Quando si parla di questione “settentrionale” (aggettivo improprio, perché la Padania non è il nord di alcunché) l’immaginario collettivo corre al fenomeno leghista, sviluppatosi concretamente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Solitamente si pensa alla Lega Lombarda bossiana, ma di leghe ne esistevano un po’ in tutta la Cisalpina, ed è il caso, ad esempio, della Liga Veneta. Certo, fu attorno ad Umberto Bossi che si coagulò la protesta della cosiddetta Altitalia nei confronti di Roma, del sistema, della politica italiana (e di tutto ciò che poi sfociò nella famigerata Tangentopoli) ma è chiaro che il sentimento identitario dei popoli padano-alpini non sia conio del “senatur” e dei suoi più stretti accoliti.
Dobbiamo però distinguere il leghismo dallo spirito di appartenenza etnoculturale cisalpino: se il secondo è qualcosa di genuino, spontaneo, verace e non inquinato e strumentalizzato dai guitti in giacca e cravatta che siedono a Roma, il primo ha via via assunto i tratti della gigantesca pagliacciata, della mastodontica presa in giro; la dimostrazione più eloquente di tale disastro sta nell’evoluzione (o, meglio, involuzione) finale dell’agenda di via Bellerio, che con Matteo Salvini ha gettato definitivamente la maschera padanista per sposare la più consona causa italianista. Consona pensando ai leghisti, si capisce, gente che si è ben presto adattata all’andazzo capitolino diventando più italiana degli italiani.
Nel tempo la Lega (intesa come frutto della federazione delle varie Leghe “settentrionali”, e cioè la Lega Nord) è passata dall’autonomismo al federalismo, approdando al farsesco secessionismo del periodo 1995-2000, poscia rinnegato in fretta e furia per tornare a pascersi nel cuore dell’Italia etnica grazie ai governi berlusconiani. Rottamata la secessione della Padania – e badate che ‘secessione’ e ‘Padania’ sono vocaboli privi di significato se intesi alla bossiana, perché si dovrebbe parlare di ‘indipendenza’ e di ‘Lombardia’ (quella storica) – riecco il federalismo all’acqua di rose, indi la devolution e poi ancora il federalismo fiscale-solidale (una buffonata). Oggi va di moda l’autonomia differenziata, all’interno di un governo presieduto dall’erede in gonnella del postfascismo meridionalista.
Col passaggio di testimone da Bossi a Salvini (e nel mezzo l’incolore Maroni e il suo “prima il Nord”, a tappare la falla degli scandali del “cerchio magico” ausonico) la svolta finale: la propaganda nordista viene sconfessata, cancellando ogni residuo secessionista, abbracciando la retorica patriottarda del nazionalismo fascistoide al fine di galleggiare nel panorama politico italico, mantenendo il sedere ben saldo sulla poltrona riciclandosi per accalappiare voti sud-italiani. L’ex felpato ha detto tutto e il contrario di tutto, simbolo dell’imbarazzante mediocrità raggiunta dal nuovo corso della Lega Italia. Non che sia colpa di Salvini, intendiamoci. I germi dell’italianismo erano presenti già nella fase terminale di Bossi, e infatti accusare Matteo di tradimento risulta esilarante; costui ha soltanto preso atto del fatto che il leghismo padanista era ormai morto e sepolto, col beneplacito del genio di Cassano Magnago.
Capiamoci, amici, non tutto del leghismo, che io reputo comunque fallimentare, è da buttare. Si può riconoscere al “carroccio” del celodurismo di aver posto, anche se in maniera cialtronesca, una questione identitaria, di aver sollevato interesse e curiosità circa la natura e i destini della Cisalpina e di aver fatto da stimolo per quanti, venuti dopo, hanno raffinato il concetto di padanismo, raddrizzando il tiro agli sproloqui da pratone pontidese. Ma quel che si può salvare del fenomeno Lega non riguarda i politici, e Bossi medesimo, bensì quanti hanno animato o contribuito ad un dibattito di qualità incentrato, soprattutto, su identità e cultura. Il pensiero va a Gianfranco Miglio, Gilberto Oneto, Sergio Salvi, Gualtiero Ciola, Silvano Lorenzoni, Federico Prati e altri, studiosi che – sebbene in taluni casi libertari/liberali – hanno difeso con onestà e sincerità il lato solare del leghismo, aiutando a comprendere che la vera rivoluzione alpino-padana è quella del lombardesimo.
