Lombardia attuale

Regione “Lombardia”

Con il disastro bellico, l’Italia perdette Briga e Tenda, Nizzardo e Corsica (occupati), Monginevro, Valle Stretta, Moncenisio, Venezia Giulia storica, Dalmazia e gli altri territori sudorientali occupati.

Nel “nordest” vi fu l’abominevole fenomeno delle foibe, frutto delle perfide politiche genocide di Tito, e il conseguente drammatico esodo istro-dalmata verso l’attuale Repubblica Italiana.

Il finto Paese italiano era tra gli sconfitti, nonostante il vigliacco voltafaccia di monarchia, regio esercito e partigiani, e nonostante, in una maniera veramente maramaldesca e inutile, avesse dichiarato guerra all’ex alleato giapponese, prostrato poi dalle atomiche americane.

L’Italia aveva confidato troppo nella Germania, e d’altro canto non aveva certo le forze per sobbarcarsi un conflitto divenuto mondiale, e lo stesso Giappone era remoto per poter contare su suoi concreti aiuti durante le operazioni belliche; la guerra divenne planetaria e l’Asse si trovò a fronteggiare il mondo intero, stretta com’era tra alleati (e loro colonie) e sovietici. La sconfitta fu inevitabile, e stupisce comunque la resistenza tedesca durata cinque anni, cinque anni in cui dopotutto non aveva potuto contare su camerati valevoli. Si aggiunga che sia Hitler che Mussolini di guerra sapevano poco o nulla, e i loro capricci costarono caro a Germania, Italia ed Europa.

Nel 1946, nel referendum istituzionale del 2 giugno, tra monarchia e repubblica a spuntarla fu quest’ultima, anche grazie alle massicce preferenze lombarde, e granlombarde, in direzione repubblicana; i lombardi, memori dello sfacelo sabaudo durante il periodo di guerra, votarono al 64,1% contro la monarchia.

Purtroppo si trattò di una repubblica plasmata da partigiani, democristiani, rossi, liberali e tutti gli altri tirapiedi del blocco occidentale e (meno) orientale, ossia dei vincitori, e ancor oggi ne avvertiamo le conseguenze, dato che lo stato italiano è sempre più uno strumento dei capricci atlantisti degli Usa, alleato di Israele e pedina del mondialismo anti-identitario, nonché ente vieppiù svuotato di sovranità dalla franco-tedesca Unione Europea (già Comunità Europea). Del resto, parliamo di una finta nazione.

Il dopoguerra fu anche il periodo del boom economico, che interessò soprattutto la Padania, portando a quegli esodi “interni” sud-italiani che hanno stravolto il tessuto etno-sociale originario delle terre cisalpine occidentali. In parte, questo sviluppo fu certamente cagione degli aiuti americani, ma ben poco importa: quelli prima distruggono e poi si lavano la coscienza col Piano Marshall, avente il solo scopo di legare a sé ancor di più i destini degli europei dell’ovest. Il progresso moderno lombardo era comunque in atto ormai da secoli, frutto della nostra storia.

Negli anni ’50 e ’60 del Novecento, Milano si arricchì di edifici, infrastrutture, aziende, complessi industriali, servizi.

Venne inaugurata anche la stagione del terrorismo nero e rosso (etichette di comodo per coprire misfatti governativi internazionali) con l’attentato di piazza Fontana del dicembre ’69. Da ricordare, parimenti, quello di piazza della Loggia a Brescia, nel maggio del ’74. Atti terroristici che fecero decine di vittime e centinaia di feriti.

Nel 1970 nacque la Regione Lombardia, parziale raggruppamento di genti lombarde manchevole, anzitutto, di VCO, Novarese, Ticino, Grigioni lombardo e, volendo, Tortona, Piacenza e il Trentino occidentale, ossia i restanti territori etno-linguisticamente lombardi, in senso stretto. Sua insegna una ridicolizzazione commerciale delle incisioni rupestri camune, la famosa “rosa”, che in realtà sarebbe meglio rappresentata dallo swastika rinvenuto, fra gli altri, nei siti di Sellero e Paspardo. Ma si sa, il politicamente corretto impazza, e come simboli tradizionali della Lombardia centrale ci sarebbero pure il Ducale visconteo e la Croce di San Giorgio.

Vennero anche inaugurati parchi naturali come quello del Ticino, primo parco fluviale europeo, nel 1974. Altre aree protette di questo tipo sono quelle di Colli di Bergamo, Alto Garda bresciano, Alpi Orobiche bergamasche, Alpi Orobiche valtellinesi, Groane, Mincio, Serio, Adda, Adamello, Oglio, Pineta di Appiano Gentile e Tradate, Valle del Lambro.

Un ulteriore, molto meno nobile, primato è quello che inaugurò la stagione dei disastri ecologici europei: la fuoriuscita di diossina dalla Icmesa di Seveso, nel 1976.

Nel 1987 vi fu l’alluvione della Valtellina, classico caso “italiano” di dissesto idrogeologico, una piaga che affligge anche la Cisalpina.

Nel 1992 nacquero le province di Lecco e Lodi, che “rubarono” territori a Como, Bergamo e Milano, e andarono ad unirsi agli enti di Milano, Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, Pavia, Sondrio, Varese (già staccatosi da Como in precedenza); nel 2004 è stata istituita invece la provincia di Monza e Brianza, a svantaggio di quella milanese. Un processo alquanto ridicolo, quello dello scorporo di province storiche, in quanto invece di dare adito al campanilismo, la Lombardia dovrebbe tornare ad essere Grande, includendo tutte le sue plurisecolari terre, cominciando dal novero etnico padano.

Gli anni ’90 proseguirono l’impetuoso sviluppo della regione: l’aeroporto di Malpensa (nato nel ’48) divenne internazionale (vedi anche il progetto Malpensa 2000), quello di Orio al Serio (rinato nel ’70 come aeroporto civile) si irrobustì e vennero discussi progetti di grandi opere infrastrutturali come la BreBeMi e la Pedemontana (il cui impatto ambientale è ovviamente drammatico), poi in parte attuati. Il traffico autostradale lombardo è quello più intenso d’Europa.

L’altra nota dolente è la spaventosa sovrappopolazione di questo ente regionale (densità di 418,85 ab./km²!), già minato da cemento, inquinamento, traffico, aria irrespirabile, conseguenza dell’esodo meridionale e della più recente immigrazione allogena. L’area transabduana, ma anche la città di Brescia, sono un inferno.

Risultato? Oggi, su 10 milioni e rotti di abitanti della Lombardia regionale, alcuni non sono nativi, o comunque ibridati.

La regione del Pirellone è uno dei quattro motori europei (assieme a Baden-Württemberg, Catalogna e Rodano-Alpi), nonché estremità meridionale della cosiddetta “Banana blu”, dorsale economica e demografica che dalla Val Padana, attraversando il territorio dell’antica Lotaringia, culmina nell’Inghilterra meridionale.

Siamo indubbiamente un’area ricca, prospera, industriosa, fertile, avanzata e dalla grande tradizione imprenditoriale, i cui sforzi, economicamente parlando, vengono premiati; anche in materia di sanità, benessere, servizi, agricoltura, artigianato si è sicuramente ben messi. La Lombardia attuale è la regione trainante dello stato italiano, assieme al “nordest”, ma sarebbe anche ora di far camminare l’Italia etnica con le proprie gambe. Anche per questo l’indipendenza della Lombardia storica deve essere una priorità, per i lombardi.

Credo si dovrebbe pensare, peraltro, ad un rientro dei sud-italiani stabilitisi nella Padania, perché hanno svuotato le proprie aree d’origine per sovraffollare quelle cisalpine, specie del noto triangolo industriale.

Inutile dire che, al contempo, l’immigrazione allogena vada fermata con tanto di rimpatrio perché essa giova solo a chi la sfrutta, non certo agli indigeni, e nemmeno agli allogeni oserei dire, in quanto sradicati e catapultati in realtà straniere. Con le conseguenze che tutti conosciamo.

Nel 2005 è nato il nuovo polo fieristico Rho-Pero, parte del sistema della Fiera di Milano. Nel 2015 si è invece tenuta l’Esposizione Universale a Milano, tra maggio e ottobre, una grande vetrina intercontinentale per la capitale e la Lombardia ma anche, ahimè, una grande fonte di lucro per personaggi non molto cristallini.

Nel 2017 si è svolto un referendum per l’autonomia della regione, in cui il SÌ ha trionfato con una percentuale del 95,29%. Ovviamente, il voto popolare è rimasto senza esito, e del resto l’autonomismo applicato ad un ente inventato da Roma è paradossale, un inutile pannicello caldo.

Tre anni dopo, la Lombardia regionale fu al centro dell’emergenza coronavirus, morbo d’importazione asiatica che infuriò particolarmente nelle zone orientali e meridionali, cagionando una strage di anziani. La gestione demenziale della politica, di fronte alla crisi, per quanto inedita ed inaspettata, andò ad accrescere l’infausta portata di un fenomeno virale alimentato dalla stessa globalizzazione.

Nel 2026 sono previsti i Giochi olimpici invernali Milano Cortina, occasione interessante per mostrare al mondo il vero volto della Lombardia, offuscato dalle magagne italiane che agli occhi dei forestieri accomunano tutto il territorio della Repubblica Italiana.

Purtroppo, la Milano di oggi identitaria non è, e come tutte le altre metropoli europee presenta gravissime lacune in materia di preservazione etnoculturale. Si aggiunga che, a differenza di altre, presenta pure le suddette tare italiane, spalmate in lungo e in largo dalla sciagurata azione della politica romana, che passano anche per quella fastidiosa mancanza di coscienza etnica, culturale, tradizionale, linguistica, territoriale e ambientale tipica invece delle realtà germaniche, ad esempio alpine.

Le uniche manifestazioni di “orgoglio” lombardo, al di là delle innocue iniziative folcloristiche di provincia, sembrano essere quelle clericali, in una regione in cui l’unico dato identitario ufficiale è quello cattolico, che identitario di certo non è, soprattutto in epoca postconciliare.

Ma se ci pensate la Lombardia è stata proprio stritolata dal centralismo romano post-risorgimentale, con tutti i suoi bravi stereotipi sull’Italia mediterranea e meridionale, e naturalmente rintronata da bibbie, rosari, madonnine e santi inventati di ogni forma e colore. Le bianchissime province lombarde sono (o erano) l’anticamera del Vaticano, a sua volta un organo del mondialismo.

Al leghismo, fiorito negli anni ’80, va il merito di aver sollevato la questione “settentrionale”, poi banalizzata nel tempo con tutta una serie di pagliacciate propagandistiche culminate nella trovata elettorale della Padania bossiana, presto rinnegata per poter banchettare a Roma, complice il berlusconismo. Il fatto è che anche i lombardi, notoriamente grandi lavoratori, ma poco propensi alle attività umanistiche lasciate totalmente in mano agli italiani, hanno le proprie responsabilità, avendo ceduto le redini del processo risorgimentale. Un processo nefasto, sfuggito alla classe dirigente cisalpina, e a breve tramutatosi nella tomba della Padania stessa. Ricordiamoci che se la criminalità e il malcostume sud-italiani hanno da noi attecchito è perché hanno trovato terreno fertile, per quanto restino prodotti d’importazione dell’esodo da sud. Per non parlare di Tangentopoli, con svariati protagonisti locali.

Cavalcando “Mani pulite” e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, con susseguente nascita della Seconda, la Lega Nord è riuscita a sfondare politicamente senza però ottenere nulla di concreto perché appiattitasi sulla linea dell’altro fenomeno nato in Lombardia, ossia il forzismo azzurro di Silvio Berlusconi, il controverso personaggio per vent’anni sulla cresta dell’onda, certo lombardo ma velenosamente intriso di italianità.

Umberto Bossi, lombardissimo come il Cavaliere e, nella sua fase calante, parimenti controverso (vedi alla voce “cerchio magico” ausonico), oltre che da sempre ben poco lucido, si è inventato la farsa del secessionismo, come detto rinnegata per far posto alle ricche prebende dell’occupante romano. Bossi, prima di Salvini, ha tradito la causa, preparando il terreno alla contemporanea Lega italianista.

La Lombardia etnica e storica – non la creazione italiana del 1970 – non ha alcun bisogno di farse propagandistiche: essa necessita di un robusto etnonazionalismo, che possa sbocciare nella piena autoaffermazione della nazione cisalpina. Dobbiamo poter respirare a pieni polmoni in senso identitario, e ciò è possibile soltanto divenendo indipendenti dall’Italia. Esatto, indipendenza, non secessione, poiché il concetto di secessione presuppone una separazione da un ente nazionale davvero unitario.

Il lombardesimo, alla luce di ciò, è nazionalismo etnico alpino-padano votato alla piena libertà della Grande Lombardia: non siamo il nord di nulla, poiché popolo unico, originale ed espressione di una realtà identitaria europea senza eguali, con una storia gloriosa ed esemplare. Lasciamo perdere la zavorra leghista, o identitari cisalpini, ed impegniamoci tutti quanti per una nazione lombarda libera, e cioè comunitaria, e sempre più europea. Attenzione, ho detto europea; nessuna allusione, dunque, all’Unione “Europea”, negazione mortale della nostra civiltà, esattamente come il patriottismo italiano esteso sino alle Alpi.

Terra

Abbiamo già parlato della Terra, intesa come pianeta, e della terra, intesa come suolo patrio. Vale però la pena riprendere quest’ultimo aspetto, perché intimamente correlato all’esistenza degli esseri viventi e, nello specifico, dell’uomo. Questi, grazie al legame identitario col suolo, corroborato dal sangue, da individuo anonimo che asseconda i propri istinti egoistici diventa membro attivo della comunità nazionale, perciò parte integrante di una collettività che non annulla il singolo ma, anzi, lo esalta in quanto necessario alle sorti della patria. Chiaro, il popolo viene prima dell’individuo, ma non si tratta di massificare, omologare, annientare le persone come entità, bensì di inserirle armoniosamente in un consesso identitario che si faccia motore patriottico e tradizionalista. La terra, dunque, è elemento basilare, in quest’ottica, e per tale ragione degno di tutela, preservazione, valorizzazione, soprattutto in un mondo occidentale sul viale del tramonto che oltre ad aver perso l’anima sta inesorabilmente perdendo la forza e la salute. La distruzione della natura, unita all’inquinamento pestilenziale di molte contrade europee, ruba il futuro alle giovani generazioni e avvelena chi le ha precedute uccidendo la memoria.

Il rapporto con il territorio, sia in accezione etnoculturale che ambientale, va salvato dalla mostruosa devastazione operata dagli agenti internazionali, funzionale all’affermazione della dittatura globalista con conseguente morte delle comunità nazionali, dei veri Paesi d’Europa. Difendere l’ambiente va di pari passo con la conservazione etno-razziale, culturale, linguistica, antropologica, genetica, ed è soprattutto il continente bianco a soffrire maggiormente per via della barbarie mondialista: il concetto politico-ideologico di mondo ammazza quello naturale e biologico di pianeta Terra, e di elemento terra, estirpando le radici, calpestandole e dandole in pasto al più bieco relativismo. Pare che solo i popoli del terzo/quarto mondo abbiano diritto alla lotta identitaria, quando in realtà è per l’appunto la nostra povera Europa a subire le più gravi conseguenze dell’agenda cosmopolita e globalista, la quale prevede anche la dissoluzione della collettività razziale, etnica e nazionale e ogni forma possibile di inquinamento ai danni dell’ambiente in cui viviamo e che ci circonda. La terra è la nostra dimensione vitale, al netto delle inutili masturbazioni metafisiche, e senza di essa, possibilmente integra o quasi, il domani delle nazioni europidi si tinge di nero. In tutti i sensi.

Ambientalismo? Econazionalismo!

Noi lombardisti abbiamo particolarmente a cuore le sorti ambientali della terra granlombarda, poiché comprendiamo appieno quanto sia importante coniugare l’istanza etnicista con quella ecologista. Tuttavia, non ci uniamo al coro dei pecoroni “verdi”, degli ambientalisti da salotto e dei guitti stile Greta Thunberg, perché questa gente ha completamente in non cale il carattere etno-razziale dei popoli europei, e propone una difesa della natura su basi progressiste e antifasciste. Senza mordente etnonazionalista, l’ambientalismo si riduce ad una inutile pagliacciata, come dimostrano ampiamente i personaggi pubblici che fanno gli ecologisti, a parole, soltanto per alimentare una sciocca moda occidentale che è figlia del pensiero liberal.

Proprio per questo motivo il lombardista crede fermamente nell’unione di sangue e suolo e, dunque, nella necessità di far procedere l’ambientalismo sugli stessi binari dell’identitarismo etnico. In tal modo propugniamo l’econazionalismo, che è il patriottismo conciliato con l’ecologismo, dacché non è pensabile difendere il suolo senza difendere il sangue. A che giova battersi per la tutela dell’habitat se ci si dimentica del popolo indigeno che lo abita? O forse vale solo per gli indios? I cosiddetti verdi condannano cementificazione, industrializzazione selvaggia, deforestazione, inquinamento, avvelenamento dell’aria senza capire che ignorare la portata del problema migratorio e della sovrappopolazione è semplicemente demenziale, oltre che miope e pericoloso. I selvaggi ritmi riproduttivi degli altri continenti, e la conseguente invasione dell’Europa, stanno alla base degli sfracelli che esperiamo quotidianamente.

Diventa sterile occuparsi soltanto di flora e fauna, e paesaggio, ignorando clamorosamente i destini della nazione. Se riteniamo dannosa l’introduzione di specie alloctone, che va a scapito di quelle autoctone, perché sorvolare sulla portata esiziale dei flussi migratori, essendo peraltro di massa? L’Europa è stata investita da un’alluvione di popoli del terzo mondo, che va a peggiorare un quadro già reso problematico dalle nefaste ricadute del culto del progresso e dal pazzesco calo demografico europide. Gli sciagurati credono che accogliere allogeni sia una soluzione alle nostre grane, quando in realtà è soltanto un modo imbecille di aumentarle a dismisura.

Sembra che solo le genti del sud del mondo abbiano il diritto all’autodeterminazione, alla difesa etnica, alla preservazione delle proprie caratteristiche biologiche e culturali. Gli europei paiono condannati inesorabilmente all’estinzione, e guai a ribellarsi: razzismo, nazismo, fascismo, suprematismo sono le tipiche accuse rivolte al continente, qualora avesse sussulti d’orgoglio tesi a preservare l’autoctono patrimonio antropologico. E nemmeno si parla di colonialismo, badate bene, ma di salvaguardia delle nostre terre. Però si sa, l’Europa è destinata al tramonto e al tracollo: da culla della civiltà, viene oggi ridotta a centrale del male discriminatorio. Figuratevi, poi, se il discorso etno-razziale si allarga a quello relativo a sesso, orientamento sessuale, capacità psicofisiche…

Il maschio bianco eterosessuale, “cis” e abile, peggio ancora se cristiano o gentile, è stato la colonna portante della civilizzazione occidentale. Nell’età contemporanea, invece, è assurto a nemico pubblico numero uno dei “diversi”, e di tutto quel ciarpame che viene definito “woke”. Allo stesso modo, l’ambientalismo viene privato della salutare fierezza identitaria, che consente di tutelare l’ambiente assieme al popolo indigeno, castrando l’orgoglio patriottico. Un baluardo, questo, contro ogni tipo di barbarie globalista, non a caso demonizzato e criminalizzato da tutti coloro che si genuflettono di fronte al sistema-mondo. L’econazionalismo è la soluzione alle questioni ambientaliste, in quanto schierato dalla parte di sangue e suolo e avversario mortale delle flatulenze socialdemocratiche e liberali, che appestano l’aere, invece di bonificare e sanare.

Lombardia regia

RSI

Successore dell’ammazzato Umberto I, fu il re schiaccianoci, Sciaboletta, ossia il deforme Vittorio Emanuele III, uno dei personaggi più squallidi che lo stato italiano abbia mai concepito.

Il progresso lombardo crebbe, nonostante agli inizi del XX secolo si registrassero ondate di agitazioni contadine nella pianura (1902), e altri massicci scioperi si avessero nel 1904 e nel 1906.

In quello stesso anno nacque a Milano il sindacato Cgil, assieme ad altre industrie: la Dalmine, l’Alfa (poi Alfa Romeo) e la Pirelli.

Nel 1908 venne aperta la galleria ferroviaria del Sempione, mentre a Sesto San Giovanni furono completati i primi grandi impianti della Falck e della Breda; nel 1912, invece, a Varese, la Macchi cominciò a produrre aeroplani.

L’Italia in quegli anni faceva parte della Triplice Alleanza assieme ad Austria-Ungheria e Germania; nel 1914, in seguito all’attentato di Sarajevo, la prima dichiarò guerra alla Serbia spalleggiata dalla seconda, all’oscuro dell’Italia: una violazione dell’alleanza.

La dichiarazione di guerra austriaca scatenò la Prima guerra mondiale e l’Italia, nel 1914-’15, scelse la neutralità.

Gli interventisti però cominciarono a farsi sentire, spronando ad approfittarne per attaccare l’Austria e riprendersi i territori “irredenti” ancora sotto il suo controllo. Si giunse così al Patto di Londra, del 26 aprile 1915, siglato fra Italia e Triplice Intesa (Regno Unito, Francia, Russia) e all’entrata in guerra di questo finto Paese il 23 maggio seguente.

Il fronte italiano (1915-1918) costerà oltre 600.000 morti (nonché bombardamenti aerei austriaci su Milano e Brescia), ma condurrà ad una vittoria tricolore da burletta contribuendo alla dissoluzione di un impero, quello austro-ungarico, multietnico, cattolico e da tempo traballante, stravolto dai legittimi nazionalismi dei popoli oppressi da quell’elefantiaco ente senza identità.

Come sappiamo, però, la vittoria italiana fu di poco momento e “mutilata” perché si ottennero Trentino e Alto-Adige, Venezia Giulia, Zara ma non Fiume e la Dalmazia settentrionale, promessi dal Patto di Londra. Assieme a ciò non si ottennero degne compensazioni coloniali e altri territori di strategico interesse italiano (soprattutto gli storici possedimenti adriatici della Serenissima) finirono altrove.

L’Italietta fu così fregata dalle democrazie borghesi occidentali e dagli americani di Wilson.

Nel 1919, in Padania e Toscana, si scatenarono gli eventi del cosiddetto Biennio rosso, cagionati dalla crisi economica postbellica: si registrarono in Lombardia 445 scioperi industriali e 6 agricoli, cui parteciparono rispettivamente 500.997 e 132.122 lavoratori.

Il 23 marzo di quell’anno, Benito Mussolini, già socialista interventista e direttore de Il Popolo d’Italia, fondò a Milano, nel palazzo degli Esercenti di piazza San Sepolcro, i Fasci italiani di combattimento, che seppero sfruttare abilmente la situazione del primo dopoguerra, così gonfia di risentimento per l’irredentismo frustrato. In esso confluirono sindacalisti, futuristi, arditi, reduci, socialisti, rivoluzionari.

L’ideologia di questo precursore del Partito Nazionale Fascista era contraddistinta da nazionalismo, irredentismo, “terza via” anti-reazionaria ma anche anti-progressista, e compì il primo passo verso la rivoluzione fascista che caratterizzò l’Italia durante il Ventennio mussoliniano.

Mussolini però sfruttò anche il malcontento borghese e padronale in chiave anti-socialista e il 15 aprile del ’19 squadre fasciste assaltarono la sede dell’Avanti!; lo squadrismo venne altresì impiegato per soffocare le rivolte operaie e agricole, colorandosi così di tinte reazionarie. Una situazione che durò dal 1919 al 1924.

Nel 1921, la popolazione regionale lombarda risultava essere di 5.204.013 residenti, di cui 701.431 a Milano, 98.094 a Brescia e 62.687 a Bergamo.

Nell’agosto del 1922, a Milano, venne proclamato uno sciopero generale; squadre fasciste occuparono Palazzo Marino esautorando l’amministrazione comunale socialista.

Nel 1924 venne inaugurata la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo; seguirono la Milano-Brescia e la Milano-Torino.

Il fascismo prese il potere nel 1922 con la Marcia su Roma, e per un ventennio ebbe in pugno l’Italia.

Fu una rivoluzione mancata, sotto certi aspetti, perché non liquidò né la monarchia sabauda né la Chiesa cattolica (nello specifico il Vaticano), e anzi, se le tenne buone per poter governare in santa pace; il nazismo in Germania non ebbe certo di questi problemi.

Il fascismo fu una continuazione autoritaria del Risorgimento, e il suo principale obiettivo fu quello di “fare gli italiani” rendendo grande l’Italia. Propositi cialtroneschi, che non hanno nulla a che vedere con le vere patrie e l’etnonazionalismo, e infatti il Littorio si pose in continuità con giacobinismo, bonapartismo, nazionalismo di cartapesta ottocentesco. La nazionalizzazione e la socializzazione del Paese, teorizzate dal sansepolcrismo, in parte riuscirono, pur scontrandosi con le solite influentissime logge di potere, dimostrando che Mussolini al di là di tutto seppe essere uno statista. Per quanto, chiaramente, al servizio di un ideale patrio artificiale.

Per certi versi, comunque, il periodo fascista più luminoso fu proprio quello successivo alla caduta del regime nel 1943, ossia il periodo della Repubblica Sociale Italiana, quando cioè il fascio non ebbe più in mezzo ai piedi re e papa e altre mafie, e si trovò a comandare l’Italia centrosettentrionale (con il sud nelle mani del traditore Sciaboletta e degli angloamericani), nel contesto dell’alleanza con la Germania hitleriana.

I tromboni antifascisti amano liquidare il biennio salodiano come stato-fantoccio dei tedeschi; in realtà fu un avanzatissimo progetto di socializzazione, purtroppo ostacolata e non attuata per via degli eventi bellici.

L’onta dell’Italia furono i Savoia e i loro tirapiedi (Badoglio), non Salò e chi ci volle credere fino alla fine, nonostante la guerra fosse ormai perduta.

Tornando al Ventennio, nel 1935 venne aperto a Linate (Milano) l’aeroporto Forlanini; nello stesso anno venne inaugurato il Parco nazionale dello Stelvio, a cavallo fra Lombardia regionale e Trentino-Alto Adige.

Nel 1936, Mussolini annunciò a Milano, in Piazza del Duomo, l’alleanza con la Germania di Hitler, parlando di “asse Roma-Berlino”. Alleanza che nel 1939 divenne Patto d’Acciaio.

L’alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo sarebbe potuta divenire la realizzazione di un’Europa diversa, né capitalista né bolscevica, dunque indipendente sia dagli Usa che dagli influssi comunisti dell’Urss, ma la guerra precipitò le cose che andarono come sappiamo. Fermo restando, comunque sia, che Italia e Germania non sono nazioni.

Nel settembre 1939 il Terzo Reich invase la Polonia; inizialmente l’Italia restò neutrale ed entrò in guerra nel giugno 1940, pensando che ormai la vittoria tedesca fosse cosa fatta.

La Seconda guerra mondiale fu una catastrofe per l’Italietta, impreparata com’era ad affrontarla e avendo in parte dissipato le proprie forze nell’avventura coloniale e in Spagna; Mussolini, che come Hitler non aveva certo la stoffa del comandante militare, commise svariati errori che vennero pagati salatamente, aggravati dall’inettitudine degli ufficiali ma in parte riscattati da alcuni episodi di coraggio dei soldati italiani, mandati a morire per dei capricci del duce.

L’Italia avrebbe dovuto starsene fuori da quella guerra, nonostante con essa poté, più che altro grazie all’intervento dei tedeschi, riconquistare provvisoriamente Nizzardo, Corsica, Dalmazia e rafforzare il controllo sull’Albania, oltre che su altri territori non italiani.

Nel 1943 gli scioperi di marzo bloccarono molte fabbriche di Torino e Milano, evidenziando il malcontento popolare per la dura situazione economica e l’opposizione operaia al regime fascista; i bombardamenti aerei, alleati, di agosto provocarono a Milano numerose vittime e gravissime distruzioni. La Lombardia fu in quegli anni messa a ferro e fuoco dai sedicenti paladini della libertà angloamericani, che bombardarono ripetutamente Milano, Brescia e alcune aree industriali della Bergamasca, mietendo migliaia di vittime. L’atto terroristico alleato più grave fu certamente la strage di Gorla, Milano, dove il 20 ottobre 1944 perirono 184 bambini di una scuola elementare.

Dopo la caduta del fascismo e la liberazione tedesca di Mussolini imprigionato sul Gran Sasso, nel settembre (23) del 1943 nacque la Repubblica Sociale Italiana, che occupò la porzione centrosettentrionale del dilaniato Regno d’Italia, morto l’8 settembre dello stesso anno. La sede di alcuni ministeri venne fissata a Salò; Mussolini risiedette nella villa Feltrinelli di Gargnano.

Il sud della penisola, invece, finì nelle mani degli alleati e rimase in quelle di Vittorio Emanuele III, il traditore fuggito a Brindisi, mentre la situazione precipitava, per salvarsi la pellaccia assieme a Badoglio e agli altri galoppini sabaudi, voltagabbana saliti sul carro del vincitore.

L’esperienza di Salò fu suggestiva, nonostante tutto, perché sembrava riproporre l’antico Regno Italico medievale, concentrato nel centronord e inquadrato nel Sacro Romano Impero, che per l’occasione assumeva le fattezze del Terzo Reich nazista.

Il settentrione fu anche caratterizzato dalla lotta partigiana, di varia natura, non solo rossa, un fenomeno assai ingigantito e strumentalizzato che finì ovviamente per fare il gioco degli alleati e dei comunisti stranieri, e non per riscattare un presunto orgoglio nazionale italiano; questi perse la faccia con l’8 settembre ’43 e quel che ne seguì, ripetendosi nella squallida macelleria di Piazzale Loreto.

Nel gennaio del ’44 il Comitato di Liberazione (?) Nazionale si trasformò in quello dell’Alta Italia, assumendo, in clandestinità, poteri di governo straordinario del nord. In marzo si ebbero nuovi scioperi più accentuatamente antifascisti ed anti-tedeschi nelle fabbriche milanesi e lombarde; il 13 luglio vi fu un durissimo bombardamento aereo su Brescia; in dicembre, ultimo discorso pubblico di Mussolini al Lirico di Milano.

Il 2 marzo ’45 altro grave bombardamento aereo su Brescia. Nella terza decade di aprile, l’intera Lombardia venne “liberata”: la farsesca insurrezione di Milano, con tanto di occupazione della città da parte delle brigate partigiane (migliaia di “infazzolettati” dell’ultim’ora, praticamente), iniziata la sera del 24, si concluse il 26.

Il 28 aprile Mussolini e altri esponenti del governo targato RSI (acronimo di SRI) vennero fucilati tra Giulino di Mezzegra e Dongo, nel Comasco.

Il giorno successivo i loro cadaveri (tra cui quello di una donna, Claretta Petacci, che nulla c’entrava) vennero esposti al pubblico ludibrio della folla inferocita a Piazzale Loreto, Milano, certamente una delle pagine più desolanti del fenomeno resistenziale, cosiddetto, che immortalò impietosamente non tanto coloro che penzolavano da quel famigerato distributore di benzina, quanto quella pezzente italianità di cartapesta che regolarmente si schiera dalla parte del più forte.

In realtà, fra l’altro, l’Italia non venne liberata da alcunché perché col 25 aprile passò integralmente sotto il controllo e l’occupazione diuturna americani, che la riempirono di basi militari, anche Nato.

Il fasullo Paese italico, dalle Alpi alla Sicilia, è specchio dell’entità statuale che lo rappresenta, e certamente i governi succedutisi dal 1861 ad oggi, salvo – più o meno – la parentesi fascista, sono stati (e sono ancora) ostaggio dei potentati stranieri. La parziale assoluzione del fascismo non è dettata da ragioni patriottiche (l’Italia non esiste), ma dal fatto che nel Ventennio Roma seppe esibire un briciolo di indipendenza, soprattutto nei riguardi della Babilonia occidentale.

Ma, a parte questo, anche a livello interno la politica “nazionale” deve scontrarsi con le ingerenze e gli interessi di soggetti estranei che un tempo potevano essere i Savoia e che continuano la tradizione con l’onnipresente Chiesa cattolica, per quanto agonizzante, e con altre cricche nemmeno troppo occulte (mafia, massoneria, minoranze varie).

La situazione si può risolvere solo ed esclusivamente promuovendo una robusta presa di coscienza etnica e culturale del non essere italiani, con particolare riferimento ai granlombardi, che non è un’invenzione leghista ma la naturale identità di tutti coloro che, autoctoni, popolano la Padania, dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone.

Universo

Un tempo, sulla scorta della religione cattolica che pretendeva di piegare l’intera società europea a uso e consumo dell’oscurantismo, si pensava che la terra fosse al centro dell’universo, ivi collocata da Dio, e che l’uomo fosse il signore indiscusso della stessa e del cosmo. Un pianeta, attorno a cui ruotava il sole (sostenevano in nome della Bibbia), e una galassia modellati a immagine e somiglianza dell’essere umano, riflesso del Padreterno, dove l’umanità rappresentasse la dimensione fondamentale e precipua di tutto il “creato”. La secolarizzazione ha eliminato dalla vita civile tutte queste balle, confinandole alle sagrestie, grazie anche all’innovazione scientifica e tecnologica che ha ridimensionato la portata del cristianesimo e dei suoi fratelli abramitici, elevando la razionalità a misura del rapporto fra uomo e universo. Non si vuol qui affermare che le rivoluzioni intellettuali abbiano sortito soltanto effetti positivi, anzi; sappiamo tutti benissimo come sviluppo e (sedicente) progresso cagionino anche alienazione, spersonalizzazione e dittatura scientista. Ma, nel III millennio era volgare, è ormai assodato che la ragione sia la guida dell’uomo, e che il metodo galileiano abbia cambiato, prevalentemente in meglio, le nostre vite.

Nell’ottica lombardista, il pensiero razionale è fondamentale, soprattutto se confrontato col ciarpame metafisico. Il globo è un pianeta finito dalle dimensioni finite, al pari degli altri corpi celesti del sistema solare, e lo stesso universo non è certamente infinito. Non vi è alcun disegno divino o soprannaturale dietro il cosmo, e tutto è il frutto del caso e del caos. Le nostre conoscenze sono ovviamente limitate, e la scienza, per sua stessa definizione, non ha certezze assolute, mettendosi sempre in discussione e sviluppando una visuale che passi necessariamente per l’esperimento e il vaglio accurato degli elementi naturali in nostro possesso. È, ad ogni modo, chiaro che l’esistenza umana, e animale, non obbedisca ad alcunché di trascendente, e che l’evoluzione sia un normale processo di adattamento all’ambiente circostante, per fini riproduttivi e di sopravvivenza. La visione del mondo ideale è quella dettata dalla ragione, specie-specifica dell’uomo, e dopo i colpi mortali inferti alle religioni – soprattutto fanatiche – dall’avvento del moderno metodo scientifico è davvero il caso di concepire universo, terra e vita su di essa come qualcosa di assolutamente naturale, slegato da ogni fola irrazionale e mitologica.

Repubblica o monarchia? Il pensiero lombardista

Il lombardesimo, fondamentalmente, opta per una forma di governo di ispirazione repubblicana, che sia alla base di un etnostato granlombardo presidenziale. L’opinione di Sizzi e Roncari, in merito, è sempre stata chiara: no alle monarchie, in quanto prodotto anacronistico di una forma di parassitismo che pone al di sopra del popolo una dinastia, o comunque una classe dirigente di estrazione nobiliare (sempre che tale aggettivo, oggi, possa avere ancora un senso), in nome di fole religiose o mitologiche. Lo stato, anzi, l’etnostato lombardo deve essere retto da un’aristocrazia in senso etimologico, un governo repubblicano dei migliori, in cui i politici chiamati a rappresentare la patria siano stati formati e forgiati in specifiche accademie.

Noi siamo da sempre allergici al binomio trono e altare, perché foriero di sfruttamento, oscurantismo e idea distorta di tradizione, messa al servizio di pochissimi a danno di moltissimi. Ma questa posizione non è giacobinismo, tutt’altro, è un repubblicanesimo basato sul sangue e sul suolo, che inquadri lo Stato come strumento al servizio della nazione, senza potere parassitario giustificato da vecchiume che nulla ha a che spartire con popolo, etnia e patria. La nostra idea di politica è laica, nazional-sociale, comunitaria, volta all’esaltazione razionale della stirpe cisalpina, che è la vera ricchezza di un ipotetico, e auspicabile, organismo statuale indipendente da Roma.

Prendiamo le distanze dal corrente concetto di democrazia, che non è altro che prostituzione antifascista in favore dell’alta finanza, del libero mercato, del sistema capitalista. È la nazione a giustificare uno stato, non viceversa, e anche per questo non vediamo di buon occhio una soluzione monarchica, dove le sorti della patria rischierebbero di venir messe in secondo piano rispetto ai privilegi di una casta, il cui unico merito sarebbe il pedigree nobiliare. Ma noi lombardisti crediamo nel valore del sangue, non del blasone, e siamo ostili al termine ‘suddito’, riferito al popolo. Così come siamo ostili a ciò che puzza di religione, specie se giudeo-cristiana, dal momento che la metafisica non può reggere il confronto con la verità etno-razziale.

Il vero problema della Rivoluzione francese fu la sua impronta borghese, che sviò la popolazione transalpina instradandola sui binari del cosmopolitismo, del laicismo (e non della laicità) e del progressismo. Il giacobinismo viene da noi condannato non certo per l’opposizione a preti e teste coronate, ma per il fatto che divenne in breve tempo funzionale a quel concetto di universalismo in base al quale la patria viene ridotta a stato, e cioè a qualcosa di artificiale cementato da egualitarismo, disprezzo di identità e tradizione, umanitarismo pezzente che calpesta le radici.

La soluzione al moderno marasma globalista non sta nell’innalzare troni e nell’insediarvi degli sfruttatori che si rifacciano ad un mitico passato, ma nell’erigere etnostati che diano un volto etnonazionale e razziale alla cosa pubblica, in nome di principi repubblicani e laici slegati da ogni zavorra “neo-giacobina”. Siamo a favore del presidenzialismo, del sistema unicamerale, di una visione economica corporativista, temprata dal comunitarismo. Non vorremmo indugiare troppo nel federalismo, per quanto si possa riconoscerne una forma blanda a livello cantonale, poiché siamo zelanti fautori di uno spirito unitario che anteponga agli interessi particolaristici il benessere della nazione lombarda. Vogliamo una repubblica granlombarda presidenziale, etnonazionale, comunitaria, lontana da ogni tentazione monarchica o teocratica.

Lombardia risorgimentale

Regno d’Italia

1848-1849, è la Prima guerra d’indipendenza: all’insurrezione di Milano contro gli austriaci (le Cinque giornate, 18-22 marzo ’48) fecero seguito l’occupazione della Lombardia da parte delle truppe di Carlo Alberto di Savoia, la sconfitta dei piemontesi a Custoza (23-25 luglio), l’ulteriore sconfitta di Novara (23 marzo 1849) ed infine le Dieci giornate di Brescia, la cui insurrezione venne soffocata il 30 marzo ’49 e le valse l’appellativo carducciano di “Leonessa d’Italia”.

1859, è la Seconda guerra d’indipendenza: vittoriosi a Montebello, Palestro e Magenta, i franco-piemontesi entrarono l’8 giugno a Milano; tra il 26 maggio e il 12 giugno Giuseppe Garibaldi occupò Varese, Como, Bergamo, Brescia; sconfitta anche a Solferino e San Martino (24 giugno), l’Austria, col trattato di Villafranca dell’11 luglio, cedette la parte precipua di Lombardia regionale (tranne Mantova) a Napoleone III, decisivo alleato del Regno di Sardegna, che ne “fece dono” a Vittorio Emanuele II di Savoia.

Il 17 marzo 1861 venne infine proclamato il Regno d’Italia a Torino, con Vittorio Emanuele II come sovrano; la Lombardia regionale, con una popolazione di 3.104.838 residenti, è assieme al Piemonte la regione più progredita e attiva del nuovo stato; il lavoro agricolo impiega 1.086.028 persone, mentre l’industria e l’artigianato 459.044.

Certi meridionalisti arrabbiati, e ovviamente i pittoreschi duosiciliani, vanno dicendo che l’unificazione, innaturale, di Padania, penisola e isole fu una rapina e un massacro ai danni del sud (la famigerata “terza potenza industriale d’Europa”, o era del mondo?) con conseguente arricchimento e sviluppo del “nord”; certo, come se la Lombardia fosse stata terzo mondo dall’epoca comunale e solo con il “latrocinio” sabaudo e garibaldino fosse divenuta quello che ancora oggi è, area trainante della baracca tricolore.

Alla vigilia dell’Unità d’Italia la situazione era la seguente: nella Pianura Padana aveva già preso da un pezzo avvio un capitalismo agrario, tecnicamente abbastanza evoluto. Nel sud, invece, permanevano i violenti scontri tipici del sottosviluppo: vastissimi latifondi, piccole proprietà insignificanti, coltura praticata con mezzi rudimentali in terre dalla resa scarsa, mentre la Cisalpina faceva fortuna con riso, pascoli, allevamento, caseifici.

Certamente il nord era afflitto dalla pellagra e la dieta era ben poco varia, e povera, ma la carne, nelle Due Sicilie, sulle tavole dei contadini si vedeva ben di rado.

Il pilastro dell’industria nostrana era la seta greggia, di cui l’Italia era la prima esportatrice. Le industrie erano addensate quasi esclusivamente in Piemonte e Lombardia, e ciò spiega come mai il decollo economico unitario avvenne in queste regioni. I primi impianti industriali (e ricordo che la Rivoluzione omonima nacque in Inghilterra sul finire del ‘700, ma esplose nella metà dell’800) furono i cotonifici di Torino, del Verbano, di Busto Arsizio, e i lanifici di Biella, Schio e Prato. Le industrie nascono grazie all’iniziativa degli uomini e lo spirito imprenditoriale lombardo è rinomato dai tempi medievali; gli imprenditori piemontesi e lombardi erano ancora terrieri, ma applicavano all’agricoltura criteri industriali: corsi d’acqua canalizzati, cascine, caseifici.

Capitolo ferrovie: i neoborbonici esaltano ancor oggi il primato del trenino-giocattolo di Ferdinando II, che aveva a disposizione solo 100 chilometri di binari; il Piemonte invece ne aveva 900, il Lombardo-Veneto 500, la Toscana 250.

A Napoli erano certamente rinomati, invece, lo stabilimento di Pietrarsa e la grande tradizione marinara, assieme a Genova. Genova che poteva contare anche sull’industria siderurgica targata Ansaldo.

Al sud il denaro scarseggiava, la cartamoneta era vista di cattivo occhio e gli investimenti latitavano: ivi mancava il coraggio e lo spirito imprenditoriali che invece albergavano in Lombardia, e i latifondisti tutto volevano fuorché il risveglio e lo sviluppo della plebe.

Le grandi banche erano nella Cisalpina, e così le casse di risparmio, nate a Milano.

A questo proposito ecco la classica accusa: “Il nord si è servito dell’unità per schiacciare il sud, distruggendone l’economia: le casse settentrionali erano vuote, quelle meridionali floride, così come le industrie napoletane”. Ma la realtà è diversa.

Il bilancio del Regno borbonico era all’attivo perché Napoli non aveva dovuto sostenere spese di guerra per unire questo finto Paese, a differenza del Piemonte, la piccola Prussia subalpina; inoltre, mentre i Borbone tesaurizzavano senza spendere, investire, innovare a vantaggio del popolo affamato, in Piemonte si investiva per attrezzare il Regno in campo industriale, per le bonifiche, le strade, le ferrovie, i canali.

E le industrie campane si riducevano agli stabilimenti meccanici di Pietrarsa, statali (dunque ben poco propensi al miglioramento del prodotto e all’abbassamento dei costi), e ai cotonifici svizzeri di Salerno, gestiti in regime di monopolio.

Con l’unificazione le barriere doganali fra i vari stati preunitari vennero soppresse, l’Ansaldo rimpiazzò Pietrarsa e Busto Arsizio surclassò Salerno, grazie al regime di libera concorrenza che produceva meglio e a minor costo. Le “floride” industrie partenopee decaddero perché minate dall’autarchia campanilistica.

La più grave cagione del ritardo del mezzogiorno, però, stava soprattutto nella mancata riforma agraria, tentata tra Settecento e Ottocento.

I borghesi riuscirono ad abolire il regime feudale, grazie all’appoggio del potere centrale che voleva spremere i contadini al posto dei baroni e della Chiesa, le cui terre furono confiscate. La situazione volse in favore dei grandi proprietari terrieri, nobili e borghesi, che fagocitarono le terre del demanio e della Chiesa lasciando ai “cafoni” le briciole e la miseria.

Inoltre, il terriero ausonico si guardò bene dall’investire i capitali, accumulati sulle spalle del contadinato, in migliorie e attività produttive, sancendo il grande fallimento dell’arcigna borghesia meridionale che non si dimostrò migliore degli esosi baroni. Questa classe dirigente accettò la subordinazione rispetto a quella settentrionale, a patto che venissero rispettate le sue prerogative parassitarie.

E così la spagnolesca classe dirigente del meridione ottenne il monopolio della scuola, che cagionò l’altissimo tasso di analfabetismo di laggiù: in Piemonte, Lombardia e Liguria era al 50%, mentre nei territori duosiciliani toccava il 90%.

In altre parole, se il sud, ancor oggi, versa in condizioni di degrado, abbandono, e ritardo rispetto al nord lo si deve proprio ai beniamini degli indipendentisti ausonici: preti, baroni, borghesi borbonici e Borbone stessi.

Lasciamo perdere altre amenità come Fenestrelle antesignana dei lager, e piemontesi raffigurati come bestie assetate di sangue meridionale.

Senza alcun dubbio, il nefasto Risorgimento fu prodotto padano-alpino, orchestrato da logge, sinagoghe e stranieri, e ne avremmo fatto volentieri a meno. Anche in qualità di orobici, visto che Bergamo si guadagnò il “prestigioso” titolo di “Città dei Mille”, grazie al contributo di uomini (179) che vestirono la camicia rossa garibaldina.

Nel 1866, l’annessione del Veneto ai danni dell’Austria portò Mantova e il suo territorio nuovamente sotto la Lombardia (intesa come attuale entità politica), completandone l’assetto regionale moderno; la regione etnolinguistica manca però di VCO, Canton Ticino, Grigioni lombardo, Novarese, e volendo anche di Tortona, Piacenza e Trentino occidentale. Fermo restando che la vera nazione lombarda riguarda, oltre a questi territori, la parte mancante di bacino padano e tutte le altre terre granlombarde.

La stessa Italia sabauda rinunciò a Nizzardo, Savoia, Corsica in favore di coloro che appoggiarono il Piemonte nella sua nefanda opera unificatrice, ma si tenne la franco-provenzale Valle d’Aosta; con la “grande guerra” conquistò Trieste, Istria, Venezia Giulia storica e il Tirolo meridionale storico, riunendo il Triveneto strappato all’Austria. Tutte queste plaghe sono geograficamente parte integrante della nazione cisalpina, ancorché abitate da minoranze.

Roma, tolta al papa, divenne capitale d’Italia nel 1870.

Tra il 1871 e il 1894, nonostante una robusta emigrazione di lombardi, Milano e la Lombardia si svilupparono sempre di più, inserendosi nel circuito commerciale nordeuropeo (grazie anche alla galleria ferroviaria del San Gottardo). Nascono nuovi cotonifici, il Corriere della Sera, le biciclette Bianchi, la Breda, la Tosoni, la Marelli, Crespi d’Adda, la prima Camera del Lavoro a Milano, i primi tram elettrici, e la popolazione regionale lombarda, nel 1881, salì a 3.750.051 abitanti.

Nel maggio 1898, in seguito all’aumento del prezzo del pane, vi fu uno sciopero generale a Milano: il generale Fiorenzo Bava Beccaris assediò la città mietendo, con tanto di cannoni, 81 vittime “sovversive”, ferendone 450. I limiti di una monarchia scellerata, in parte straniera, cominciarono a farsi sentire.

Il 29 luglio 1900, l’anarchico Bresci uccise re Umberto I a Monza, per vendicare i morti di Bava Beccaris. L’attentato chiuse il XIX secolo lombardo.

Il mio giudizio sulle vicende risorgimentali, cosiddette, è ovviamente negativo; unirono un Paese fasullo e portarono, solo per finta, all’affrancamento dal giogo straniero e petrino, poiché l’Italietta dalle Alpi alla Sicilia fu un prodotto anglofrancese avvelenato dai preti (e, naturalmente, da massoni, nostalgici giacobini, ebrei). Gli “italiani” animati da fervore patriottico, e desiderosi di battersi fino al sacrificio per la causa pseudo-nazionale, agirono in quanto pilotati da cricche di intriganti che non rappresentavano in alcun modo il popolo. Basti pensare ai referendum farsa che sancirono, per modo di dire, l’adesione e l’annessione al Regno di Sardegna delle varie regioni subalpine. Risorgimento e processo di unificazione, cagioni di una sciagura dietro l’altra, furono manovre dall’alto, di pochissimi a danno di moltissimi, ed espressione dei degenerati Savoia contemporanei.

Esseri viventi

La biosfera, e cioè quella porzione della Terra che permette lo sviluppo della vita grazie alle proprie condizioni ambientali, è popolata da flora, fauna, umanità e naturalmente dai microrganismi. Anche l’uomo fa parte del mondo animale ma, certamente, si eleva al di sopra della ferinità grazie alla cultura, alla civiltà, allo spirito e alla ragione, e in virtù di tutto questo ha la facoltà di poter controllare la natura, dominandola laddove necessario. Purtroppo, si è lasciato prendere la mano sentendosi onnipotente, con ricadute disastrose sul mondo circostante, devastato da inquinamento, cemento, sovrappopolazione, città sempre più tentacolari e fenomeni migratori di massa. Non dobbiamo essere ipocriti, poiché lo sviluppo consente di migliorare le condizioni di vita promuovendo il benessere; tuttavia, lo sviluppo non può essere confuso col feticcio del progresso, che sacrifica sangue, suolo e spirito sull’altare della standardizzazione globalista, peste dei tempi moderni. La sfida che l’umanità deve affrontare è quella di cercare di preservare gli ecosistemi invertendo la rotta percorsa dalle società capitalistiche, in nome non solo di un ambientalismo razionale, ma pure dell’identitarismo etno-razziale.

La globalizzazione è la mortale nemica delle nazioni, dei popoli, delle comunità e, dunque, dell’ambiente incontaminato, degli organismi vegetali e animali, dell’intera biosfera di cui parlavamo in apertura. Lottare per un pianeta eco- ed etno-sostenibile implica bonificare la nostra esistenza quotidiana dalle scorie di un modernismo apolide che calpesta le leggi naturali, come se l’uomo, in fondo, non appartenesse al regno animale, e fosse piuttosto un concetto astratto frutto della storia e della politica, o delle dottrine religiose. È chiaro che gli esseri umani sovrastino le bestie, e che senza la culla della civiltà europea il mondo non sarebbe la stessa cosa, ma non dobbiamo dimenticarci che prima di essere gli artefici della cultura siamo figli del nostro habitat, al pari degli animali o delle piante. Per questo dobbiamo preservare lo statuto razziale che distingue i vari popoli del globo, ancorando la coscienza identitaria alla dimensione biologica dell’antropologia e della genetica, del sangue. Siamo animali, quindi come tutti gli animali abbiamo razze. Con buona pace della metafisica, dell’antifascismo, del progressismo e di tutte le balle sfornate dal ‘700 illuminista ed ereditate da sinistrorsi e liberali.

Lo spirito come fuoco identitario

Il lombardesimo dà, come giusto che sia, moltissima importanza al dato di sangue e di suolo, nell’ottica della riscoperta identitaria, poiché senza una solida base biologica e territoriale ogni discorso etnico e patriottico verrebbe meno. Va da sé, tuttavia, che se al binomio sangue e suolo manca l’elemento spirituale, il terzo, la coscienza patriottica rischia di crollare o quantomeno di perdere forza, segno che in assenza del carburante, per così dire, umanistico la componente biologica di un popolo diviene arida, sterile. Lo vediamo molto bene al giorno d’oggi, in quelle terre europee che possono sembrare esemplari sotto il profilo dell’identità etnica ma che celano una spaventosa voragine in termini di qualità spirituali, a causa dell’omologazione mondialista.

D’altra parte, se un popolo è privo di mordente culturale, è chiaro che spalanchi le porte non solo al relativismo distruttore ma pure a fenomeni nefasti di meticciato, promiscuità, multirazzialismo, compromettendo senza via d’uscita il tessuto etnico originale della nazione. Lo diciamo proprio perché l’esaltazione fanatica del sangue può sfociare nel materialismo, e il materialismo (orbato dell’accezione razionalista, si capisce) è l’anticamera del collasso di una civiltà, ridotta a prostituirsi in favore del consumismo, dell’edonismo, dell’affarismo. Noi lombardisti siamo tendenzialmente anticristiani, ma mai vorremmo che la scomparsa della religione di Cristo venisse colmata dalla spazzatura globalista tipica della mentalità cosmopolita.

Lo spirito è cultura, civiltà, mente, carattere, indole, umanesimo e non va necessariamente interpretato come qualcosa di trascendente. Chi scrive è piuttosto allergico alla fede, essendo profondamente etno-razionale, non crede in Dio o negli dei e non concepisce l’esistenza aòòa stregua di un rapporto tra piano orizzontale umano, terreno, e piano verticale divino, celeste. Nondimeno, io prendo le distanze dalla moderna temperie atea, di un ateismo pacchiano e annoiato che è frutto della nulla predisposizione occidentale alla riflessione e alla meditazione, e che strizza l’occhio ai veleni ideologici marxisti.

Ritengo che Dio (o chi per esso) non esista, sia un prodotto dell’astrazione umana, al pari della religione e del bisogno di credere in una vita oltremondana, ma condanno senza alcun dubbio quanto è scaturito dal pozzo nero del sedicente Illuminismo, che è stato la totale negazione dei valori identitari e patriottici europei. Non a caso, i progressisti hanno sempre la tentazione di far risalire le origini, le vere radici della civiltà europea al ‘700 dei philosophes, pur essendo quello sciagurato periodo la tomba dell’anima continentale, scavata da un (finto) Paese – la Francia – che è ancor oggi la patria nostrana dei corpi tossici che potremmo bollare senz’altro come giacobini.

Non serve concepire lo spirito in un’ottica di alito soprannaturale infuso all’uomo, e ai popoli, come parte più nobile ed elevata dell’anima (anch’essa inesistente, se intesa in termini giudeo-cristiani) degli individui. Serve, piuttosto, intendere questo fondamentale elemento culturale nella qualità di fuoco che permette alla razza, all’etnia e alla nazione di risplendere, e di fendere le oscurità di un mondo globalizzato in balia dei disvalori nichilistici. Il sangue e il suolo non bastano, hanno bisogno di ascendere, di venir sublimati, grazie al prodotto del loro incontro, lo spirito, che è quanto evita di seguire poco proficue derive di materialismo zoologico, del resto funzionali alla castrazione identitaria e tradizionalista della nostra gente.

Lombardia contemporanea

Regno napoleonico

Il Settecento, che con l’89 segnò la fine convenzionale dell’età moderna, è stato il secolo della massoneria, delle rivoluzioni, del giacobinismo, dell’avvento di Napoleone e dei cosiddetti “lumi”, dell’Illuminismo.

Proprio l’Illuminismo ha segnato il declino dell’idea genuina di Europa, spedendola nella fossa scavata a suo tempo dal giudeo-cristianesimo, sebbene, paradossalmente, le due dottrine non siano certo compatibili se non nel loro empito universalista anti-identitario.

In comune hanno appunto l’odio per l’Europa e le sue vere radici, e oggi ce li troviamo alleati contro l’identità e la tradizione nella grande guerra scatenata contro di noi dal mondialismo.

Naturalmente, quello che un tempo si chiamava Illuminismo oggi si chiama marxismo, comunismo, progressismo, liberalismo, antifascismo mentre il giudeo-cristianesimo continua a prosperare nel cattolicesimo postconciliare, un cattolicesimo castrato e ancor meno europeo di prima, tendente al protestantesimo.

Con l’Illuminismo prese piede anche il cosiddetto ebraismo internazionale; no, non voglio dare adito ad alcun complottismo antisemita, ma è chiaro che sull’onda dei “lumi” gli ebrei non solo promossero la loro uscita dai ghetti ma auspicarono anche un movimento globale, apolide, cosmopolita da loro coordinato e sfociato poi nel marxismo, nel sionismo come forma di imperialismo ebraico, nel bolscevismo, nel distruttore relativismo sessantottino (vedi Scuola di Francoforte), e naturalmente nelle svariate forme di affarismo capitalistico. Il fiuto per gli affari è una peculiarità storica giudaica, non dobbiamo prenderci in giro occultandolo: ma è una peculiarità frutto anche delle condizioni in cui la Chiesa costrinse gli israeliti, perseguitandoli per le balle sul deicidio, salvo sfruttarli per i propri interessi a danno altrui (vedi usura).

I “lumi” attuarono una vera e propria rivoluzione borghese, sulle ali della massoneria, e cioè della mafia per così dire radical-chic dei salottini buoni del Settecento, che portò non soltanto (magari fosse solo quello!) alla liquidazione dell’oscurantismo cattolico ma anche al sovvertimento innaturale delle istituzioni tradizionali, al terremoto relativista, al cieco fanatismo progressista, e allo sdoganamento del pluralismo a scapito degli indigeni, tartassati col mito del “buon selvaggio”.

L’Illuminismo, che per qualcuno rappresenta addirittura la nascita – o la rinascita – dell’Europa (nonostante in realtà ne sia la pietra tombale), portò alla formazione degli Stati Uniti, entità apolide senza storia e nazione partorita da intrighi massonici, alla Rivoluzione francese con annessi e connessi (stati giacobini, bandiere giacobine, sanguinari tiranni giacobini che tradirono, fornicando con la borghesia, dei legittimi sentimenti anti-tirannici e antimonarchici), al giacobinismo appunto precursore di socialismo marxista e comunismo, al bonapartismo, al rovesciamento dei valori tradizionali ed identitari, all’ipocrita triade Liberté, Égalité, Fraternité, che oggi come ieri inganna il popolo facendo gli interessi delle classi che vivono di rendita sulle sue spalle, e delle cosiddette “minoranze”.

Il Settecento illuminista plasmò i mostri ideologici che oggi terrorizzano la società civile con la loro becera dittatura relativista e anarcoide: ci si è sbarazzati della Chiesa per finire nelle fauci del nuovo assolutismo laicista e ateo, ma al contempo anti-europeo.

Il suddetto fosco periodo storico, insomma, pose le basi dell’attuale rovesciamento totale di valori del continente europeo, e di tutto quello che gli appartiene genuinamente, a partire dal sangue, dal suolo, dallo spirito.

I veleni d’oltralpe raggiunsero anche la progredita Lombardia, ma andiamo con ordine.

Eravamo rimasti alla Milano austriaca di Maria Teresa, che stava perdendo tutti i suoi possedimenti storici, sebbene liberata dal giogo spagnolo.

Con essa, nel 1760 entrarono in vigore il catasto e il nuovo sistema tributario.

Nella Lombardia asburgica giunse anche la rivoluzione industriale, principiata nell’Europa nordoccidentale sul finire del ‘700, ed esplosa nell’800, che rese la nostra regione la più sviluppata della fantomatica Italia, alla vigilia dello scellerato 1861, checché ne dicano certi fanatici duosiciliani; la Lombardia è sempre stata nei secoli, seppur tra alti e bassi, un’area geografica, a stretto contatto col cuore del continente, ricca, evoluta, redditizia, fertile e abitata da genti laboriose. Anche se coi loro difetti, si capisce.

Quattro anni dopo, nel 1764, ecco che la tormenta illuminista, foriera di rivoluzioni borghesi, frammassone e giacobine, investì ufficialmente la Lombardia austriaca con la pubblicazione del famoso libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene e del primo numero del periodico letterario e scientifico dei fratelli Verri, Il Caffè, che durò fino al 1766.

C’è da dire che il nazionalismo moderno prese le mosse dalla Rivoluzione francese del 1789; i bisogni di autodeterminazione nascono certamente da lì, ma sono stati traditi, pervertiti, snaturati dall’infida ottica borghese e, ovviamente, non erano nulla di etnonazionalista, come si può intendere oggi, si capisce. Ma in questo senso sta a noi, nella contemporaneità, aggiustare il tiro, ed evidenziare che il nazionalismo ha senso solo se è etnico. Altrimenti è tifoseria da stadio, o peggio ancora patriottismo di cartapesta alla francese e all’italiana (che è sottoprodotto giacobino del primo).

Nel 1765 Francesco III d’Este, duca di Modena e Reggio e governatore lombardo fino al 1771, ottenne in feudo da Maria Teresa la città di Varese.

Nel 1790 la popolazione lombarda, regionale, che all’inizio del secolo era poco più di un milione di residenti, toccò i 2.150.000 abitanti.

Nel 1796 finì il primo periodo dell’occupazione austriaca di Milano e di parte della Lombardia: il giacobino Napoleone Bonaparte, un corso di origine ligure-toscana, al comando delle truppe francesi rivoluzionarie, sconfisse gli austriaci a Lodi, e il 15 maggio entrò in Milano.

Un anno dopo si costituì la Repubblica Cisalpina, germe dell’artificiale Italia unita, comprendente l’attuale Lombardia occidentale (con la Valtellina e i contadi), quella orientale liberata dalla Serenissima (anch’essa liquidata dal Bonaparte), l’Emilia inquadrata nella Repubblica Cispadana, più il Polesine. Capitale del nuovo stato fu Milano; sua insegna il tricolore, certamente ispirato a quello ben più noto francese, ma a strisce orizzontali (e ideato prima di quello ungherese) e coi colori della Croce di San Giorgio e della divisa della Legione Lombarda (verde), un colore ghibellino e visconteo, peraltro, che si rifaceva alle uniformi della milizia cittadina milanese.

Nel 1801-1802 la Cisalpina diventò la primissima Repubblica Italiana, sempre con capitale Milano; Napoleone presidente, Francesco Melzi d’Eril vicepresidente.

A Milano, nel 1803, venne aperta la Pinacoteca di Brera; nel 1776 era stata inaugurata invece l’Accademia di Belle Arti, su progetto del Piermarini, che poi ottenne la cattedra di architettura.

Nel 1805, Napoleone, proclamato primo imperatore dei francesi, ricevette nel Duomo di Milano la corona di re d’Italia, auto-investendosi, indegnamente, con la nobile Corona Ferrea dei re longobardi. Viceré, Eugenio di Beauharnais.

Nell’ottobre del 1813 il Bonaparte venne sconfitto a Lipsia e nell’aprile 1814 il Regno Italico cadde; il 20 di quel mese venne ucciso dalla folla milanese inferocita il ministro delle Finanze Giuseppe Prina.

Napoleone fu per la Grande Lombardia una figura scellerata: giacobino malato di grandeur francese, senza essere peraltro transalpino, pose fine a potentati cisalpini storici e stimolò l’innaturale unificazione del finto Paese dalle Alpi alla Sicilia, e il fiorire di un orgoglio patrio artificiale (per quanto le sue creazioni politiche subalpine fossero null’altro che entità dominate dalla Francia). D’altra parte, l’idea moderna di Italia è una copia di quella francese.

Della caduta del Bonaparte se ne approfittò l’Austria, che istituì il Regno Lombardo-Veneto il 12 giugno del 1814.

La Restaurazione smantellò nel 1815 le istituzioni del Regno Italico; Milano è capitale del Lombardo-Veneto assieme a Venezia, e diviene residenza del viceré austriaco.

Il Congresso di Vienna avrà anche restaurato i potentati cattolici e reazionari smantellando le istituzioni giacobine napoleoniche (e questo fu un bene), però riportò ordine, autorità, disciplina, eliminando provvisoriamente i nefasti influssi della Rivoluzione francese. Certo, in un’ennesima forma di cattività straniera ai danni della nazione lombarda.

Lungi da me esaltare l’Impero austro-ungarico, un’accozzaglia antinazionale di popoli disparati, percorsa da venature ebraiche. Tuttavia, va riconosciuto che quello austriaco, per quanto liberticida lo si dipinga, fu un buongoverno, anche se occupante, e seppe sfruttare le innate capacità dei lombardi garantendo un certo benessere e sviluppo, nonché qualità mitteleuropea.

Nel 1817 Stendhal notò come la Pianura Padana fosse la più fertile d’Europa, fonte plurisecolare di ricchezza, abilmente irrigata e navigabile per mezzo di canali.

Nel 1818 venne introdotta l’istruzione elementare obbligatoria.

Si costruirono strade, infrastrutture, edifici di pregevole fattura architettonica, ma non mancarono cospirazioni anti-austriache di nobili e alto-borghesi, nel triennio 1821-1824.

Cesare Cantù, fondatore dell’Archivio storico lombardo, si trasferì da Como a Milano nel 1838, ove lavorò alla stesura dei 35 volumi della sua Storia universale, fino al 1846.

Nello stesso 1838, imponenti bonifiche in Lomellina e nelle valli ostigliesi.

Dal 1839 al 1846 uscirono importanti pubblicazioni come lo scientifico-culturale Politecnico di Carlo Cattaneo e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, ma soprattutto la Lombardia si dotò di ferrovie, omnibus a cavalli, illuminazione a gas e di un’efficace rete viaria regionale (Milano-Monza e Milano-Treviglio aprirono la fase delle grandi linee ferroviarie).

Con l’Austria la Lombardia prosperò e mise sapientemente a frutto i propri talenti, la propria creatività, il proprio spirito imprenditoriale, e la propria laboriosità.

Chiaro, mancava però la libertà vera, quella etnonazionale, mancava una Cisalpina unita ed indipendente, che il citato Cattaneo auspicava federata alla penisola.

Arrivò, purtroppo, l’unità d’Italia, frutto, come sappiamo, della volontà di pochissimi ai danni di milioni di persone, in primis padano-alpine. Massoneria, rigurgiti giacobini, ingerenze giudaiche e straniere, cricche di intriganti d’ogni sorta concorsero alla creazione del Regno d’Italia sabaudo; la liquidazione del potere temporale pontificio, che fu solo apparentemente una vittoria, rappresentò il crollo di quella diga che, per secoli, nonostante tutto, aveva impedito la nefasta unificazione. Certo, contribuendo a tirarci in casa il forestiero.

Decine di migliaia di granlombardi furono costretti a versare il proprio sangue per l’Italia, dai primi moti alla “grande guerra”, passando per le guerre di indipendenza (cosiddette), e a loro dobbiamo rispetto. Non così per l’idea fasulla di patria che li mandò al macello, a combattere contro le potenze centrali, in nome di una nazione artificiale straniera messa malamente in piedi per ragioni geopolitiche dai potentati borghesi occidentali.