Lombardia moderna

Ducato di Milano

Mentre il Ducato di Milano cominciava il valzer degli occupanti coi francesi, il 14 maggio 1509 la Serenissima venne sconfitta dagli stessi ad Agnadello, nella guerra della Lega di Cambrai, con cui perdeva provvisoriamente i suoi possedimenti lombardi orientali.

Nel periodo 1512-1515 gli svizzeri, aderenti all’alleanza anti-francese, presero Milano strappandola ai transalpini e vi insediarono il figlio del Moro, Massimiliano Sforza; la Valtellina e i contadi di Chiavenna e Bormio passarono ai Grigioni; nella battaglia di Marignano (Melegnano), francesi e veneziani alleati sconfissero gli svizzeri e i milanesi dello Sforza, che perse così il Ducato; Bergamo, Brescia e Cremona tornarono sotto le insegne della Repubblica di San Marco.

Tra il 1521 e il 1525 si riaccese la guerra per il possesso del Ducato milanese: se lo contesero Francesco I re di Francia e l’imperatore Carlo V che, vittorioso nella decisiva battaglia di Pavia, insediò a Milano il fratello di Massimiliano, Francesco II Sforza.

Lo Sforza morì senza eredi nel 1535; lo Stato milanese, con Cremona tolta a Venezia, passò così alle dirette dipendenze degli spagnoli e fu una catastrofe: oscurantismo cattolico, anarchia, torbidi, carestie, epidemie, guerre, scorrerie, pestilenze, ecatombe di milanesi nel 1630 per via della peste “manzoniana” furono le conseguenze del malgoverno iberico targato Asburgo.

Il Cinquecento fu però, anche per la Lombardia, un periodo florido artisticamente parlando e non mancarono artisti di fama internazionale che accorsero alle corti lombarde: Leonardo, Lotto, Tiziano, Giulio Romano, Paolo Giovio, Scamozzi ecc.

Inoltre, prolifica l’attività architettonica, con la costruzione di bastioni e cinte murarie a Milano come a Bergamo, di logge, di teatri, di piazze, di musei, di biblioteche e di pinacoteche (da segnalare quelle ambrosiane volute dal cardinale Federico Borromeo).

Il ‘5-600 fu anche periodo di gravi lotte religiose e politiche; l’Europa si spaccò in due per via dello scisma scatenato da Lutero e pure la Lombardia, comunque soggiogata alle conseguenze del Concilio di Trento e al dispotismo papista e confessionale di spagnoli e personaggi come i Borromeo, risentì a nord degli influssi protestanti d’oltralpe.

L’episodio più clamoroso fu certamente il cosiddetto “sacro macello” del 15 luglio 1620 in Valtellina, in cui una rivolta popolare anti-protestante fece centinaia di morti riformati.

Ciò comunque non valse a liberare Chiavenna, Sondrio e Bormio dal dominio dei Grigioni.

L’epoca moderna fu segnata anche dalla Guerra dei Trent’anni, fra Impero e potentati protestanti, e pure in questo caso la Lombardia subì i letali contraccolpi di eventi, principalmente, stranieri.

Tra il 1627 e il 1631 l’estinzione del ramo principale dei Gonzaga diede il via alla guerra per la successione di Mantova: Carlo Emanuele I di Savoia, alleato degli spagnoli, venne battuto dall’esercito francese; 25.000 lanzichenecchi forieri di peste, luterani ma al servizio della Spagna, saccheggiarono Mantova nel luglio del 1630; con il Trattato di Cherasco, il pretendente sostenuto dalla Francia, Carlo di Gonzaga-Nevers, ottenne il Ducato mantovano.

Tra il 1628 e il 1631 a Milano, per effetto della peste “manzoniana”, della precedente carestia, della calata dei lanzi, la popolazione urbana passò da circa 130.000 a 60.000-70.000 abitanti.

Mirabile affresco di questi cataclismi, scatenati anche dal servaggio insubrico per il forestiero e dalla mancanza di unità nazionale cisalpina, è offerto dal Manzoni nel suo capolavoro de I promessi sposi, il romanzo storico tutto lombardo ambientato tra Ducato di Milano e Orobia marciana, in cui una frase colpisce su tutte, una frase che il Manzoni riferisce allo scenario cui Renzo Tramaglino assiste durante gli orrori della peste in quel di Milano e che sintetizza la natura etno-razziale lombarda: “quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo” (in riferimento alla madre di Cecilia).

La Lombardia transabduana non subì i tracolli che purtroppo subì quella cisabduana perché la Serenissima, sicuramente più rispettosa dell’identità e delle autonomie locali degli Asburgo di Spagna, garantì ai suoi sudditi maggior protezione, relativo buongoverno, tolleranza e liberalità, e una gestione, per quanto possibile, razionale e illuminata della carestia e della peste che attanagliavano la Pianura Padana; inoltre serbò le popolazioni dalle scorrerie dei lanzichenecchi mediante i presidi sul confine bergamasco abduano e montano. I danni furono dunque limitati, in un certo senso, e non si ebbero le brutture e il soqquadro milanese, di una città, Milano, che mentre affondava veniva abbandonata a se stessa. Venezia, del resto, era un potentato autonomo.

La squallida situazione, che durò praticamente per tutto il Seicento, non sfuggì all’attento occhio dei visitatori stranieri che denotavano la contraddittoria situazione di una regione frammentata di per sé ricca, florida, gloriosa, sviluppata, ma barbarizzata da un governo ottuso, superstizioso, corrotto, rapace, ed alieno come quello spagnolo del tempo.

Ma la ruota gira per tutti, anche per la Spagna, che con l’avvento del Settecento conobbe il suo inesorabile declino durato sino agli anni settanta del Novecento.

Nel 1707, nel corso della guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano in nome dell’imperatore Giuseppe I, ponendo fine allo scellerato dominio iberico in Lombardia; il passaggio all’Austria delle terre milanesi e di Mantova venne confermato dalla Pace di Utrecht e dal Trattato di Rastadt (1713-14).

Nel 1738 la Pace di Vienna sanzionò le modificazioni territoriali intervenute con la guerra di successione polacca: Carlo Emanuele III di Savoia ottenne a spese di Milano Novara, Tortona e le Langhe.

Tra il 1740 e il 1748, ecco la Guerra di successione austriaca: la Pace di Aquisgrana riconfermò all’imperatrice Maria Teresa d’Austria il possesso della Lombardia occidentale e meridionale; Voghera con l’Oltrepò, Vigevano con la Lomellina, Ossola e Valsesia, invece, passano ai sabaudi di Carlo Emanuele III.

Il Settecento fu anche l’epoca dei Lumi, cosiddetti, che sfociò nella borghese Rivoluzione francese, intenta a seppellire l’Europa nella fossa scavata per secoli dal giudeo-cristianesimo; la farsa di un oscurantismo universalista, che ne vuole sostituire un altro, a scapito delle vere radici europee, dell’identità, della tradizione (già pervertite dal monoteismo abramitico).

Illuminismo e Rivoluzione potevano certo avere nobili propositi, come l’affrancamento del popolo dalla dittatura papista, clericale, “aristocratica” (si fa per dire), parassitaria e la battaglia contro l’oscurantismo di una religione assolutista straniera, ma i risultati furono disastrosi e tutto andò nella direzione del relativismo borghese che ha gettato le basi della contemporanea Europa auto-genocida e asservita ai loschi poteri internazionali e mondialisti.

Ma di Illuminismo, massoneria, giacobinismo, ebraismo internazionale, Rivoluzione francese e Napoleone ci occuperemo nel prossimo appuntamento sulla Lombardia contemporanea.

Lombardia medievale

Lombardia viscontea

La Lega Lombarda non mise a tacere le rivalità territoriali tra liberi comuni e infatti, sconfitto il Barbarossa, il carroccio fu archiviato e riemersero i campanilismi che ancora oggi, magari sotto forma di tifo calcistico, affliggono la Lombardia e altre plaghe (ad esempio la Toscana).

Bergamo contro Brescia, Milano contro Como, Cremona contro Piacenza, e così via.

Sicuramente, una delle principali cause della frammentazione e della debolezza lombarde è il micro-sciovinismo, l’egoismo, l’individualismo forsennato, la fobia di perdere il controllo del proprio orticello e la mania di avercela con tutti, anche se si tratta di fratelli. Prima di essere europei (italiani sicuramente no) siamo lombardi e quindi l’armonia comincia dalla nostra comunità, dalla nostra nazione. Non confondiamo le odierne rivalità del diporto con la vita reale.

Chi approfittò di questa situazione furono le signorie, altro fenomeno tipicamente tosco-padano, che solitamente parteggiavano per l’Impero e non per le autonomie comunali, essendo, agli esordi, di origine germanica, dunque guerriera e feudale; finirono, tuttavia, per appoggiare unicamente la propria causa, e si divisero in guelfi e ghibellini: i primi dalla parte del papa e del particolarismo, i secondi dalla parte dell’imperatore e dell’ideale imperiale (che, col senno di poi, avrebbe forse potuto condurre all’unificazione nazionale della Lombardia in seno al SRI, con le giuste scelte).

Il libero comune si evolvette così nella signoria cittadina, attorno alla seconda metà del ‘200, grazie alla forza e all’egemonia territoriale del signore.

La lotta per il potere dilaniò guelfi e ghibellini, che si contesero il dominio dei centri precipui. A Bergamo, ad esempio, i guelfi Colleoni (derivati dai Suardi, e non sempre di parte guelfa), Bonghi e Rivola si misurarono per il predominio con i ghibellini Suardi e coi Mozzo, Terzi e Lanzi. I più vicini al popolo erano tradizionalmente i guelfi, mentre gli altri incarnavano l’ideale aristocratico vecchio stampo e filo-imperiale.

In Lombardia si affermò a livello “regionale” la signoria milanese, vicina all’Impero, dei Visconti, che sconfissero i rivali insubrici, guelfi di origine franca, dei della Torre.

Frattanto ci fu anche la rivincita imperiale, con la schiacciante vittoria di Federico II, nipote del Barbarossa, che a Cortenuova, nel Bergamasco, sbaragliò le milizie della Lega nel 1237, contando sui dissidi fratricidi dei comuni; il carroccio fu preso e spedito al papa, protettore dei guelfi, la Lega si sciolse ma il successo dell’imperatore non colse i frutti sperati, per le solite esose pretese d’oltralpe, cosicché la Lombardia rimase tutto sommato autonoma, con Milano in testa.

Federico II trovò la rovina a Parma (1248) e il figlio Enzo a Fossalta (1249), e con queste sconfitte svanì, fortunatamente, il sogno imperiale degli Hohenstaufen di unire l’Italia innaturale, e di sbarazzarsi del potere temporale del papa. Nel 1268, con la battaglia di Tagliacozzo, i guelfi Angioini conquistarono il Regno svevo di Sicilia, giustiziarono Corradino e misero fine al potere degli Staufer in meridione. Questa capitolazione fu letale per il desiderio unitario e universale dell’Impero ma, soprattutto, inaugurò la stagione italiana etnica del “Francia o Spagna, basta che se magna“, nonché del secolare degrado e malgoverno del sud.

Tornando alla Lombardia, i Visconti, famiglia del Seprio di supposta origine longobarda, ebbero nel Biscione il proprio famosissimo simbolo e vessillo, la cui origine è ancora dibattuta. Per alcuni, è un antichissimo simbolo sacrale longobardo che si ricollega al culto ctonio delle vipere (i Longobardi ne portavano al collo una riproduzione azzurra come monile e amuleto); per altri è un emblema orientale, strappato ai Saraceni durante le Crociate, e capovolto nel suo significato, poiché l’omino che il Biscione ingolla sarebbe proprio un Moro; infine viene talvolta considerato come uno dei tanti draghi acquatici padani delle tradizioni e leggende celto-liguri, più precisamente il drago Tarantasio mangia-fanciulli del mitico Lago Gerundo (Gera d’Adda), che il capostipite mitologico dei Visconti avrebbe sconfitto liberando la terra lombarda a cavallo tra Orobia e Insubria, e guadagnandosi così Milano. La tesi forse più probabile è comunque quella che vede nella Bissa un emblema araldico, ctonio e affine al basilisco, da cui la vita nasce, invece di venire inghiottita, e non è detto che fosse sin dagli inizi viscontea.

Accanto al Biscione i Visconti posero l’Aquila imperiale, a simboleggiare la propria ghibellina fedeltà all’ideale imperiale. Noi lombardisti vediamo in essa anche l’appartenenza storica della Lombardia al cuore dell’Europa, e accostata alla Vipera nazionale rappresenta il più papabile stemma della nostra patria, accanto alle Croci lombarde e allo Svastika camuno, che formano la bandiera granlombarda.

Il cromatismo del campo è d’oro per l’Aquila, nera, e d’argento per il Bisson, riprendendo così l’insegna degli Ottoni e degli Staufer (nel primo caso), che è poi l’insegna dell’Impero, e ponendo la Biscia azzurra su uno sfondo nobile e regale.

Staccandosi dalla leggenda, comunque sia, il capostipite reale dei Visconti fu Ottone, arcivescovo di Milano e capo del partito nobiliare e filo-ghibellino; costui nel 1277 guidò le proprie milizie contro i signori guelfi di Milano, i franchi Torriani della Valsassina, e sconfiggendo a Desio il capo della fazione opposta, Napo della Torre, divenne nuovo signore di Milano nel 1278.

Ha così inizio la fulgida signoria dei Visconti che scalzò dal potere i primi signori di Milano, i Torriani appunto, che tra l’altro avevano esteso la loro influenza a buona parte dei territori occidentali della Regione Lombardia.

Nel 1328, con l’aiuto degli Scaligeri veronesi, Luigi Gonzaga eliminò i Bonacolsi e iniziò a Mantova la signoria della propria famiglia.

Nel 1330 Azzone Visconti, vicario imperiale dal 1329, venne proclamato a Milano dominus generalis; egemone su gran parte della Lombardia, nell’arco di una decina di anni ne riconobbero formalmente la signoria tutte le principali città.

Nel 1361 Galeazzo II Visconti ottenne dall’imperatore Carlo IV un diploma che istituì a Pavia lo Studium generale, primo nucleo dell’Università.

Nel 1386 prese il via, sotto Gian Galeazzo Visconti, la lunga vicenda costruttiva del Duomo di Milano.

Nel 1395 lo stesso Gian Galeazzo ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano (5 settembre); nel 1397 (30 marzo) ha quello di duca di Lombardia; il suo Ducato si estese su quasi tutta la Lombardia regionale, etnica e storica, e oltre l’Appennino lombardo, su Pisa, Siena e Perugia.

Nel 1396 cominciò l’edificazione della Certosa di Pavia, che il Visconti volle come mausoleo famigliare.

Nel 1402 il grande Gian Galeazzo morì, ed ebbe inizio il processo di sfaldamento che sembrò investire lo stato visconteo.

Tra il 1404 e il 1412 emersero le figure di Pandolfo III Malatesta, che si proclamò signore di Bergamo e Brescia, e di Facino Cane, che estese i suoi possedimenti dal Piemonte all’Insubria.

Tra il 1413 e il 1422, ecco il decennio che vide Filippo Maria Visconti, figlio di Gian Galeazzo, riprendere le redini del Ducato e ricostituirne l’unità territoriale.

Il Ducato di Milano/Lombardia confinava a ovest con quello di Savoia e col Monferrato, a sud con la Repubblica di Genova e con i possedimenti degli Estensi, a est con il Ducato di Mantova, la Repubblica di San Marco veneta, il Principato vescovile di Trento e a nord con la Confederazione Elvetica e l’Impero.

Nel 1428 ci fu la Pace di Ferrara: Filippo Maria Visconti fu costretto a cedere la Lombardia orientale a Venezia, in seguito alla sconfitta di Maclodio dell’anno prima.

Il dominio marciano durerà, su queste terre, tre secoli, ma nonostante il relativo buongoverno della Serenissima l’Orobia rimase lombarda; lapalissiano per chi ha buonsenso, non troppo per gli ultrà moderni della Venethia da Bergamo a Perasto, gente che confonde il Veneto con la vecchia Repubblica di San Marco, potentato aristocratico e mercantile senza accezione etnica e nazionale.

Nel 1450, Francesco Sforza, romagnolo genero di Filippo Maria Visconti (morto senza eredi nel 1447), occupò Milano e liquidò l’effimera Aurea Repubblica ambrosiana; l’anno seguente vi chiamò, per le fabbriche della Cà Granda (l’Ospedale Maggiore), del Duomo e del futuro Castello Sforzesco, il Filarete.

Il 1454 è l’anno della Pace di Lodi, che sancì la legittimità di Francesco Sforza quale duca di Milano e il passaggio di Crema a Venezia.

Nel 1482 arrivò a Milan Leonardo da Vinci, dove gli vennero commissionati diversi lavori e onorò la Lombardia con le sue opere.

Giunsero però anche le note dolenti. Nel 1499-1500 il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, venne sconfitto dall’esercito francese di Luigi XII, guidato dal Trivulzio, e tradotto prigioniero in Francia; il Ducato passò al re francese, la Gera d’Adda e Cremona a Venezia, Bellinzona col Canton Ticino agli Svizzeri.

Così, mentre ad ovest i Savoia consolidavano il proprio Ducato annettendo tutto il Piemonte, a sud emergevano i ducati padani, dei Farnese e degli Estensi, ad est dominava la Serenissima, il nocciolo del Ducato di Lombardia di matrice viscontea finiva nelle mani dei forestieri e lo resterà praticamente fino ad oggi, epoca della cattività tricolore.

Le vicende dal Medioevo al Risorgimento, mostrano come la Lombardia etnica, e il suo cuore insubrico, abbiano perso l’occasione di farsi motore dell’unificazione nazionale granlombarda, affrancandosi dal potere imperiale (che comunque incarnava sotto certi riguardi la Gallo-Teutonia in cui noi lombardisti crediamo), dal particolarismo (e dalle ingerenze pontificie) e dall’idea distorta di Italia, retaggio romano. Così non è stato e, infatti, la nostra patria è da secoli preda dello straniero.

Sarà invece il Piemonte sabaudo a farsi carico della sciagurata unità pseudo-nazionale italiana, in questo appoggiato da Francia e Inghilterra, e se da una parte ciò fu il prodotto del ruolo storico piemontese, relativamente autonomo, dall’altra fu la proiezione “imperialista” di una casata straniera, i Savoia, che ereditarono poi allo stato italiano parecchie delle loro magagne post-illuministe.

Lombardia comunale

Croce di San Giorgio

Nell’XI secolo, dunque, con il termine ‘Lombardia’ si era soliti indicare buona parte dell’attuale nord della Repubblica Italiana, ad esclusione di poche aree: Regione Lombardia (con la Svizzera “italiana”), Emilia, Piemonte, Liguria, Verona, Trento e il Veneto continentale ricadevano nel suddetto concetto.

La Romagna, con Bologna e Ferrara, passò alla Chiesa; nel Triveneto, assieme alla Marca di Verona, andò affermandosi la Repubblica di Venezia; nel Tirolo storico si affacciarono genti baiuvariche. La Marca veronese venne poi sostituita dal Patriarcato di Aquileia, dal Principato vescovile di Trento e dalle varie signorie venete.

La Toscana, terra di cui i Longobardi si innamorarono e che assieme alla Padania rientrava nella Langobardia Maior, divenne invece Marca di Tuscia, e poi Margraviato di Toscana.

La Lombardia medievale rinsaldò la natura di anello di congiunzione tra mondo mediterraneo ed Europa centrale; chi doveva recarsi a sud delle Alpi, all’epoca, parlava di ‘Lombardia’, nonostante il Regno d’Italia, che era comunque un’entità inconsistente dal nome che si rifaceva retoricamente ai fasti romani.

‘Lombardia’, come etnico della nostra nazione, è preferibile a ‘Padania’, perché il secondo è un termine meramente geografico, al di là della politica, che può giusto indicare il bacino idrografico del Po, senza accezione etnoculturale.

Tornando a noi, nel 1097 si ha notizia certa a Milano dell’esistenza di un consulatus civium, prima espressione istituzionale del comune milanese, avviato a rivendicare la prerogativa di governo della città.

Il libero comune, fenomeno che prese piede nella Cisalpina e in Toscana, nacque per svincolare le città cisalpine e toscane dal controllo, a volte oppressivo, del potere imperiale, soprattutto in materia di esazioni; poté affermarsi, comunque, perché l’Impero latitava, ma si faceva sentire quando si trattava di riscuotere. Il feudalesimo, in ambito subalpino, attecchì poco e questo permise ai cittadini benestanti, borghesi diremmo oggi, di coagularsi attorno al potere vescovile, che supplì al vuoto lasciato dal potere laico sia reale (Regno Italico medievale) sia imperiale (Sacro Romano Impero). Il grosso dei signorotti longobardi, insediati nei loro castelli del contado, era dalla parte dell’imperatore.

Facile capire come, in un’epoca in cui infuriava la lotta per le investiture tra Papato e Impero, venissero a crearsi due opposte fazioni, guelfi e ghibellini, dove i primi oltre a sostenere le autonomie comunali parteggiavano per il papa.

Col tempo, il comune si svincolò però anche dal potere politico esercitato dal vescovo, nonostante che fosse proprio questi a legittimarlo.

Nel periodo 1110-1126, istituzioni comunali volte, per l’appunto, a sostituire il potere politico dei vescovi, si affermarono a Como, Cremona, Bergamo, Brescia e Mantova.

In breve tempo, nel XII secolo, il libero comune medievale divenne la predominante forma politica lombarda, fenomeno originale e originario proprio della nostra terra, e poi esteso al resto dell’Europa occidentale. Fu espressione della mentalità borghese, mercantile, artigiana, laica, cittadina dei lombardi, desiderosi di affrancarsi dal feudalesimo, per quanto debole, e dalle usurpazioni dei castellani di stirpe germanica delle campagne.

In realtà, l’incastellamento del contado portava anche benefici, visto che in un’epoca come quella medievale la protezione del signore locale faceva un po’ comodo a tutti.

Il comune era però espressione dei borghesi e dei loro interessi, non certo dei popolani.

Questa istituzione, nonostante che fosse cresciuta all’ombra dei vescovi e parteggiasse più per il papa che per l’imperatore, era mirata a difendere il tornaconto delle classi agiate, e non tanto i privilegi della Chiesa. La retorica moderna ha certamente esagerato le implicazioni ideologiche dello scontro fra guelfi e ghibellini, e fra comuni e Impero. La questione che teneva davvero banco era economica, e il cielo sa quanto sia cara in Lombardia (vedi la Lombard Street di Londra, la via dei banchieri, appunto, cisalpini [1]), una terra dominata dalla laboriosa, ma spesso anche gretta, mentalità alpina.

Le etichette ‘guelfo’ e ‘ghibellino’ (come la maggior parte delle etichette di comodo) non indicavano il bigotto e l’anticristo (bigotti, diremmo oggi, erano entrambi gli schieramenti) ma, per usare terminologie moderne, gli “autonomisti” e i “centralisti”, laddove i primi volevano, più che autodeterminazione, autonomia economica (essendo ceto mercantile, prevalentemente) e i secondi volevano rimanere fedeli all’imperatore in tutto (essendo per lo più ceto nobiliare). Naturalmente sorsero anche nobili guelfi, spesso però dalla mercatura, e non dal campo di battaglia, come i nobili guerrieri e proprietari terrieri di origine germanica.

I liberi comuni, tutto sommato, non mettevano in dubbio l’autorità dell’imperatore in Padania.

Nel 1155, Federico I Hohenstaufen detto “Barbarossa”, certamente uno dei più grandi, venne incoronato re d’Italia a Pavia, essendo tale titolo associato a quello di sacro romano imperatore.

I malumori lombardi crebbero perché il Barbarossa rivendicava pretese su tutta l'”Italia”, bramando un impero che fosse davvero europeo e che assorbisse tutta la penisola, sotto il suo diretto controllo. Un’idea che a suo dire poteva essere nobile, molto romana, ma perseguita male e lasciandosi andare troppo spesso alla violenza, calando a sud delle Alpi per castigare duramente chi si ribellava.

Egli si inserì nella politica cisalpina approfittando delle diatribe tra Milano e i comuni vicini, vessati dal capoluogo lombardo in espansione, prendendo le parti dei secondi, di Lodi soprattutto (da lui rifondata dopo che Milano la distrusse), e usando queste lotte come pretesto per intervenire cercando di assicurarsi così il dominio della Val Padana.

Le vessazioni, i taglieggiamenti, le prepotenze e le sanguinarie ritorsioni contro i milanesi, che videro a loro volta la propria città rasa al suolo, e contro coloro che non volevano piegare il capo di fronte all’esosa autorità imperiale crescevano, e anche il papa, Alessandro III (colui a cui fu dedicata la città piemontese di Alessandria) ne approfittò schierandosi dalla parte dei comuni ribelli. L’ingerenza clericale si è spesso rivelata fatale, nelle vicende nostrane, ma certamente ha ritardato l’innaturale processo di unificazione.

Cosicché, secondo la tradizione, il 7 aprile 1167 si giunse al fatidico giuramento nell’abbazia benedettina di Pontida, nel Bergamasco, dove Milano, Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia siglarono il patto della Concordia, che sancì la nascita della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda.

È stato fatto largo uso e abuso retorico di Pontida, come di Legnano, prima in chiave risorgimentale, poi in chiave leghista; il problema è che, nei fatti, si combatté il Barbarossa, e poi il nipote Federico II, in nome degli interessi economici e politici dei comuni, che nemmeno volevano staccarsi dall’Impero, ma semplicemente avere autonomia. Certo, la Lega Lombarda, già a partire dal nome, fu comunque espressione dei nostri territori, ed è quindi lecito ricordarla con orgoglio identitario.

Legnano ostacolò l’unificazione, ritardandola, anche se permise al papa di ficcare sempre più il naso negli affari delle città lombarde. D’altra parte, Federico I inseguì un ideale imperiale “universale” cioè di respiro europeo, ma lo fece in maniera troppo arrogante, prepotente e sanguinaria, inimicandosi la Padania.

Riprendendo il resoconto, nel giro di poco alla Lega aderirono la maggior parte delle principali città lombarde tra cui Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Reggio, Vercelli, Alessandria, Asti, Como, Novara, Pavia, Tortona, Varese e Vimercate.

I granlombardi occidentali ottennero l’appoggio della Lega Veronese (Verona, Padova, Treviso e Vicenza), che confluì nella Lega Lombarda, di Venezia, Genova, Torino, Ferrara, Bologna e Faenza e, come sappiamo, di Roma, che cavalcò a suo favore la questione, soffiando sul fuoco dell’anti-ghibellinismo.

La Lega si strinse attorno ai suoi simboli, e questo certamente è suggestivo: la croce rossa in campo bianco, di San Giorgio, stemma di Milano e bandiera storica di Lombardia (qualcuno dice mutuata da Genova ma più probabilmente dai blasoni dei primi vescovi milanesi), divenuta poi emblema di molte importanti città padane solidali con Milano, città odiatissima dal Barbarossa, come Mantova, Lecco, Vercelli, Ivrea, Alba, Alessandria, Reggio, Bologna, Padova, opposta all’imperiale Croce di San Giovanni Battista che ne è il negativo e che forse deriva dalla rossa Blutfahne, la bandiera da guerra dell’esercito imperiale; la croce di Ariberto da Intimiano; il carroccio, ideato nel 1033, pare dallo stesso vescovo milanese ribelle, che era in sostanza una sottospecie di carro da guerra, possente ed ingombrante, trainato da buoi, in cui stavano in bella mostra le insegne dei combattenti della propria fazione, e in cui il comandante assisteva alle operazioni belliche, e dove i preti celebravano i sacri uffici per accattivarsi i favori del Cristo e rincuorare i guerrieri durante la battaglia.

La Croce di San Giovanni è stemma di altre città “settentrionali”, come Cuneo, Asti, Novara, Pavia, Fidenza, Lugano, Como, Vicenza, Treviso, ma anche del Piemonte, del Monferrato, di località valtellinesi e ticinesi.

Il 29 maggio 1176 Lega e imperiali si scontrarono a Legnano, nell’Alto Milanese: le milizie lombarde, il cui nerbo era rappresentato dalla fanteria comunale, sicuramente non capitanate dall’immaginario Alberto da Giussano [2], sconfiggono l’esercito del Barbarossa, con la sua cavalleria pesante, che si vide costretto a riconoscere, tramite la pace di Costanza del 1183, diritti e autonomie comunali.

Per noi lombardisti, il 29 maggio è la festa della Lombardia etnica, anche se preferiamo non esagerarne l’esaltazione, ricordando comunque il 5 di settembre (1395), data di nascita del Ducato di Milano, ente ghibellino fedele all’Impero e territorialmente esteso in buona parte della Lombardia. La battaglia di Legnano rimane, ad ogni modo, profondamente affascinante, ed è giusto celebrarla ancor oggi, al netto della propaganda italianista e legaiola.

Tramontato il sogno imperiale del Barbarossa, i comuni lombardi, nati non per sentimento patriottico ma per spirito “liberale” (come diremmo oggi), per quanto certamente frutto della civiltà padana di cui siamo depositari, ripresero a scannarsi e a darsele di santa ragione, come del resto avevano fatto anche prima di Pontida e Legnano. E questo è il limite dell’epopea comunale, che fece leva sugli orgogli cittadini, più che su di un sentimento patriottico lombardo, anche se l’idea di patria è qualcosa di affatto moderno, romantico.

E come i litigiosi comuni, fecero poi le signorie, che invece di fare fronte comune per unire il Paese – la Lombardia, ovviamente – arrivarono a tirarsi in casa lo straniero per farsi la guerra, col risultato che questi se ne approfittò e finì per diventare, infine, il padrone delle terre lombarde per lungo, lungo tempo.

Note

[1] E questo perché, come dicevamo, i padani erano chiamati lombardi anche all’estero. Si pensi, ad esempio, ai banchieri piacentini e astigiani, o alle colonie gallo-italiche di Sicilia e Lucania.

[2] Secondo gli storici, tale ruolo è da attribuire a Guido da Landriano.

Lombardia altomedievale

Regnum Italiae

I Longobardi, gli “uomini dalle lunghe barbe”, già Vinnili (“i combattenti vittoriosi”), si stanziarono dunque in Lombardia e le tramandarono il nome.

Questo non fa di noi dei germanici, si capisce, bensì dei gallo-romani germanizzati in superficie, europei sudoccidentali con influenze centrali, dunque europei centromeridionali.

I Longobardi hanno corroborato, dove più e dove meno, la toponomastica, l’onomastica, gli usi e costumi, il diritto, gli idiomi, la mentalità e naturalmente l’etnia, ma tutto sommato in maniera contenuta.

Grazie ad essi in Lombardia sorsero il complesso di Castelseprio e il monastero di San Salvatore a Brescia, capolavori dell’arte longobarda oggi patrimonio dell’umanità (sebbene non serva certo l’Unesco per ritenerli tali). Anche la Corona Ferrea conservata a Monza è un gioiello dell’arte altomedievale, simbolo cisalpino prestato ad una dubbia italianità di cartapesta. Ricordiamo, naturalmente, l’importante lascito nordico in territorio friulano, pure in termini artistici.

Vengono convenzionalmente chiamati “barbari” ma l’appellativo è ingiusto; sebbene popolo straniero invasore, inizialmente duro conquistatore e padrone, col tempo i Longobardi assorbirono la cultura classica e la latinità fondendosi con gli autoctoni e guidando la nazione, assieme alla Toscana. L’eredità germanica in genere e longobarda nello specifico si mantenne viva segnatamente grazie ai nobili, anche se un apporto biologico e antropologico è ancor oggi riscontrabile in tutti i lombardi. E il Regno longobardo raggiunse un grado di civiltà unico, nel panorama dell’Europa occidentale del tempo.

La Lombardia divenne grande con Agilulfo e Teodolinda, e poi con Rotari (il sovrano dell’Editto del 643), Grimoaldo, Pertarito, Liutprando (con cui il regno giunse all’apogeo, annettendo i due ducati centromeridionali di Spoleto e Benevento), per quanto ormai la nostra terra fosse quasi del tutto cattolicizzata; nella battaglia di Cornate d’Adda, 689, il re cattolico Cuniperto e l’esercito sconfissero la fronda ariana del duca di Trento Alachis e dei rivoltosi dell’Austria longobarda, spianando così la strada alla conversione cattolica di tutti i Longobardi, certamente un fatale passo verso la Roma papalina.

Liutprando, il più grande sovrano longobardo, sostenendo il cattolicesimo a spada tratta spinse anche per la fusione definitiva dell’elemento longobardo con quello romanico, cosa che prima non era vista di buon occhio dai conquistatori, fautori di una rigida endogamia [1].

Con Ratchis e Astolfo l’epopea longobarda giunse ormai quasi al termine, nonostante il valore soprattutto dell’ultimo, fiero avversario della Chiesa, di Bisanzio e dei Franchi.

La Langobardia Maior aveva via via conquistato tutta la Val Padana, la Liguria, l’Emilia estrema, parte della Romagna, e i Longobardi si erano spinti nell’Italia etnica sconfiggendo ripetutamente i Bizantini, accaparrandosi territori italici, e ricongiungendosi alla riottosa Langobardia Minor meridionale.

Certamente avrebbero voluto riunire in maniera duratura l’antico regno di Teodorico, ma il papa impedì in ogni modo possibile l’innaturale unificazione di un finto Paese, certo complottando e intrigando con lo straniero, affinché calasse a sud delle Alpi per sconfiggere i Longobardi. Il Vaticano ci farcisce di stranieri fin dal primo Medioevo, per quanto abbia sempre meritoriamente ostacolato l’unità dell’Italia artificiale.

I Longobardi avrebbero dovuto limitarsi al settore padano-alpino, a nord dell’Appennino, poiché già la Toscana risulta essere un territorio forestiero, nel contesto della Lombardia storica.

I maneggi tra pontifici e Franchi segnarono il destino del regno dei Longobardi, ma non dei Longobardi che, di fatto, anche con i Franchi, continuarono a tenere ben salde le redini del comando territoriale, fondendosi sempre più con i vecchi autoctoni gallo-romani e mantenendo una certa autonomia dirigenziale.

La fine giunse con Pipino e poi con suo figlio Carlo Magno, quando a Roma sedevano sul soglio pontificio prima Stefano II e poi Adriano I, che non fecero altro che lagnarsi all’indirizzo della Francia affinché sgominasse la Langobardia e il pericolo che gravava sul Vaticano, e sul territorio che tiranneggiava, il Ducato romano.

Grazie a Pipino, che sconfisse per primo i Longobardi rompendo i buoni rapporti che intercorrevano con essi in quel momento storico, nacque lo Stato della Chiesa (756), e nel 773-774 scoppiò la fatale guerra tra i due popoli germanici che portò al tracollo del regno sotto Desiderio e suo figlio Adelchi; nel 774 i Franchi conquistarono Pavia e Carlo Magno, secondo vincitore dei Longobardi, divenne “gratia Dei rex Francorum et Langobardorum“. Egli riorganizzò l’entità statuale longobarda con conti al posto dei duchi, collocati nelle città già sedi di ducati.

Nel 776 fallì la ribellione anti-franca nella Padania orientale e la regalità longobarda si spostò così nel centrosud, a Spoleto, Benevento, Capua e Salerno.

Ciò nonostante il grosso dei Longobardi rimase al “nord”, la classe dirigente si mantenne longobarda e il diritto longobardo rimase in vigore sino a ‘400 inoltrato, in taluni casi, chiaro segno che l’etnia indigena non aveva perso e si era armonicamente fusa con i “vinti” di un tempo, gallo-romani, portando a compimento l’etnogenesi subalpina. Non dimentichiamoci però che i Longobardi influirono discretamente anche in Toscana e più a sud, in alcune località soprattutto del Sannio, sebbene nel meridione non siano state trovate necropoli di quel popolo.

Nel 781 Carlo Magno riconfermò a Pavia la dignità di sede centrale del Regno italico (o meglio, del Regno longobardo non più sovrano che assunse il nome di Regnum Italiae, fondamentalmente Padania e Toscana, già Langobardia Maior) ponendo sul trono suo figlio Pipino I. Successivamente, il potentato passò a Lotario, figlio di Ludovico il Pio, nuovo imperatore dopo il padre Carlo Magno, che lo strappò a Bernardo, figlio di Pipino I.

Le vicende franche prima ed imperiali poi, portarono alla calata in Lombardia di alcuni gruppi di immigrati teutischi tra cui, oltre ai Franchi, vanno ricordati Svevi, Alemanni, Bavari, stranieri che andarono a rimpolpare la nobiltà, più che il popolo.

Nell’888, in seguito allo sfaldamento dell’Impero carolingio, Berengario, marchese del Friuli, divenne il primo dei reucci italici, che battagliarono per il possesso dell’attuale nord della Repubblica Italiana. Di fatto, il Regno d’Italia, era un’entità vassalla dei transalpini, con un nome che rievocava fasti romani ma senza alcuna connessione al reale elemento etnico della Lombardia. Oltretutto, il regno si allargò poi comprendendo anche l’Italia mediana.

Nell’891 nacque invece la Marca di Lombardia, per volontà dell’imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica (succeduto a quello franco) Guido da Spoleto, che riuniva i comitati di Milano, Como, Pavia, Seprio, Bergamo, Lodi, Cremona, Brescia, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio di Lombardia, Modena.

Il Regno d’Italia medievale (781-1014) non fu mai una compagine statale capace di imporre la propria autorità, e la corona fu un titolo meramente formale, per quanto prestigioso e ambito potesse essere. Chi comandava fattivamente era l’imperatore germanico di turno.

Nel 950-951 il re Berengario II riorganizzò il territorio del nordovest “italiano” creando tre marche imperiali: Marca Aleramica (Liguria centro-occidentale e Piemonte centromeridionale), Marca Arduinica, già Anscarica (resto del Piemonte, Torino e Ivrea, con la Liguria occidentale) e la Marca Obertenga, che assorbì la precedente marca lombarda (Lombardia transpadana e cispadana più la Liguria orientale e l’Apuania). Queste tre entità territoriali presero il nome dai nobili che le governarono per primi.

Gli Obertenghi erano un nobile casato longobardo di origine milanese, il cui capostipite Oberto I fu il primo reggente della marca suddetta. Da essi si generarono grandi dinastie come i Pallavicino, i Cavalcabò, i Malaspina e soprattutto gli Estensi.

Le tre marche suddette riunivano il territorio della Grande Lombardia occidentale, che già a partire dalla tarda epoca imperiale (romana) veniva indicato come “Liguria” [2]. La porzione orientale, invece, come “Venetia” [3].

Nel 961-962 l’imperatore Ottone I unisce la corona d’Italia-Lombardia al Sacro Romano Impero; egli investì i vescovi di poteri politici inserendoli come vescovi-conti nel sistema feudale, aprendo le famigerate lotte per le investiture e gettando il seme dei futuri scontri tra autonomia comunale (e strumentalizzazione papalina) e autorità imperiale, tra guelfi e ghibellini, tra signori longobardi-lombardi (un esempio è la saga di Matilde di Canossa) e imperatori.

La corona d’Italia venne ereditata ai successori di Ottone fino al 1002. In quell’anno prese il potere Arduino d’Ivrea, desideroso di colmare il vuoto di potere lasciato dall’Impero nella Padania, divenendo re d’Italia.

Ebbe filo da torcere sia dalla Germania che dalla Chiesa e proprio per questo viene romanticamente visto, dalla retorica risorgimentale, come primo re “nazionale” d’Italia, per l’affrancamento dal potere d’Oltralpe e da quello clericale.

Regnò fino al 1014, quando, circondato da nemici, alleati dell’imperatore Enrico II, depose le insegne regali e si ritirò in un’abbazia. Con la sua abdicazione finì il Regnum Italiae.

Esso cessò di fatto di esistere con l’avvento delle autonomie comunali, volte a sostituire il potere politico dei vescovi.

Abbiamo così varcato il 1000, fine convenzionale dell’Alto Medioevo (e non del mondo), e germe della stagione comunale, certamente vanto e fiore all’occhiello della Lombardia medievale.

Chiudo questo articolo con una riflessione sul toponimo ed etnonimo lombardo: il susseguirsi delle vicende altomedievali fa capire come ‘Lombardia’ non sia che la contrazione di ‘Langobardia/Longobardia’, un nome di conio bizantino invalso ad indicare i possessi longobardi sia tosco-padani che italiani; mantenendo il potere, seppur simbolico, a Pavia (già capitale del Regno longobardo), il toponimo ‘Lombardia’ passò squisitamente a designare il settentrione [4] della RI, la Cisalpina, che diventò Regno d’Italia medievale, certo con Toscana e Italia centrale.

La frammentazione dei potentati padani portò Piemonte, Liguria, Emilia e Lombardia convenzionale a seguire strade differenti e tale nome, nell’accezione contemporanea, è passato ad indicare soltanto l’omonima regione creata da Roma.

Chiaro, la Regione Lombardia ha un precedente in quella che era la Lombardia austriaca, ma per come la conosciamo oggi resta un ente artificiale, un moncone di Lombardia etnica, per quanto centrale. Nondimeno, sino alla sciagurata unità ottocentesca, il concetto di Lombardia storica, figlio del Medioevo e dell’etnogenesi lombarda realizzatasi grazie proprio ai Longobardi, comprendeva buona parte della Cisalpina, soprattutto nel suo cuore padano.

Note

[1] Va comunque detto che la rilettura moderna dell’Editto di Rotari non mette in luce una chiara discriminazione nei riguardi degli assoggettati, perciò non si può parlare pacificamente di leggi atte alla difesa dell’endogamia germanica, e ad un “razzismo” nordico. Appare, altresì, utile rammentare che gli stessi Longobardi non erano un popolo puramente germanico.

[2] Gunther di Pairis compose un’opera, Ligurinus, dedicata alle gesta del Barbarossa proprio nella Padania occidentale.

[3] C’è da dire che il concetto di ‘Veneto’ è affatto moderno; prima di esso v’era la Serenissima e, prima ancora, la suddivisione medievale in comuni e signorie. Allo stesso modo, attorno al 1000, l’odierno Veneto era parte della Marca di Verona, eccettuate le lagune, erede del potere longobardo. Insomma, anche il Veneto è Lombardia storica.

[4] In particolar modo la porzione occidentale.

Lombardia germanica

L'”Italia” di Alboino

Eravamo rimasti a Odoacre.

Questo sciro re degli Eruli nel 476 divenne re d’Italia, fino al 493 quando, asserragliato a Ravenna, fu deposto e ucciso da Teodorico, re degli Ostrogoti.

Il regno romano-barbarico che ci interessa più da vicino è dunque quello dei Goti di Teodorico che durò più o meno dal 489 al 553.

Nel 489 egli invase la Pianura Padana e nel giro di 4 anni se ne impossessò scacciando Odoacre a Ravenna dove, capitolando nel 493, fu poi ucciso dal re goto durante un banchetto.

I Goti, Ostrogoti in questo caso, erano un popolo germanico originario della Svezia meridionale che verso il finire dell’Impero diedero moltissimo filo da torcere all’agonizzante Roma, anche per tutta una serie di batoste inflitte all’esercito romano.

Prima di giungere in Lombardia, erano stanziati nel settore orientale del Mar Nero, mentre in quello occidentale vi erano i Visigoti; pressati dalla minaccia unna che infuriava sul limes, sbaragliando i Romani si spostarono verso occidente sinché invasero l’Italia romana stabilendosi, più che altro, nel settore settentrionale e centrale.

Centri cruciali Pavia, Milano, Verona, Ravenna.

A Pavia Teodorico aveva il suo palazzo imperiale nonostante che la capitale fosse la romagnola Ravenna (dove fu poi tumulato).

I Goti erano di religione ariana, seguaci dell’eresia cristiana di Ario, ma una volta stanziati in Italia non diedero troppe rogne alla popolazione cattolica, al clero romano, o alla classe senatoria romana, che preservava ancora, in taluni casi, gli antichi culti pagani.

Il Regno ostrogoto non fu esperienza negativa, e col tempo risollevò la Lombardia sconquassata dal crollo romano, rinsanguando superficialmente la sua popolazione.

I guerrieri germanici comandavano e amministravano, combattendo, mentre i Latini badavano al diritto, all’arte, alla religione, alla cultura. Questa formula si rivelò vincente perché da una parte difese il territorio col valore dei combattenti goti, e dall’altra la mantenne a galla culturalmente evitando che sprofondasse del tutto nella barbarie. Un fatto che, ovviamente, non vale per il grosso del popolo, si capisce. Il crollo dell’Impero e l’inizio del Medioevo [1] furono vissuti drammaticamente dall’Europa romana e in particolar modo dall’Italia [2].

Si calcola che circa 250.000 individui [3] tra Ostrogoti e altri Germani (Rugi e Gepidi) calarono nella Pianura Padana agli ordini di Teodorico, provenienti dai Balcani; il loro impatto sulla popolazione autoctona fu del tutto contenuto, e i Longobardi influirono molto più di essi sull’Italia romana, specialmente su Padania e Toscana.

L’Italia gotica, però, aveva due problemi: Bisanzio e Roma.

I primi, in perenne combutta coi preti romani, intrigarono coi loro ruffiani d’Occidente per danneggiare in ogni modo gli Ostrogoti, tanto che nel 535 si arrivò alla famosa Guerra greco-gotica, culminata nel 553 con la vittoria di Bisanzio.

Lo scontro fra il mondo latino, cattolico, mediterraneo, e anche bizantino, e quello germanico, ariano, continentale, “barbarico” come ci si ostina ancor oggi a chiamarlo nonostante che i moderni migranti siano, invece, etichettati a guisa di “risorse” e “ricchezza” (i Goti, almeno, erano integralmente europei), sfociò in questa sanguinosissima guerra che vide soccombere soprattutto il popolo, sopraffatto da carestie, pestilenze, epidemie, e scorribande da ambo i lati.

La guerra impegnò celebri comandanti goti come Teodato, Vitige, Totila, Teia ma fu vinta dal valore di Belisario e dalla levantina scaltrezza dell’eunuco Narsete.

A dar man forte ai Goti vi furono anche Franchi e Alemanni.

Non per darsi al nordicismo, ma c’è da dire che Teodorico diede vita ad un regno comunque buono, per i tempi, e pian piano aiutò l’Italia ad uscire dalla crisi, per quanto la presenza gota fosse per lo più dislocata al di qua del Po, per motivi militari e strategici. Alla Roma senatoria e papalina questo non stava bene e fu il primo episodio di tutta una serie di ingerenze religiose negli affari di stato, che condussero a sud delle Alpi truppe straniere (e oggi allogeni).

La capitolazione degli Ostrogoti portò molti di essi ad emigrare, ma una minima parte rimase, nonostante l’intera Italia cadesse nelle mani di Giustiniano e dei Bizantini. E si diedero alla resistenza.

La Guerra greco-gotica fu un immane disastro per la popolazione, come ricordato, grandemente falcidiata soprattutto al “nord” dai mille flagelli che la guerra e la crisi recano seco.

Chiesa e Costantinopoli, deserto e Levante, parevano i vincitori, ma non durò a lungo.

Nel 568 un fiero e valoroso popolo nordico si affacciò sulla Carnia, provenendo dalla Pannonia, attuale Ungheria: i Longobardi, guidati dal loro re Alboino.

Tra il 569 e il 572 si impossessarono del grosso della Cisalpina e della Toscana, sbaragliando i fiacchi Bizantini e ricacciandoli da dove erano venuti, oppure costringendoli in sacche costiere come le Venezie e la Romagna (oltre naturalmente alla Roma del papa).

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, ma tale etnonimo le fu dato indirettamente dai Bizantini, che chiamavano Langobardia i territori soggetti ai Germani in questione, quindi la Padania, la Toscana, e chiaramente i successivi ducati di Spoleto e Benevento (Langobardia Minor).

Tuttavia, il nome ‘Lombardia’ divenne appannaggio del settentrione, grazie alla forte impronta lasciata dagli antichi Vinnili, e per questo è il miglior termine per indicare la nostra nazione.

I Longobardi conquistarono la parte continentale e la penisola, ma a noi interessa il fulcro del loro dominio ossia la Pianura Padana, la Lombardia storica.

Questi bellicosissimi Germani erano anch’essi originari della Scandinavia, della Scania pare, e in seguito a diverse peripezie attraversarono l’Europa centrale giungendo prima in Pannonia, via attuale Austria, poi appunto in Val Padana, dove, divenendo del tutto stanziali, portarono a termine la loro epopea.

In 150.000 al massimo [4], il 2 aprile 568, varcarono il Passo del Predil (o il Matajur) per dilagare nella pianura occupando saldamente quasi tutto il “nord”, ma è chiaro che i Longobardi di stirpe non fossero esattamente 150.000: al loro seguito, infatti, 20.000 Sassoni e altri fra Gepidi, Rugi, Svevi, Bavari, Alemanni, Bulgari.

La nobiltà longobarda, e il fulcro etnico del popolo conquistatore, erano razzialmente nordidi o cromagnonoidi, ariani di fede assieme al pagano culto di Godan-Odino. Tra di essi anche elementi fenotipicamente indogermanici come i Corded Nordid e i Battle-Axe. La presenza dell’aplogruppo protoindoeuropeo R1a1a nelle terre subalpine è da attribuirsi agli invasori germanici, oppure all’influsso slavo nel settore orientale estremo della Grande Lombardia.

Di certo i Vinnili incrementarono il nordicismo della Val Padana, soprattutto, e dell’Italia etnica peninsulare (Toscana, Umbria, Sannio), impattando più dei Goti e di altri Germani. Studi genetici recenti calcolano che l’apporto biologico nordeuropeo alla Lombardia storica ammonti ad un 20%. Avremo modo di riparlarne, a proposito del calcolatore Eurogenes Global25, grazie a cui alcuni sodali lombardisti hanno messo a punto interessanti modelli, indicativi del profilo antropogenetico della Padania. Anticipiamo, comunque, che le aree più germanizzate (al di là, per ovvie ragioni storiche, dell’arco alpino) paiono il Triveneto di terraferma e le plaghe a cavallo fra Insubria e Piemonte, oltre al Piemonte stesso.

Discreta ma decisiva fu l’influenza di questi nordici sul nostro territorio, nonostante la perdita della lingua e delle loro ancestrali credenze religiose e tradizioni, via via abbandonate stabilendosi nel dominio italico-romano; anche i Franchi, i Burgundi, i Visigoti, in parte gli Anglo-Sassoni, i Normanni, venendo in contatto con la superiorità culturale di stampo latino preferirono abbracciarla che combatterla e distruggerla, e questo fu certamente un bene per l’Europa. Col tempo giunsero anche a fondersi con gli indigeni romanici. La forza guerriera germanica e la grandezza culturale greco-latina furono la rinascita dell’Europa dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente.

Alboino conquistò Milano il 3 settembre 569 dando vita al Regno longobardo, e Pavia nel 572, ove pose la capitale del regno dopo un assedio durato anni.

Esso comprendeva quattro aree fondamentali: l’Austria (dall’Adda al Friuli), la parte più turbolenta del regno perché più bellicosa, aggressiva, conservatrice, ariana, pagana che in Bergamo, Brescia, Trento, Verona e Cividale aveva i suoi capisaldi; la Neustria (dall’Adda alla Val di Susa), ov’era la capitale della Langobardia Maior, il settore più pragmatico, realista, “civilizzato”, ma anche filo-romano e poi cattolico, i cui centri principali erano Milano, Pavia, il Seprio, il Ticino, Torino; l’Emilia fino a Spilamberto (degna di nota la germanizzazione degli Appennini); la Tuscia, che fu colonizzata e corroborata dal sangue longobardo così come da quello gotico, accostandola per molti versi alla Lombardia.

Successivamente nacquero il Ducato di Spoleto e quello di Benevento, piuttosto autonomi e riottosi al dominio centrale, sebbene venissero più tardi annessi.

I Longobardi si organizzarono in ducati ricalcando le precedenti suddivisioni bizantine, spesso in lotta col potere centrale pavese, e prima che la situazione si normalizzasse dovette esaurirsi la cosiddetta anarchia dei duchi, che durò una decina di anni, subito dopo la morte dell’indiscusso duce Alboino e del suo successore Clefi, e che terminò con l’avvento del figlio Autari.

Ancor più decisivo il regno di Agilulfo, con le sue grandi conquiste nella Pianura Padana bizantina (Cremona, Mantova, Padova), e Teodolinda, la regina cattolica di dinastia bavarese che molto incise sulle sorti del popolo longobardo.

Note

[1] Tradizionalmente, l’inizio del Medioevo a sud delle Alpi è sancito dall’invasione longobarda del 568-569.

[2] Se di tanto in tanto usiamo il termine equivoco ‘Italia’ è soltanto per indicare i territori che furono dell’Italia romana, dunque per comodità.

[3] Claudio Azzara fa una stima al ribasso, parlando di 100-125.000 unità, di cui 25.000 guerrieri.

[4] Stando alle classiche stime di studiosi come Jarnut, Gasparri, Azzara, Pohl.

Lombardia gallo-romana

Gallia Cisalpina

Nel V-IV secolo avanti era volgare, dunque, i Galli storici si insediarono nella Pianura Padana, sconfiggendovi gli Etruschi e stabilendo una continuità coi Liguri, già celtizzati dalla Cultura di Hallstatt. Nacque così la Gallia Cisalpina.

Gli Etruschi, fondamentali per l’antica cultura italica e per la formazione della civiltà romana, si attestarono primariamente in Toscana e Lazio (l’Etruria padana era più che altro un’espansione commerciale degli stessi); nel Lazio antico, invece, gli Italici protovillanoviani (Villanova era primariamente associata ai Tirreni), Latini, migrati, in forma embrionale, dalla valle del Po, fondarono Roma nel 753 a.e.v., sovrapponendosi alla civilizzazione etrusca e gettando le basi della Repubblica romana (che venne dopo il periodo monarchico). Nell’epoca che va dal 264 al 146 a.e.v., essa conquistò il Mediterraneo e quasi tutta l’Italia [1] romana, unificandola.

Grazie a campagne militari che andarono dal 225 al 194 a.e.v., i Romani si assicurarono il controllo della Gallia Cisalpina, che venne annessa così all’organismo romano. Fondarono diverse colonie tra cui Piacenza, Lodi, Cremona, Acerrae (Pizzighettone).

Prima delle conquiste romane, i Galli Cenomani, stanziati nel territorio della Lombardia etnica orientale e nel Veneto occidentale, si allearono coi Venetici e giunsero in conflitto con i Galli Insubri, che invece legarono con i Boi dell’Emilia in funzione anti-romana. I Cenomani divennero, come i Venetici, alleati dei Romani, più o meno stabilmente.

Nel 222 a.e.v. i Romani sconfissero proprio gli Insubri nella battaglia di Clastidium, Oltrepò pavese, ne distrussero l’esercito e ne approfittarono per conquistare Mediolanum, estendendo così il dominio dell’Urbe alla regione gallica transpadana. Il pericolo gallico, che portò al sacco senone di Roma ad opera di Brenno (390 a.e.v.), fu scongiurato.

Tre anni prima, gli Insubri si resero assai minacciosi, costituendo una “lega” celtica che invase il territorio italico, venendo però sconfitta dai Romani a Talamone.

Durante la Seconda guerra romano-punica (218-202 a.e.v.), il cartaginese Annibale, che dilagò nel territorio romano dalle Alpi, sobillò Insubri e Boi contro Roma. Qualche osservatore moderno di area vetero-leghista vede in tale evento un’occasione di unità per i popoli celtici della Cisalpina; fu per certi versi così, e chissà se la storia sarebbe andata altrimenti, ma resta il fatto che i Celti si misero dalla parte di un più forte invasore nordafricano, che calò nella Pianura con tanto di elefanti, divenendo suoi mercenari per avversare Roma. I Romani erano forestieri, in Padania, ma pure i Cartaginesi.

Annibale sconfisse i Romani sul Ticino e sul Trebbia, scese lungo la penisola e, sempre grazie all’appoggio insubrico, li batté sul Trasimeno (qui si mise in mostra il leggendario Ducario). Poi venne la volta della disastrosa, per i Romani, Canne (216 a.e.v.). Il vittorioso epilogo della guerra però, come sappiamo, arrise a Roma grazie a Scipione l’Africano che sconfisse Annibale a Zama, ridimensionando le ambizioni di Cartagine.

La Gallia Cisalpina divenne così una provincia romana. Le colonie portarono all’insediamento in terra padana di elementi italico-romani, mentre l’elemento gallico venne in parte sterminato, schiavizzato o disperso, segnatamente in area boica e senone. Questi dati non sono da esagerare, anche per quanto concerne la Cispadana. I Boi, secondo gli storici romani, presero in massa la via della migrazione transalpina, verso la Boemia che, come Bologna, prende il loro nome [2].

Nell’89-88 avanti era volgare, la cittadinanza romana venne estesa alla Cispadana mentre la Transpadana ricevette lo ius Latii, con il quale i Celti al di là del Po e i Liguri vennero latinizzati tramite deduzione di colonie fittizie.

Nell’81 a.e.v. il confine italico venne posto lungo le Prealpi e la Gallia Cisalpina divenne provincia armata, mentre nel 49 a.e.v. Giulio Cesare concesse la cittadinanza romana ai transpadani.

Nel 42-41 avanti era volgare, la provincia della Gallia Cisalpina venne abolita e la Padania annessa all’Italia augustea.

La Lombardia etnica fu così suddivisa in (Gallia) Transpadana (dal Sesia all’Oglio), Venetia et Histria (Brescia, Cremona, Mantova, e cioè l’area cenomane), (Gallia) Cispadana (l’Emilia) e il Piemonte meridionale nella Liguria.

I Cenomani alleati dei Veneti, e dunque dei Romani, vennero “premiati” annettendoli al resto dei loro alleati, staccandoli dallo zoccolo duro della Gallia togata; da qui nasce l’equivoco della Lombardia orientale “veneta”, poi corroborato dalla dominazione marciana moderna. I Veneti non misero mai piede al di qua del Garda, e la Lombardia etnica orientale è galloromanza e gallo-italica, al pari del resto del fulcro lombardo [3].

La guerra contro le popolazioni alpine (celto-reto-liguri), invece, continuò anche dopo il 42 a.e.v., con Augusto e i suoi figli, e l’esito fu scontato: popoli come Vennoneti, Bergalei, Camuni e Triumplini dovettero arrendersi di fronte allo strapotere romano, che portò così il confine dell’Italia romana sino alle Alpi.

I Romani diffusero l’uso del latino, delle loro leggi, dei loro costumi, della loro religione e realizzarono numerose opere di urbanistica e infrastrutturali. Dobbiamo ad essi reti viarie, idriche, fognarie. In questo periodo fiorirono i commerci e l’agricoltura, sorsero e si ingrandirono città e villaggi, fermo restando che Roma beneficiò grandemente della naturale prosperità celtica.

La romanizzazione della Gallia Cisalpina fu un passo fondamentale per i nostri avi e per noi, inserendoci nella civilizzazione latina. Non fu solo conquista militare, politica, culturale, amministrativa, fu anche etnica, sebbene il grosso del popolo rimase di estrazione indigena celto-ligure, per quanto romanizzato. E va anche messo in conto l’influsso tardo-imperiale esercitato dai coloni del Mediterraneo orientale, e poi riequilibrato dall’apporto germanico soprattutto dei Longobardi. Nulla, comunque sia, di paragonabile all’Italia etnica.

La romanizzazione non rende la Padania Italia, perché Roma antica non era quella moderna, e quindi non era l’Italia per come la conosciamo. I Galli divennero col tempo Gallo-Romani per lingua, religione, cultura, usi e costumi, progresso, civiltà, infrastrutture e servizi, ma questo non implicò l’eradicamento totale della stirpe gallica, specie a nord del Po. Altrimenti, anche oggi, l'”Italia” sarebbe un blocco unico dalle Alpi a Lampedusa, coeso dall’ADN romano (qualsiasi cosa voglia dire).

Certamente, noi lombardi (etnici) non siamo gallici e basta, o celto-germanici e basta. Siamo eminentemente celto-liguri, dove più e dove meno, e poi gallici e, in misura minore, germanici, anche qui dove più e dove meno. Ma siamo altresì romani (o, meglio, romanici, e romanzi), anche per sangue, non solo per lingua e cultura. Sicuramente, la romanizzazione portò in Padania geni italici e geni levantini. La primaria linea paterna lombarda è celtica/celto-ligure, e il nostro ADN è primariamente dell’Europa sudoccidentale, per quanto il concetto di Europa meridionale sia sterminato. La Cisalpina, come più volte ricordato, è a metà strada fra il Mediterraneo e il continente.

Diversi funzionari romani si stabilirono in Gallia Cisalpina, così come i veterani di guerra ricevettero, in virtù delle loro prestazioni, terreni lombardi [4]. La Lombardia diede i natali, fra gli altri, a tre autorità del mondo culturale romano: Virgilio, di Mantova, Plinio il Vecchio, di Como e Cornelio Nepote, di Pavia od Ostiglia (Mantova). Per non parlare di Catullo e di Livio, ma qui siamo in territorio venetico.

Si registrarono delle infiltrazioni germaniche nella Val Padana, ben prima delle invasioni storiche che portarono alla creazione dei regni romano-barbarici sul finire dell’Impero romano d’Occidente: Cimbri, Teutoni, Ambrones, Taifali, assieme a schiavi germanici e gallici deportati in Lombardia come forza lavoro, e ai famosi laeti, coloni nordici del tardo Impero.

Il dominio di Roma, repubblicano ed imperiale, su quella che oggi è Lombardia etnica e storica, durò 700 anni. Un periodo che non si può certo ignorare, è evidente, ma nemmeno va ingigantito in chiave retorica. La romanità non ha reso la Padania Italia, altrimenti mezza Europa andrebbe considerata italiana.

Nel 292 Diocleziano, con la riforma politico-amministrativa, designò Milano a residenza di uno degli imperatori, Massimiano. Milano divenne capitale dell’Impero romano d’Occidente, fino al 402 era volgare, quando Onorio trasferì la capitale a Ravenna. Le riforme dioclezianee, peraltro, vennero seguite da quelle di Costantino che divisero l’Italia romana, ormai una provincia come tutte le altre, in Annonaria e Suburbicaria: la prima coincise grossomodo con tutta la Grande Lombardia, e ne faceva parte pure l’intera Rezia. La Suburbicaria era invece la vera Italia, quella etnica, pur comprendendo anche la Sardegna.

Certamente Roma, sul finire della sua potenza, divenne un ente accentuatamente parassitario che sfruttava e strizzava le varie province per arricchirsi sulle loro spalle, succhiandole come un vampiro, vessandole con rapaci funzionari, lasciandole sguarnite di fronte alla crescente aggressività dei popoli germanici e barbarici che premevano lungo il famoso limes, minacciati com’erano da altri popoli barbari, nemmeno di origine europea, quali gli Unni. Chiaramente sono i difetti – ereditati dai Bizantini – di tutti gli imperi che non siano un’armonica confederazione di realtà etnonazionali. Ma questo è un concetto moderno, caldeggiato dal lombardesimo.

La decadenza romana, da una parte fisiologica, venne acuita dall’orientalismo, dall’effeminatezza e dal prolasso dei costumi, dal meticciamento e dall’eresia giudaica cristiana che sfilacciava l’ethos romano, già corrotto ed indebolito dall’età imperiale.

Diocleziano tentò di salvare il salvabile, rinviando di due secoli il crollo del gigante romano dai piedi d’argilla. Già in quel periodo, ormai, Roma contava poco o nulla.

L’Editto di Caracalla (212 era volgare), sull’universalità dell’Impero (tutti “romani”), e l’Editto milanese di Costantino nel 313, che garantiva libertà religiosa a tutti i cittadini romani, avviarono l’Europa sulla strada della dittatura cristiana bimillenaria. Teodosio compì l’opera proclamando il cristianesimo unica religione obbligatoria del mondo romano.

Il cristianesimo si diffuse in Lombardia, con tutto il suo strascico di magagne mediorientali, e nel 374 Ambrogio fu acclamato vescovo di Milano.

Nel 402, come ricordato più sopra, la capitale venne spostata nella paludosa Ravenna, in un clima congeniale allo stuolo di parassiti statali che ormai di romano non avevano più nulla. La stessa culla della romanità versava in pessime condizioni, preda del malgoverno, della corruzione, dell’incuria, dei liberti, dei cristiani e dei dinosauri senatori attaccati tenacemente ai loro privilegi. Una situazione che ricorda invero quella attuale.

Il destino dell’Impero era segnato, e nonostante che buona parte dell’esercito romano fosse rimpinguata da freschi soldati germanici (la schiatta guerriera “italica” era ormai esausta) la relativa vicinanza della Lombardia al confine danubiano favorì numerose incursioni di popoli barbarici nordici nel suo territorio, che poi venne trascinato nella polvere, nel fango e nelle macerie dall’inesorabile crollo della, comunque da tempo, ingessata potenza romana, decentratasi a nord e ad est (Costantinopoli).

Lo sciro Odoacre depose Romolo Augustolo, un ragazzino fatto ultimo imperatore-fantoccio dalle congiure di palazzo. Era il 476 dell’era volgare e il dominio di Roma, la prima Roma, ebbe fine, per convenzione. Infatti, più che di crollo, la storiografia moderna parla di dissoluzione, o di trasformazione.

Con il definitivo tramonto dell’Occidente, si contesero il possesso della Lombardia Ostrogoti e Bizantini, e fu la volta del grande Teodorico.

Note

[1] Sarà utile ricordare che l’Italia primigenia era la punta della Calabria e poi, in senso lato, la vera terra degli Italici, il centrosud. La Gallia Cisalpina venne, fondamentalmente, conquistata e annessa per ragioni militari, portando il confine dell’Italia romana allo spartiacque alpino.

[2] Lo strato gallico sopravvisse certamente anche a sud del Po, come ci testimonia la stessa genetica. Le notizie di stermini di massa sono dunque esagerazioni propagandistiche belle e buone. A nord del fiume, invece, come risaputo, la penetrazione romana fu soprattutto culturale, perlomeno inizialmente, e avvenne pacificamente.

[3] Sappiamo invece che sia proprio il Veneto ad essere parte della Grande Lombardia, e prima ancora della Gallia Cisalpina.

[4] La romanizzazione viaggiò anche grazie agli stessi indigeni cisalpini che, in veste di legionari, importarono usi e costumi di Roma nelle proprie terre natie. O anche grazie alle magistrature delle élite galliche.

Lombardia preistorica e protostorica

Incisioni camune

Pubblicherò, per qualche soledì, alcuni articoli sulla storia della Lombardia, soffermandomi in particolare sul cuore insubrico-orobico della nostra nazione. A seguire, degli scritti storici circa Bergamo e la Bergamasca.

La “Lombardia” del Pliocene (l’epoca più recente dell’era cenozoica o terziaria, fra i 5 e i 2 milioni di anni fa) aveva un’estensione territoriale differente da quella attuale.

Mentre l’arco alpino era ben definito, la Pianura Padana era ancora del tutto assente. Questa deve la sua formazione al deposito dei detriti portati a valle dal fiume Po e dai suoi affluenti nel corso dei milioni di anni successivi fino ad oggi; inoltre, alla spinta tettonica che la placca africana esercita contro la placca europea [1]. Tale spinta, nel corso delle centinaia di migliaia di anni, ha fatto sollevare la crosta terrestre dell’Europa, e in particolar modo dell’Appenninia e della Lombardia, di alcune decine di metri.

Questi due fattori combinati insieme hanno fatto sì che al posto dell’Adriatico, che occupava il Golfo Pliocenico Padano, abbiamo oggi una verdeggiante pianura tra le più fertili e ricche (purtroppo anche inquinate e cementificate, conseguenza, non da ultimo, della sovrappopolazione immigrata) d’Europa.

Durante l’ultima glaciazione (Würm), quella che interessò le Alpi tra i 110.000 e i 12.000 anni fa, la Lombardia alpina e prealpina presentava compatte calotte glaciali e ghiacciai montani. I ghiacciai montani e pedemontani modellavano il territorio asportando virtualmente tutte le tracce delle precedenti glaciazioni di Günz, Mindel e Riß, depositando morene di base e morene terminali di differenti fasi di ritrazione, e accumuli di löss (argille sabbiose finissime e giallastre di origine eolica), e spostando e ri-depositando le ghiaie attraverso i fiumi che scendevano dai ghiacciai. Al di sotto della superficie, essi ebbero un’influenza profonda e duratura sul calore geotermico e sulle tipologie di flusso delle acque sotterranee.

I celeberrimi laghi prealpini lombardi si formarono proprio in questo periodo, dalla ritirata dei ghiacciai.

Durante l’ultima glaciazione, va anche detto che la Val Padana appariva decisamente decentrata ed estesa rispetto ad oggi, tanto che il Po sfociava nell’Adriatico all’altezza di Ancona.

Le prime tracce circa la presenza dell’uomo nella Cisalpina rimontano al Paleolitico. La presenza dell’Uomo di Neanderthal è dimostrata da ritrovamenti risalenti a 50.000 anni fa, sebbene scarsi rispetti al resto d’Europa. La comparsa dell’uomo moderno, invece, è da attribuire a 34.000 anni fa (Paleolitico superiore), stando ai reperti.

Nel Neolitico (VI millennio avanti era volgare) si cominciano ad intravvedere le prime forme concrete di civiltà, grazie alla diffusione della ceramica impressa. Si affermano i manufatti di origine ligure anariana, e gli individui appartenenti a questo filone artigianale possono dirsi di tipo mediterraneo. La Cultura della ceramica cardiale si originò, però, nel Levante e giunse in Padania dai Balcani, innestando nella mediterranea, e arcaica (cromagnoide), valle del Po il tipo dinarico.

Il Neolitico è il fondamentale strato lombardo, da un punto di vista genetico, ed è quello che accomuna, in senso mediterraneo e (meno) levantino antico, l’Europa sudoccidentale. La principale differenza etno-razziale fra gli “italiani” deriva dal fatto che più si scende verso il Mediterraneo e più si riscontrano influssi egeo-anatolici e mediorientali, anche recenti (età romana imperiale e tardo-imperiale). Naturalmente, le componenti anatolico-caucasiche e levantine degli italiani etnici meridionali non fanno di essi fratelli di coloro che abitano oggi Asia Minore e Medio Oriente, perché recate da genti mescolatesi con gli indigeni; altresì, Arabi [2], Ebrei, Saraceni, Ottomani hanno influito superficialmente, a livello genetico, sull’Ausonia, poiché essa deve il suo genoma esotico principalmente a popolazioni greche e coloni levantini di età romana.

Gli uomini neolitici, dediti ad attività agricole, erano organizzati in società matriarcali incentrate su figure femminili, non solo a livello gerarchico e sociale ma anche culturale: culti ctoni, lunari, legati alla fertilità, al ciclo delle stagioni e alla Madre Terra, la Dea Madre: tutto da lei nasceva e a lei ritornava (quindi, rito funerario dell’inumazione) [3].

Erano società pacifiche, imbevute di artisticità, artigianato, raffinatezza, ricchezza e benessere. Per quei tempi, si capisce.

Gli oscuri Liguri, popolo di base preindoeuropea che si estendeva dalla Francia sudoccidentale alla Toscana settentrionale, erano eredi di questa temperie culturale, anche se nel tempo furono indoeuropeizzati. Il loro endoetnonimo, secondo gli storiografi antichi, era Ambrones, palesemente indoeuropeo, e facilmente accostabile a quello degli italici Umbri e degli omonimi Ambrones germanici. Dovrebbe ricollegarsi al celtico *ambr- e al latino imber, che significano ‘acqua, pioggia’, e quindi anche ‘fiume, torrente’.  

Durante l’Età dei metalli, comparve nel cuore della Lombardia la Cultura di Remedello (III millennio a.e.v.). In questa fase (Età del rame), abbiamo i prodromi delle prime vere grandi civiltà protostoriche cisalpine. Elementi caratteristici del periodo sono i megaliti (statue stele, statue-menhir in Lombardia) e il vaso campaniforme.

La protostoria europea cominciò proprio col Calcolitico e arrivò fino all’Età del ferro, passando per quella del bronzo.

L’Età del rame, di Remedello, vide il fiorire del megalitismo anche in area padana, dove la Val Camonica cominciò ad emergere culturalmente grazie alle stele antropomorfe; sul finire del Calcolitico, comparve la Cultura del vaso campaniforme, che portò in Lombardia elementi di origine franco-iberica e centro-europea (delle avanguardie indoeuropee, in questo caso). La fase finale di Bell Beaker (all’inglese) fu infatti indoeuropeizzata nel Centro Europa, entrando in contatto con le ondate ariane provenienti dalle steppe ponto-caspiche. Pare che il tipo fisico di questa cultura fosse brachicefalo, sul dinarico.

La civiltà camuna esplose nell’Età del bronzo (II millennio a.e.v.), producendo le celeberrime incisioni rupestri (principiate comunque nel Mesolitico), dove cominciarono a comparire i primi simboli solari e guerrieri di origine ariana penetrati in Padania dalle Alpi Centro-Orientali. I Camuni erano, di base, un popolo alpino reto-ligure (i Reti erano dei tirrenici al pari degli Etruschi, ma senza influssi anatolico-caucasici recenti), certamente arianizzato soprattutto nel Ferro. A sud della Camunia, erano attestati gli Euganei, una popolazione ligure, o alpina [4]. Altro popolo alpino del Bresciano erano i Triumplini.

Reti erano pure i Vennoneti della Valtellina, e non a caso parte delle suddette incisioni sono state trovate anche nel settore orientale della provincia di Sondrio.

All’Età del bronzo appartiene pure la Cultura di Polada, che interessò soprattutto la Lombardia orientale, intrisa di elementi “mittel” di filiazione indoeuropea.

Finalmente, nella tarda Età del bronzo (XIII secolo a.e.v.), ecco la Cultura dei campi di urne, indoeuropea, proveniente dall’area centro-orientale dell’Europa, che in Lombardia trovò linfa vitale grazie a Canegrate e al proto-Golasecca, in Insubria. Nella Bassa lombarda, invece, si fece sentire l’influenza protovillanoviana, e poi villanoviana (etrusca), di culture collegate ai proto-Italici e ai proto-Latini, senza dimenticare le terramare, fra Regione Lombardia e Regione Emilia-Romagna.

La Cultura di Golasecca (prima Età del ferro, preceduta dalla fase protogolasecchiana del Bronzo finale) andava dal fiume Sesia al Serio ed era proto-celtica/celtica, emanazione di quella di Hallstatt; riunì elementi delle precedenti Culture di Polada (Liguri palafitticoli indoeuropeizzati), della Scamozzina (Liguri indoeuropeizzati) e di Canegrate (Celto-Liguri) nascendo attorno al XII secolo avanti era volgare, e vide come protagonisti gli Insubri pre-gallici, gli Orobi che fondarono Como, Lecco e Bergamo, e i Leponzi stanziati nel Ticino [5]. Costoro, fondendo caratteristiche mediterranee e preindoeuropee liguri con l’identità indoeuropea, virile, solare, guerriera, nordica, gettarono le basi della Lombardia preromana, irrobustite poi dai Galli storici, dai Gallo-Romani e da Goti e Longobardi, popoli germanici originari, si dice, della Svezia meridionale.

Fortificazioni, armi e oggetti in bronzo e in ferro (usati anche come corredo funebre), campi di urne [6], culti solari e celesti, monili ariani e solari, allevamento di cavalli, uso del carro da guerra, cittadelle, classici toponimi in -ate e tracce della varietà linguistica del celtico parlato allora nella Lombardia insubrica centro-occidentale (leponzio), erano alcune delle principali peculiarità della celtica civiltà di Golasecca, che svolgeva, oltretutto, un importante ruolo di mediazione culturale e commerciale fra i Celti continentali e il mondo mediterraneo, specie etrusco.

Le migrazioni ariane in Padania andarono dalla media Età del bronzo (metà del II millennio a.e.v.) al V-IV secolo a.e.v. (Età del ferro, iniziata nel I millennio avanti era volgare). E proprio in questo periodo irruppero i Galli storici.

Le invasioni storiche dei Galli continentali resero di fatto Gallia Cisalpina il territorio compreso tra la fascia alpina meridionale e l’Appennino settentrionale e tra le Alpi Occidentali e Orientali, soprattutto la cosiddetta Gallia Transpadana (rispetto a Roma [7]), che andava dal Piemonte al fiume Oglio e dallo spartiacque alpino al fiume Po.

Le ondate galliche portarono i Biturigi del mitico Belloveso alla fondazione di Milano [8], la nostra capitale, e occuparono lo spazio geografico che già fu dei golasecchiani; i Cenomani del, parimenti, leggendario Elitovio fondarono Brescia e occuparono il suo contado e quello di Cremona, Mantova, Trento (?) e Verona; i Boi si stanziarono in Emilia, ma anche nel Lodigiano, e liquidarono gli Etruschi (un impasto mediterraneo-villanoviano, preindoeuropeo-indoeuropeo, con una tarda fase culturale orientalizzante), che precedentemente erano arrivati a lambire la Bassa lombarda transpadana, sfruttandola più che altro per motivi commerciali (vedi il famoso emporio mantovano del Forcello).

I Galli trovarono una realtà transpadana occidentale già in parte celtizzata, instaurando un continuum etnico che sarebbe poi quello leponzio-gallico continentale che ha fatto da sostrato linguistico ai dialetti gallo-italici.

Prima che i Romani conquistassero gradualmente la Lombardia, annettendola all’organismo italico, i Galli cisalpini suddivisi in tribù celtizzarono il territorio – continuando l’opera dei proto-celtici predecessori – da un punto di vista culturale e razziale, trovandosi a loro agio tra alture, colline, pianure, in riva ai nostri laghi di origine glaciale e in mezzo alla sterminata foresta planiziale di farnie, carpini e frassini che ricopriva la Pianura Padana.

Il Celta, come si sa, amava immergersi nella continentale natura circostante, una caratteristica che comunque ritorna nella tipica religiosità indoeuropea, fondata com’è sul sangue della stirpe e il suolo della patria.

La toponomastica lombarda divenne fortemente gallica [9]; il carattere celtico della lingua indigena si rafforzò; sorsero sempre più abitati fortificati posti in collina (i famosi “duni”); inumazione e incinerazione dei cadaveri, a seconda della tribù gallica, caratterizzarono i riti funebri della popolazione; la costruzione di santuari e la dedicazione di boschi sacri costellò le contrade padano-alpine; la produzione di manufatti celtici, stavolta soprattutto in ferro (armi in particolar modo), accompagnò la Cisalpina sino alla piena romanizzazione. L’Età del ferro è l’epoca celtica per antonomasia, nella Grande Lombardia.

La schiatta gallica, composta – soprattutto a livello elitario – da nordidi del tipo Keltic, biondi, fulvi, castani, con occhi verdi o azzurri, con lunghi mustacchi e lunghi capelli, alti e robusti, bellicosi e pervasi dal furore, nordicizzò la Lombardia, contribuendo, assieme ai popoli germanici, al concreto apporto nordeuropeo che contraddistingue l’identità della terra fra Alpi e Po, con l’appendice cispadana.

In termini antropologici, però, la Lombardia si basa primariamente sull’elemento alpino e atlanto-mediterraneo, con un importante contributo dinarico che si irrobustisce procedendo verso est; il dato alpino viene erroneamente definito “celtico” perché assai diffuso nelle Gallie e nell’Europa centrale, dove la civiltà celtica/gallica si sviluppò grazie a Hallstatt e La Tène, per poi irradiarsi in buona parte dell’Europa.

L’identità della Lombardia, specie occidentale, è fortemente celtica, e affonda le radici nel periodo di Canegrate, mille anni prima della calata dei Galli di Cesare, fiorendo durante il golasecchiano ed esplodendo grazie all’apporto dei transalpini. Ma merita considerazione anche il sostrato ligure, anariano e ariano, e quello reto-etrusco su Alpi e pianura. Non abbiamo trattato del contesto venetico, essendoci concentrati sulla Lombardia etnica segnatamente insubrico-orobica, ma risulta evidente, a partire dal dato archeologico, che la presenza celtica abbia interessato eziandio l’area della Grande Lombardia orientale.

Note

[1] La Padania nasce dalla collisione fra la parte settentrionale della massa africana distaccatasi, la zolla adriatica, e la massa eurasiatica. Dire, dunque, che il nostro territorio è figlio tout court della placca africana è una sciocchezza pressapochistica.

[2] Nel genoma siciliano è stato tuttavia individuato un lascito nordafricano medievale.

[3] Questa è la lettura tradizionale, alla Gimbutas, della cosiddetta Old Europe. Oggi la posizione degli archeologi è decisamente più sfumata.

[4] Termini come ‘ligure’, ‘alpino’, o anche ‘mediterraneo’, nel contesto archeologico tradizionale, indicano il sostrato indigeno, anariano, delle nostre terre.

[5] Altri popoli antichi associati al golasecchiano, secondo l’archeologo Raffaele De Marinis – ai cui scritti rimando -, sono Levi, Marici, Libui o Lebeci, Vertamocori, Agones.

[6] Urnfield, nel mondo anglosassone, indica il peculiare rito funerario del mondo indoeuropeo, l’incinerazione, che si ricollega a precisi schemi e modelli della spiritualità ariana, come il culto del fuoco, della purificazione e degli antenati, e la liberazione dell’anima dalla “prigione” del corpo.

[7] Se adottassimo il criterio “milanese” la Cispadana sarebbe la Transpadana romana, e viceversa.

[8] In realtà, è più probabile che la fondazione di Mediolanum sia avvenuta in epoca golasecchiana; la vicenda dei Galli Insubri va così a sovrapporsi a quella degli Insubri golasecchiani, stando ad un’omonimia non certo singolare, vista la comune appartenenza etnica al mondo celtico.

[9] Tipici suffissi gallici come -aco, -ago, -uno, -uco, -ugo accompagnarono la penetrazione dei conquistatori, prosperando anche in epoca gallo-romana e medievale.

I lombardi e la Lombardia

El Bisson

I lombardi, segnatamente padani, sono un popolo, dunque un’etnia; non sono una razza o una subrazza, chiaramente, bensì un insieme di genti che costituiscono la nazione cisalpina, la Grande Lombardia.

I lombardi, scendendo più nello specifico, appartengono alla razza caucasoide europea, agli europidi, e sono la risultante della fusione di elementi di base (atlanto)mediterraneide e alpinide con altri di estrazione dinaride e, meno, nordide (periferica). L’elemento dinaride/adriatide, si fa preponderante nel contesto del Triveneto.

La Lombardia storica è molto vasta come territorio, va dalle Alpi Occidentali a quelle Orientali, e dall’arco alpino all’Appennino, e quindi i granlombardi non sono del tutto omogenei, anche se gli elementi fisici e genetici basilari restano appunto il sostrato neolitico ligure e reto-etrusco (mediterraneo occidentale) e quello più continentale (alpino), influenzato dagli apporti indoeuropei.

Il nerbo lombardo è ovviamente situato nella Lombardia padana, nell’area che gravita attorno a Milano, la nostra capitale, e se vogliamo trova nell’Insubria il suo fulcro rustico, per quanto oggi offuscato dalla globalizzazione e dall’invasione alloctona.

La zona insubrica fu proto-celtica (Canegrate e Golasecca), gallica (Insubri), naturalmente gallo-romana, germanica (Longobardi della Neustria e Franchi), modellata dal Medioevo feudale, comunale e signorile; è un po’ il cuore della Lombardia etnica, grazie alla sua centralità, non solo geografica ma anche culturale e linguistica.

Il cuore della Lombardia è piuttosto alpinide, e il tipo alpino è certo quello prevalente. Solitamente, sebbene erroneamente, viene associato ai Celti, in quanto il grosso del popolo transalpino che questi portavano seco, essendo centro-europeo, apparteneva al fenotipo in oggetto. Un po’ come i Venetici, associati all’estrazione dinaride, in virtù della loro provenienza centro-orientale, danubiana.

Comunque sia, tradizionalmente, i caratteri fisici legati alla celticità sono quelli nordidi dinaromorfi, vedasi il noto Keltic Nordid dell’Età del ferro.

Procedendo verso nordest si possono notare influssi retici (nord-etruschi) in Valtellina, nelle Orobie, nelle Prealpi bergamasche e bresciane, quindi dinarico-mediterranidi, e lo stesso si può riscontrare a sudest, in area padana, dove gli Etruschi, se non proprio a colonizzare, giunsero ad influenzare zone come Cremonese, Bassa bresciana, Mantovano. Se parliamo di Reti, tuttavia, va soprattutto citato il Triveneto settentrionale, e se parliamo di Etruschi la Lombardia cispadana; nel primo caso vanno messi in conto discreti influssi di tipo nordoide, e naturalmente l’elemento alpinide.

L’aplogruppo R1b-U152, clade Z36, ritenuto peculiare delle invasioni galliche, trova i suoi massimi fra Bergamasco e Bresciano, in zone molto conservative e caratterizzate da una cospicua eredità del Ferro. Quel lignaggio paterno, essendo presente parimenti in area elvetica, è molto probabilmente connesso alla Cultura di La Tène.

Gli influssi liguri, al di là della Liguria, sono forti nel basso Piemonte, Pavese, Novarese, Milanese e Alto Milanese, Lodigiano e si esprimono in elementi mediterranidi e “progressivi” (atlanto-mediterranidi). Anche l’Emilia occidentale risente particolarmente del sostrato ligure. La toponomastica però suggerisce l’esistenza di un substrato di questa tipologia eziandio nel settore genericamente centro-occidentale (Piemonte e Insubria), mediante il classico suffisso -asco/a.

Il modesto apporto nordide deriva certamente da Celti e affini [1] e, soprattutto, dai popoli germanici, quali Goti e Longobardi. Nel caso orientale va registrato l’ingresso di componenti teutoniche recenti e slave. Coi Franchi, nel Medioevo, si verificarono pure immigrazioni di altri elementi nordici come Alemanni, Svevi, Bavari. D’altra parte, lungo l’arco alpino, va ricordata la presenza storica di diverse minoranze di origine transalpina.

Fra i gruppi minoritari storici, allogeni, vanno menzionati i giudei, concentrati a Milano ma un tempo presenti anche nell’ovest e nella Bassa, e gli zingari, in particolare sinti, noti giostrai della Val Padana.

Potremmo dire che l’odierno lombardo etnico, mediamente, è medio-alto, robusto, brachicefalo/mesocefalo, di carnagione chiara, capello castano, occhio intermedio; appartiene, primariamente, al lignaggio dell’aplogruppo del cromosoma Y R1b, indoeuropeo occidentale, e a quello dell’ADN mitocondriale H1 (euro-indigeno, mesolitico), al gruppo sanguigno “universale” 0+ ma pure sensibilmente al gruppo euro-continentale A+, e digerisce certo il lattosio più di molti altri “italiani” (segnatamente meridionali), per via della propria storia. Come si sa, più si va a nord e più il lattosio è tollerato (in “Italia” si digerisce relativamente poco, per via della robusta eredità neolitica e agricola, che nel settore meridionale scolora nel levantinismo recente).

Discreta è la diffusione dell’occhio nordico verde-grigio-azzurro, modesta quella del biondismo puro, che nel nord granlombardo raggiunge il 20%.

Geneticamente parlando, a livello di ADN autosomico, siamo certamente celtici e germanici, ma il grosso è neolitico talché ci collochiamo tra toscani e iberici/francesi meridionali, globalmente. Può sembrare sorprendente, ma la Val Padana, che è la realtà più popolosa della Grande Lombardia, è molto mediterranea occidentale e ha un contributo romano-imperiale, dunque orientale, più importante di quello dell’Iberia, anche se poi questa è certo meno nordica, in senso slavo-germanico. Siamo dunque europei meridionali, o meglio centromeridionali, nonostante il netto influsso antropologico e genetico del Centro Europa, che si fa cospicuo lungo le Alpi.

Quello che, sempre geneticamente, distingue chiaramente la Padania da Toscana/centro, ma soprattutto dal sud, è un maggior aspetto continentale (indoeuropeo e nordico) e un minor contributo levantino, antico e soprattutto recente. Sardegna naturalmente isolata. Non esiste un vero e proprio cline, tra gli “italiani”, anzi, lo stacco che esiste fra Padania e Italia etnica meridionale è una vera e propria frattura. La Toscana è una realtà intermedia, per diversi aspetti più affine, biologicamente, alla Grande Lombardia che all’Italia.

In epoca protostorica la Lombardia è stata dunque modellata, a ovest, dalle culture proto-celtiche di Canegrate e Golasecca (emanazione di quella di Hallstatt), a est da quella di Polada, Fritzens-Sanzeno, Este, senza contare i castellieri nordorientali; a sud da terramare, protovillanoviano, villanoviano, con la Liguria arianizzata dai neo-Liguri [2] e dagli influssi celtici. Questo per citare le civiltà precipue. Nella seconda fase del Ferro, va citata la gallica Cultura di La Tène, e a seguire la romanizzazione, militare a sud del Po, pacifica al di là.

Popoli protostorici degni di nota furono i Liguri, più o meno indoeuropeizzati (fra cui Lebeci, Levi, Marici, Euganei [3] e le varie tribù della Liguria e dell’Emilia occidentale), i Reti (Vennoneti, Camuni, Triumplini, Anauni ecc.), i Celto-Liguri veri e propri (Salassi, Insubri golasecchiani, Leponzi, Orobi, Anamari), i Galli (Insubri, Cenomani, Boi, Lingoni, Senoni, Carni), gli Etruschi della Cispadana. Determinante fu l’apporto romano, soprattutto nelle colonie create grazie alla conquista della Gallia Cisalpina, e poi meritano menzione Goti, Longobardi e in misura minore Franchi e altri Germani. I lombardi sono nati dalla fusione di questi elementi etnici, portata a compimento nell’Alto Medioevo, e in particolar modo dall’incontro fra il substrato mediterraneo e alpino, l’arianizzazione del Ferro [4], la romanizzazione, e il superstrato germanico, per quanto marginale.

I lombardi abitano un territorio mite, temperato, subcontinentale; centromeridionale dal punto di vista geografico, legato alle Alpi e alla Valle del Po, all’Appennino settentrionale, per nulla peninsulare; la vegetazione forestale in area montana è composta da rovere e roverella, mentre in pianura è (o era) tipicamente continentale grazie a frassino, carpino e farnia; la fauna è a metà strada fra quella mediterranea e l’area mitteleuropea; la cucina ha influssi centro-europei [5] perché a base di carne bovina e suina o di cacciagione e selvaggina, latticini, cereali o verdura e frutti classici dell’area europea centrale come verze, patate, cicorie, orzo, segale, frumento, mele, frutta secca, che portano alla creazione di piatti poveri e rustici ma sostanziosi (cazzoeula, busecca, cotoletta, polpette, polente varie e non solo di granturco, pasta all’uovo ripiena, lardo e burro come condimenti, stufati, bolliti, affettati, dolci grassi di ogni tipo ecc.); si beve più vino che birra, naturalmente. Il vino locale non ha nulla da invidiare a quello francese.

Risentiamo molto della romanizzazione, vuoi per la lingua, per la vite, per i castagni o per l’olio dei laghi; vuoi per il cattolicesimo sempre abbastanza fedele a Roma (purtroppo). Siamo chiaramente una terra che ha una discreta componente mediterranea, prevalente lungo le coste liguri, romagnole, istriane. Roma ci ha anche lasciato in eredità, a noi come a mezza Europa, dei geni del Mediterraneo orientale recenti, di epoca imperiale, seppur nulla di paragonabile a quanto accaduto nel centrosud.

A livello di indole e di inclinazione culturale, potremmo dire che i lombardi sono intrisi di mentalità alpina e contadina (padana): grandi lavoratori, testardi, coriacei, sobri, terragni, intraprendenti; aspetti che comportano benefici (lavoro, parsimonia, ordine, disciplina, virtù, efficienza, sviluppo, benessere) ma anche difetti (taccagneria, ottusità, bigottismo, campanilismo, chiusura mentale e grettezza, ignoranza, piccineria, arroganza). Per non parlare della sfumatura cosmopolita di aree come Milano, Torino, Genova, Bologna, dove materialismo e consumismo dominano, spesso in condominio col progressismo, facendosi acerrimi nemici dell’impegno identitario, e dei nostri giovani e giovanissimi traviati.

Ce la prendiamo, a volte, coi sud-italiani e gli altri immigrati, pedine dell’orripilante giuoco mondialista, ma dobbiamo pure riconoscere che la colpa dell’attuale condizione di colonia romana, italiana e multirazziale è anche nostra: una società viene invasa e conquistata dall’esterno anzitutto perché corrotta al suo interno. I granlombardi, soprattutto occidentali, hanno abdicato al ruolo di legittimi padroni della Grande Lombardia, e ora ne pagano le conseguenze. Questo succede, sacrificando l’identitarismo al dio denaro. Poi è chiaro, la condanna nei confronti dell’italianizzazione e della susseguente immigrazione allogena deve essere senza se e senza ma, perché ordita dal sistema, nonostante la complicità dei pescecani locali.

La cosa migliore per i lombardi è riscoprire le proprie origini, ridestare l’identità sopita, ché nulla è davvero perduto, e abbracciare il lombardesimo. Etnonazionalismo e indipendentismo lombardi, perché la nostra patria deve lottare unita per la propria salvazione e la propria libertà. Basta Roma, basta Italia, basta sistema-mondo. Il futuro può essere roseo soltanto se proiettato nella dimensione genuinamente völkisch dell’azione culturale, metapolitica e politica della Grande Lombardia restituita a sé stessa, e affrancata dal giogo cosmopolitico.

Note

[1] Liguri e popoli alpini arianizzati, Veneti, Etruschi di influsso indoeuropeo.

[2] Un termine tratto da Michel Lejeune.

[3] Per taluno popolazione alpina.

[4] Molti non lo sanno, o fingono di non saperlo, ma il celtismo padano-alpino risale al Bronzo, mille anni prima circa dei Galli, grazie alla Cultura di Canegrate, e ai primordi della Scamozzina.

[5] I Longobardi modificarono sensibilmente la dieta cisalpina, romanizzata, che comunque aveva radici celtiche.

La Lombardia subalpina (Piemonte)

Drapò del Piemonte

Da lombardista considero come Lombardia occidentale Piemonte e Valle d’Aosta, mentre la Lombardia occidentale moderna sarebbe la cosiddetta Insubria.

‘Piemonte’ è soltanto un coronimo, un nome geografico, non un etnonimo, e il territorio che esso designa, dal Medioevo sino al Risorgimento – cosiddetto -, è stato ritenuto parte della Lombardia storica, assieme alla regione lombarda attuale, Liguria, Emilia, Svizzera “italiana”, con il resto della Padania [1].

Uno dice: pure la Valle d’Aosta? Perché annetterla al Piemonte? Perché rientra nel bacino idrografico del Po, è cisalpina e non è altro che una valle con una cittadina, Aosta; è oltretutto decisamente piemontesizzata, in particolare nel settore meridionale. Se poi ci fate caso, vi sono franco-provenzali, diluiti, sia nell’area aostana che nella provincia torinese, e cioè nelle vallate occidentali, tra cui Susa.

Ridare questo cantone alpino, secolarmente legato alla Subalpina, al dominio francese, che già detiene territori granlombardi come Nizzardo, Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio? Assolutamente no. Aosta rimane con noi, unita al Piemonte perché folle tenerla sotto forma di ente regionale, per di più autonomo, e ce la si può accattivare col blando federalismo cantonale [2]. Sono altresì conscio della forzata “meridionalizzazione” di quella valletta, e infatti penso che il territorio andrebbe fatto respirare, per così dire, a vantaggio degli indigeni, favorendo il rientro delle famiglie ausoniche finite lassù.

La suddivisione amministrativa lombardista della Subalpina sarebbe la seguente:

  • Torino (Taurasia), con Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Cuneo (Bagiennia), con Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Alessandria (Ambronia), con Asti e Acqui [3].

Ricordiamo che il lombardesimo non crede nelle regioni storiche, e infatti propone un modello cantonale. Si parla di Insubria, Orobia, Emilia e Piemonte come mere entità a fini statistici e demografici, senza alcun riconoscimento; per tale ragione abbiamo trattato di Vercelli, Biella e Valsesia a proposito dell’Insubria, perché fra l’altro aree di transizione. Ad ogni buon conto, al Piemonte spettano, come rammentato, anche Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio, lembi di territorio padano, dal dopoguerra sotto la Repubblica Francese, destinati al distretto di Susa.

Classico simbolo subalpino è il Drapò sabaudo, che riprende la Croce di San Giovanni Battista con un tocco di blu Savoia, da abbandonare in favore della bandiera crociata dell’Assedio per Torino, dell’insegna storica del Marchesato di Saluzzo per Cuneo e di quella del Marchesato del Monferrato per Alessandria.

Le minoranze ivi presenti sono la franco-provenzale a nordovest e la walser a nordest; ci sarebbe anche quella occitana nel settore sudoccidentale, ma spesso si tratta di piemontesi che parlano provenzale. L’occitanismo cisalpino è un pretesto per fare gazzarre di sinistra anti-identitarie, condite dal solito cosmopolitismo antifascista. Nell’area meridionale estrema le genti di Taurasia [4] e liguri si sovrappongono, ma l’idioma subalpino viene parlato anche in brandelli di Regione Liguria, che sono parte del territorio geografico padano.

In Piemonte vi sono anche delle residue comunità ebraiche, e così in Emilia, bassa Regione Lombardia e Milano. Eccetto Torino e Milano si tratta ormai di poche unità, spesso mescolate e secolarizzate. Siamo dell’idea, tuttavia, che vadano restituite alla Palestina, come gli zingari all’India.

Nella vera Lombardia occidentale si parla piemontese, che comprende torinese e cuneese (ad ovest), astigiano, langarolo, roerino, monferrino, alessandrino (a sud); vi sono inoltre le loquele influenzate dal lombardo [5] dei linguisti come vercellese, biellese, valsesiano, novarese orientale, lomellino occidentale (ad est), ed infine citiamo il canavesano parlato ad Ivrea e suo territorio (a nord). In Valle d’Aosta c’è il patois valdostano, che è franco-provenzale, e si usa anche il francese (oltre al toscano).

Decenni fa in Piemonte c’era una minoranza che in breve non lo è più stata, vale a dire quella sud-italiana; Torino è diventata la terza città meridionale della Repubblica Italiana, grazie (si fa per dire) all’affarismo e alle politiche economiche targate Valletta-Agnelli che hanno letteralmente farcito di migranti, specie calabresi, la città sabauda. La Subalpina ospita, assieme a Liguria, Insubria-Orobia ed Emilia, ormai milioni di individui di origine ausonica, che hanno comportato con il loro esodo un ovvio sconvolgimento del tessuto etno-sociale originale, pagato, come sempre, dalla povera gente. La colpa a monte non è tanto degli immigrati “meridionali” quanto dei soliti affaristi indigeni che, ieri, sfruttavano i sud-italiani e oggi i moderni migranti. Agli esodi si sono aggregate le mafie che hanno fatto affari d’oro nel triangolo industriale (con la complicità della corruzione di taluni autoctoni, va detto).

Ai simpaticamente detti “terroni”, passatemi il termine scherzoso, si aggiunsero, in misura minore, veneti (soprattutto lagunari), friulani, emiliani orientali, romagnoli, esuli istro-dalmati sfrattati dai criminali titini e ovviamente gli immigrati più recenti provenienti da tutto il globo, che sovente rappresentano un grave problema in termini di delinquenza e degrado. Essere identitari, e indigeni, in Piemonte è ormai una medaglia al valore.

L’autoctono è di stampo celto-ligure, gallo-romano e longobardo. Forte in Piemonte il tipo alpinide, che implica una statura mediamente più bassa, rispetto ai vicini (vedasi le carte antropometriche di Ridolfo Livi), ma più diffuso è anche il tipo ligure, l’atlanto-mediterranide. La parte meridionale della regione subalpina risente molto del sostrato ligure antico e alcune zone che costeggiano il confine meridionale sono un embricarsi di piemontesi e genovesi, in senso storico (pensiamo all’Oltregiogo).

Per converso, il biondismo in area prealpina e alpina, e in zone come il Canavese, è sensibilmente più radicato, rispetto alla Regione Lombardia, grazie ad infiltrazioni nordiche storiche, anche se comunque di statuto periferico.

Le qualità terragne piemontesi sono però in pericolo di vita – se non direttamente trapassate – perché sempre più patrimonio di pochi, annacquate dallo sciagurato Risorgimento e triturate da un mondo industriale, come quello Fiat, orientato decisamente verso gli States più che verso l’Europa.

Il periodo italianista (2014-2021) non ha indebolito la mia convinzione riguardo la questione “meridionale” nella Cisalpina – perché decisamente orientato all’etnofederalismo – ed è poi riemersa con prepotenza nel contesto del ritorno alle origini plumbee: penso che, al pari degli altri immigrati, coloro che qui emigrarono nel dopoguerra dovrebbero rientrare nella terra dei padri, anche perché la Padania occidentale sta nettamente naufragando nel cemento, nell’inquinamento e nella sovrappopolazione. Se si vuole sopravvivere, cari miei, bisogna rivedere un bel po’ di cose.

Va da sé che sarebbe molto più assennato promuovere il rimpatrio degli ausonici piuttosto che continuare ad incentivarne la migrazione, affinché, peraltro, riprendano possesso dei territori sud-italiani abbandonati, oggi trasformati in colonie di alloctoni extraeuropei. Il sud della Repubblica Italiana può rialzarsi soltanto camminando con le proprie gambe, e anche per tale motivo l’indipendenza della Grande Lombardia potrebbe essere una ghiotta occasione di rilancio per l’Ausonia tutta.

Si è voluto creare uno stato tricolore, già di per sé scellerato, sfruttando la condizione depressa delle terre e delle genti sud-italiane col risultato di spalmare in lungo e in largo clientelismo, assistenzialismo, nepotismo, familismo, abusivismo e mafie, e tutto quel bizantinismo tipico di Roma e dintorni. Avrebbe avuto molto più senso settentrionalizzare il centrosud, piuttosto che il contrario. Ma questo non ci importa. Ci sta a cuore, molto più realisticamente, l’autodeterminazione della Lombardia, che deve andare di pari passo con quella dell’Italia etnica, affinché la repubblica venga rottamata e ogni popolo a meridione delle Alpi abbia il proprio etnostato.

Note

[1] In epoca post-carolingia era Lombardia soprattutto la porzione occidentale della Cisalpina.

[2] Fermo restando che l’area andrebbe comunque lombardizzata, per rinsaldare i legami cisalpini e rafforzare la coscienza granlombarda. I franco-provenzali, gli arpitani, sono il frutto di migrazioni medievali, come ogni altra minoranza storica del nostro territorio.

[3] Senza Tortona, destinata al Canton Piacenza, assieme a Voghera.

[4] Impieghiamo il termine ‘Taurasia’ come etnico del Canton Torino, ma può essere sinonimo di ‘Piemonte’. Deriva, ovviamente, dai celto-liguri Taurini, il cui etnonimo riecheggia, secondo alcuni, il celtico tarvos ‘toro’.

[5] Per noi il lombardo coincide col gallo-italico.

La Lombardia cispadana (Emilia)

Torino, Statua al fiume Po

La Lombardia meridionale tradizionale, che comprende parte della Val Padana, riguarda i territori di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. Nella visione lombardista che ho teorizzato, i due Oltrepò, pavese e mantovano, sarebbero da assegnare all’Emilia, per motivi linguistici e geografici.

E, infatti, la vera Lombardia meridionale comprende i territori cispadani sino al Panaro, inclusi gli Oltrepò e il Tortonese. Per ragioni di influssi culturali le aree di Tortona, Voghera, Piacenza e Suzzara sono le prime ad essere associate alla Transpadana; nel caso del Piacentino si tratta soprattutto della parte centrosettentrionale della provincia, perché quella restante è di influenza ligure. Tuttavia, venendo a parlare di suddivisione cantonale della Lombardia etnica, in questo caso della sezione cispadana, anche le zone tendenti alla Liguria rientrano nel dominio etnico.

La Lombardia meridionale tradizionale, in senso allargato, comprende dunque Tortona, Voghera, l’Oltrepò pavese, Piacenza (fino all’angolo nordoccidentale della provincia di Parma, zone come Busseto, Fidenza e Salsomaggiore), Pavia (con la Lomellina, Vigevano, tendenti al Piemonte), Lodi, Cremona, Casalmaggiore, Mantova e l’Oltrepò mantovano. La Lombardia meridionale lombardista, invece, racchiude tutti i territori a sud del Po, sino almeno al confine orientale costituito dal corso del fiume Panaro.

Grande protagonista delle vicende meridionali è il Padus che dà il nome alla Pianura Padana e che costituisce una frontiera naturale, sebbene non troppo severa viste le reciproche influenze, fra Transpadana e Cispadana. Il vero confine meridionale della Grande Lombardia corre lungo lo spartiacque appenninico, che poi coincide con l’isoglossa Massa-Senigallia.

Il termine ‘Padania’, che non è un etnonimo e si presta a mille inflazioni e banalizzazioni politiche, può essere un utile coronimo da impiegare per definire fondamentalmente l’Emilia, che è il fulcro della Val Padana, della pianura dell’Eridano, per dirla in chiave mitologica. Come sappiamo, l’Emilia deve il suo nome latino alla via che collega Piacenza a Rimini, costruita da Marco Emilio Lepido, console romano. ‘Padania’ può comunque essere un sinonimo geografico di Cisalpina.

La Lombardia medievale inglobava tutta la Padania, specie quella occidentale, dunque Insubria, Orobia, Piemonte, Liguria ed Emilia (basti pensare alla città di Reggio, che prima della sciagurata unificazione tricolore si chiamava Reggio di Lombardia), e il lombardesimo ricalca pertanto l’etnogenesi medievale del popolo lombardo, a partire dal contesto etnico, cioè del bacino padano. Oggi, conservare le specificità regionali classiche appare poco utile, poiché fiacca il nazionalismo lombardo; per tale motivo puntiamo sui cantoni, dunque sui contadi storici, anche perché sovente i toponimi delle regioni sono privi di significato etnoculturale (vedasi ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’).

Ci sarebbe poi la Romagna, storicamente distinta dall’Emilia ma non certo remota da essa, soprattutto pensando a Bologna e Ferrara (che il lombardesimo è propenso ad associare alla prima). Linguisticamente si può dire che vi sia un continuum tra Emilia orientale e Romagna, ma la tendenza si può registrare a partire dall’area orientale del Parmense, dove non per caso principia l’assenza delle vocali turbate. C’è pure da aggiungere che diversi linguisti parlano di dialetti emiliano-romagnoli.

A livello miseramente amministrativo, allo stato dell’arte, la Lombardia meridionale comprende le province di Pavia (contigua a quella di Lodi, città fortemente legata alla capitale longobarda, alleata fedele del Barbarossa e in lotta con Milano), Cremona (a cui va tolto il Cremasco ma non l’area di Soresina) e Mantova (a cui andrebbe Casalmaggiore, oggi sotto Cremona e senza Suzzara e l’Oltrepò).

In termini lombardisti, invece, la suddivisione amministrativa ideale della Cispadana ragionata, in cantoni e distretti, sarebbe la seguente:

  • Parma (Marizia Orientale), con Fidenza e Fiorenzuola;
  • Modena (Boica occidentale), con Reggio e Carpi;
  • Piacenza (Marizia Occidentale), con Voghera e Tortona.

La sciocca distinzione tra (Regione) Lombardia ed Emilia banalizza la vera accezione etnica di Lombardia, che riguarda anche il territorio piemontese. Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, tradizionalmente meridionali – ma non cispadane -, appartengono a domini distinti: Pavia e Lodi al contesto insubrico, Cremona e Mantova a quello orobico, anche se zone di transizione (eccetto il Lodigiano).

Insegne cantonali di queste province sono la croce parmense blu su sfondo giallo, il bipartito giallo-blu modenese e il bipartito rosso-bianco piacentino. Menzioniamo, comunque, anche la Croce di San Giovanni Battista pavese, lo scudo crociato giallo-rosso lodigiano e la Croce di San Giorgio (con aquile imperiali nere) mantovana.

La Bassa della Regione Lombardia è area ibrida, per così dire, e vi sono influenze reciproche con l’Emilia. Il Po non è un’opinione, e viene adottato anche da noi lombardisti come confine fra Transpadana e Cispadana, ma ribadiamo che entrambe, almeno fino al Panaro nel caso meridionale, sono Lombardia etnica.

I dialetti della famiglia linguistica lombarda, cioè gallo-italica, parlati in queste terre sono quelli classicamente considerati emiliani: tortonese, oltrepadano, piacentino, parmigiano, reggiano, modenese a cui va senz’altro aggiunto il mantovano, specie dell’area oltrepadana. Il pavese è ibrido insubrico-emiliano e il cremonese orobico-emiliano , mentre il lodigiano è piuttosto cisabduano [1]. L’area casalasco-viadanese è mantovana, ricordiamo.

Gli influssi milanesi sul Pavese sono assai forti e lo orientano più verso Milano che verso l’Emilia, e infatti il territorio di Pavia (senza Lomellina e Oltrepò) rientra nel Canton Milano (Bassa Insubria). E, allo stesso modo, anche il Lodigiano è milanese, mentre Cremonese e Mantovano (senza Oltrepò) si associano nel Canton Cremona (Bassa Cenomania).

Tortonese, oltrepadano e piacentino, invece, hanno influssi transpadani che si notano bene, ad esempio, nella presenza delle vocali turbate di origine celto-germanica œu e u e di altri fenomeni, anche a livello di lessico e di costrutti fraseologici. Ma rimangono parlate cispadane, “emiliane”.

In fondo, queste aree, come il resto di Lombardia odierna ed Emilia, hanno conosciuto le medesime popolazioni: Liguri, Celto-Liguri, Galli, Romani, Longobardi (giunti tardi nel Bolognese e nel Ferrarese).

Quel che separa Transpadana e Cispadana, oltre alla geografia, è l’antica impronta etnoculturale emiliana, di tendenza italica, villanoviana e dai più forti influssi etruschi (vedasi l’Etruria padana), che oltre il Po giungevano sino a Mantova (ivi si trovava l’emporio del Forcello) [2]. Ricordiamo, ad ogni modo, gli Anamari, o Anari, tra Piacenza e Parma, popolazione forse celto-ligure.

Nella Regione Lombardia meridionale trovarono spazio Liguri (tra cui Levi e Marici ad occidente, ma anche a sudovest del Fiume), Celto-Liguri, Galli (Insubri, Boi, Cenomani) ed alcuni generici influssi proto-italici, villanoviani e quindi etruschi, soprattutto a Cremona e Mantova.

Forte la romanizzazione delle terre meridionali, come dimostrano centuriazioni e rete viaria, e le svariate colonie dedotte (tra cui Cremona, Pavia, Lodi, Piacenza, Fidenza ad ovest). La colonizzazione romana fu fitta e portò, sicuramente, ad un drastico ridimensionamento dell’elemento gallico, anche se la romanofilia esagera palesemente nel cianciare di massacri ai danni dei nativi. Peraltro, un bel termine per definire la Lombardia etnica meridionale potrebbe essere ‘Boica’ [3].

Gli Etruschi, spesso inquadrati come invasori levantini, erano il risultato della sedimentazione locale di più popoli: autoctoni mediterranei [4], “Italici” indoeuropei (protovillanoviani e villanoviani) e, forse, una tarda classe dominante di egeo-anatolici [5]. Stando ai più moderni studi genetici, pare tuttavia che gli Etruschi fossero geneticamente indistinguibili dai Latini, senza apporti levantini sospetti. Fu la romanizzazione a recare geni recenti originari del Mediterraneo orientale nelle aree tirreniche, andando ad intaccare il genoma indigeno.

I Liguri, invece, erano prevalentemente autoctoni mediterranei, sebbene fortemente indoeuropeizzati (celtizzati, in particolar modo). In antropologia fisica, il cosiddetto tipo ligure è l’atlanto-mediterranide, ossia un fenotipo mediterraneo fortemente dolicocefalo, alto, robusto e più chiaro di quello basico, progressivo per usare un termine caro a certi ambienti antropogenetici amatoriali.

I Longobardi fecero la loro parte, fino a Spilamberto segnatamente, e colonizzarono sensibilmente l’area appenninica tosco-padana (si può rintracciare un curioso picco di biondismo nella Lunigiana settentrionale).

La Lombardia meridionale presenta un aspetto sub-razziale atlanto-mediterranide, alpinide o padanide, ossia, come abbiamo già visto, risultante dall’incrocio tra tipo ligure e quello adriatico (dinaride). Un’area certamente più mediterranea della Lombardia transpadana. Anche gli Etruschi tardi, i coloni romani e i Bizantini hanno contribuito, e lo si vede nella componente genetica anatolico-caucasica che si fa più marcata varcando il Po a sudest (specie se si parla della zona ferrarese). Si tratta comunque di componenti secondarie, non di ceppo predominante. Geneticamente parlando, la Padania si colloca globalmente nell’Europa sudoccidentale [6], assieme a Iberia e Occitania, a differenza dell’Italia etnica che ha un maggiore input sudorientale, in particolar modo nel meridione.

La Lombardia amministrativa di mezzogiorno, per così dire, fa degnamente parte della Lombardia transpadana, anche per via dei determinanti influssi signorili milanesi. Zone come Pavia, Lodi e Cremona hanno sempre orbitato attorno alla capitale lombarda, e questo si fa sentire parimenti a livello linguistico ed etnico.

Del resto, pure una città come Piacenza è decisamente più legata a Milano che a Bologna, e le influenze ambrosiane arrivano sino ad Alessandria e Vercelli, in Piemonte, i cui stemmi sono copia di quello milanese, marca della Lega Lombarda come tutti gli altri scudi crociati, col Sangiorgio, della Cisalpina. Ma eguale importanza ricopre il negativo di tale vessillo, che è la croce ghibellina di San Giovanni Battista, forte in Piemonte, Insubria, Ticino, e presente qua e là in tutta la Padania.

Una mentalità “lombarda” imprenditoriale, industriale, liberale (ma non lo dico certo con vanto, anzi) contraddistingue l’Emilia nordoccidentale nei confronti del resto della regione e la accosta proprio alla Regione Lombardia meridionale, tanto che per certi versi, come abbiamo visto, può esserne una sua propaggine.

Il mondo emiliano stereotipato è fatto di tortellini, salumi, formaggi, motori, vino, cantautori, spirito dissacrante, comunismo e sindacalismo, e capite bene che una città come Piacenza tenda a sottrarsi da questo contesto, virando sul mondo transpadano.

Ma da un punto di vista linguistico, e nonostante i ben noti influssi, il piacentino è certamente più emiliano che cisabduano, al pari di tortonese e oltrepadano, e così a livello geografico essendo cispadano. Per questo manteniamo, come confine amministrativo cantonale, il grande fiume delle pianure.

Possiamo dire che esista una Lombardia al di qua del Po e una al di là, adottando il punto di vista milanese [7], ma sono entrambe parte del medesimo contesto etnico, e della medesima nazione, la Grande Lombardia.

Note

[1] Alcuni dialettologi affermano l’esistenza di un lombardo della bassa Regione Lombardia, da Pavia a Mantova, ma è soltanto una suddivisione di comodo.

[2] A sud del Po, civiltà quali le terramare (che avevano comunque propaggini transpadane), il protovillanoviano e il villanoviano si inscrivono, tradizionalmente, nel contesto italico ed etrusco, dove per ‘italico’ si intende comunque una fase protostorica ed embrionale, non storica.

[3] I Galli Boi devono il loro etnico o ad una derivazione “bovina” oppure ad una guerriera; nel secondo caso, vedi l’ipotesi formulata da Pokorny. In rete si parla del celtico bogos ‘distruggere’, ma non ho trovato validi riferimenti al riguardo.

[4] Imparentati coi Reti e locutori dell’etrusco, fossile linguistico preindoeuropeo.

[5] Vedasi anche la fase finale orientalizzante della civiltà etrusca.

[6] Si consideri, comunque sia, che più si procede verso nord e verso est, nel contesto padano-alpino, e più aumenta la tendenza centro-europea.

[7] I concetti correnti di Transpadana e Cispadana sono, in realtà, il frutto della visione romana.