardia, da tutelare, difendere, preservare, tramandare e non da stroncare come fece l’ottusa politica fascista, ma pure l’attuale regime figlio della temperie partigiana e americana, incarnato da roba come il Pd.

L’identità verace sta sulle scatole a tutti quelli che vogliono forzatamente livellare, per una ragione o per un’altra, la cultura dei legittimi popoli, e proprio per questo noi dobbiamo salvaguardarla e trasmetterla di generazione in generazione.

Logicamente, bisogna anche capire che a livello nazionale la lingua ufficiale e letteraria deve essere una sola, nella misura in cui la Lombardia storica è una sola, altrimenti si rischia di incorrere nel minestrone multilinguistico alla svizzera.

L’italiano andrà gradualmente abbandonato. Esso nasce come volgare del capoluogo toscano, Italia etnica e Romània orientale, ed è estraneo alla tradizione linguistica genuina della continentale Cisalpina, area neolatina occidentale. Certo, non possiamo ignorare il fatto storico che, da secoli, il fiorentino sia divenuto, in parte, patrimonio letterario anche della Grande Lombardia, e che ormai sia la vera lingua materna di tutti i lombardi. Ma ciò non cambia la verità genetica di un parlare che non nasce nella nostra nazione. Anche gli irlandesi, purtroppo, parlano più inglese che gaelico, ma questo non li rende connazionali degli albionici.

Le loquele autoctone delle plaghe a sud delle Alpi sono tutte romanze, seppur diversificate dai fenomeni di substrato e superstrato, e le più prossime al latino sono sardo e toscano. Ma il patriottismo tricolore si basa su un concetto artificiale di romanità e latinità che, assieme al cattolicesimo, riguarda peraltro una buona fetta dell’Europa. E la lingua italiana, come detto, è un prodotto culturale toscano, per quanto esteso nei secoli all’intera “Italia”.

Noi lombardisti siamo convinti che la lingua di Milano, classica, rappresenti il lombardo per antonomasia, e debba dunque divenire lingua nazionale. Qualche bello spirito preferisce baloccarsi con improbabili koinài create a tavolino nel XXI secolo, mischiando le varianti occidentale ed orientale del lombardo regionale, dando vita ad una sorta di mini-esperanto che confonda le carte in tavola invece di chiarire la situazione. Meglio la naturalità all’artificio, soprattutto a proposito di identità. Oltretutto, il cisabduano è più simile al piemontese orientale o al piacentino, che all’orobico, ulteriore sintomo di una mera creazione italiana come la Regione Lombardia.

La vera Lombardia è quella etnica (bacino del Po) e storica (la Cisalpina), e ‘gallo-italico’ è, a ben vedere, sinonimo di ‘lombardo’. Il concetto di dialetti lombardi contemporanei è una forzatura, che grossomodo ricalca i confini regionali, e non rispecchia le varie affinità tra parlari padani. Esiste, pertanto, un lombardo ristretto e uno allargato: il primo coincide con milanese, bergamasco, bresciano, ticinese, novarese, cremonese ecc. mentre il secondo abbraccia tutto il gallo-italico. Ma la prima accezione ha poca logica, poiché esiste un serio discrimine tra insubrico e transabduano, ed è più che altro dettata da motivi di comodo.

Sarebbe consigliabile che tutti i veri lombardi, e cioè i cisalpini a partire da quelli occidentali, prendessero confidenza col milanese e lo studiassero in quanto, certamente, idioma schiettamente lombardo, rispetto agli altri, che subiscono diverse influenze per via della loro posizione geografica. Il Piemonte risente di francese e ligure; l’Orobia del veneto; l’Emilia e la Romagna subiscono il toscano, come la Liguria; le altre regioni granlombarde non sono, ovviamente, gallo-italiche. Tuttavia, per assurdo, il padano primevo aveva un profilo similare a quello del retoromanzo, quindi guardiamo con una certa simpatia al ladino.

Nelle scuole della Lombardia il “dialetto” andrebbe assolutamente insegnato, assieme alla storia linguistica della nostra nazione e delle varie province e territori storici. Scuole, ovviamente, liberate dal tricolore, in cui l’italiano ceda il posto al milanese/lombardo.

Un processo, per ovvie ragioni, graduale, principiando da una fase iniziale di bilinguismo, ma che promuova da subito la riscoperta e l’uso del morente idioma locale. Le nostre loquele sono la ricchezza culturale più evidente e significativa, all’interno del patrimonio identitario padano-alpino, e non possiamo permettere che vengano a mancare. Un popolo senza la propria lingua non ha futuro, e non può essere in alcun modo rappresentato concretamente da un mezzo espressivo straniero.

Il milanese, tra le varianti subalpine, ha una tradizione prestigiosa e ben attestata, fior fior di autori, di opere, di vocabolari e ha una fonetica e un’ortografia precise e normate, in quanto stabilmente codificato (si parla della versione classica). È conosciuto da tutti i lombardi, quantomeno di fama, ed è sicuramente il miglior prodotto della famiglia linguistica lombarda per via della sua centralità e purezza.

Milano è il perno della Lombardia, nostra capitale indiscussa, e tutte le aree storicamente influenzate dalla sua potenza sono certamente di pertinenza lombarda: l’Insubria, l’Orobia, il Piemonte, l’Emilia, vale a dire la Lombardia etnica. Forse, il discorso potrebbe farsi più complicato nelle Romagne, in Liguria e, ovviamente, nel Triveneto, oltre che nelle terre abitate dalle minoranze storiche, ma siamo dell’idea che l’adozione del milanese a lingua panlombarda costituisca un’occasione imperdibile, sulle ali del patriottismo e dello spirito unitario cisalpini. Fermo restando che nessuno si sognerebbe di chiedere ai granlombardi, specie periferici, di abbandonare i propri usi, costumi, tradizioni e idiomi. Il lombardesimo può tranquillamente conciliarsi col tollerabile particolarismo locale, in un’ottica di blando federalismo cantonale. E questo sebbene la nostra posizione su alcuni fenomeni, come il venetismo e la moderna “lingua” veneta, sia fortemente critica.

10 pensieri riguardo “La questione linguistica

  1. Se e’ vero che si riesce a percepire l’influenza linguistica occitana sul piemontese e quella veneta sull’orobico,non riesco a capire cosa intendi per influenza toscana sull’emiliano. Quando sento parlare un emiliano non ci sento veramente nulla di toscaneggiante.

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    1. Intendo dire che l’emiliano (specie centro-orientale) e il romagnolo sono privi di alcuni tratti caratteristici lombardi che si ritrovano nelle parlate transpadane (si pensi alle vocali turbate, al mia/minga, al plurale asessuato), segno evidente di influsso italo-toscano. Anche nell’orobico, ad esempio, manca il plurale asessuato (i sostantivi femminili plurali terminano in -e), e questa è cagione dell’influsso veneziano.

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  2. Per cio’ che concerne nomi e cognomi,verrebbero codificati sempre sul milanese o lasciati in versione locale? Penso specialmente ai i cognomi ,ad esempio ai numerosissimi patronimici originati da GIOVANNI/GIANNI,che presentano nella forma una significativa cesura con confine piu’ o meno sull’adda. Tendenzialmente in insubria e piemonte il prefisso e’ “GIA”,mentre in orobia ,venezie ed emilia in “ZA”.

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    1. Sempre modellati sul milanese, altrimenti sarebbe il caos. Peraltro, quello che al di qua dell’Adda suona come, ad esempio, zét ‘gente’, in terra insubrica si rende con sgent, presentando cioè, similmente al francese, il suono j di jour. L’esito di cui parli è spesso italianizzazione. La tutela del lombardo locale va portata avanti nelle scuole e negli istituti culturali, per affiancare localmente il lombardo (inteso come milanese classico rimodellato).

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      1. “Sgent” mi e’ capitato di leggerlo nei testi in milanese. Pero’ l’ho sempre visto solo a livello grafico. Di fatto non ho mai sentito pronunciare quei suoni,quindi pensavo fosse presente solo a livello di grafia. Pero’ magari in insubrico ottocentesco si parlava così. Non saprei dirti e non vorrei parlare di cose che non conosco. Diciamo che le ultime persone che ho sentito parlare brianzolo (la generazione dei miei nonni)pronunciavano “gent” , “Giuan” “giuga’ al balon” con un suono molto piu’ vicino alla “G” comune che alla “J” francese.

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      2. Ah ok, in “pesg” sì e’ vero,lo ricordo bene, anche in altre parole tipo “scarafaggio/ scravasg”, ma in termini tipo “gente” no. Probabilmente dipende dalla collocazione all’inizio o in fondo alla parola,non saprei. In termini tipo “gente” sai da chi mi e’ capitato di sentirlo in modo netto? Dai valtellinesi.

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      3. I valtellinesi sono linguisticamente insubrici, e area laterale. Secondo una vecchia tesi del linguista Bartoli, le aree estreme di un continuum mostrano i tratti più arcaici di un idioma, meglio conservati dall’isolamento. Non a caso, in talune zone isolate della Valle Camonica sembra siano sopravvissute sino ad oggi parlate col tipico vocalismo lombardo (vocali lunghe ~ vocali corte), che oggi permane praticamente in area insubrica.

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