Lombardia futura

Dal satellite

Quale futuro per la nostra amata nazione?

Oggi la Lombardia tramutata in regione artificiale dello stato italiano, e priva dei suoi restanti territori etnici e storici, versa in condizioni critiche per colpa del sistema-Italia e del sistema-mondo che l’hanno ridotta ad una babele, barbaricamente sovrappopolata, inquinata e cementificata.

Avanti di questo passo non ci può che essere l’ecatombe di quel che rimane del nostro povero popolo, soprattutto nelle zone peggiori che ruotano attorno alle grandi città come Milano, Brescia, Monza e Bergamo.

Del tutto inutili partiti e movimenti d’opinione di matrice vetero-leghista o autonomista, perché la loro attenzione cade esclusivamente su questioni economiche e sociali che alla lunga risultano banali, piccole piccole, irritanti, come se il problema globalista si riducesse a faccende pecuniarie e di benessere materiale; non serve a nulla quel soggetto politico che se ne frega del sangue e del suolo, dello spirito della nostra patria, appiattendo tutto sul piano del capitale. E poi, ovviamente, l’autonomismo è soltanto una farsa propagandistica e finanziaria: la vera Lombardia ha bisogno di indipendentismo.

Diversamente, l’accento va posto proprio sul problema etnico, ambientale e culturale della Lombardia, che ogni giorno che passa viene lentamente divorata dagli agenti internazionalisti del cosmopolitismo genocida, dell’egualitarismo, del terzomondismo, del pietismo, del capitalismo sfrenato, del progressismo, del liberalismo dei neo-con e degli schiavi dell’eresia giudaica vaticana.

Calci nel sedere a chi ci consegna nelle grinfie del mondialismo, svendendoci per denari imbrattati dal sangue del nostro innocente popolo, macellato dai burattinai dello status quo; tenetevi il vostro progresso, la vostra ricchezza, la vostra democrazia, la vostra tecnologia se questi comportano la distruzione della terra cisalpina e l’inesorabile genocidio dei granlombardi, sacrificati dai sacerdoti abramitici sull’altare del moloc finanziocratico, in nome dei peggiori disvalori modernisti tutti basati sul culto del soldo, sul consumismo, sull’edonismo, sul rovesciamento dell’ordine e della moralità di stampo indoeuropeo (di quella cristiana ce ne freghiamo altamente).

Non ci può essere alcun roseo futuro per la Lombardia, avanti di questo passo.

Si prefigurano scenari desolati e desolanti in cui a farla da padrone saranno gli allogeni, gli squali, i rossi contemporanei, i banchieri, e tutte le marionette del politicamente corretto e dell’ideologia woke sul libro paga della sovversione universalista, dunque gente come i preti postconciliari.

La nostra nazione, anche solo nella sua versione monca, sarà letteralmente sbranata dall’industrializzazione selvaggia, zavorrata dall’immigrazione incontrollata e dal dilagante meticciamento, avvelenata dall’inquinamento di ogni tipo e dalla cementificazione, oppressa dallo squilibrio demografico rappresentato da milioni di immigrati che schiacciano quella che oggi è ancora maggioranza, ma un domani? Che poi, in certe zone insubriche, maggioranza non è più.

La Lombardia, come il resto dell’Europa avanzata, finirà stritolata dal “progresso”, e non solo nelle città e nei loro hinterland, ma anche nelle loro province, financo nei territori collinari, montani, selvaggi, oggi incontaminati quasi del tutto. Ma ancora per quanto?

Se continueremo a lasciarci prendere pel naso dall’Italietta repubblicana, dallo stellato panno della Ue, degli Usa, di Israele, dalla Chiesa e dal cristianesimo e da ogni nefasta ideologia relativista, il nostro destino apparirà inevitabilmente segnato, e per la Lombardia sarà la fine: ogni traccia di identità e tradizione sparirà col suo popolo e lo stesso suolo patrio cambierà nome e connotati per sempre, ridotto a succursale delle agenzie apolidi che spacciano globalizzazione per benessere eco- ed etno-sostenibile.

Nel medesimo modo anche Lega Italia, leghe patacca e finti indipendentisti servi della Ue e dei suoi principali scagnozzi contribuiscono al genocidio (o auto-genocidio?) lombardo, perché ormai totalmente disinteressati alla questione etnica, e tutti indirizzati alle ben più comode e quiete mene economiche; la Lombardia deve assolutamente liberarsi da Roma ma cambiare bandiera senza cambiare, parimenti, la condizione delle genti, equivarrebbe comunque a rimanere tra gli artigli dei nemici atlantisti e mondialisti. Diffidate di chi vi spaccia autonomie e secessioni, prive di autoaffermazione identitaria, per libertà, poiché la stirpe viene prima dei quattrini.

Non mi stancherò mai di dirlo: più urgente dell’azione politica è quella culturale, dottrinaria, filosofica, metapolitica, in chiave lombardista, perché solo così abbiamo l’opportunità di rigenerare, in direzione völkisch, la res publica. Una politica lombarda che la faccia finita col cialtronesco fenomeno leghista e, soprattutto, con quella stucchevole concezione fascio-nazionalista, in senso tricolore, spesso e volentieri veicolata dagli allogeni italiani. La Lombardia non è Italia, Roma è una capitale straniera, ed è tempo di battersi, senza più equivoci, per l’affrancamento identitario, tradizionale e comunitario delle plaghe alpino-padane.

Solo con una salutare rieducazione dei lombardi alla presa di coscienza etnicista, specie dei più giovani, si può pensare seriamente di salvare il salvabile sconfiggendo i diuturni nemici delle vere nazioni, perché anche se tutto pare contro di noi nulla è perduto finché vi saranno lombardi e lombarde pronti a combattere per la vittoria e la salvazione di sé stessi e della comunità nazionale cisalpina.

Ci sono centinaia di associazioni che si occupano di (innocua) cultura, ambiente, flora e fauna, beni artistici, cibo, volontariato ecc., ma ce ne fosse una che si batte per la cosa più importante di tutte: la consapevolezza di avere nelle proprie vene sangue lombardo, con tutte le ovvie implicazioni in termini di spirito d’appartenenza.

Eh no, sarebbe “razzismo”, perché chi comanda ci vuole divisi, rimescolati, smemorati, privi di identità e tradizione, senza lingua e cultura, e dunque deboli e sradicati: solo l’identitarismo etnico, dunque l’etnonazionalismo, avversa il mondialismo e i suoi diabolici scherani.

Insubrici, orobici, emiliani, piemontesi, uniti a romagnoli, liguri, tirolesi, veneti, friulani, giuliani (in una parola cisalpini) fanno tutti parte della medesima inclita nazione, che è la Grande Lombardia; appartenervi non è mica una vergogna sapete? O preferite davvero svendere una delle regioni storiche che è parte del cuore della civiltà europea per lasciarvi lavare il cervello dalla retorica e dalla propaganda italianiste, incentrate su caratteristiche che appartengono solo ed esclusivamente agli italiani etnici, al centrosud?

Non siamo italiani, svizzeri, austro-ungarici, francesi periferici, tedeschi di serie B, bensì lombardi e abbiamo il diritto, ma soprattutto il dovere, di combattere a spada tratta contro ogni nemico che ci impedisce di realizzarci e di liberare la Lombardia dal giogo forestiero, pseudo-nazionale o internazionale che sia, il quale alla lunga ci conduce alla tomba per sfinimento.

Viva l’Italia? Ci può stare, ma senza di noi, per il semplice fatto che non siamo italiani (se non, purtroppo, politicamente, ad oggi); l’attuale stato italiano rappresenta soltanto la Saturnia tellus, e dunque il centrosud genuinamente italico, e nella Cisalpina ha posto in essere una sorta di occupazione e colonizzazione, a scapito dell’elemento indigeno. A Roma sanno benissimo che la Padania non sia sorella della penisola, ma a certe latitudini fa indubbiamente comodo poter mungere l’antica Gallia a sud delle Alpi…

Vogliamo essere lombardi in tutto o per tutto o continuare a fungere da muli che pensano solo a sgobbare e a fare soldi, in nome del catastrofico mito del fatturato?

Se la Lombardia si vuole salvare ha unicamente una via, da dover percorrere, ed è quella dell’etnonazionalismo, logicamente indipendentista, che mediante comunitarismo e pensiero völkisch, nonché razionalismo mai sganciato dal Blut und Boden, si batta per l’autodeterminazione etnica del popolo lombardo, magari all’interno di una sacrosanta cornice confederale euro-siberiana, la nostra grande famiglia imperiale. Una nazione è un insieme di popoli relativamente omogenei e compatibili, e non si può negare che dopo 4.000 anni di storia esista una nazionalità padano-alpina plasmata dal Mediterraneo settentrionale, dalle Alpi, dagli indoeuropei Celti e Veneti, dalla romanità assorbita dai Galli di Cesare, e infine dai Longobardi del Regno. Da cui la Lombardia medievale, storica.

Quella suindicata è una via irta di ostacoli, certo, ma quale cammino che valga la pena di battere non lo è?

Ciò che è facile il più delle volte è anche fallace; ciò che invece è difficile è meritevole di essere affrontato e di essere domato, grazie ad una incrollabile fame e sete di verità, libertà, sicurtà. I separatismi alla leghista, farseschi e meramente dettati da questioni economiche e di welfare, si macchiano di meretricio progressista o liberista. Ma qui non si tratta di separare alcunché, dal momento che la nazione lombarda non è il nord di un bel nulla.

Lottiamo per una Lombardia lombarda, non italiana o europea in senso artificiale, libera da Roma e da ogni altro ente mondialista. Solo così potremo garantire ai nostri figli e ai posteri un avvenire radioso fatto di identitarismo, tradizionalismo, nazionalismo etnico, sotto l’egida della vera Europa dei popoli, delle reali nazioni indoeuropee, che non è la caricaturale Europa degli stati-apparato ottocenteschi, o dei francobolli libertari cari a leghisti e “handipendentisti”.

Lombardia aria, gentile, unita in tutte le sue parti, e ovviamente europide, fino alla vittoria e alla palingenesi patriottica!

Lombardia attuale

Regione “Lombardia”

Con il disastro bellico, l’Italia perdette Briga e Tenda, Nizzardo e Corsica (occupati), Monginevro, Valle Stretta, Moncenisio, Venezia Giulia storica, Dalmazia e gli altri territori sudorientali occupati.

Nel “nordest” vi fu l’abominevole fenomeno delle foibe, frutto delle perfide politiche genocide di Tito, e il conseguente drammatico esodo istro-dalmata verso l’attuale Repubblica Italiana.

Il finto Paese italiano era tra gli sconfitti, nonostante il vigliacco voltafaccia di monarchia, regio esercito e partigiani, e nonostante, in una maniera veramente maramaldesca e inutile, avesse dichiarato guerra all’ex alleato giapponese, prostrato poi dalle atomiche americane.

L’Italia aveva confidato troppo nella Germania, e d’altro canto non aveva certo le forze per sobbarcarsi un conflitto divenuto mondiale, e lo stesso Giappone era remoto per poter contare su suoi concreti aiuti durante le operazioni belliche; la guerra divenne planetaria e l’Asse si trovò a fronteggiare il mondo intero, stretta com’era tra alleati (e loro colonie) e sovietici. La sconfitta fu inevitabile, e stupisce comunque la resistenza tedesca durata cinque anni, cinque anni in cui dopotutto non aveva potuto contare su camerati valevoli. Si aggiunga che sia Hitler che Mussolini di guerra sapevano poco o nulla, e i loro capricci costarono caro a Germania, Italia ed Europa.

Nel 1946, nel referendum istituzionale del 2 giugno, tra monarchia e repubblica a spuntarla fu quest’ultima, anche grazie alle massicce preferenze lombarde, e granlombarde, in direzione repubblicana; i lombardi, memori dello sfacelo sabaudo durante il periodo di guerra, votarono al 64,1% contro la monarchia.

Purtroppo si trattò di una repubblica plasmata da partigiani, democristiani, rossi, liberali e tutti gli altri tirapiedi del blocco occidentale e (meno) orientale, ossia dei vincitori, e ancor oggi ne avvertiamo le conseguenze, dato che lo stato italiano è sempre più uno strumento dei capricci atlantisti degli Usa, alleato di Israele e pedina del mondialismo anti-identitario, nonché ente vieppiù svuotato di sovranità dalla franco-tedesca Unione Europea (già Comunità Europea). Del resto, parliamo di una finta nazione.

Il dopoguerra fu anche il periodo del boom economico, che interessò soprattutto la Padania, portando a quegli esodi “interni” sud-italiani che hanno stravolto il tessuto etno-sociale originario delle terre cisalpine occidentali. In parte, questo sviluppo fu certamente cagione degli aiuti americani, ma ben poco importa: quelli prima distruggono e poi si lavano la coscienza col Piano Marshall, avente il solo scopo di legare a sé ancor di più i destini degli europei dell’ovest. Il progresso moderno lombardo era comunque in atto ormai da secoli, frutto della nostra storia.

Negli anni ’50 e ’60 del Novecento, Milano si arricchì di edifici, infrastrutture, aziende, complessi industriali, servizi.

Venne inaugurata anche la stagione del terrorismo nero e rosso (etichette di comodo per coprire misfatti governativi internazionali) con l’attentato di piazza Fontana del dicembre ’69. Da ricordare, parimenti, quello di piazza della Loggia a Brescia, nel maggio del ’74. Atti terroristici che fecero decine di vittime e centinaia di feriti.

Nel 1970 nacque la Regione Lombardia, parziale raggruppamento di genti lombarde manchevole, anzitutto, di VCO, Novarese, Ticino, Grigioni lombardo e, volendo, Tortona, Piacenza e il Trentino occidentale, ossia i restanti territori etno-linguisticamente lombardi, in senso stretto. Sua insegna una ridicolizzazione commerciale delle incisioni rupestri camune, la famosa “rosa”, che in realtà sarebbe meglio rappresentata dallo swastika rinvenuto, fra gli altri, nei siti di Sellero e Paspardo. Ma si sa, il politicamente corretto impazza, e come simboli tradizionali della Lombardia centrale ci sarebbero pure il Ducale visconteo e la Croce di San Giorgio.

Vennero anche inaugurati parchi naturali come quello del Ticino, primo parco fluviale europeo, nel 1974. Altre aree protette di questo tipo sono quelle di Colli di Bergamo, Alto Garda bresciano, Alpi Orobiche bergamasche, Alpi Orobiche valtellinesi, Groane, Mincio, Serio, Adda, Adamello, Oglio, Pineta di Appiano Gentile e Tradate, Valle del Lambro.

Un ulteriore, molto meno nobile, primato è quello che inaugurò la stagione dei disastri ecologici europei: la fuoriuscita di diossina dalla Icmesa di Seveso, nel 1976.

Nel 1987 vi fu l’alluvione della Valtellina, classico caso “italiano” di dissesto idrogeologico, una piaga che affligge anche la Cisalpina.

Nel 1992 nacquero le province di Lecco e Lodi, che “rubarono” territori a Como, Bergamo e Milano, e andarono ad unirsi agli enti di Milano, Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, Pavia, Sondrio, Varese (già staccatosi da Como in precedenza); nel 2004 è stata istituita invece la provincia di Monza e Brianza, a svantaggio di quella milanese. Un processo alquanto ridicolo, quello dello scorporo di province storiche, in quanto invece di dare adito al campanilismo, la Lombardia dovrebbe tornare ad essere Grande, includendo tutte le sue plurisecolari terre, cominciando dal novero etnico padano.

Gli anni ’90 proseguirono l’impetuoso sviluppo della regione: l’aeroporto di Malpensa (nato nel ’48) divenne internazionale (vedi anche il progetto Malpensa 2000), quello di Orio al Serio (rinato nel ’70 come aeroporto civile) si irrobustì e vennero discussi progetti di grandi opere infrastrutturali come la BreBeMi e la Pedemontana (il cui impatto ambientale è ovviamente drammatico), poi in parte attuati. Il traffico autostradale lombardo è quello più intenso d’Europa.

L’altra nota dolente è la spaventosa sovrappopolazione di questo ente regionale (densità di 418,85 ab./km²!), già minato da cemento, inquinamento, traffico, aria irrespirabile, conseguenza dell’esodo meridionale e della più recente immigrazione allogena. L’area transabduana, ma anche la città di Brescia, sono un inferno.

Risultato? Oggi, su 10 milioni e rotti di abitanti della Lombardia regionale, alcuni non sono nativi, o comunque ibridati.

La regione del Pirellone è uno dei quattro motori europei (assieme a Baden-Württemberg, Catalogna e Rodano-Alpi), nonché estremità meridionale della cosiddetta “Banana blu”, dorsale economica e demografica che dalla Val Padana, attraversando il territorio dell’antica Lotaringia, culmina nell’Inghilterra meridionale.

Siamo indubbiamente un’area ricca, prospera, industriosa, fertile, avanzata e dalla grande tradizione imprenditoriale, i cui sforzi, economicamente parlando, vengono premiati; anche in materia di sanità, benessere, servizi, agricoltura, artigianato si è sicuramente ben messi. La Lombardia attuale è la regione trainante dello stato italiano, assieme al “nordest”, ma sarebbe anche ora di far camminare l’Italia etnica con le proprie gambe. Anche per questo l’indipendenza della Lombardia storica deve essere una priorità, per i lombardi.

Credo si dovrebbe pensare, peraltro, ad un rientro dei sud-italiani stabilitisi nella Padania, perché hanno svuotato le proprie aree d’origine per sovraffollare quelle cisalpine, specie del noto triangolo industriale.

Inutile dire che, al contempo, l’immigrazione allogena vada fermata con tanto di rimpatrio perché essa giova solo a chi la sfrutta, non certo agli indigeni, e nemmeno agli allogeni oserei dire, in quanto sradicati e catapultati in realtà straniere. Con le conseguenze che tutti conosciamo.

Nel 2005 è nato il nuovo polo fieristico Rho-Pero, parte del sistema della Fiera di Milano. Nel 2015 si è invece tenuta l’Esposizione Universale a Milano, tra maggio e ottobre, una grande vetrina intercontinentale per la capitale e la Lombardia ma anche, ahimè, una grande fonte di lucro per personaggi non molto cristallini.

Nel 2017 si è svolto un referendum per l’autonomia della regione, in cui il SÌ ha trionfato con una percentuale del 95,29%. Ovviamente, il voto popolare è rimasto senza esito, e del resto l’autonomismo applicato ad un ente inventato da Roma è paradossale, un inutile pannicello caldo.

Tre anni dopo, la Lombardia regionale fu al centro dell’emergenza coronavirus, morbo d’importazione asiatica che infuriò particolarmente nelle zone orientali e meridionali, cagionando una strage di anziani. La gestione demenziale della politica, di fronte alla crisi, per quanto inedita ed inaspettata, andò ad accrescere l’infausta portata di un fenomeno virale alimentato dalla stessa globalizzazione.

Nel 2026 sono previsti i Giochi olimpici invernali Milano Cortina, occasione interessante per mostrare al mondo il vero volto della Lombardia, offuscato dalle magagne italiane che agli occhi dei forestieri accomunano tutto il territorio della Repubblica Italiana.

Purtroppo, la Milano di oggi identitaria non è, e come tutte le altre metropoli europee presenta gravissime lacune in materia di preservazione etnoculturale. Si aggiunga che, a differenza di altre, presenta pure le suddette tare italiane, spalmate in lungo e in largo dalla sciagurata azione della politica romana, che passano anche per quella fastidiosa mancanza di coscienza etnica, culturale, tradizionale, linguistica, territoriale e ambientale tipica invece delle realtà germaniche, ad esempio alpine.

Le uniche manifestazioni di “orgoglio” lombardo, al di là delle innocue iniziative folcloristiche di provincia, sembrano essere quelle clericali, in una regione in cui l’unico dato identitario ufficiale è quello cattolico, che identitario di certo non è, soprattutto in epoca postconciliare.

Ma se ci pensate la Lombardia è stata proprio stritolata dal centralismo romano post-risorgimentale, con tutti i suoi bravi stereotipi sull’Italia mediterranea e meridionale, e naturalmente rintronata da bibbie, rosari, madonnine e santi inventati di ogni forma e colore. Le bianchissime province lombarde sono (o erano) l’anticamera del Vaticano, a sua volta un organo del mondialismo.

Al leghismo, fiorito negli anni ’80, va il merito di aver sollevato la questione “settentrionale”, poi banalizzata nel tempo con tutta una serie di pagliacciate propagandistiche culminate nella trovata elettorale della Padania bossiana, presto rinnegata per poter banchettare a Roma, complice il berlusconismo. Il fatto è che anche i lombardi, notoriamente grandi lavoratori, ma poco propensi alle attività umanistiche lasciate totalmente in mano agli italiani, hanno le proprie responsabilità, avendo ceduto le redini del processo risorgimentale. Un processo nefasto, sfuggito alla classe dirigente cisalpina, e a breve tramutatosi nella tomba della Padania stessa. Ricordiamoci che se la criminalità e il malcostume sud-italiani hanno da noi attecchito è perché hanno trovato terreno fertile, per quanto restino prodotti d’importazione dell’esodo da sud. Per non parlare di Tangentopoli, con svariati protagonisti locali.

Cavalcando “Mani pulite” e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, con susseguente nascita della Seconda, la Lega Nord è riuscita a sfondare politicamente senza però ottenere nulla di concreto perché appiattitasi sulla linea dell’altro fenomeno nato in Lombardia, ossia il forzismo azzurro di Silvio Berlusconi, il controverso personaggio per vent’anni sulla cresta dell’onda, certo lombardo ma velenosamente intriso di italianità.

Umberto Bossi, lombardissimo come il Cavaliere e, nella sua fase calante, parimenti controverso (vedi alla voce “cerchio magico” ausonico), oltre che da sempre ben poco lucido, si è inventato la farsa del secessionismo, come detto rinnegata per far posto alle ricche prebende dell’occupante romano. Bossi, prima di Salvini, ha tradito la causa, preparando il terreno alla contemporanea Lega italianista.

La Lombardia etnica e storica – non la creazione italiana del 1970 – non ha alcun bisogno di farse propagandistiche: essa necessita di un robusto etnonazionalismo, che possa sbocciare nella piena autoaffermazione della nazione cisalpina. Dobbiamo poter respirare a pieni polmoni in senso identitario, e ciò è possibile soltanto divenendo indipendenti dall’Italia. Esatto, indipendenza, non secessione, poiché il concetto di secessione presuppone una separazione da un ente nazionale davvero unitario.

Il lombardesimo, alla luce di ciò, è nazionalismo etnico alpino-padano votato alla piena libertà della Grande Lombardia: non siamo il nord di nulla, poiché popolo unico, originale ed espressione di una realtà identitaria europea senza eguali, con una storia gloriosa ed esemplare. Lasciamo perdere la zavorra leghista, o identitari cisalpini, ed impegniamoci tutti quanti per una nazione lombarda libera, e cioè comunitaria, e sempre più europea. Attenzione, ho detto europea; nessuna allusione, dunque, all’Unione “Europea”, negazione mortale della nostra civiltà, esattamente come il patriottismo italiano esteso sino alle Alpi.

Lombardia regia

RSI

Successore dell’ammazzato Umberto I, fu il re schiaccianoci, Sciaboletta, ossia il deforme Vittorio Emanuele III, uno dei personaggi più squallidi che lo stato italiano abbia mai concepito.

Il progresso lombardo crebbe, nonostante agli inizi del XX secolo si registrassero ondate di agitazioni contadine nella pianura (1902), e altri massicci scioperi si avessero nel 1904 e nel 1906.

In quello stesso anno nacque a Milano il sindacato Cgil, assieme ad altre industrie: la Dalmine, l’Alfa (poi Alfa Romeo) e la Pirelli.

Nel 1908 venne aperta la galleria ferroviaria del Sempione, mentre a Sesto San Giovanni furono completati i primi grandi impianti della Falck e della Breda; nel 1912, invece, a Varese, la Macchi cominciò a produrre aeroplani.

L’Italia in quegli anni faceva parte della Triplice Alleanza assieme ad Austria-Ungheria e Germania; nel 1914, in seguito all’attentato di Sarajevo, la prima dichiarò guerra alla Serbia spalleggiata dalla seconda, all’oscuro dell’Italia: una violazione dell’alleanza.

La dichiarazione di guerra austriaca scatenò la Prima guerra mondiale e l’Italia, nel 1914-’15, scelse la neutralità.

Gli interventisti però cominciarono a farsi sentire, spronando ad approfittarne per attaccare l’Austria e riprendersi i territori “irredenti” ancora sotto il suo controllo. Si giunse così al Patto di Londra, del 26 aprile 1915, siglato fra Italia e Triplice Intesa (Regno Unito, Francia, Russia) e all’entrata in guerra di questo finto Paese il 23 maggio seguente.

Il fronte italiano (1915-1918) costerà oltre 600.000 morti (nonché bombardamenti aerei austriaci su Milano e Brescia), ma condurrà ad una vittoria tricolore da burletta contribuendo alla dissoluzione di un impero, quello austro-ungarico, multietnico, cattolico e da tempo traballante, stravolto dai legittimi nazionalismi dei popoli oppressi da quell’elefantiaco ente senza identità.

Come sappiamo, però, la vittoria italiana fu di poco momento e “mutilata” perché si ottennero Trentino e Alto-Adige, Venezia Giulia, Zara ma non Fiume e la Dalmazia settentrionale, promessi dal Patto di Londra. Assieme a ciò non si ottennero degne compensazioni coloniali e altri territori di strategico interesse italiano (soprattutto gli storici possedimenti adriatici della Serenissima) finirono altrove.

L’Italietta fu così fregata dalle democrazie borghesi occidentali e dagli americani di Wilson.

Nel 1919, in Padania e Toscana, si scatenarono gli eventi del cosiddetto Biennio rosso, cagionati dalla crisi economica postbellica: si registrarono in Lombardia 445 scioperi industriali e 6 agricoli, cui parteciparono rispettivamente 500.997 e 132.122 lavoratori.

Il 23 marzo di quell’anno, Benito Mussolini, già socialista interventista e direttore de Il Popolo d’Italia, fondò a Milano, nel palazzo degli Esercenti di piazza San Sepolcro, i Fasci italiani di combattimento, che seppero sfruttare abilmente la situazione del primo dopoguerra, così gonfia di risentimento per l’irredentismo frustrato. In esso confluirono sindacalisti, futuristi, arditi, reduci, socialisti, rivoluzionari.

L’ideologia di questo precursore del Partito Nazionale Fascista era contraddistinta da nazionalismo, irredentismo, “terza via” anti-reazionaria ma anche anti-progressista, e compì il primo passo verso la rivoluzione fascista che caratterizzò l’Italia durante il Ventennio mussoliniano.

Mussolini però sfruttò anche il malcontento borghese e padronale in chiave anti-socialista e il 15 aprile del ’19 squadre fasciste assaltarono la sede dell’Avanti!; lo squadrismo venne altresì impiegato per soffocare le rivolte operaie e agricole, colorandosi così di tinte reazionarie. Una situazione che durò dal 1919 al 1924.

Nel 1921, la popolazione regionale lombarda risultava essere di 5.204.013 residenti, di cui 701.431 a Milano, 98.094 a Brescia e 62.687 a Bergamo.

Nell’agosto del 1922, a Milano, venne proclamato uno sciopero generale; squadre fasciste occuparono Palazzo Marino esautorando l’amministrazione comunale socialista.

Nel 1924 venne inaugurata la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo; seguirono la Milano-Brescia e la Milano-Torino.

Il fascismo prese il potere nel 1922 con la Marcia su Roma, e per un ventennio ebbe in pugno l’Italia.

Fu una rivoluzione mancata, sotto certi aspetti, perché non liquidò né la monarchia sabauda né la Chiesa cattolica (nello specifico il Vaticano), e anzi, se le tenne buone per poter governare in santa pace; il nazismo in Germania non ebbe certo di questi problemi.

Il fascismo fu una continuazione autoritaria del Risorgimento, e il suo principale obiettivo fu quello di “fare gli italiani” rendendo grande l’Italia. Propositi cialtroneschi, che non hanno nulla a che vedere con le vere patrie e l’etnonazionalismo, e infatti il Littorio si pose in continuità con giacobinismo, bonapartismo, nazionalismo di cartapesta ottocentesco. La nazionalizzazione e la socializzazione del Paese, teorizzate dal sansepolcrismo, in parte riuscirono, pur scontrandosi con le solite influentissime logge di potere, dimostrando che Mussolini al di là di tutto seppe essere uno statista. Per quanto, chiaramente, al servizio di un ideale patrio artificiale.

Per certi versi, comunque, il periodo fascista più luminoso fu proprio quello successivo alla caduta del regime nel 1943, ossia il periodo della Repubblica Sociale Italiana, quando cioè il fascio non ebbe più in mezzo ai piedi re e papa e altre mafie, e si trovò a comandare l’Italia centrosettentrionale (con il sud nelle mani del traditore Sciaboletta e degli angloamericani), nel contesto dell’alleanza con la Germania hitleriana.

I tromboni antifascisti amano liquidare il biennio salodiano come stato-fantoccio dei tedeschi; in realtà fu un avanzatissimo progetto di socializzazione, purtroppo ostacolata e non attuata per via degli eventi bellici.

L’onta dell’Italia furono i Savoia e i loro tirapiedi (Badoglio), non Salò e chi ci volle credere fino alla fine, nonostante la guerra fosse ormai perduta.

Tornando al Ventennio, nel 1935 venne aperto a Linate (Milano) l’aeroporto Forlanini; nello stesso anno venne inaugurato il Parco nazionale dello Stelvio, a cavallo fra Lombardia regionale e Trentino-Alto Adige.

Nel 1936, Mussolini annunciò a Milano, in Piazza del Duomo, l’alleanza con la Germania di Hitler, parlando di “asse Roma-Berlino”. Alleanza che nel 1939 divenne Patto d’Acciaio.

L’alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo sarebbe potuta divenire la realizzazione di un’Europa diversa, né capitalista né bolscevica, dunque indipendente sia dagli Usa che dagli influssi comunisti dell’Urss, ma la guerra precipitò le cose che andarono come sappiamo. Fermo restando, comunque sia, che Italia e Germania non sono nazioni.

Nel settembre 1939 il Terzo Reich invase la Polonia; inizialmente l’Italia restò neutrale ed entrò in guerra nel giugno 1940, pensando che ormai la vittoria tedesca fosse cosa fatta.

La Seconda guerra mondiale fu una catastrofe per l’Italietta, impreparata com’era ad affrontarla e avendo in parte dissipato le proprie forze nell’avventura coloniale e in Spagna; Mussolini, che come Hitler non aveva certo la stoffa del comandante militare, commise svariati errori che vennero pagati salatamente, aggravati dall’inettitudine degli ufficiali ma in parte riscattati da alcuni episodi di coraggio dei soldati italiani, mandati a morire per dei capricci del duce.

L’Italia avrebbe dovuto starsene fuori da quella guerra, nonostante con essa poté, più che altro grazie all’intervento dei tedeschi, riconquistare provvisoriamente Nizzardo, Corsica, Dalmazia e rafforzare il controllo sull’Albania, oltre che su altri territori non italiani.

Nel 1943 gli scioperi di marzo bloccarono molte fabbriche di Torino e Milano, evidenziando il malcontento popolare per la dura situazione economica e l’opposizione operaia al regime fascista; i bombardamenti aerei, alleati, di agosto provocarono a Milano numerose vittime e gravissime distruzioni. La Lombardia fu in quegli anni messa a ferro e fuoco dai sedicenti paladini della libertà angloamericani, che bombardarono ripetutamente Milano, Brescia e alcune aree industriali della Bergamasca, mietendo migliaia di vittime. L’atto terroristico alleato più grave fu certamente la strage di Gorla, Milano, dove il 20 ottobre 1944 perirono 184 bambini di una scuola elementare.

Dopo la caduta del fascismo e la liberazione tedesca di Mussolini imprigionato sul Gran Sasso, nel settembre (23) del 1943 nacque la Repubblica Sociale Italiana, che occupò la porzione centrosettentrionale del dilaniato Regno d’Italia, morto l’8 settembre dello stesso anno. La sede di alcuni ministeri venne fissata a Salò; Mussolini risiedette nella villa Feltrinelli di Gargnano.

Il sud della penisola, invece, finì nelle mani degli alleati e rimase in quelle di Vittorio Emanuele III, il traditore fuggito a Brindisi, mentre la situazione precipitava, per salvarsi la pellaccia assieme a Badoglio e agli altri galoppini sabaudi, voltagabbana saliti sul carro del vincitore.

L’esperienza di Salò fu suggestiva, nonostante tutto, perché sembrava riproporre l’antico Regno Italico medievale, concentrato nel centronord e inquadrato nel Sacro Romano Impero, che per l’occasione assumeva le fattezze del Terzo Reich nazista.

Il settentrione fu anche caratterizzato dalla lotta partigiana, di varia natura, non solo rossa, un fenomeno assai ingigantito e strumentalizzato che finì ovviamente per fare il gioco degli alleati e dei comunisti stranieri, e non per riscattare un presunto orgoglio nazionale italiano; questi perse la faccia con l’8 settembre ’43 e quel che ne seguì, ripetendosi nella squallida macelleria di Piazzale Loreto.

Nel gennaio del ’44 il Comitato di Liberazione (?) Nazionale si trasformò in quello dell’Alta Italia, assumendo, in clandestinità, poteri di governo straordinario del nord. In marzo si ebbero nuovi scioperi più accentuatamente antifascisti ed anti-tedeschi nelle fabbriche milanesi e lombarde; il 13 luglio vi fu un durissimo bombardamento aereo su Brescia; in dicembre, ultimo discorso pubblico di Mussolini al Lirico di Milano.

Il 2 marzo ’45 altro grave bombardamento aereo su Brescia. Nella terza decade di aprile, l’intera Lombardia venne “liberata”: la farsesca insurrezione di Milano, con tanto di occupazione della città da parte delle brigate partigiane (migliaia di “infazzolettati” dell’ultim’ora, praticamente), iniziata la sera del 24, si concluse il 26.

Il 28 aprile Mussolini e altri esponenti del governo targato RSI (acronimo di SRI) vennero fucilati tra Giulino di Mezzegra e Dongo, nel Comasco.

Il giorno successivo i loro cadaveri (tra cui quello di una donna, Claretta Petacci, che nulla c’entrava) vennero esposti al pubblico ludibrio della folla inferocita a Piazzale Loreto, Milano, certamente una delle pagine più desolanti del fenomeno resistenziale, cosiddetto, che immortalò impietosamente non tanto coloro che penzolavano da quel famigerato distributore di benzina, quanto quella pezzente italianità di cartapesta che regolarmente si schiera dalla parte del più forte.

In realtà, fra l’altro, l’Italia non venne liberata da alcunché perché col 25 aprile passò integralmente sotto il controllo e l’occupazione diuturna americani, che la riempirono di basi militari, anche Nato.

Il fasullo Paese italico, dalle Alpi alla Sicilia, è specchio dell’entità statuale che lo rappresenta, e certamente i governi succedutisi dal 1861 ad oggi, salvo – più o meno – la parentesi fascista, sono stati (e sono ancora) ostaggio dei potentati stranieri. La parziale assoluzione del fascismo non è dettata da ragioni patriottiche (l’Italia non esiste), ma dal fatto che nel Ventennio Roma seppe esibire un briciolo di indipendenza, soprattutto nei riguardi della Babilonia occidentale.

Ma, a parte questo, anche a livello interno la politica “nazionale” deve scontrarsi con le ingerenze e gli interessi di soggetti estranei che un tempo potevano essere i Savoia e che continuano la tradizione con l’onnipresente Chiesa cattolica, per quanto agonizzante, e con altre cricche nemmeno troppo occulte (mafia, massoneria, minoranze varie).

La situazione si può risolvere solo ed esclusivamente promuovendo una robusta presa di coscienza etnica e culturale del non essere italiani, con particolare riferimento ai granlombardi, che non è un’invenzione leghista ma la naturale identità di tutti coloro che, autoctoni, popolano la Padania, dal Monviso al Nevoso, dal Gottardo al Cimone.

Lombardia risorgimentale

Regno d’Italia

1848-1849, è la Prima guerra d’indipendenza: all’insurrezione di Milano contro gli austriaci (le Cinque giornate, 18-22 marzo ’48) fecero seguito l’occupazione della Lombardia da parte delle truppe di Carlo Alberto di Savoia, la sconfitta dei piemontesi a Custoza (23-25 luglio), l’ulteriore sconfitta di Novara (23 marzo 1849) ed infine le Dieci giornate di Brescia, la cui insurrezione venne soffocata il 30 marzo ’49 e le valse l’appellativo carducciano di “Leonessa d’Italia”.

1859, è la Seconda guerra d’indipendenza: vittoriosi a Montebello, Palestro e Magenta, i franco-piemontesi entrarono l’8 giugno a Milano; tra il 26 maggio e il 12 giugno Giuseppe Garibaldi occupò Varese, Como, Bergamo, Brescia; sconfitta anche a Solferino e San Martino (24 giugno), l’Austria, col trattato di Villafranca dell’11 luglio, cedette la parte precipua di Lombardia regionale (tranne Mantova) a Napoleone III, decisivo alleato del Regno di Sardegna, che ne “fece dono” a Vittorio Emanuele II di Savoia.

Il 17 marzo 1861 venne infine proclamato il Regno d’Italia a Torino, con Vittorio Emanuele II come sovrano; la Lombardia regionale, con una popolazione di 3.104.838 residenti, è assieme al Piemonte la regione più progredita e attiva del nuovo stato; il lavoro agricolo impiega 1.086.028 persone, mentre l’industria e l’artigianato 459.044.

Certi meridionalisti arrabbiati, e ovviamente i pittoreschi duosiciliani, vanno dicendo che l’unificazione, innaturale, di Padania, penisola e isole fu una rapina e un massacro ai danni del sud (la famigerata “terza potenza industriale d’Europa”, o era del mondo?) con conseguente arricchimento e sviluppo del “nord”; certo, come se la Lombardia fosse stata terzo mondo dall’epoca comunale e solo con il “latrocinio” sabaudo e garibaldino fosse divenuta quello che ancora oggi è, area trainante della baracca tricolore.

Alla vigilia dell’Unità d’Italia la situazione era la seguente: nella Pianura Padana aveva già preso da un pezzo avvio un capitalismo agrario, tecnicamente abbastanza evoluto. Nel sud, invece, permanevano i violenti scontri tipici del sottosviluppo: vastissimi latifondi, piccole proprietà insignificanti, coltura praticata con mezzi rudimentali in terre dalla resa scarsa, mentre la Cisalpina faceva fortuna con riso, pascoli, allevamento, caseifici.

Certamente il nord era afflitto dalla pellagra e la dieta era ben poco varia, e povera, ma la carne, nelle Due Sicilie, sulle tavole dei contadini si vedeva ben di rado.

Il pilastro dell’industria nostrana era la seta greggia, di cui l’Italia era la prima esportatrice. Le industrie erano addensate quasi esclusivamente in Piemonte e Lombardia, e ciò spiega come mai il decollo economico unitario avvenne in queste regioni. I primi impianti industriali (e ricordo che la Rivoluzione omonima nacque in Inghilterra sul finire del ‘700, ma esplose nella metà dell’800) furono i cotonifici di Torino, del Verbano, di Busto Arsizio, e i lanifici di Biella, Schio e Prato. Le industrie nascono grazie all’iniziativa degli uomini e lo spirito imprenditoriale lombardo è rinomato dai tempi medievali; gli imprenditori piemontesi e lombardi erano ancora terrieri, ma applicavano all’agricoltura criteri industriali: corsi d’acqua canalizzati, cascine, caseifici.

Capitolo ferrovie: i neoborbonici esaltano ancor oggi il primato del trenino-giocattolo di Ferdinando II, che aveva a disposizione solo 100 chilometri di binari; il Piemonte invece ne aveva 900, il Lombardo-Veneto 500, la Toscana 250.

A Napoli erano certamente rinomati, invece, lo stabilimento di Pietrarsa e la grande tradizione marinara, assieme a Genova. Genova che poteva contare anche sull’industria siderurgica targata Ansaldo.

Al sud il denaro scarseggiava, la cartamoneta era vista di cattivo occhio e gli investimenti latitavano: ivi mancava il coraggio e lo spirito imprenditoriali che invece albergavano in Lombardia, e i latifondisti tutto volevano fuorché il risveglio e lo sviluppo della plebe.

Le grandi banche erano nella Cisalpina, e così le casse di risparmio, nate a Milano.

A questo proposito ecco la classica accusa: “Il nord si è servito dell’unità per schiacciare il sud, distruggendone l’economia: le casse settentrionali erano vuote, quelle meridionali floride, così come le industrie napoletane”. Ma la realtà è diversa.

Il bilancio del Regno borbonico era all’attivo perché Napoli non aveva dovuto sostenere spese di guerra per unire questo finto Paese, a differenza del Piemonte, la piccola Prussia subalpina; inoltre, mentre i Borbone tesaurizzavano senza spendere, investire, innovare a vantaggio del popolo affamato, in Piemonte si investiva per attrezzare il Regno in campo industriale, per le bonifiche, le strade, le ferrovie, i canali.

E le industrie campane si riducevano agli stabilimenti meccanici di Pietrarsa, statali (dunque ben poco propensi al miglioramento del prodotto e all’abbassamento dei costi), e ai cotonifici svizzeri di Salerno, gestiti in regime di monopolio.

Con l’unificazione le barriere doganali fra i vari stati preunitari vennero soppresse, l’Ansaldo rimpiazzò Pietrarsa e Busto Arsizio surclassò Salerno, grazie al regime di libera concorrenza che produceva meglio e a minor costo. Le “floride” industrie partenopee decaddero perché minate dall’autarchia campanilistica.

La più grave cagione del ritardo del mezzogiorno, però, stava soprattutto nella mancata riforma agraria, tentata tra Settecento e Ottocento.

I borghesi riuscirono ad abolire il regime feudale, grazie all’appoggio del potere centrale che voleva spremere i contadini al posto dei baroni e della Chiesa, le cui terre furono confiscate. La situazione volse in favore dei grandi proprietari terrieri, nobili e borghesi, che fagocitarono le terre del demanio e della Chiesa lasciando ai “cafoni” le briciole e la miseria.

Inoltre, il terriero ausonico si guardò bene dall’investire i capitali, accumulati sulle spalle del contadinato, in migliorie e attività produttive, sancendo il grande fallimento dell’arcigna borghesia meridionale che non si dimostrò migliore degli esosi baroni. Questa classe dirigente accettò la subordinazione rispetto a quella settentrionale, a patto che venissero rispettate le sue prerogative parassitarie.

E così la spagnolesca classe dirigente del meridione ottenne il monopolio della scuola, che cagionò l’altissimo tasso di analfabetismo di laggiù: in Piemonte, Lombardia e Liguria era al 50%, mentre nei territori duosiciliani toccava il 90%.

In altre parole, se il sud, ancor oggi, versa in condizioni di degrado, abbandono, e ritardo rispetto al nord lo si deve proprio ai beniamini degli indipendentisti ausonici: preti, baroni, borghesi borbonici e Borbone stessi.

Lasciamo perdere altre amenità come Fenestrelle antesignana dei lager, e piemontesi raffigurati come bestie assetate di sangue meridionale.

Senza alcun dubbio, il nefasto Risorgimento fu prodotto padano-alpino, orchestrato da logge, sinagoghe e stranieri, e ne avremmo fatto volentieri a meno. Anche in qualità di orobici, visto che Bergamo si guadagnò il “prestigioso” titolo di “Città dei Mille”, grazie al contributo di uomini (179) che vestirono la camicia rossa garibaldina.

Nel 1866, l’annessione del Veneto ai danni dell’Austria portò Mantova e il suo territorio nuovamente sotto la Lombardia (intesa come attuale entità politica), completandone l’assetto regionale moderno; la regione etnolinguistica manca però di VCO, Canton Ticino, Grigioni lombardo, Novarese, e volendo anche di Tortona, Piacenza e Trentino occidentale. Fermo restando che la vera nazione lombarda riguarda, oltre a questi territori, la parte mancante di bacino padano e tutte le altre terre granlombarde.

La stessa Italia sabauda rinunciò a Nizzardo, Savoia, Corsica in favore di coloro che appoggiarono il Piemonte nella sua nefanda opera unificatrice, ma si tenne la franco-provenzale Valle d’Aosta; con la “grande guerra” conquistò Trieste, Istria, Venezia Giulia storica e il Tirolo meridionale storico, riunendo il Triveneto strappato all’Austria. Tutte queste plaghe sono geograficamente parte integrante della nazione cisalpina, ancorché abitate da minoranze.

Roma, tolta al papa, divenne capitale d’Italia nel 1870.

Tra il 1871 e il 1894, nonostante una robusta emigrazione di lombardi, Milano e la Lombardia si svilupparono sempre di più, inserendosi nel circuito commerciale nordeuropeo (grazie anche alla galleria ferroviaria del San Gottardo). Nascono nuovi cotonifici, il Corriere della Sera, le biciclette Bianchi, la Breda, la Tosoni, la Marelli, Crespi d’Adda, la prima Camera del Lavoro a Milano, i primi tram elettrici, e la popolazione regionale lombarda, nel 1881, salì a 3.750.051 abitanti.

Nel maggio 1898, in seguito all’aumento del prezzo del pane, vi fu uno sciopero generale a Milano: il generale Fiorenzo Bava Beccaris assediò la città mietendo, con tanto di cannoni, 81 vittime “sovversive”, ferendone 450. I limiti di una monarchia scellerata, in parte straniera, cominciarono a farsi sentire.

Il 29 luglio 1900, l’anarchico Bresci uccise re Umberto I a Monza, per vendicare i morti di Bava Beccaris. L’attentato chiuse il XIX secolo lombardo.

Il mio giudizio sulle vicende risorgimentali, cosiddette, è ovviamente negativo; unirono un Paese fasullo e portarono, solo per finta, all’affrancamento dal giogo straniero e petrino, poiché l’Italietta dalle Alpi alla Sicilia fu un prodotto anglofrancese avvelenato dai preti (e, naturalmente, da massoni, nostalgici giacobini, ebrei). Gli “italiani” animati da fervore patriottico, e desiderosi di battersi fino al sacrificio per la causa pseudo-nazionale, agirono in quanto pilotati da cricche di intriganti che non rappresentavano in alcun modo il popolo. Basti pensare ai referendum farsa che sancirono, per modo di dire, l’adesione e l’annessione al Regno di Sardegna delle varie regioni subalpine. Risorgimento e processo di unificazione, cagioni di una sciagura dietro l’altra, furono manovre dall’alto, di pochissimi a danno di moltissimi, ed espressione dei degenerati Savoia contemporanei.

Lombardia contemporanea

Regno napoleonico

Il Settecento, che con l’89 segnò la fine convenzionale dell’età moderna, è stato il secolo della massoneria, delle rivoluzioni, del giacobinismo, dell’avvento di Napoleone e dei cosiddetti “lumi”, dell’Illuminismo.

Proprio l’Illuminismo ha segnato il declino dell’idea genuina di Europa, spedendola nella fossa scavata a suo tempo dal giudeo-cristianesimo, sebbene, paradossalmente, le due dottrine non siano certo compatibili se non nel loro empito universalista anti-identitario.

In comune hanno appunto l’odio per l’Europa e le sue vere radici, e oggi ce li troviamo alleati contro l’identità e la tradizione nella grande guerra scatenata contro di noi dal mondialismo.

Naturalmente, quello che un tempo si chiamava Illuminismo oggi si chiama marxismo, comunismo, progressismo, liberalismo, antifascismo mentre il giudeo-cristianesimo continua a prosperare nel cattolicesimo postconciliare, un cattolicesimo castrato e ancor meno europeo di prima, tendente al protestantesimo.

Con l’Illuminismo prese piede anche il cosiddetto ebraismo internazionale; no, non voglio dare adito ad alcun complottismo antisemita, ma è chiaro che sull’onda dei “lumi” gli ebrei non solo promossero la loro uscita dai ghetti ma auspicarono anche un movimento globale, apolide, cosmopolita da loro coordinato e sfociato poi nel marxismo, nel sionismo come forma di imperialismo ebraico, nel bolscevismo, nel distruttore relativismo sessantottino (vedi Scuola di Francoforte), e naturalmente nelle svariate forme di affarismo capitalistico. Il fiuto per gli affari è una peculiarità storica giudaica, non dobbiamo prenderci in giro occultandolo: ma è una peculiarità frutto anche delle condizioni in cui la Chiesa costrinse gli israeliti, perseguitandoli per le balle sul deicidio, salvo sfruttarli per i propri interessi a danno altrui (vedi usura).

I “lumi” attuarono una vera e propria rivoluzione borghese, sulle ali della massoneria, e cioè della mafia per così dire radical-chic dei salottini buoni del Settecento, che portò non soltanto (magari fosse solo quello!) alla liquidazione dell’oscurantismo cattolico ma anche al sovvertimento innaturale delle istituzioni tradizionali, al terremoto relativista, al cieco fanatismo progressista, e allo sdoganamento del pluralismo a scapito degli indigeni, tartassati col mito del “buon selvaggio”.

L’Illuminismo, che per qualcuno rappresenta addirittura la nascita – o la rinascita – dell’Europa (nonostante in realtà ne sia la pietra tombale), portò alla formazione degli Stati Uniti, entità apolide senza storia e nazione partorita da intrighi massonici, alla Rivoluzione francese con annessi e connessi (stati giacobini, bandiere giacobine, sanguinari tiranni giacobini che tradirono, fornicando con la borghesia, dei legittimi sentimenti anti-tirannici e antimonarchici), al giacobinismo appunto precursore di socialismo marxista e comunismo, al bonapartismo, al rovesciamento dei valori tradizionali ed identitari, all’ipocrita triade Liberté, Égalité, Fraternité, che oggi come ieri inganna il popolo facendo gli interessi delle classi che vivono di rendita sulle sue spalle, e delle cosiddette “minoranze”.

Il Settecento illuminista plasmò i mostri ideologici che oggi terrorizzano la società civile con la loro becera dittatura relativista e anarcoide: ci si è sbarazzati della Chiesa per finire nelle fauci del nuovo assolutismo laicista e ateo, ma al contempo anti-europeo.

Il suddetto fosco periodo storico, insomma, pose le basi dell’attuale rovesciamento totale di valori del continente europeo, e di tutto quello che gli appartiene genuinamente, a partire dal sangue, dal suolo, dallo spirito.

I veleni d’oltralpe raggiunsero anche la progredita Lombardia, ma andiamo con ordine.

Eravamo rimasti alla Milano austriaca di Maria Teresa, che stava perdendo tutti i suoi possedimenti storici, sebbene liberata dal giogo spagnolo.

Con essa, nel 1760 entrarono in vigore il catasto e il nuovo sistema tributario.

Nella Lombardia asburgica giunse anche la rivoluzione industriale, principiata nell’Europa nordoccidentale sul finire del ‘700, ed esplosa nell’800, che rese la nostra regione la più sviluppata della fantomatica Italia, alla vigilia dello scellerato 1861, checché ne dicano certi fanatici duosiciliani; la Lombardia è sempre stata nei secoli, seppur tra alti e bassi, un’area geografica, a stretto contatto col cuore del continente, ricca, evoluta, redditizia, fertile e abitata da genti laboriose. Anche se coi loro difetti, si capisce.

Quattro anni dopo, nel 1764, ecco che la tormenta illuminista, foriera di rivoluzioni borghesi, frammassone e giacobine, investì ufficialmente la Lombardia austriaca con la pubblicazione del famoso libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene e del primo numero del periodico letterario e scientifico dei fratelli Verri, Il Caffè, che durò fino al 1766.

C’è da dire che il nazionalismo moderno prese le mosse dalla Rivoluzione francese del 1789; i bisogni di autodeterminazione nascono certamente da lì, ma sono stati traditi, pervertiti, snaturati dall’infida ottica borghese e, ovviamente, non erano nulla di etnonazionalista, come si può intendere oggi, si capisce. Ma in questo senso sta a noi, nella contemporaneità, aggiustare il tiro, ed evidenziare che il nazionalismo ha senso solo se è etnico. Altrimenti è tifoseria da stadio, o peggio ancora patriottismo di cartapesta alla francese e all’italiana (che è sottoprodotto giacobino del primo).

Nel 1765 Francesco III d’Este, duca di Modena e Reggio e governatore lombardo fino al 1771, ottenne in feudo da Maria Teresa la città di Varese.

Nel 1790 la popolazione lombarda, regionale, che all’inizio del secolo era poco più di un milione di residenti, toccò i 2.150.000 abitanti.

Nel 1796 finì il primo periodo dell’occupazione austriaca di Milano e di parte della Lombardia: il giacobino Napoleone Bonaparte, un corso di origine ligure-toscana, al comando delle truppe francesi rivoluzionarie, sconfisse gli austriaci a Lodi, e il 15 maggio entrò in Milano.

Un anno dopo si costituì la Repubblica Cisalpina, germe dell’artificiale Italia unita, comprendente l’attuale Lombardia occidentale (con la Valtellina e i contadi), quella orientale liberata dalla Serenissima (anch’essa liquidata dal Bonaparte), l’Emilia inquadrata nella Repubblica Cispadana, più il Polesine. Capitale del nuovo stato fu Milano; sua insegna il tricolore, certamente ispirato a quello ben più noto francese, ma a strisce orizzontali (e ideato prima di quello ungherese) e coi colori della Croce di San Giorgio e della divisa della Legione Lombarda (verde), un colore ghibellino e visconteo, peraltro, che si rifaceva alle uniformi della milizia cittadina milanese.

Nel 1801-1802 la Cisalpina diventò la primissima Repubblica Italiana, sempre con capitale Milano; Napoleone presidente, Francesco Melzi d’Eril vicepresidente.

A Milano, nel 1803, venne aperta la Pinacoteca di Brera; nel 1776 era stata inaugurata invece l’Accademia di Belle Arti, su progetto del Piermarini, che poi ottenne la cattedra di architettura.

Nel 1805, Napoleone, proclamato primo imperatore dei francesi, ricevette nel Duomo di Milano la corona di re d’Italia, auto-investendosi, indegnamente, con la nobile Corona Ferrea dei re longobardi. Viceré, Eugenio di Beauharnais.

Nell’ottobre del 1813 il Bonaparte venne sconfitto a Lipsia e nell’aprile 1814 il Regno Italico cadde; il 20 di quel mese venne ucciso dalla folla milanese inferocita il ministro delle Finanze Giuseppe Prina.

Napoleone fu per la Grande Lombardia una figura scellerata: giacobino malato di grandeur francese, senza essere peraltro transalpino, pose fine a potentati cisalpini storici e stimolò l’innaturale unificazione del finto Paese dalle Alpi alla Sicilia, e il fiorire di un orgoglio patrio artificiale (per quanto le sue creazioni politiche subalpine fossero null’altro che entità dominate dalla Francia). D’altra parte, l’idea moderna di Italia è una copia di quella francese.

Della caduta del Bonaparte se ne approfittò l’Austria, che istituì il Regno Lombardo-Veneto il 12 giugno del 1814.

La Restaurazione smantellò nel 1815 le istituzioni del Regno Italico; Milano è capitale del Lombardo-Veneto assieme a Venezia, e diviene residenza del viceré austriaco.

Il Congresso di Vienna avrà anche restaurato i potentati cattolici e reazionari smantellando le istituzioni giacobine napoleoniche (e questo fu un bene), però riportò ordine, autorità, disciplina, eliminando provvisoriamente i nefasti influssi della Rivoluzione francese. Certo, in un’ennesima forma di cattività straniera ai danni della nazione lombarda.

Lungi da me esaltare l’Impero austro-ungarico, un’accozzaglia antinazionale di popoli disparati, percorsa da venature ebraiche. Tuttavia, va riconosciuto che quello austriaco, per quanto liberticida lo si dipinga, fu un buongoverno, anche se occupante, e seppe sfruttare le innate capacità dei lombardi garantendo un certo benessere e sviluppo, nonché qualità mitteleuropea.

Nel 1817 Stendhal notò come la Pianura Padana fosse la più fertile d’Europa, fonte plurisecolare di ricchezza, abilmente irrigata e navigabile per mezzo di canali.

Nel 1818 venne introdotta l’istruzione elementare obbligatoria.

Si costruirono strade, infrastrutture, edifici di pregevole fattura architettonica, ma non mancarono cospirazioni anti-austriache di nobili e alto-borghesi, nel triennio 1821-1824.

Cesare Cantù, fondatore dell’Archivio storico lombardo, si trasferì da Como a Milano nel 1838, ove lavorò alla stesura dei 35 volumi della sua Storia universale, fino al 1846.

Nello stesso 1838, imponenti bonifiche in Lomellina e nelle valli ostigliesi.

Dal 1839 al 1846 uscirono importanti pubblicazioni come lo scientifico-culturale Politecnico di Carlo Cattaneo e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, ma soprattutto la Lombardia si dotò di ferrovie, omnibus a cavalli, illuminazione a gas e di un’efficace rete viaria regionale (Milano-Monza e Milano-Treviglio aprirono la fase delle grandi linee ferroviarie).

Con l’Austria la Lombardia prosperò e mise sapientemente a frutto i propri talenti, la propria creatività, il proprio spirito imprenditoriale, e la propria laboriosità.

Chiaro, mancava però la libertà vera, quella etnonazionale, mancava una Cisalpina unita ed indipendente, che il citato Cattaneo auspicava federata alla penisola.

Arrivò, purtroppo, l’unità d’Italia, frutto, come sappiamo, della volontà di pochissimi ai danni di milioni di persone, in primis padano-alpine. Massoneria, rigurgiti giacobini, ingerenze giudaiche e straniere, cricche di intriganti d’ogni sorta concorsero alla creazione del Regno d’Italia sabaudo; la liquidazione del potere temporale pontificio, che fu solo apparentemente una vittoria, rappresentò il crollo di quella diga che, per secoli, nonostante tutto, aveva impedito la nefasta unificazione. Certo, contribuendo a tirarci in casa il forestiero.

Decine di migliaia di granlombardi furono costretti a versare il proprio sangue per l’Italia, dai primi moti alla “grande guerra”, passando per le guerre di indipendenza (cosiddette), e a loro dobbiamo rispetto. Non così per l’idea fasulla di patria che li mandò al macello, a combattere contro le potenze centrali, in nome di una nazione artificiale straniera messa malamente in piedi per ragioni geopolitiche dai potentati borghesi occidentali.

Lombardia moderna

Ducato di Milano

Mentre il Ducato di Milano cominciava il valzer degli occupanti coi francesi, il 14 maggio 1509 la Serenissima venne sconfitta dagli stessi ad Agnadello, nella guerra della Lega di Cambrai, con cui perdeva provvisoriamente i suoi possedimenti lombardi orientali.

Nel periodo 1512-1515 gli svizzeri, aderenti all’alleanza anti-francese, presero Milano strappandola ai transalpini e vi insediarono il figlio del Moro, Massimiliano Sforza; la Valtellina e i contadi di Chiavenna e Bormio passarono ai Grigioni; nella battaglia di Marignano (Melegnano), francesi e veneziani alleati sconfissero gli svizzeri e i milanesi dello Sforza, che perse così il Ducato; Bergamo, Brescia e Cremona tornarono sotto le insegne della Repubblica di San Marco.

Tra il 1521 e il 1525 si riaccese la guerra per il possesso del Ducato milanese: se lo contesero Francesco I re di Francia e l’imperatore Carlo V che, vittorioso nella decisiva battaglia di Pavia, insediò a Milano il fratello di Massimiliano, Francesco II Sforza.

Lo Sforza morì senza eredi nel 1535; lo Stato milanese, con Cremona tolta a Venezia, passò così alle dirette dipendenze degli spagnoli e fu una catastrofe: oscurantismo cattolico, anarchia, torbidi, carestie, epidemie, guerre, scorrerie, pestilenze, ecatombe di milanesi nel 1630 per via della peste “manzoniana” furono le conseguenze del malgoverno iberico targato Asburgo.

Il Cinquecento fu però, anche per la Lombardia, un periodo florido artisticamente parlando e non mancarono artisti di fama internazionale che accorsero alle corti lombarde: Leonardo, Lotto, Tiziano, Giulio Romano, Paolo Giovio, Scamozzi ecc.

Inoltre, prolifica l’attività architettonica, con la costruzione di bastioni e cinte murarie a Milano come a Bergamo, di logge, di teatri, di piazze, di musei, di biblioteche e di pinacoteche (da segnalare quelle ambrosiane volute dal cardinale Federico Borromeo).

Il ‘5-600 fu anche periodo di gravi lotte religiose e politiche; l’Europa si spaccò in due per via dello scisma scatenato da Lutero e pure la Lombardia, comunque soggiogata alle conseguenze del Concilio di Trento e al dispotismo papista e confessionale di spagnoli e personaggi come i Borromeo, risentì a nord degli influssi protestanti d’oltralpe.

L’episodio più clamoroso fu certamente il cosiddetto “sacro macello” del 15 luglio 1620 in Valtellina, in cui una rivolta popolare anti-protestante fece centinaia di morti riformati.

Ciò comunque non valse a liberare Chiavenna, Sondrio e Bormio dal dominio dei Grigioni.

L’epoca moderna fu segnata anche dalla Guerra dei Trent’anni, fra Impero e potentati protestanti, e pure in questo caso la Lombardia subì i letali contraccolpi di eventi, principalmente, stranieri.

Tra il 1627 e il 1631 l’estinzione del ramo principale dei Gonzaga diede il via alla guerra per la successione di Mantova: Carlo Emanuele I di Savoia, alleato degli spagnoli, venne battuto dall’esercito francese; 25.000 lanzichenecchi forieri di peste, luterani ma al servizio della Spagna, saccheggiarono Mantova nel luglio del 1630; con il Trattato di Cherasco, il pretendente sostenuto dalla Francia, Carlo di Gonzaga-Nevers, ottenne il Ducato mantovano.

Tra il 1628 e il 1631 a Milano, per effetto della peste “manzoniana”, della precedente carestia, della calata dei lanzi, la popolazione urbana passò da circa 130.000 a 60.000-70.000 abitanti.

Mirabile affresco di questi cataclismi, scatenati anche dal servaggio insubrico per il forestiero e dalla mancanza di unità nazionale cisalpina, è offerto dal Manzoni nel suo capolavoro de I promessi sposi, il romanzo storico tutto lombardo ambientato tra Ducato di Milano e Orobia marciana, in cui una frase colpisce su tutte, una frase che il Manzoni riferisce allo scenario cui Renzo Tramaglino assiste durante gli orrori della peste in quel di Milano e che sintetizza la natura etno-razziale lombarda: “quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo” (in riferimento alla madre di Cecilia).

La Lombardia transabduana non subì i tracolli che purtroppo subì quella cisabduana perché la Serenissima, sicuramente più rispettosa dell’identità e delle autonomie locali degli Asburgo di Spagna, garantì ai suoi sudditi maggior protezione, relativo buongoverno, tolleranza e liberalità, e una gestione, per quanto possibile, razionale e illuminata della carestia e della peste che attanagliavano la Pianura Padana; inoltre serbò le popolazioni dalle scorrerie dei lanzichenecchi mediante i presidi sul confine bergamasco abduano e montano. I danni furono dunque limitati, in un certo senso, e non si ebbero le brutture e il soqquadro milanese, di una città, Milano, che mentre affondava veniva abbandonata a se stessa. Venezia, del resto, era un potentato autonomo.

La squallida situazione, che durò praticamente per tutto il Seicento, non sfuggì all’attento occhio dei visitatori stranieri che denotavano la contraddittoria situazione di una regione frammentata di per sé ricca, florida, gloriosa, sviluppata, ma barbarizzata da un governo ottuso, superstizioso, corrotto, rapace, ed alieno come quello spagnolo del tempo.

Ma la ruota gira per tutti, anche per la Spagna, che con l’avvento del Settecento conobbe il suo inesorabile declino durato sino agli anni settanta del Novecento.

Nel 1707, nel corso della guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano in nome dell’imperatore Giuseppe I, ponendo fine allo scellerato dominio iberico in Lombardia; il passaggio all’Austria delle terre milanesi e di Mantova venne confermato dalla Pace di Utrecht e dal Trattato di Rastadt (1713-14).

Nel 1738 la Pace di Vienna sanzionò le modificazioni territoriali intervenute con la guerra di successione polacca: Carlo Emanuele III di Savoia ottenne a spese di Milano Novara, Tortona e le Langhe.

Tra il 1740 e il 1748, ecco la Guerra di successione austriaca: la Pace di Aquisgrana riconfermò all’imperatrice Maria Teresa d’Austria il possesso della Lombardia occidentale e meridionale; Voghera con l’Oltrepò, Vigevano con la Lomellina, Ossola e Valsesia, invece, passano ai sabaudi di Carlo Emanuele III.

Il Settecento fu anche l’epoca dei Lumi, cosiddetti, che sfociò nella borghese Rivoluzione francese, intenta a seppellire l’Europa nella fossa scavata per secoli dal giudeo-cristianesimo; la farsa di un oscurantismo universalista, che ne vuole sostituire un altro, a scapito delle vere radici europee, dell’identità, della tradizione (già pervertite dal monoteismo abramitico).

Illuminismo e Rivoluzione potevano certo avere nobili propositi, come l’affrancamento del popolo dalla dittatura papista, clericale, “aristocratica” (si fa per dire), parassitaria e la battaglia contro l’oscurantismo di una religione assolutista straniera, ma i risultati furono disastrosi e tutto andò nella direzione del relativismo borghese che ha gettato le basi della contemporanea Europa auto-genocida e asservita ai loschi poteri internazionali e mondialisti.

Ma di Illuminismo, massoneria, giacobinismo, ebraismo internazionale, Rivoluzione francese e Napoleone ci occuperemo nel prossimo appuntamento sulla Lombardia contemporanea.

Lombardia medievale

Lombardia viscontea

La Lega Lombarda non mise a tacere le rivalità territoriali tra liberi comuni e infatti, sconfitto il Barbarossa, il carroccio fu archiviato e riemersero i campanilismi che ancora oggi, magari sotto forma di tifo calcistico, affliggono la Lombardia e altre plaghe (ad esempio la Toscana).

Bergamo contro Brescia, Milano contro Como, Cremona contro Piacenza, e così via.

Sicuramente, una delle principali cause della frammentazione e della debolezza lombarde è il micro-sciovinismo, l’egoismo, l’individualismo forsennato, la fobia di perdere il controllo del proprio orticello e la mania di avercela con tutti, anche se si tratta di fratelli. Prima di essere europei (italiani sicuramente no) siamo lombardi e quindi l’armonia comincia dalla nostra comunità, dalla nostra nazione. Non confondiamo le odierne rivalità del diporto con la vita reale.

Chi approfittò di questa situazione furono le signorie, altro fenomeno tipicamente tosco-padano, che solitamente parteggiavano per l’Impero e non per le autonomie comunali, essendo, agli esordi, di origine germanica, dunque guerriera e feudale; finirono, tuttavia, per appoggiare unicamente la propria causa, e si divisero in guelfi e ghibellini: i primi dalla parte del papa e del particolarismo, i secondi dalla parte dell’imperatore e dell’ideale imperiale (che, col senno di poi, avrebbe forse potuto condurre all’unificazione nazionale della Lombardia in seno al SRI, con le giuste scelte).

Il libero comune si evolvette così nella signoria cittadina, attorno alla seconda metà del ‘200, grazie alla forza e all’egemonia territoriale del signore.

La lotta per il potere dilaniò guelfi e ghibellini, che si contesero il dominio dei centri precipui. A Bergamo, ad esempio, i guelfi Colleoni (derivati dai Suardi, e non sempre di parte guelfa), Bonghi e Rivola si misurarono per il predominio con i ghibellini Suardi e coi Mozzo, Terzi e Lanzi. I più vicini al popolo erano tradizionalmente i guelfi, mentre gli altri incarnavano l’ideale aristocratico vecchio stampo e filo-imperiale.

In Lombardia si affermò a livello “regionale” la signoria milanese, vicina all’Impero, dei Visconti, che sconfissero i rivali insubrici, guelfi di origine franca, dei della Torre.

Frattanto ci fu anche la rivincita imperiale, con la schiacciante vittoria di Federico II, nipote del Barbarossa, che a Cortenuova, nel Bergamasco, sbaragliò le milizie della Lega nel 1237, contando sui dissidi fratricidi dei comuni; il carroccio fu preso e spedito al papa, protettore dei guelfi, la Lega si sciolse ma il successo dell’imperatore non colse i frutti sperati, per le solite esose pretese d’oltralpe, cosicché la Lombardia rimase tutto sommato autonoma, con Milano in testa.

Federico II trovò la rovina a Parma (1248) e il figlio Enzo a Fossalta (1249), e con queste sconfitte svanì, fortunatamente, il sogno imperiale degli Hohenstaufen di unire l’Italia innaturale, e di sbarazzarsi del potere temporale del papa. Nel 1268, con la battaglia di Tagliacozzo, i guelfi Angioini conquistarono il Regno svevo di Sicilia, giustiziarono Corradino e misero fine al potere degli Staufer in meridione. Questa capitolazione fu letale per il desiderio unitario e universale dell’Impero ma, soprattutto, inaugurò la stagione italiana etnica del “Francia o Spagna, basta che se magna“, nonché del secolare degrado e malgoverno del sud.

Tornando alla Lombardia, i Visconti, famiglia del Seprio di supposta origine longobarda, ebbero nel Biscione il proprio famosissimo simbolo e vessillo, la cui origine è ancora dibattuta. Per alcuni, è un antichissimo simbolo sacrale longobardo che si ricollega al culto ctonio delle vipere (i Longobardi ne portavano al collo una riproduzione azzurra come monile e amuleto); per altri è un emblema orientale, strappato ai Saraceni durante le Crociate, e capovolto nel suo significato, poiché l’omino che il Biscione ingolla sarebbe proprio un Moro; infine viene talvolta considerato come uno dei tanti draghi acquatici padani delle tradizioni e leggende celto-liguri, più precisamente il drago Tarantasio mangia-fanciulli del mitico Lago Gerundo (Gera d’Adda), che il capostipite mitologico dei Visconti avrebbe sconfitto liberando la terra lombarda a cavallo tra Orobia e Insubria, e guadagnandosi così Milano. La tesi forse più probabile è comunque quella che vede nella Bissa un emblema araldico, ctonio e affine al basilisco, da cui la vita nasce, invece di venire inghiottita, e non è detto che fosse sin dagli inizi viscontea.

Accanto al Biscione i Visconti posero l’Aquila imperiale, a simboleggiare la propria ghibellina fedeltà all’ideale imperiale. Noi lombardisti vediamo in essa anche l’appartenenza storica della Lombardia al cuore dell’Europa, e accostata alla Vipera nazionale rappresenta il più papabile stemma della nostra patria, accanto alle Croci lombarde e allo Svastika camuno, che formano la bandiera granlombarda.

Il cromatismo del campo è d’oro per l’Aquila, nera, e d’argento per il Bisson, riprendendo così l’insegna degli Ottoni e degli Staufer (nel primo caso), che è poi l’insegna dell’Impero, e ponendo la Biscia azzurra su uno sfondo nobile e regale.

Staccandosi dalla leggenda, comunque sia, il capostipite reale dei Visconti fu Ottone, arcivescovo di Milano e capo del partito nobiliare e filo-ghibellino; costui nel 1277 guidò le proprie milizie contro i signori guelfi di Milano, i franchi Torriani della Valsassina, e sconfiggendo a Desio il capo della fazione opposta, Napo della Torre, divenne nuovo signore di Milano nel 1278.

Ha così inizio la fulgida signoria dei Visconti che scalzò dal potere i primi signori di Milano, i Torriani appunto, che tra l’altro avevano esteso la loro influenza a buona parte dei territori occidentali della Regione Lombardia.

Nel 1328, con l’aiuto degli Scaligeri veronesi, Luigi Gonzaga eliminò i Bonacolsi e iniziò a Mantova la signoria della propria famiglia.

Nel 1330 Azzone Visconti, vicario imperiale dal 1329, venne proclamato a Milano dominus generalis; egemone su gran parte della Lombardia, nell’arco di una decina di anni ne riconobbero formalmente la signoria tutte le principali città.

Nel 1361 Galeazzo II Visconti ottenne dall’imperatore Carlo IV un diploma che istituì a Pavia lo Studium generale, primo nucleo dell’Università.

Nel 1386 prese il via, sotto Gian Galeazzo Visconti, la lunga vicenda costruttiva del Duomo di Milano.

Nel 1395 lo stesso Gian Galeazzo ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano (5 settembre); nel 1397 (30 marzo) ha quello di duca di Lombardia; il suo Ducato si estese su quasi tutta la Lombardia regionale, etnica e storica, e oltre l’Appennino lombardo, su Pisa, Siena e Perugia.

Nel 1396 cominciò l’edificazione della Certosa di Pavia, che il Visconti volle come mausoleo famigliare.

Nel 1402 il grande Gian Galeazzo morì, ed ebbe inizio il processo di sfaldamento che sembrò investire lo stato visconteo.

Tra il 1404 e il 1412 emersero le figure di Pandolfo III Malatesta, che si proclamò signore di Bergamo e Brescia, e di Facino Cane, che estese i suoi possedimenti dal Piemonte all’Insubria.

Tra il 1413 e il 1422, ecco il decennio che vide Filippo Maria Visconti, figlio di Gian Galeazzo, riprendere le redini del Ducato e ricostituirne l’unità territoriale.

Il Ducato di Milano/Lombardia confinava a ovest con quello di Savoia e col Monferrato, a sud con la Repubblica di Genova e con i possedimenti degli Estensi, a est con il Ducato di Mantova, la Repubblica di San Marco veneta, il Principato vescovile di Trento e a nord con la Confederazione Elvetica e l’Impero.

Nel 1428 ci fu la Pace di Ferrara: Filippo Maria Visconti fu costretto a cedere la Lombardia orientale a Venezia, in seguito alla sconfitta di Maclodio dell’anno prima.

Il dominio marciano durerà, su queste terre, tre secoli, ma nonostante il relativo buongoverno della Serenissima l’Orobia rimase lombarda; lapalissiano per chi ha buonsenso, non troppo per gli ultrà moderni della Venethia da Bergamo a Perasto, gente che confonde il Veneto con la vecchia Repubblica di San Marco, potentato aristocratico e mercantile senza accezione etnica e nazionale.

Nel 1450, Francesco Sforza, romagnolo genero di Filippo Maria Visconti (morto senza eredi nel 1447), occupò Milano e liquidò l’effimera Aurea Repubblica ambrosiana; l’anno seguente vi chiamò, per le fabbriche della Cà Granda (l’Ospedale Maggiore), del Duomo e del futuro Castello Sforzesco, il Filarete.

Il 1454 è l’anno della Pace di Lodi, che sancì la legittimità di Francesco Sforza quale duca di Milano e il passaggio di Crema a Venezia.

Nel 1482 arrivò a Milan Leonardo da Vinci, dove gli vennero commissionati diversi lavori e onorò la Lombardia con le sue opere.

Giunsero però anche le note dolenti. Nel 1499-1500 il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, venne sconfitto dall’esercito francese di Luigi XII, guidato dal Trivulzio, e tradotto prigioniero in Francia; il Ducato passò al re francese, la Gera d’Adda e Cremona a Venezia, Bellinzona col Canton Ticino agli Svizzeri.

Così, mentre ad ovest i Savoia consolidavano il proprio Ducato annettendo tutto il Piemonte, a sud emergevano i ducati padani, dei Farnese e degli Estensi, ad est dominava la Serenissima, il nocciolo del Ducato di Lombardia di matrice viscontea finiva nelle mani dei forestieri e lo resterà praticamente fino ad oggi, epoca della cattività tricolore.

Le vicende dal Medioevo al Risorgimento, mostrano come la Lombardia etnica, e il suo cuore insubrico, abbiano perso l’occasione di farsi motore dell’unificazione nazionale granlombarda, affrancandosi dal potere imperiale (che comunque incarnava sotto certi riguardi la Gallo-Teutonia in cui noi lombardisti crediamo), dal particolarismo (e dalle ingerenze pontificie) e dall’idea distorta di Italia, retaggio romano. Così non è stato e, infatti, la nostra patria è da secoli preda dello straniero.

Sarà invece il Piemonte sabaudo a farsi carico della sciagurata unità pseudo-nazionale italiana, in questo appoggiato da Francia e Inghilterra, e se da una parte ciò fu il prodotto del ruolo storico piemontese, relativamente autonomo, dall’altra fu la proiezione “imperialista” di una casata straniera, i Savoia, che ereditarono poi allo stato italiano parecchie delle loro magagne post-illuministe.

Lombardia comunale

Croce di San Giorgio

Nell’XI secolo, dunque, con il termine ‘Lombardia’ si era soliti indicare buona parte dell’attuale nord della Repubblica Italiana, ad esclusione di poche aree: Regione Lombardia (con la Svizzera “italiana”), Emilia, Piemonte, Liguria, Verona, Trento e il Veneto continentale ricadevano nel suddetto concetto.

La Romagna, con Bologna e Ferrara, passò alla Chiesa; nel Triveneto, assieme alla Marca di Verona, andò affermandosi la Repubblica di Venezia; nel Tirolo storico si affacciarono genti baiuvariche. La Marca veronese venne poi sostituita dal Patriarcato di Aquileia, dal Principato vescovile di Trento e dalle varie signorie venete.

La Toscana, terra di cui i Longobardi si innamorarono e che assieme alla Padania rientrava nella Langobardia Maior, divenne invece Marca di Tuscia, e poi Margraviato di Toscana.

La Lombardia medievale rinsaldò la natura di anello di congiunzione tra mondo mediterraneo ed Europa centrale; chi doveva recarsi a sud delle Alpi, all’epoca, parlava di ‘Lombardia’, nonostante il Regno d’Italia, che era comunque un’entità inconsistente dal nome che si rifaceva retoricamente ai fasti romani.

‘Lombardia’, come etnico della nostra nazione, è preferibile a ‘Padania’, perché il secondo è un termine meramente geografico, al di là della politica, che può giusto indicare il bacino idrografico del Po, senza accezione etnoculturale.

Tornando a noi, nel 1097 si ha notizia certa a Milano dell’esistenza di un consulatus civium, prima espressione istituzionale del comune milanese, avviato a rivendicare la prerogativa di governo della città.

Il libero comune, fenomeno che prese piede nella Cisalpina e in Toscana, nacque per svincolare le città cisalpine e toscane dal controllo, a volte oppressivo, del potere imperiale, soprattutto in materia di esazioni; poté affermarsi, comunque, perché l’Impero latitava, ma si faceva sentire quando si trattava di riscuotere. Il feudalesimo, in ambito subalpino, attecchì poco e questo permise ai cittadini benestanti, borghesi diremmo oggi, di coagularsi attorno al potere vescovile, che supplì al vuoto lasciato dal potere laico sia reale (Regno Italico medievale) sia imperiale (Sacro Romano Impero). Il grosso dei signorotti longobardi, insediati nei loro castelli del contado, era dalla parte dell’imperatore.

Facile capire come, in un’epoca in cui infuriava la lotta per le investiture tra Papato e Impero, venissero a crearsi due opposte fazioni, guelfi e ghibellini, dove i primi oltre a sostenere le autonomie comunali parteggiavano per il papa.

Col tempo, il comune si svincolò però anche dal potere politico esercitato dal vescovo, nonostante che fosse proprio questi a legittimarlo.

Nel periodo 1110-1126, istituzioni comunali volte, per l’appunto, a sostituire il potere politico dei vescovi, si affermarono a Como, Cremona, Bergamo, Brescia e Mantova.

In breve tempo, nel XII secolo, il libero comune medievale divenne la predominante forma politica lombarda, fenomeno originale e originario proprio della nostra terra, e poi esteso al resto dell’Europa occidentale. Fu espressione della mentalità borghese, mercantile, artigiana, laica, cittadina dei lombardi, desiderosi di affrancarsi dal feudalesimo, per quanto debole, e dalle usurpazioni dei castellani di stirpe germanica delle campagne.

In realtà, l’incastellamento del contado portava anche benefici, visto che in un’epoca come quella medievale la protezione del signore locale faceva un po’ comodo a tutti.

Il comune era però espressione dei borghesi e dei loro interessi, non certo dei popolani.

Questa istituzione, nonostante che fosse cresciuta all’ombra dei vescovi e parteggiasse più per il papa che per l’imperatore, era mirata a difendere il tornaconto delle classi agiate, e non tanto i privilegi della Chiesa. La retorica moderna ha certamente esagerato le implicazioni ideologiche dello scontro fra guelfi e ghibellini, e fra comuni e Impero. La questione che teneva davvero banco era economica, e il cielo sa quanto sia cara in Lombardia (vedi la Lombard Street di Londra, la via dei banchieri, appunto, cisalpini [1]), una terra dominata dalla laboriosa, ma spesso anche gretta, mentalità alpina.

Le etichette ‘guelfo’ e ‘ghibellino’ (come la maggior parte delle etichette di comodo) non indicavano il bigotto e l’anticristo (bigotti, diremmo oggi, erano entrambi gli schieramenti) ma, per usare terminologie moderne, gli “autonomisti” e i “centralisti”, laddove i primi volevano, più che autodeterminazione, autonomia economica (essendo ceto mercantile, prevalentemente) e i secondi volevano rimanere fedeli all’imperatore in tutto (essendo per lo più ceto nobiliare). Naturalmente sorsero anche nobili guelfi, spesso però dalla mercatura, e non dal campo di battaglia, come i nobili guerrieri e proprietari terrieri di origine germanica.

I liberi comuni, tutto sommato, non mettevano in dubbio l’autorità dell’imperatore in Padania.

Nel 1155, Federico I Hohenstaufen detto “Barbarossa”, certamente uno dei più grandi, venne incoronato re d’Italia a Pavia, essendo tale titolo associato a quello di sacro romano imperatore.

I malumori lombardi crebbero perché il Barbarossa rivendicava pretese su tutta l'”Italia”, bramando un impero che fosse davvero europeo e che assorbisse tutta la penisola, sotto il suo diretto controllo. Un’idea che a suo dire poteva essere nobile, molto romana, ma perseguita male e lasciandosi andare troppo spesso alla violenza, calando a sud delle Alpi per castigare duramente chi si ribellava.

Egli si inserì nella politica cisalpina approfittando delle diatribe tra Milano e i comuni vicini, vessati dal capoluogo lombardo in espansione, prendendo le parti dei secondi, di Lodi soprattutto (da lui rifondata dopo che Milano la distrusse), e usando queste lotte come pretesto per intervenire cercando di assicurarsi così il dominio della Val Padana.

Le vessazioni, i taglieggiamenti, le prepotenze e le sanguinarie ritorsioni contro i milanesi, che videro a loro volta la propria città rasa al suolo, e contro coloro che non volevano piegare il capo di fronte all’esosa autorità imperiale crescevano, e anche il papa, Alessandro III (colui a cui fu dedicata la città piemontese di Alessandria) ne approfittò schierandosi dalla parte dei comuni ribelli. L’ingerenza clericale si è spesso rivelata fatale, nelle vicende nostrane, ma certamente ha ritardato l’innaturale processo di unificazione.

Cosicché, secondo la tradizione, il 7 aprile 1167 si giunse al fatidico giuramento nell’abbazia benedettina di Pontida, nel Bergamasco, dove Milano, Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia siglarono il patto della Concordia, che sancì la nascita della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda.

È stato fatto largo uso e abuso retorico di Pontida, come di Legnano, prima in chiave risorgimentale, poi in chiave leghista; il problema è che, nei fatti, si combatté il Barbarossa, e poi il nipote Federico II, in nome degli interessi economici e politici dei comuni, che nemmeno volevano staccarsi dall’Impero, ma semplicemente avere autonomia. Certo, la Lega Lombarda, già a partire dal nome, fu comunque espressione dei nostri territori, ed è quindi lecito ricordarla con orgoglio identitario.

Legnano ostacolò l’unificazione, ritardandola, anche se permise al papa di ficcare sempre più il naso negli affari delle città lombarde. D’altra parte, Federico I inseguì un ideale imperiale “universale” cioè di respiro europeo, ma lo fece in maniera troppo arrogante, prepotente e sanguinaria, inimicandosi la Padania.

Riprendendo il resoconto, nel giro di poco alla Lega aderirono la maggior parte delle principali città lombarde tra cui Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Reggio, Vercelli, Alessandria, Asti, Como, Novara, Pavia, Tortona, Varese e Vimercate.

I granlombardi occidentali ottennero l’appoggio della Lega Veronese (Verona, Padova, Treviso e Vicenza), che confluì nella Lega Lombarda, di Venezia, Genova, Torino, Ferrara, Bologna e Faenza e, come sappiamo, di Roma, che cavalcò a suo favore la questione, soffiando sul fuoco dell’anti-ghibellinismo.

La Lega si strinse attorno ai suoi simboli, e questo certamente è suggestivo: la croce rossa in campo bianco, di San Giorgio, stemma di Milano e bandiera storica di Lombardia (qualcuno dice mutuata da Genova ma più probabilmente dai blasoni dei primi vescovi milanesi), divenuta poi emblema di molte importanti città padane solidali con Milano, città odiatissima dal Barbarossa, come Mantova, Lecco, Vercelli, Ivrea, Alba, Alessandria, Reggio, Bologna, Padova, opposta all’imperiale Croce di San Giovanni Battista che ne è il negativo e che forse deriva dalla rossa Blutfahne, la bandiera da guerra dell’esercito imperiale; la croce di Ariberto da Intimiano; il carroccio, ideato nel 1033, pare dallo stesso vescovo milanese ribelle, che era in sostanza una sottospecie di carro da guerra, possente ed ingombrante, trainato da buoi, in cui stavano in bella mostra le insegne dei combattenti della propria fazione, e in cui il comandante assisteva alle operazioni belliche, e dove i preti celebravano i sacri uffici per accattivarsi i favori del Cristo e rincuorare i guerrieri durante la battaglia.

La Croce di San Giovanni è stemma di altre città “settentrionali”, come Cuneo, Asti, Novara, Pavia, Fidenza, Lugano, Como, Vicenza, Treviso, ma anche del Piemonte, del Monferrato, di località valtellinesi e ticinesi.

Il 29 maggio 1176 Lega e imperiali si scontrarono a Legnano, nell’Alto Milanese: le milizie lombarde, il cui nerbo era rappresentato dalla fanteria comunale, sicuramente non capitanate dall’immaginario Alberto da Giussano [2], sconfiggono l’esercito del Barbarossa, con la sua cavalleria pesante, che si vide costretto a riconoscere, tramite la pace di Costanza del 1183, diritti e autonomie comunali.

Per noi lombardisti, il 29 maggio è la festa della Lombardia etnica, anche se preferiamo non esagerarne l’esaltazione, ricordando comunque il 5 di settembre (1395), data di nascita del Ducato di Milano, ente ghibellino fedele all’Impero e territorialmente esteso in buona parte della Lombardia. La battaglia di Legnano rimane, ad ogni modo, profondamente affascinante, ed è giusto celebrarla ancor oggi, al netto della propaganda italianista e legaiola.

Tramontato il sogno imperiale del Barbarossa, i comuni lombardi, nati non per sentimento patriottico ma per spirito “liberale” (come diremmo oggi), per quanto certamente frutto della civiltà padana di cui siamo depositari, ripresero a scannarsi e a darsele di santa ragione, come del resto avevano fatto anche prima di Pontida e Legnano. E questo è il limite dell’epopea comunale, che fece leva sugli orgogli cittadini, più che su di un sentimento patriottico lombardo, anche se l’idea di patria è qualcosa di affatto moderno, romantico.

E come i litigiosi comuni, fecero poi le signorie, che invece di fare fronte comune per unire il Paese – la Lombardia, ovviamente – arrivarono a tirarsi in casa lo straniero per farsi la guerra, col risultato che questi se ne approfittò e finì per diventare, infine, il padrone delle terre lombarde per lungo, lungo tempo.

Note

[1] E questo perché, come dicevamo, i padani erano chiamati lombardi anche all’estero. Si pensi, ad esempio, ai banchieri piacentini e astigiani, o alle colonie gallo-italiche di Sicilia e Lucania.

[2] Secondo gli storici, tale ruolo è da attribuire a Guido da Landriano.

Lombardia altomedievale

Regnum Italiae

I Longobardi, gli “uomini dalle lunghe barbe”, già Vinnili (“i combattenti vittoriosi”), si stanziarono dunque in Lombardia e le tramandarono il nome.

Questo non fa di noi dei germanici, si capisce, bensì dei gallo-romani germanizzati in superficie, europei sudoccidentali con influenze centrali, dunque europei centromeridionali.

I Longobardi hanno corroborato, dove più e dove meno, la toponomastica, l’onomastica, gli usi e costumi, il diritto, gli idiomi, la mentalità e naturalmente l’etnia, ma tutto sommato in maniera contenuta.

Grazie ad essi in Lombardia sorsero il complesso di Castelseprio e il monastero di San Salvatore a Brescia, capolavori dell’arte longobarda oggi patrimonio dell’umanità (sebbene non serva certo l’Unesco per ritenerli tali). Anche la Corona Ferrea conservata a Monza è un gioiello dell’arte altomedievale, simbolo cisalpino prestato ad una dubbia italianità di cartapesta. Ricordiamo, naturalmente, l’importante lascito nordico in territorio friulano, pure in termini artistici.

Vengono convenzionalmente chiamati “barbari” ma l’appellativo è ingiusto; sebbene popolo straniero invasore, inizialmente duro conquistatore e padrone, col tempo i Longobardi assorbirono la cultura classica e la latinità fondendosi con gli autoctoni e guidando la nazione, assieme alla Toscana. L’eredità germanica in genere e longobarda nello specifico si mantenne viva segnatamente grazie ai nobili, anche se un apporto biologico e antropologico è ancor oggi riscontrabile in tutti i lombardi. E il Regno longobardo raggiunse un grado di civiltà unico, nel panorama dell’Europa occidentale del tempo.

La Lombardia divenne grande con Agilulfo e Teodolinda, e poi con Rotari (il sovrano dell’Editto del 643), Grimoaldo, Pertarito, Liutprando (con cui il regno giunse all’apogeo, annettendo i due ducati centromeridionali di Spoleto e Benevento), per quanto ormai la nostra terra fosse quasi del tutto cattolicizzata; nella battaglia di Cornate d’Adda, 689, il re cattolico Cuniperto e l’esercito sconfissero la fronda ariana del duca di Trento Alachis e dei rivoltosi dell’Austria longobarda, spianando così la strada alla conversione cattolica di tutti i Longobardi, certamente un fatale passo verso la Roma papalina.

Liutprando, il più grande sovrano longobardo, sostenendo il cattolicesimo a spada tratta spinse anche per la fusione definitiva dell’elemento longobardo con quello romanico, cosa che prima non era vista di buon occhio dai conquistatori, fautori di una rigida endogamia [1].

Con Ratchis e Astolfo l’epopea longobarda giunse ormai quasi al termine, nonostante il valore soprattutto dell’ultimo, fiero avversario della Chiesa, di Bisanzio e dei Franchi.

La Langobardia Maior aveva via via conquistato tutta la Val Padana, la Liguria, l’Emilia estrema, parte della Romagna, e i Longobardi si erano spinti nell’Italia etnica sconfiggendo ripetutamente i Bizantini, accaparrandosi territori italici, e ricongiungendosi alla riottosa Langobardia Minor meridionale.

Certamente avrebbero voluto riunire in maniera duratura l’antico regno di Teodorico, ma il papa impedì in ogni modo possibile l’innaturale unificazione di un finto Paese, certo complottando e intrigando con lo straniero, affinché calasse a sud delle Alpi per sconfiggere i Longobardi. Il Vaticano ci farcisce di stranieri fin dal primo Medioevo, per quanto abbia sempre meritoriamente ostacolato l’unità dell’Italia artificiale.

I Longobardi avrebbero dovuto limitarsi al settore padano-alpino, a nord dell’Appennino, poiché già la Toscana risulta essere un territorio forestiero, nel contesto della Lombardia storica.

I maneggi tra pontifici e Franchi segnarono il destino del regno dei Longobardi, ma non dei Longobardi che, di fatto, anche con i Franchi, continuarono a tenere ben salde le redini del comando territoriale, fondendosi sempre più con i vecchi autoctoni gallo-romani e mantenendo una certa autonomia dirigenziale.

La fine giunse con Pipino e poi con suo figlio Carlo Magno, quando a Roma sedevano sul soglio pontificio prima Stefano II e poi Adriano I, che non fecero altro che lagnarsi all’indirizzo della Francia affinché sgominasse la Langobardia e il pericolo che gravava sul Vaticano, e sul territorio che tiranneggiava, il Ducato romano.

Grazie a Pipino, che sconfisse per primo i Longobardi rompendo i buoni rapporti che intercorrevano con essi in quel momento storico, nacque lo Stato della Chiesa (756), e nel 773-774 scoppiò la fatale guerra tra i due popoli germanici che portò al tracollo del regno sotto Desiderio e suo figlio Adelchi; nel 774 i Franchi conquistarono Pavia e Carlo Magno, secondo vincitore dei Longobardi, divenne “gratia Dei rex Francorum et Langobardorum“. Egli riorganizzò l’entità statuale longobarda con conti al posto dei duchi, collocati nelle città già sedi di ducati.

Nel 776 fallì la ribellione anti-franca nella Padania orientale e la regalità longobarda si spostò così nel centrosud, a Spoleto, Benevento, Capua e Salerno.

Ciò nonostante il grosso dei Longobardi rimase al “nord”, la classe dirigente si mantenne longobarda e il diritto longobardo rimase in vigore sino a ‘400 inoltrato, in taluni casi, chiaro segno che l’etnia indigena non aveva perso e si era armonicamente fusa con i “vinti” di un tempo, gallo-romani, portando a compimento l’etnogenesi subalpina. Non dimentichiamoci però che i Longobardi influirono discretamente anche in Toscana e più a sud, in alcune località soprattutto del Sannio, sebbene nel meridione non siano state trovate necropoli di quel popolo.

Nel 781 Carlo Magno riconfermò a Pavia la dignità di sede centrale del Regno italico (o meglio, del Regno longobardo non più sovrano che assunse il nome di Regnum Italiae, fondamentalmente Padania e Toscana, già Langobardia Maior) ponendo sul trono suo figlio Pipino I. Successivamente, il potentato passò a Lotario, figlio di Ludovico il Pio, nuovo imperatore dopo il padre Carlo Magno, che lo strappò a Bernardo, figlio di Pipino I.

Le vicende franche prima ed imperiali poi, portarono alla calata in Lombardia di alcuni gruppi di immigrati teutischi tra cui, oltre ai Franchi, vanno ricordati Svevi, Alemanni, Bavari, stranieri che andarono a rimpolpare la nobiltà, più che il popolo.

Nell’888, in seguito allo sfaldamento dell’Impero carolingio, Berengario, marchese del Friuli, divenne il primo dei reucci italici, che battagliarono per il possesso dell’attuale nord della Repubblica Italiana. Di fatto, il Regno d’Italia, era un’entità vassalla dei transalpini, con un nome che rievocava fasti romani ma senza alcuna connessione al reale elemento etnico della Lombardia. Oltretutto, il regno si allargò poi comprendendo anche l’Italia mediana.

Nell’891 nacque invece la Marca di Lombardia, per volontà dell’imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica (succeduto a quello franco) Guido da Spoleto, che riuniva i comitati di Milano, Como, Pavia, Seprio, Bergamo, Lodi, Cremona, Brescia, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio di Lombardia, Modena.

Il Regno d’Italia medievale (781-1014) non fu mai una compagine statale capace di imporre la propria autorità, e la corona fu un titolo meramente formale, per quanto prestigioso e ambito potesse essere. Chi comandava fattivamente era l’imperatore germanico di turno.

Nel 950-951 il re Berengario II riorganizzò il territorio del nordovest “italiano” creando tre marche imperiali: Marca Aleramica (Liguria centro-occidentale e Piemonte centromeridionale), Marca Arduinica, già Anscarica (resto del Piemonte, Torino e Ivrea, con la Liguria occidentale) e la Marca Obertenga, che assorbì la precedente marca lombarda (Lombardia transpadana e cispadana più la Liguria orientale e l’Apuania). Queste tre entità territoriali presero il nome dai nobili che le governarono per primi.

Gli Obertenghi erano un nobile casato longobardo di origine milanese, il cui capostipite Oberto I fu il primo reggente della marca suddetta. Da essi si generarono grandi dinastie come i Pallavicino, i Cavalcabò, i Malaspina e soprattutto gli Estensi.

Le tre marche suddette riunivano il territorio della Grande Lombardia occidentale, che già a partire dalla tarda epoca imperiale (romana) veniva indicato come “Liguria” [2]. La porzione orientale, invece, come “Venetia” [3].

Nel 961-962 l’imperatore Ottone I unisce la corona d’Italia-Lombardia al Sacro Romano Impero; egli investì i vescovi di poteri politici inserendoli come vescovi-conti nel sistema feudale, aprendo le famigerate lotte per le investiture e gettando il seme dei futuri scontri tra autonomia comunale (e strumentalizzazione papalina) e autorità imperiale, tra guelfi e ghibellini, tra signori longobardi-lombardi (un esempio è la saga di Matilde di Canossa) e imperatori.

La corona d’Italia venne ereditata ai successori di Ottone fino al 1002. In quell’anno prese il potere Arduino d’Ivrea, desideroso di colmare il vuoto di potere lasciato dall’Impero nella Padania, divenendo re d’Italia.

Ebbe filo da torcere sia dalla Germania che dalla Chiesa e proprio per questo viene romanticamente visto, dalla retorica risorgimentale, come primo re “nazionale” d’Italia, per l’affrancamento dal potere d’Oltralpe e da quello clericale.

Regnò fino al 1014, quando, circondato da nemici, alleati dell’imperatore Enrico II, depose le insegne regali e si ritirò in un’abbazia. Con la sua abdicazione finì il Regnum Italiae.

Esso cessò di fatto di esistere con l’avvento delle autonomie comunali, volte a sostituire il potere politico dei vescovi.

Abbiamo così varcato il 1000, fine convenzionale dell’Alto Medioevo (e non del mondo), e germe della stagione comunale, certamente vanto e fiore all’occhiello della Lombardia medievale.

Chiudo questo articolo con una riflessione sul toponimo ed etnonimo lombardo: il susseguirsi delle vicende altomedievali fa capire come ‘Lombardia’ non sia che la contrazione di ‘Langobardia/Longobardia’, un nome di conio bizantino invalso ad indicare i possessi longobardi sia tosco-padani che italiani; mantenendo il potere, seppur simbolico, a Pavia (già capitale del Regno longobardo), il toponimo ‘Lombardia’ passò squisitamente a designare il settentrione [4] della RI, la Cisalpina, che diventò Regno d’Italia medievale, certo con Toscana e Italia centrale.

La frammentazione dei potentati padani portò Piemonte, Liguria, Emilia e Lombardia convenzionale a seguire strade differenti e tale nome, nell’accezione contemporanea, è passato ad indicare soltanto l’omonima regione creata da Roma.

Chiaro, la Regione Lombardia ha un precedente in quella che era la Lombardia austriaca, ma per come la conosciamo oggi resta un ente artificiale, un moncone di Lombardia etnica, per quanto centrale. Nondimeno, sino alla sciagurata unità ottocentesca, il concetto di Lombardia storica, figlio del Medioevo e dell’etnogenesi lombarda realizzatasi grazie proprio ai Longobardi, comprendeva buona parte della Cisalpina, soprattutto nel suo cuore padano.

Note

[1] Va comunque detto che la rilettura moderna dell’Editto di Rotari non mette in luce una chiara discriminazione nei riguardi degli assoggettati, perciò non si può parlare pacificamente di leggi atte alla difesa dell’endogamia germanica, e ad un “razzismo” nordico. Appare, altresì, utile rammentare che gli stessi Longobardi non erano un popolo puramente germanico.

[2] Gunther di Pairis compose un’opera, Ligurinus, dedicata alle gesta del Barbarossa proprio nella Padania occidentale.

[3] C’è da dire che il concetto di ‘Veneto’ è affatto moderno; prima di esso v’era la Serenissima e, prima ancora, la suddivisione medievale in comuni e signorie. Allo stesso modo, attorno al 1000, l’odierno Veneto era parte della Marca di Verona, eccettuate le lagune, erede del potere longobardo. Insomma, anche il Veneto è Lombardia storica.

[4] In particolar modo la porzione occidentale.

Lombardia germanica

L'”Italia” di Alboino

Eravamo rimasti a Odoacre.

Questo sciro re degli Eruli nel 476 divenne re d’Italia, fino al 493 quando, asserragliato a Ravenna, fu deposto e ucciso da Teodorico, re degli Ostrogoti.

Il regno romano-barbarico che ci interessa più da vicino è dunque quello dei Goti di Teodorico che durò più o meno dal 489 al 553.

Nel 489 egli invase la Pianura Padana e nel giro di 4 anni se ne impossessò scacciando Odoacre a Ravenna dove, capitolando nel 493, fu poi ucciso dal re goto durante un banchetto.

I Goti, Ostrogoti in questo caso, erano un popolo germanico originario della Svezia meridionale che verso il finire dell’Impero diedero moltissimo filo da torcere all’agonizzante Roma, anche per tutta una serie di batoste inflitte all’esercito romano.

Prima di giungere in Lombardia, erano stanziati nel settore orientale del Mar Nero, mentre in quello occidentale vi erano i Visigoti; pressati dalla minaccia unna che infuriava sul limes, sbaragliando i Romani si spostarono verso occidente sinché invasero l’Italia romana stabilendosi, più che altro, nel settore settentrionale e centrale.

Centri cruciali Pavia, Milano, Verona, Ravenna.

A Pavia Teodorico aveva il suo palazzo imperiale nonostante che la capitale fosse la romagnola Ravenna (dove fu poi tumulato).

I Goti erano di religione ariana, seguaci dell’eresia cristiana di Ario, ma una volta stanziati in Italia non diedero troppe rogne alla popolazione cattolica, al clero romano, o alla classe senatoria romana, che preservava ancora, in taluni casi, gli antichi culti pagani.

Il Regno ostrogoto non fu esperienza negativa, e col tempo risollevò la Lombardia sconquassata dal crollo romano, rinsanguando superficialmente la sua popolazione.

I guerrieri germanici comandavano e amministravano, combattendo, mentre i Latini badavano al diritto, all’arte, alla religione, alla cultura. Questa formula si rivelò vincente perché da una parte difese il territorio col valore dei combattenti goti, e dall’altra la mantenne a galla culturalmente evitando che sprofondasse del tutto nella barbarie. Un fatto che, ovviamente, non vale per il grosso del popolo, si capisce. Il crollo dell’Impero e l’inizio del Medioevo [1] furono vissuti drammaticamente dall’Europa romana e in particolar modo dall’Italia [2].

Si calcola che circa 250.000 individui [3] tra Ostrogoti e altri Germani (Rugi e Gepidi) calarono nella Pianura Padana agli ordini di Teodorico, provenienti dai Balcani; il loro impatto sulla popolazione autoctona fu del tutto contenuto, e i Longobardi influirono molto più di essi sull’Italia romana, specialmente su Padania e Toscana.

L’Italia gotica, però, aveva due problemi: Bisanzio e Roma.

I primi, in perenne combutta coi preti romani, intrigarono coi loro ruffiani d’Occidente per danneggiare in ogni modo gli Ostrogoti, tanto che nel 535 si arrivò alla famosa Guerra greco-gotica, culminata nel 553 con la vittoria di Bisanzio.

Lo scontro fra il mondo latino, cattolico, mediterraneo, e anche bizantino, e quello germanico, ariano, continentale, “barbarico” come ci si ostina ancor oggi a chiamarlo nonostante che i moderni migranti siano, invece, etichettati a guisa di “risorse” e “ricchezza” (i Goti, almeno, erano integralmente europei), sfociò in questa sanguinosissima guerra che vide soccombere soprattutto il popolo, sopraffatto da carestie, pestilenze, epidemie, e scorribande da ambo i lati.

La guerra impegnò celebri comandanti goti come Teodato, Vitige, Totila, Teia ma fu vinta dal valore di Belisario e dalla levantina scaltrezza dell’eunuco Narsete.

A dar man forte ai Goti vi furono anche Franchi e Alemanni.

Non per darsi al nordicismo, ma c’è da dire che Teodorico diede vita ad un regno comunque buono, per i tempi, e pian piano aiutò l’Italia ad uscire dalla crisi, per quanto la presenza gota fosse per lo più dislocata al di qua del Po, per motivi militari e strategici. Alla Roma senatoria e papalina questo non stava bene e fu il primo episodio di tutta una serie di ingerenze religiose negli affari di stato, che condussero a sud delle Alpi truppe straniere (e oggi allogeni).

La capitolazione degli Ostrogoti portò molti di essi ad emigrare, ma una minima parte rimase, nonostante l’intera Italia cadesse nelle mani di Giustiniano e dei Bizantini. E si diedero alla resistenza.

La Guerra greco-gotica fu un immane disastro per la popolazione, come ricordato, grandemente falcidiata soprattutto al “nord” dai mille flagelli che la guerra e la crisi recano seco.

Chiesa e Costantinopoli, deserto e Levante, parevano i vincitori, ma non durò a lungo.

Nel 568 un fiero e valoroso popolo nordico si affacciò sulla Carnia, provenendo dalla Pannonia, attuale Ungheria: i Longobardi, guidati dal loro re Alboino.

Tra il 569 e il 572 si impossessarono del grosso della Cisalpina e della Toscana, sbaragliando i fiacchi Bizantini e ricacciandoli da dove erano venuti, oppure costringendoli in sacche costiere come le Venezie e la Romagna (oltre naturalmente alla Roma del papa).

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, ma tale etnonimo le fu dato indirettamente dai Bizantini, che chiamavano Langobardia i territori soggetti ai Germani in questione, quindi la Padania, la Toscana, e chiaramente i successivi ducati di Spoleto e Benevento (Langobardia Minor).

Tuttavia, il nome ‘Lombardia’ divenne appannaggio del settentrione, grazie alla forte impronta lasciata dagli antichi Vinnili, e per questo è il miglior termine per indicare la nostra nazione.

I Longobardi conquistarono la parte continentale e la penisola, ma a noi interessa il fulcro del loro dominio ossia la Pianura Padana, la Lombardia storica.

Questi bellicosissimi Germani erano anch’essi originari della Scandinavia, della Scania pare, e in seguito a diverse peripezie attraversarono l’Europa centrale giungendo prima in Pannonia, via attuale Austria, poi appunto in Val Padana, dove, divenendo del tutto stanziali, portarono a termine la loro epopea.

In 150.000 al massimo [4], il 2 aprile 568, varcarono il Passo del Predil (o il Matajur) per dilagare nella pianura occupando saldamente quasi tutto il “nord”, ma è chiaro che i Longobardi di stirpe non fossero esattamente 150.000: al loro seguito, infatti, 20.000 Sassoni e altri fra Gepidi, Rugi, Svevi, Bavari, Alemanni, Bulgari.

La nobiltà longobarda, e il fulcro etnico del popolo conquistatore, erano razzialmente nordidi o cromagnonoidi, ariani di fede assieme al pagano culto di Godan-Odino. Tra di essi anche elementi fenotipicamente indogermanici come i Corded Nordid e i Battle-Axe. La presenza dell’aplogruppo protoindoeuropeo R1a1a nelle terre subalpine è da attribuirsi agli invasori germanici, oppure all’influsso slavo nel settore orientale estremo della Grande Lombardia.

Di certo i Vinnili incrementarono il nordicismo della Val Padana, soprattutto, e dell’Italia etnica peninsulare (Toscana, Umbria, Sannio), impattando più dei Goti e di altri Germani. Studi genetici recenti calcolano che l’apporto biologico nordeuropeo alla Lombardia storica ammonti ad un 20%. Avremo modo di riparlarne, a proposito del calcolatore Eurogenes Global25, grazie a cui alcuni sodali lombardisti hanno messo a punto interessanti modelli, indicativi del profilo antropogenetico della Padania. Anticipiamo, comunque, che le aree più germanizzate (al di là, per ovvie ragioni storiche, dell’arco alpino) paiono il Triveneto di terraferma e le plaghe a cavallo fra Insubria e Piemonte, oltre al Piemonte stesso.

Discreta ma decisiva fu l’influenza di questi nordici sul nostro territorio, nonostante la perdita della lingua e delle loro ancestrali credenze religiose e tradizioni, via via abbandonate stabilendosi nel dominio italico-romano; anche i Franchi, i Burgundi, i Visigoti, in parte gli Anglo-Sassoni, i Normanni, venendo in contatto con la superiorità culturale di stampo latino preferirono abbracciarla che combatterla e distruggerla, e questo fu certamente un bene per l’Europa. Col tempo giunsero anche a fondersi con gli indigeni romanici. La forza guerriera germanica e la grandezza culturale greco-latina furono la rinascita dell’Europa dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente.

Alboino conquistò Milano il 3 settembre 569 dando vita al Regno longobardo, e Pavia nel 572, ove pose la capitale del regno dopo un assedio durato anni.

Esso comprendeva quattro aree fondamentali: l’Austria (dall’Adda al Friuli), la parte più turbolenta del regno perché più bellicosa, aggressiva, conservatrice, ariana, pagana che in Bergamo, Brescia, Trento, Verona e Cividale aveva i suoi capisaldi; la Neustria (dall’Adda alla Val di Susa), ov’era la capitale della Langobardia Maior, il settore più pragmatico, realista, “civilizzato”, ma anche filo-romano e poi cattolico, i cui centri principali erano Milano, Pavia, il Seprio, il Ticino, Torino; l’Emilia fino a Spilamberto (degna di nota la germanizzazione degli Appennini); la Tuscia, che fu colonizzata e corroborata dal sangue longobardo così come da quello gotico, accostandola per molti versi alla Lombardia.

Successivamente nacquero il Ducato di Spoleto e quello di Benevento, piuttosto autonomi e riottosi al dominio centrale, sebbene venissero più tardi annessi.

I Longobardi si organizzarono in ducati ricalcando le precedenti suddivisioni bizantine, spesso in lotta col potere centrale pavese, e prima che la situazione si normalizzasse dovette esaurirsi la cosiddetta anarchia dei duchi, che durò una decina di anni, subito dopo la morte dell’indiscusso duce Alboino e del suo successore Clefi, e che terminò con l’avvento del figlio Autari.

Ancor più decisivo il regno di Agilulfo, con le sue grandi conquiste nella Pianura Padana bizantina (Cremona, Mantova, Padova), e Teodolinda, la regina cattolica di dinastia bavarese che molto incise sulle sorti del popolo longobardo.

Note

[1] Tradizionalmente, l’inizio del Medioevo a sud delle Alpi è sancito dall’invasione longobarda del 568-569.

[2] Se di tanto in tanto usiamo il termine equivoco ‘Italia’ è soltanto per indicare i territori che furono dell’Italia romana, dunque per comodità.

[3] Claudio Azzara fa una stima al ribasso, parlando di 100-125.000 unità, di cui 25.000 guerrieri.

[4] Stando alle classiche stime di studiosi come Jarnut, Gasparri, Azzara, Pohl.