Multipolarismo, ma senza terzomondismo

Il lombardista crede fortemente nel tema dell’Euro-Siberia, che dovrebbe essere il futuro della razza europide e delle nazioni indigene del nostro continente. Una grande famiglia imperiale, confederale, che abbracci tutti i territori bianchi originari, nel segno dell’identitarismo völkisch e dell’autoaffermazione dei legittimi popoli, come il granlombardo. Il disegno euro-siberiano è l’unico progetto serio e razionale per salvare la nostra civiltà, sopravvivendo al sistema-mondo, contrastando efficacemente gli altri potentati e riuscendo ad imporsi, a casa propria, nel nome di un’autarchia continentale. Sganciarsi dal carrozzone funebre atlanto-americano è di vitale importanza, poiché l’unipolarismo a trazione statunitense è la tomba dell’Europa, Russia compresa (che appartiene quanto noi alla civiltà bianca ed europea).

Alla luce di ciò parlare di multipolarismo, nel rispetto della sovranità di ciascuna popolazione, è sacrosanto, a patto che tale discorso non prenda una piega terzomondista – in stile BRICS – e non verta sulla legittimità di nazioni del tutto fasulle, alla africana, con confini tirati giù col righello, nessuna seria entità etnica e nazionale a fare da collante e, dunque, nessun tipo di giustificazione identitaria e storica. Stiamo parlando di realtà come quelle del Sudamerica, dell’Africa sub-sahariana appunto, ma anche di realtà del cosiddetto primo mondo, con gli Usa in testa. Oggi si affermano questi sterminati contenitori statali di popoli disparati, in cui il sangue non conta più nulla e la cui potenza è espressione di una demografia impetuosa, di una macchina militare possente e di un apparato economico estremamente aggressivo.

L’Europa corre il rischio di venire stritolata, da questi potentati globalisti, ed occorre infatti che si stabiliscano rapporti camerateschi con la Russia – fino agli Urali, Europa – affinché si edifichi un novello impero confederale che sappia difendere con le unghie e con i denti l’inestimabile patrimonio etnico, culturale, civile, storico, spirituale delle nostre terre, mortalmente minacciate dall’auto-genocidio totale e dalla dissoluzione operata dall’immigrazione allogena di massa, dalla società multirazziale e dal meticciato.

La Russia putiniana, un colosso patriottico tra i nani liberal occidentali, ha il difetto di non avere coscienza razziale e di indugiare troppo nel cosmopolitismo, in nome di un imperialismo dal retrogusto sovietico che in un modo o nell’altro calpesta le radici degli europei. Chiaro, non condividiamo la demonizzazione di Vladimir ma nemmeno il culto idolatrico di taluni settori nostrani, perché resta il fatto che la nazione moscovita contemporanea sia troppo impelagata in un eurasiatismo privo di seri connotati razziali e giustificato dalla geopolitica anti-occidentale. Il massacro in Ucraina, terra sorella di quella russa (se non russa prima ancora della Russia), perpetrato anche grazie ad ascari caucasici, turchi e mongolidi, è il fallimento totale della solidarietà fra genti europee, messe le une contro le altre dai soliti…

Come lombardisti abbiamo il dovere, anzitutto, di lottare per l’autodeterminazione del nostro popolo, in un’ottica indipendentista, impegnandosi in primis per affrancarne il sentimento identitario e proteggerlo dall’estinzione (in casa propria). Assieme a ciò, va portata avanti la meritoria battaglia contro il sistema-mondo, contro la galassia antifascista e il relativismo eradicatore che distrugge nazione, comunità e famiglia. Parallelamente, la camicia plumbea ha il compito di diffondere la teoria euro-siberiana, con l’obiettivo di rottamare la tragicomica Ue e di abbandonare, finalmente, il baraccone a stelle e strisce. Prima viene la Grande Lombardia, e in seconda istanza la vera Europa. Un’Europa che va dalla Galizia a Vladivostok e che può risorgere soltanto mediante il sacrale consorzio di tutti i popoli europidi, in nome delle nostre radici ariane, steppiche. Volgiamo lo sguardo ad Est, dove tutto cominciò.

10 febbraio (1947): il ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani

Martiri delle foibe

Il 10 di febbraio si celebra il Giorno del ricordo, in memoria dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. 10 di febbraio perché, nel 1947, tale giorno sancì il passaggio alla Iugoslavia di Istria, Quarnaro e della massima parte della Venezia Giulia storica, con i trattati di pace di Parigi. Stiamo parlando di territori geograficamente e storicamente granlombardi, dalle radici venetiche, celtiche, anche illiriche ma riconducibili all’ambito padano-alpino in virtù delle origini antiche, del dominio longobardo e dell’epopea serenissima. Territori sicuramente slavizzati, dal Medioevo, ma inscindibilmente legati al dominio naturale della Padania, Dalmazia a parte. Il Giorno del ricordo, sebbene trovata tricolore e italianista, commemora i martiri dei massacri delle foibe e gli esuli istro-dalmati; i primi ammontano a 11.000 persone, tenendo conto anche di quegli italofoni morti tramite esecuzioni e/o nei campi di concentramento titini, i secondi ad una cifra compresa tra i 250.000 e i 350.000 individui, costretti a lasciare le terre dei padri nelle mani insanguinate di Tito e dei suoi scherani. Quest’ultimi, pur dicendosi comunisti, vennero ampiamente spalleggiati dagli Alleati e risultarono poi, nel dopoguerra, non allineati, rompendo con l’Unione Sovietica e abbandonando il Patto di Varsavia. Sappiamo che la ricorrenza del 10 febbraio sia stata fortemente voluta dalla defunta Alleanza Nazionale, e da ambienti neofascisti, ideologizzando tali eventi funesti in chiave italofila, ma commemorare le vittime è sacrosanto, anche per ristabilire la verità storica: i martiri delle foibe e gli esuli non erano italiani (per lo più), erano dell’areale venetico (cioè Lombardia storica orientale), vittime della sterile contrapposizione fra regimi e ideologie incuranti del genuino dato etnico.

Il ricordo è doveroso, perché i nostri fratelli padano-alpini orientali si sono trovati sotto il fuoco incrociato dell’Italia fascista e della Iugoslavia comunista, in ispregio delle vere radici identitarie della Venezia Giulia storica. Un discorso che può essere fatto in maniera analoga per quella fetta di popolazione slava angariata dagli occupanti fascisti (campi di concentramento, politiche aggressive nei confronti di territori al di fuori del contesto “italiano”, occupazioni frutto di vittorie altrui), poiché è evidente che se un potere politico non è animato da serie rivendicazioni identitarie diventa un’usurpazione. Resta certamente il fatto che decine di migliaia di nostri connazionali granlombardi siano stati sterminati, in quanto “italiani”, dai partigiani titini e che a centinaia di migliaia siano stati costretti all’esilio, abbandonando terre legate da secoli alla Cisalpina, strappateci per il volere dei vincitori occidentali dell’ultimo conflitto. Prima del Regno d’Italia, infatti, vi fu la Serenissima, e prima della Serenissima vi fu la Romània etnolinguistica, in parte sommersa dalle migrazioni slave medievali. Il caso dalmata è di poco interesse (sebbene la presenza storica veneta sia indiscutibile, pensiamo anche solo a Zara), ma di sicuro l’Istria, Fiume, la Venezia Giulia in senso allargato rientrano nello spazio patrio, sono Grande Lombardia, e questo non deve essere mai scordato, facendolo presente soprattutto a quei nostalgici comunisti revisionisti che parteggiano per un porco funzionale agli Usa (Tito), minimizzando i massacri, le persecuzioni, le angherie subite dai connazionali. Ma, allo stesso tempo, va rammentato ai patrioti italici che l’italianità della Lombardia orientale è una buffonata, frutto di colonialismo regnicolo e fascista divenuto controproducente per gli stessi martiri. Non dimentichiamoci delle vittime dell’odio iugoslavo e della volontà alleata, non dimentichiamoci delle terre orientali irredente che andrebbero ricongiunte alla vera madrepatria, non in nome del pezzente imperialismo tricolore bensì della loro storia granlombarda.

2-4 febbraio: la Candelora – Imbolc

Croce di Santa Brigida

Il periodo compreso tra il 2 e il 4 di febbraio è la datazione mediana tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera e, non a caso, per Italici/Romani e Celti (e poi per i cristiani) era periodo di importanti celebrazioni invernali, fatte di riti propiziatori e purificatori in vista della primavera, per scacciare l’inverno con le sue tenebre e il gelo (e i restanti rigori, con la morte apparente di flora e fauna) e ingraziarsi il risveglio primaverile della natura, affinché porti frutto. Mentre i Romani ricordavano la dea Febris/Februa (Febbre), incarnante un aspetto purificatorio di Giunone, i Celti celebravano Imbolc, festa della luce e del latte di pecora, in cui dominava il tema dei lumi e delle candele; allo stesso modo, le donne romane portavano fiaccole in processione, e si capisce così donde derivi la festa cristiana della Madonna Candelora, ma pure quella di San Biagio. La ricorrenza della Candelora – che è nome popolare della festa della presentazione di Gesù “luce delle genti” al tempio ma, prima ancora, della purificazione della Vergine – istituita dalla Chiesa, è servita per spazzare via le celebrazioni pagane del periodo di febbraio, tra cui i Lupercali romani che erano il culmine delle feste di purificazione comunitaria (poi sostituiti da San Valentino). Inizialmente, infatti, la Candelora cadeva il 14 di febbraio (40 giorni dopo l’Epifania) ma retrocedette al 2 del mese per farla coincidere coi 40 giorni dopo il Natale. Ovviamente scuse, queste, per incastrare i riti cattolici in quelli pagani, che ricalcavano il succedersi astronomico delle stagioni.

La Chiesa irlandese, invece, cercò di sopprimere il ricordo pagano celtico istituendo la festa di Santa Brigida d’Irlanda, il primo di febbraio; Santa Brigida che non è altro che la trasposizione cristiana della dea gaelica Brigid, sorta di Minerva celtica in quanto protettrice delle arti, dei poeti, dei guaritori, dei druidi e dei combattenti. Davvero suggestivo il parallelo tra Brigid e la romana Febbre (ed ecco perché vedo bene Minerva come patrona gentile di febbraio), simboli di ricorrenze pagane italo-celtiche incentrate sui riti della lustratio, sul culmine dell’inverno, sul ruolo della donna nelle comunità tanto italico-romane che celtiche/galliche. La stessa Madonna sostituisce Giunone, Febris e Brigid, ed è assai indicativo che le antiche figure femminili pagane siano state rimpiazzate dalla Vergine Maria nei suoi molteplici aspetti (che, del resto, erano già presenti come attributi di queste importanti deità pagane, come la stessa Giunone, moglie di Giove, la cui purificazione cadeva proprio in febbraio quanto quella di Maria di Nazareth, madre di Gesù presentato al tempio). La Madonna, allora, è una chiara invenzione giudeo-cristiana atta ad assorbire e rimpiazzare le figure matronali della gentilità, e la luce del cristianesimo, tema assai presente e ricorrente nella fede cattolica e cristiana in genere, non è che la luce, distorta, degli antichi dei, e dei culti tradizionali ad essi connessi.

Febbraio – Februarius

Febris/Februa

Il mese di febbraio (Februarius), secondo e più corto mese dell’anno, è dedicato alla dea romana Febris (Febbre), associata alla guarigione dalla malaria e alla purificazione in genere (grazie alla sua derivazione dal dio etrusco Februus), che veniva celebrata nei primi giorni del mese. In latino februare significa propriamente ‘purificare’, e ‘febbre’ risale dunque al medesimo significato; il februum era, altresì, uno strumento purificatorio atto alla lustrazione del popolo, proprio nel periodo di febbraio. I cristiani hanno rimpiazzato la celebrazione della dea romana con la Candelora del 2 febbraio, anche per spazzare via la ricorrenza celtica di Imbolc, che segna il passaggio da inverno a primavera e il ritorno della luce. Il concetto di purificazione e di luce incarnato dal Cristo ha così parassitato (come al solito) i culti tradizionali, e nello specifico la purificazione della febbre e la luminosità della primavera, due temi che del resto sono interrelati e collegano la religiosità italica a quella celtica nei riti propiziatori per la fertilità della terra. Le candele cristiane ricordano le fiaccole portate in processione dalle donne romane durante i Lupercalia del 14 febbraio. Tale periodo, nell’antico calendario romano, era praticamente l’ultimo mese dell’anno, essendo marzo il primo, ed era associato, in virtù della sua posizione nel calendario, alla chiusura e alla morte; non a caso in febbraio si celebravano i Parentalia, in onore dei defunti della famiglia (i Mani), e i Terminalia, festività dedicate all’arcaico Termine, protettore dei confini e delle proprietà (confini anche metaforici, dell’anno in corso). Il mese inizia con il sole nel segno astrologico dell’Acquario, e si conclude, dal 20, con il suo ingresso nel segno dei Pesci.

Il periodo tra gennaio e febbraio è denso di rimandi sacrali e celebra, con ritualità antichissime, l’auspicata fine dell’inverno e il graduale inizio della primavera. I fuochi, le pire, i fantocci arsi, il baccano dei fanciulli per scacciare l’inverno, la merla del folclore cisalpino che cerca di eludere i rigori della stagione fredda, la celtica ricorrenza di Imbolc che è culmine dell’inverno cadendo nel punto mediano tra solstizio d’inverno ed equinozio di primavera (2-4 febbraio), la celebrazione della luce e dell’arrivo della primavera e dunque la Candelora, festa della purificazione della Vergine Maria (e della presentazione di Gesù al tempio) che sostituisce quella di Giunone (ossia della dea Iunio Februata, la dea Februa/Febris)… Tutti quanti riti connessi all’arcaica vita agreste dei nostri antenati, come la stessa celtica Imbolc ricorda, con i rimandi agli agnelli che vengono alla luce e alla produzione di latticini ovini, fondamentali per il sostentamento dei più deboli della comunità, tra cui bambini e anziani. I medesimi Lupercalia del 13-15 febbraio (sostituiti da San Valentino il 14 di febbraio, data in cui si ricordava inizialmente la Candelora, tra l’altro) sono un po’ il culmine di queste ritualità purificatorie. Il 7 di febbraio era invece, tradizionalmente secondo il calendario agricolo romano, l’inizio rustico della primavera poiché il favonio cominciava a spirare favorevolmente, ed era ora, dunque, di preparare i terreni; si diserbavano i campi di grano, i vigneti venivano coltivati e le vecchie canne venivano bruciate, ulivi e alberi da frutto potati, prati e coltivi venivano purgati, intrecciando così strettamente le ricorrenze religiose coi ritmi agresti scanditi dal lavoro dei coloni. La divinità tutelare preposta al mese di febbraio pare fosse Nettuno, ma sarebbe più indicata Minerva, in quanto dea delle arti utili, della sapienza e della scienza medica, e dunque dea guaritrice e purificatrice.

Potere

Se in una società come quella lombarda contemporanea sono gli atteggiamenti cooperativi e solidali, tra connazionali cisalpini, a poter fare la differenza, in positivo, a livello politico e comunitario occorre rivedere il concetto di potere, oggi fin troppo ammanicato con l’alta finanza, il mondialismo, l’usurocrazia e gli enti parassitari in genere. I lombardi hanno una storia che ci parla schiettamente di lotta per l’autoaffermazione, capacità di imporsi e realizzarsi, autonomia contrapposta al parassitismo statolatrico, grazie alle spiccate doti e virtù di un popolo davvero esemplare sotto il profilo del dinamismo, dell’intraprendenza e della libera iniziativa. E lo dico da persona del tutto insofferente nei confronti di quello che puzza di liberalismo e libertarismo. È palese che la Padania, a differenza di altre realtà (come il meridione dell’Italia etnica), non abbia bisogno di un despota armato di manganello e olio di ricino che faccia rigare dritta la collettività: le genti granlombarde non sono mai state depresse e addormentate, ripiegate su sé stesse e abbandonate alla più cupa inerzia e rassegnazione, e per tale ragione non sono compatibili con soluzioni fascistoidi, alla mediterranea, ben più consone ad altre latitudini. Certo, la Lombardia ha i propri difetti, primo fra tutti il famigerato culto del fatturato.

Il mito dell’uomo forte, oggi, riscuote fascino in contesti di arretratezza e sottosviluppo, mentre in un ambito come il padano-alpino viene sicuramente visto meglio, ad esempio, il federalismo. Una soluzione federale che, oltretutto, ha senso tra fratelli, non tra stranieri, alludendo alla macabra cornice tricolore. Il sottoscritto non è un patito di autonomie e federalismi, e crede fermamente che l’obiettivo dell’indipendenza lombarda si possa raggiungere solo ed esclusivamente cementando la comunità attorno ai sacri valori di sangue, suolo, spirito. Da ciò si capisce come il concetto moderno di democrazia, unito a quello ipocrita e mendace di antifascismo, abbia del tutto fallito, seppure l’antidoto, dal punto di vista del lombardesimo, non stia nelle nostalgie mussoliniane (di uno, cioè, che difendeva il criminale concetto di Italia dalle Alpi alla Sicilia). In qualità di lombardisti crediamo risolutamente in uno Stato forte, autorevole e davvero rappresentativo, grazie ad una totale aderenza alla nazione e ai principi völkisch, non retto da una dittatura ma da una forma di presidenzialismo repubblicano benedetto dal consenso popolare. Siamo certi che senza più Italia fra i piedi le cose cambierebbero, e l’entità statuale granlombarda, blandamente federale (a livello cantonale), brillerebbe in virtù dell’afflato comunitarista e nazional-sociale, e della millenaria probità dei nativi.

La festa della Gioeubbia

Rogo della Giubiana

L’ultimo giovedì del mese di gennaio (quest’anno cade il 30) ricorre la festa della Giobia (o Giubiana, vedi milanese gioeubbia ‘giovedì’). Trattasi di popolare ricorrenza padano-alpina celebrata tra gennaio e febbraio, quando in antico si riteneva finisse l’inverno ed iniziasse la primavera. Il tradizionale fantoccio arso nel falò simboleggia proprio l’allontanamento della stagione invernale per propiziare la rinascita primaverile della natura, e può assumere le fattezze di una strega denominata Giubiana-Joviana (forse con rovesciamento apotropaico cristiano della figura di Giunone). Tale usanza, che affonda le proprie radici nelle costumanze celtiche di questa fase dell’anno, tra le quali vi è Imbolc, è tipica del territorio insubrico, ma si può trovare anche nel Bergamasco, ad esempio, dove ad Ardesio (alta Valle Seriana) si celebra la Scassada dol Zenerù. Il fuoco delle feste invernali ricopre un significato assai importante, poiché sta a significare la luce del sole, che pian piano rinasce, ma anche la purificazione del periodo freddo; non è un caso che la Giobia ricorra in concomitanza dei proverbiali giorni della merla, tradizionalmente i più freddi dell’anno, in cui il rito propiziatorio per scacciare le tenebre, il gelo, i rigori mortiferi dell’inverno (mortiferi per tutta la natura, che apparentemente muore, riposando) si fa fondamentale. E questo anche per rinsaldare i legami di sangue della solidarietà comunitaria.

Fuoco, roghi, fracasso, fantocci dati alle fiamme, baccano di ragazzi e anche goliardia che prefigura il Carnevale, riti propiziatori, apotropaici, purificatori, sono tutti elementi alla base di queste festività invernali celebrate tra gennaio e febbraio, ancora molto sentite in Lombardia. Elementi che confluiscono potentemente nel mese di febbraio, il periodo per antonomasia della purificazione, in cui vengono celebrate ricorrenze tanto pagane quanto cristiane (o meglio, pagane cristianizzate), ed è il caso dei citati giorni della merla – uno dei temi forti del folclore nostrano – e di Imbolc, della Candelora (e di San Biagio), del Carnevale ed infine della Quaresima, tempo dell’anno cristianizzato ma che rivela ancor oggi tratti inequivocabilmente pagani, propedeutico al trionfo della primavera, Ostara, da cui la Pasqua convenzionale. La Chiesa, come sempre, ha tentato – in parte, invano – di cancellare la natura gentile di queste usanze dandole una caratterizzazione cristiana/cristologica; ma se ci pensiamo, lo stesso Cristo (al netto del presunto personaggio storico ebreo) non è che la trasposizione evangelica del dio solare comune a tutte le antiche religioni indoeuropee, perpetrata per nobilitare la principale eresia del mondo giudaico antico, consentendole di penetrare in Europa come una sottospecie di cavallo di Troia. Vedremo meglio, nei prossimi appuntamenti, le celebrazioni pagane di questi giorni, sempre cercando di fare… luce sulle nostre vere radici spirituali.

Città

Uno degli orgogli storici, e delle cifre identitarie e civili, della Lombardia è senza alcun dubbio l’epopea del libero comune, che ha rappresentato il riscatto cittadino nei confronti dell’incastellamento del contado e dunque dell’intraprendenza “borghese” micro-comunitaria a scapito di egoismi feudali recati dall’aristocrazia di campagna. La civiltà comunale riassume l’essenza lombarda: spirito imprenditoriale, libera iniziativa, solidarietà tra pari, autodeterminazione, orgoglio cittadino, prosperità e laboriosità. Un insieme di elementi mentali e caratteriali che, certo, hanno portato alla proverbiale ricchezza delle genti cisalpine, specie del bacino padano, ma anche a tutta una serie di difetti che ancor oggi riscontriamo negli autoctoni. Il campanilismo, l’individualismo, l’affarismo e il culto del fatturato, l’afflato libertario, grettezza e piccineria, scarso patriottismo panlombardo e quel conformismo – dettato dall’ossequio pedissequo nei confronti dell’autorità – che rende i lombardi un popolo dall’indole di mulo: conta lavorare e avere il patrimonio, e al diavolo tutto il resto. È la cosiddetta mentalità alpina, croce e delizia della nostra nazione, che alla lunga ci ha portati sull’orlo del baratro, mentre i forestieri se ne approfittano danneggiandoci mortalmente.

La città è il cuore pulsante di questo sistema di valori e disvalori (dipende sempre dai punti di vista, ma oggi ci si sbilancia verso i secondi), una città che in età contemporanea è divenuta una gigantesca conurbazione chiamata, da molti geografi e storici, “megalopoli padana”. Le metropoli occidentali perno del famigerato triangolo industriale (Milano, Torino, Genova), oggi ridotte a tristi entità multirazziali e multietniche senza più un’anima e sempre più appiattite sulla logica barbarica dei non-luoghi (con tutte le implicazioni del caso, come le follie cosmopolite, antifasciste, progressiste), hanno schiacciato i popoli sulla linea di un capitalismo euro-americano i cui frutti materialistici, edonistici e consumistici rendono la Lombardia storica appendice dell’attuale marasma continentale. Se da un lato fanno piacere la ricchezza, l’industriosità, lo sviluppo, i primati, dall’altro ci si dispera, da identitari, per la misera condizione di poli tentacolari vieppiù fotocopia di un “primo mondo” completamente svuotato di principi e ideali, mestamente avviato all’auto-genocidio. Per quanto, dunque, la civiltà cittadina, che affonda le proprie radici nel medioevo comunale, sia parte integrante del nostro ADN storico, resta il fatto che la degenerazione contemporanea sia il sintomo del collasso valoriale degli indigeni, il cui unico rimedio sta nella doverosa riscoperta del comunitarismo e dello spirito rurale che preserva sangue, suolo e spirito.

Etnonazionalismo, antidoto al ciarpame ottocentesco

Purtroppo, nel 2025, l’accezione di patriottismo e nazionalismo riguarda l’esaltazione di patrie, nazioni fasulle, che non sono altro che stati, meri e vuoti contenitori plasmati dalla temperie sette-ottocentesca giacobino-massonica. Francia, Italia, Spagna, Belgio, Germania, Regno Unito, Romania, ex Iugoslavia ecc., con le loro belle bandierine artificiali, ci ricordano cosa voglia dire volgarmente “nazione”, in età contemporanea: un’entità politica, del tutto priva di sangue e suolo, tenuta assieme da quella untuosa religione civica che si rifà alla Rivoluzione francese, e prima ancora alla nefasta epoca dei “lumi”. Dunque, nulla a che vedere col reale concetto di patria, bensì un sinonimo erroneo di stato-apparato, proprio come quelli sunnominati, basati fondamentalmente sullo sciagurato esempio della Parigi rivoluzionaria (e dell’altrettanto sciagurata parabola napoleonica).

Il lombardesimo, l’etnonazionalismo lombardo/cisalpino, abbraccia invece la visione del mondo völkisch, battendosi per riaffermare il vero significato di nazione: un insieme di popoli compatibili e omogenei, accomunati dalle medesime radici biologiche e culturali, riuniti in un unico territorio patrio e animati da un condiviso sentimento d’appartenenza, che passa per le diverse sfaccettature di identità e tradizione. Per dirla con Carlo Tullio-Altan epos, ethos, logos, genos, topos. La Lombardia storica, teorizzata e difesa dai lombardisti, si appoggia su questi pilastri etnici, sull’ethnos dunque, perché a differenza dell’Italia attuale è una vera e propria nazione, per quanto dormiente e dallo spirito comunitario sopito, da rivitalizzare.

I granlombardi, cioè i veri lombardi, sono etnia, popolo e nazione. Hanno dalla loro tradizioni, usi e costumi, folclore; spirito e mentalità, che hanno forgiato una civiltà storica senza pari; una grande famiglia linguistica – galloromanza cisalpina – esemplarmente rappresentata dal prestigio del milanese classico; profilo antropogenetico, basato su aspetto fisico, fenotipico, e realtà genetica più e più volte approfondita dal pensiero lombardista medesimo; un sacro suolo natio, che corrisponde allo spazio geografico padano-alpino che, a sua volta, racchiude l’intera nazione lombarda.

La distorta idea di italianità, oggi intesa fantozzianamente dalle Alpi alla Sicilia (andando a ricalcare un’assurdità imperialista antico-romana), non ha niente da spartire con la genuina nazionalità, e quindi con l’identità di sangue, suolo, spirito e, non a caso, si confonde con la statolatria repubblicana, e prima ancora monarchica e fascista, che ha eretto a feticcio un organismo statuale che è la brutta copia della Francia giacobina. Il tricolore italiano stesso, per quanto nato in Padania, è il calco slavato di quello francese, nato come scimmiottatura concepita dai nostrani reggicoda del Bonaparte. Essere italiani, in senso corrente, significa semplicemente avere un pezzo di carta che lo afferma.

Pertanto, l’Italia contemporanea, molto semplicemente, come nazione è del tutto inesistente, un mero ente burocratico suddito dei potentati internazionali e sovranazionali. Credere che idioma di Firenze, romanità di cartapesta e religione cattolica possano bastare per poter blaterare di “fratelli d’Italia” è pura demenza. Sono dell’avviso, tuttavia, che l’Italia in un certo senso esista, a guisa di realtà etnonazionale, vale a dire come dimensione identitaria peninsulare (dall’Appennino toscano alla Calabria) che comprende anche Corsica e Sicilia, isole italiche e italo-romanze. Solo in questo senso non diventa ridicolo parlare di Italia unita, poiché si resta nel seminato patriottico legittimo e razionalmente giustificabile. Ma al di fuori di ciò, ogni tipo di retorica patriottarda merita soltanto pernacchie, in quanto sottoprodotto di un’epoca storica che di realmente identitario e tradizionalista non aveva alcunché.

17 gennaio: Sant’Antonio del porcello

Sant’Antonio Abate

Il 17 gennaio ricorre la festività di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali da cortile. Ma chi si cela dietro questa figura cristiana? E dietro il suo peculiare porcello? Semplice, come sempre, dietro il santo, si nasconde un’antica personalità divina precristiana, in questo caso agreste e dagli echi celtici; ma anche una figura druidica – si pensi al sonaglio e al bastone – o il dio Lug medesimo, dio celtico figlio del sole protettore del cinghiale (ed ecco il nostro porcello, bestia oltretutto molto presente e rinomata nei territori cisalpini popolati dai Celti, tanto da esser reputato sacro, da essi), animale totemico gallico per eccellenza. Da qui, col consueto sincretismo che mischia solari simboli precristiani indoeuropei a personaggi mediorientali cari alla Chiesa, otteniamo il noto protettore e patrono degli animali, soprattutto domestici, il cui santino (nell’immagine sopra) si trovava in ogni stalla dei nostri vecchi. Soggetti cristiani come Santa Lucia, il Cristo natalizio ed epifanico e Sant’Antonio sono tutti camuffamenti di figure pagane che scandiscono il cammino del sole durante il suo percorso astronomico solstiziale, il quale, lentamente, porta le giornate ad allungarsi a scapito delle tenebre notturne. 

Ma anche altri elementi peculiari di Sant’Antonio Abate rimandano al celtismo: il ruolo taumaturgico, il fuoco, il campanello, la sovrapposizione all’eremitico “uomo selvatico”, personaggio tipico del folclore alpino-padano, e non solo, spesso rappresentato con folta pelliccia fulva (colore associato alla peluria “celtica”). Quella di accendere fuochi in onore del santo, tra le altre cose, è una tradizione che ritrova nei riti solari di memoria pagana tutta la sua potenza evocativa. Attraverso l’incendio di cataste di legna, spesso fomentate da sterpaglie di ginepro per aumentarne il fragore, si sosteneva il risveglio del sole dopo il lungo letargo invernale. E lo stesso Arlecchino, simbolo del carnevale lombardo, trova similarità con l’òm saàdech demonizzato, irriso ed emarginato, ma anche con Wotan/Godan che guida la spettrale ridda della Caccia Selvaggia invernale, essendo infatti Arlecchino maschera che fonde due grandi filoni folclorici: quello diabolico del re infernale di origine franco-germanica con la tradizione degli zanni lombardo-veneti, divenuti maschere della Commedia dell’Arte (vedi il variopinto servitore brembano, Brighella e altri). Ma della tipica maschera bergamasca, e del Carnevale, parleremo meglio prossimamente. Sant’Antonio, celebrato in un periodo prossimo a quello delle dodici notti sacre solstiziali, è personaggio squisitamente pagano, non solo perché denso di riferimenti precristiani ma anche perché emblema della realtà rustica, del pagus, dove i riti antichi sopravvissero all’espansione del cristianesimo mediata dalla città. 

Stato

Lo Stato viene dopo la nazione, poiché quest’ultima giustifica e legittima il primo. Se un’entità statuale non si fonda su sangue, suolo, spirito e, dunque, sul concetto di etnia e nazione, resta un vuoto contenitore di ispirazione giacobino-massonica e apolide, proprio come nel caso italiano; una prigione di veri popoli, spediti nel tritacarne per creare un cittadino caricaturale che riunisca i tipici difetti di una parte del (finto) Paese in questione, a sud delle Alpi grazie all’opera di “acculturazione” degli ausonici. L’apparato repubblicano tricolore non incarna e rappresenta una nazione, perché è semplicemente un’espressione burocratica dell’antifascismo postbellico, intrisa delle classiche magagne sud-italiane, cioè di coloro che detengono il monopolio del pubblico e hanno invaso, occupato e colonizzato la Grande Lombardia. Va da sé che la RI sia pertanto un ente straniero in terra padano-alpina, incentrato sul mondo mediterraneo – se non levantino – cui i lombardi storici sono estranei. Per Roma non siamo altro che una colonia, poiché laggiù sono comunque consci di come l’Italia sia la penisola, sic et simpliciter, con l’aggiunta della Sicilia.

Il lombardesimo crede nel concetto di Stato, declinato in senso etnonazionale, e infatti auspica l’edificazione di un etnostato, repubblicano e presidenziale (magari blandamente federale), basato sul concetto sacrale di comunità di sangue. Lo Stato non è il male assoluto, a patto che non abbia il truce sembiante dell’Italia, e se fosse una compagine politica gestita esclusivamente da granlombardi, per i granlombardi, funzionerebbe e sarebbe efficiente e rappresentativo, nonché autorevole, senza alcun dubbio. La nostra rovina sta nella globalizzazione e, quindi, in una delle sue molteplici sfaccettature, vale a dire l’Italietta romana. Essa è pedina della Ue, degli Usa, della Nato, di Israele, dell’Onu, del Vaticano e di ogni singolo potentato finanziario sovranazionale, avvoltoi che vorrebbero tanto banchettare sulla carcassa delle vere nazioni europee. Cari lombardi, volete combattere il mondialismo? Perfetto: combattete l’italianismo e l’italianizzazione, perché il patriottismo verde-bianco-rosso è funzionale all’agenda del sistema-mondo. L’indipendentismo granlombardo è sinonimo di libertà per la nostra gente, soprattutto se mirato alla creazione di un serio Stato nazionale e sociale benedetto dall’istanza etnicista.