Ho esordito come autore di blog sulla fine di agosto del 2009, in qualità di lombardista della prima ora. Titoli “storici” degli spazi da me gestiti Il Lombardista, Longobardo Tiratore, Paulus Lombardus e un blog recante il mio nome, precedente al famoso Il Sizzi dell’esperienza etnofederalista (chiuso per fare spazio a Lombarditas, collocazione virtuale definitiva del pensiero sizziano).
I siti lombardisti primigeni sono stati eliminati nel tempo (per via della persecuzione di cui divennero vittime) ma i contenuti culturalmente valevoli, trattati precedentemente, confluiscono nell’attuale spazio su cui sto scrivendo, riveduti e aggiornati.
Ammetto tranquillamente che quanto scrissi in passato (ormai una dozzina d’anni fa), per quel che concerne il lato ideologico, fu spesso viziato dall’eccessivo zelo propagandistico col risultato di vergare diverse castronerie che si sono tramutate in un boomerang: sulla base di alcuni articoli scritti fra il 2009 e il 2010 sono stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione e sei mesi di lavori socialmente utili per “istigazione alla discriminazione razziale” e “offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica”, con sospensione della pena respinta per non si sa quali motivi. La sentenza è stata confermata in appello e in Cassazione e ora dovrò svolgere un anno di affidamento in prova ai servizi sociali.
Da un punto di vista etico riconosco senza problemi i miei sbagli, perché è chiaro, mi feci prendere la mano e scrissi cose a tratti stupide, pesanti, aggressive e inutilmente provocatorie, ma una cosa è altrettanto certa: una legge come la Mancino è politica, ideologica e arbitraria (chi stabilisce cosa si può dire e cosa no, se la libertà d’espressione è garantita?) ed è a mio avviso sconcertante che qualcuno debba finire in tribunale, processato penalmente, per delle opinioni.
Nella Repubblica Italiana esistono già leggi specifiche che prevedono la repressione di reati d’istigazione a delinquere e apologia di reato. Perché dunque la cosiddetta “Mancino” (emanata nel 1993)? Per motivi politici, ovvio. Appare utile ricordare come la legge 25 giugno 1993, n. 205 prenda il nome dall’allora ministro dell’Interno ma fu fortemente voluta e stesa da due politici ebrei, Modigliani e Taradash.
Una cosa ancor più sconcertante è che sia stato condannato anche per “offesa all’onore e al prestigio del PdR” (che, tra l’altro, è il reato più grave), solamente per una frase ironica – decontestualizzata – nei riguardi del capo dello Stato dell’epoca, Napolitano: lo paragonai ad una vecchia comare partenopea petulante chiamandolo ‘Giorgiazzo’. Paragonato, attenzione, nemmeno attaccato direttamente. Se siamo tutti uguali – come i boiardi di Stato amano ripeterci ad nauseam – perché il presidente della RI dovrebbe essere al di sopra degli altri cittadini? Nel XXI secolo inoltrato ancora con la lesa maestà, pur vivendo in una repubblica?
Interessante notare come gli esponenti politici che commettano vilipendio (mi vengono in mente Bossi, Grillo e Storace, sempre in relazione a Napolitano, peraltro) non finiscano nei guai. Insomma, siamo alle solite, paghi solo se sei un comune cittadino che non conta nulla.
In tutto questo, mi sto ancora chiedendo dove siano le mie vittime visto che un reato, per essere tale, si presume ne abbia: deve fare del male a qualcuno o danneggiare qualcosa, direi. La verità è che i reati ideologici/politici (per di più a mezzo internet) non ledono niente e nessuno, mentre l’iter giudiziario – che dura ormai da ben 13 anni e rotti, e già questa è una pena – danneggia chi si espone con idee politicamente scorrette (sequestro di costoso materiale informatico o telefonico pulito, disagi famigliari, ricadute sociali, spese legali e processuali e via dicendo). Ripeto: ho sicuramente sbagliato nei toni, in certi contenuti, nello stile ma trascinare una persona in tribunale, finendo nel penale, per degli affari simili è decisamente spropositato, così come la pena che mi è stata inflitta. Forse qualcuno pensa realmente che io sia un criminale?
Sarebbe interessante conoscere anche le motivazioni di chi mi denunciò in blocco nel 2009, ossia gli studenti della sinistra universitaria bergamasca con la compartecipazione di un dirigente dell’ateneo, ma l’esito è scontato: l’antifascismo – che crede di aver vinto, 80 anni fa circa, una guerra – si proclama moralmente superiore a tutto e tutti, senza rendersi nemmeno conto di come sia divenuto, a sua volta, una dittatura. Chi si sottrae a questo regime diventa un reprobo da punire severamente; non solo, anche da esporre, periodicamente, al pubblico ludibrio indicendo campagne d’odio mediante gogna social. Se lo fanno i “fascisti” è un “attentato alla democrazia”, se lo fanno lorsignori è una “doverosa opera di sensibilizzazione socioculturale”.
Peccato che il sottoscritto sia innocuo, senza alcuna inclinazione violenta e aggressiva, incapace di fare del male gratuitamente a chicchessia, anche perché civile e morigerato. Notoriamente, ironia della sorte, i veri violenti sono nelle fazioni dei benpensanti “rossi” che si credono superiori perché eredi di coloro che aiutarono l’invasore angloamericano e titino, balzando sul carro dei vincitori.
Chi mi segnalò alla questura di Bergamo sapeva benissimo che non sono un soggetto pericoloso, ma la bava alla bocca della sinistra verso tutto quello che non coincide col suo assolutismo relativista (un ossimoro che rende bene l’idea dei “valori” progressisti) è risaputa, e così i tanto odiati “sbirri”, sputacchiati e spernacchiati durante le manifestazioni, vengono però invocati a gran voce e blanditi quando si tratta di dare la caccia ai “fascisti”, e si tramutano in eroi. Ci sarebbe anche da riflettere su come la magistratura raramente sia espressione del territorio lombardo, ma questo riguarda le annose magagne concorsuali e l’estrazione etnica peculiare di chi lavora nel pubblico impiego in generale.
Io ho sempre esposto il mio pensiero mettendo nome, cognome e faccia, perché detesto l’anonimato e non ho nulla da nascondere. Chi ti denuncia o segnala in massa, invece, la faccia non ce la mette e fa affidamento su leggine liberticide, volte a reprimere il dissenso verso le posizioni mondialiste tricolori. Leggine che sono il tributo italiano, od occidentale in genere, allo status quo e a coloro che manovrano gli stati-apparato ottocenteschi nell’ombra.
Gli antifascisti si credono tanto superiori ma hanno bisogno dei reati ideologici per mettere fuori gioco gli avversari. Gli piace vincere facile insomma, incuranti del fatto che ‘censura’ faccia rima con ‘paura’. Coloro che sporsero denuncia contro il Sizzi (per ragioni ideologiche, ripeto), senza nemmeno affrontarlo a viso aperto, non sono certo migliori di lui.
La Lega, in uno dei rari momenti di lucidità della sua dirigenza, anni fa raccolse firme proprio per abolire la legge Mancino, ma non se ne fece nulla. Qui, nell’Europa schiavizzata dalla Ue, più si va avanti e più spuntano come funghi leggi atte a stroncare il dissenso e il politicamente scorretto: le “mancinate”, il vilipendio di pezzi di stoffa giacobini e massonici, l’offesa alle cariche istituzionali come fossero intoccabili emanazioni divine, il negazionismo, l’omofobia, il sessismo, l’antisemitismo e l’antisionismo, i deliri in stile ddl Zan.
Credo che uno Stato bisognoso di inventarsi queste cose sia un’entità fragile e timorosa, incoerente coi suoi dogmi liberali e democratici. Che senso ha perseguitare e reprimere delle semplici idee, arrivando a rovinare chi le professa? Di cos’hanno paura a Roma?
Il problema della Repubblica Italiana è che è uno Stato senza nazione, in quanto espressione politica volta a rappresentare un popolo inesistente: l’italiano in senso artificiale, dalle Alpi a Lampedusa. L’Italia è schiava dell’atlantismo e questi sono i risultati; sanzionare idee, opinioni, libera espressione della gente comune è il pegno della sudditanza tricolore ai “vincitori” e ai (presunti) valori occidentali, che sono modellati sui capricci statunitensi.
Riconoscendo di aver, a suo tempo, sbarellato su alcune questioni (ma ero comunque ventenne) mi auguro che di leggi simili non ve ne sia più bisogno e possano venire abrogate, e che, se da una parte chi manifesta pubblicamente le proprie idee sappia farlo in maniera civile e razionale, dall’altra possa farlo in santa pace, senza l’angoscia di ritrovarsi la digos all’uscio il giorno dopo.
Ho già affrontato il tema religioso nel precedente articolo sul mio pensiero filosofico (qui), ma ora riprendo la questione nel dettaglio. Il sottoscritto è, infatti, nato e cresciuto in una realtà famigliare e sociale paesana in cui la componente cattolica è (o era) fondamentale, e che di certo ha segnato profondamente la sua formazione.
Da secoli la Bergamasca è considerata un po’ come “l’anticamera del Vaticano”, non solo per la mitologia del “papa buono” di Sotto il Monte (che dista pochi chilometri da Brembate di Sopra, dove risiedo) ma anche perché assai radicato è il tradizionalismo cattolico espresso dalla terra orobica, una terra alquanto rustica e contadina (un tempo, perlomeno).
Il fatto ilare è che, prima del Concilio di Trento, le cose non dovevano essere esattamente così: vuoi per la tradizione medievale ghibellina (a differenza di Milano e Brescia), vuoi per le eresie che attraversavano il nostro territorio precedentemente alla Controriforma, vuoi anche per la tolleranza della Serenissima proprio nel Bergamasco fu possibile una consistente immigrazione di protestanti (e capitali) svizzeri, il che la dice lunga. Negli ultimi secoli, tuttavia, la Chiesa orobica è diventata assai potente ed influente, rendendo Bergamo una delle città più “bianche” e “reazionarie” della Cisalpina.
Anche in tempi recenti, nonostante la sciagurata svolta ecumenista del Concilio Vaticano II, l’Orobia rimane nota per lo zelo cattolico dei suoi figli più conservatori, particolarmente quelli che, quanto me, sono nati in famiglie vetuste della prima metà del ‘900, le cui origini affondano nell’humus povera e semplice del contado bergamasco tra le due guerre mondiali. Naturalmente anche a Bergamo e suo territorio, oggi, la presa del cattolicesimo è alquanto ridimensionata, sebbene l’alone di perbenismo da sacrestia rimanga; l’imponente seminario vescovile che domina la Città Alta è semivuoto.
I miei genitori – classe ’35 il padre e ’45 la madre – sono stati allevati a suon di imperativi morali cattolici, famigliari e lavorativi: cà-césa-laurà, laurà-césa-cà, in cui “ol Signùr” rimane sempre al centro delle preoccupazioni e degli interessi. Per carità, ottimo antidoto ai veleni della modernità (e dell’antifascismo), se non fosse che i preti ci marciavano (assieme alla bògia, l’epa, dei marchesi). Ho ancora impressi gli aneddoti paterni e materni sulla meschinità del clero dell’epoca – e sul parassitismo dei “nobili” – e per quanto non mi reputi certo un (neo)giacobino prendo le distanze dallo spirito vandeano: il binomio trono-altare non mi fa impazzire, anzi…
Dicevo, ho sempre riconosciuto il ruolo per certi versi positivo della triade vernacolare succitata; il culto della casa sprona all’endogamia famigliare proficua e al radicamento nel territorio, il che comporta attaccamento ai propri natali; il culto della religione cattolica allontana i grilli dalla testa della gioventù e contribuisce ad acquisire uno stile di vita sobrio e austero; il culto del lavoro allontana gli spettri dell’assistenzialismo e del lassismo che imperversano nel vero sud europeo (cioè nell’Italia etnica, per capirsi) suscitando le mafie, il familismo amorale e il profitto parassitario e truffaldino.
Però, si capisce, vi sono anche delle controindicazioni: il culto della casa può rendere ottusi, misoneisti, campanilisti, misantropi (individualisti in senso negativo, insomma); il culto della Chiesa – di questa Chiesa – rende schiavi del nefasto mito “giudaico-cristiano” e del malato universalismo postconciliare; il culto del lavoro – e del fatturato – intossica il lombardo facendogli credere che si viva per lavorare (e non che si lavori per vivere), cosicché i furbastri se ne approfittano e noialtri facciamo la figura degli asini da soma ignoranti, bifolchi e succubi del sistema che ci frega ormai da decenni, dopotutto per il nostro disinteresse politico o per il gretto conformismo unionista.
Insomma, è una questione di equilibrio e razionalità e di ridimensionamento del concetto di ‘culto’, che si addice invece, pienamente, alla patria. La nazione (la Lombardia) non può essere messa in discussione ed è ciò che deve rappresentare, per tutti i lombardi, la priorità, il bene inestimabile da difendere con le unghie e con i denti, il valore fondamentale che unisce, invece di dividere. Mi si consenta l’inciso sotto, a questo proposito.
La mia idea di Grande Lombardia non avrà nulla da spartire con quella di un ipotetico antifascista “lombardista”, però è suggestivo pensare che, finalmente, pure chi ha idee politiche agli antipodi delle mie possa guardare non più alla finta patria dalle Alpi alla Sicilia ma a quella vera dal Monviso al Nevoso e dal Gottardo al Cimone. Il concetto storico di Lombardia e il sentimento nazionale lombardo non sono l’elucubrazione di un pensatore o di un partito/movimento (che ne hanno l’esclusiva), sono la verità che tutti i lombardi dovrebbero riconoscere ed abbracciare, a prescindere dalle ideologie. Detto questo, il lombardesimo (inteso come etnonazionalismo lombardo) è una cosa ben precisa e per nulla inclusiva, ma la patria lombarda non è una fantasia o una proprietà intellettuale del sottoscritto. Ci possono essere diversi modi di essere lombardisti anche se, forse un po’ narcisisticamente, in questi anni ho rivendicato l’appellativo per me e per i miei sodali.
Torniamo a noi. Il credo famigliare delineato più sopra è profondamente intriso di alpinismo (antropologicamente parlando), risente cioè della mentalità tipicamente alpina, con le sue virtù ma anche i suoi bravi vizi: bigottismo, grettezza, feticismo del lavoro e del denaro, parsimonia esondante nella taccagneria, cocciutaggine scontrosa che però, spesso, svanisce di fronte al pungolo delle gerarchie – che se ne approfittano delle paure del popolino nostrano – dando luogo alla più bieca omologazione.
La Chiesa contemporanea sfrutta a meraviglia queste innate debolezze lombarde: se un tempo il clero si dilettava nel tenere immersi i poveracci nell’ignoranza più crassa e nell’oscurantismo, funzionali al suo arricchimento parassitario, oggi flagella i loro figli col terzomondismo e con quella melassa ecumenista e sincretica tesa ad accattivarsi le simpatie del mondialismo e del sistema (un sistema, paradossalmente, ateo, progressista e del tutto secolarizzato dalle ingordigie plutocratiche di una certa matrice).
A conti fatti la moderna religione cattolica non preserva affatto dall’auto-genocidio degli Europei, anzi, lo fomenta! Risulta peggiore dell’ortodossia in questo e in pari con gli eretici nordici: il luteranesimo ha spalancato le porte al delirio suicida dell’Europa settentrionale, imitato con zelo proprio dalla Chiesa postconciliare varata da Roncalli e Montini (è curioso come la distruzione del cattolicesimo sia avvenuta per opera di un tandem bergamasco-bresciano).
‘Cattolico’ significa ‘universale’, essendo la Chiesa di Roma erede dell’ideale imperiale romano, ma la coloritura che il Concilio Vaticano II ha dato al concetto di universalismo non è altro che un pervertimento di stampo progressista. ‘Universale’ non significa meticcio, cosmopolita, pluralista, relativista, arlecchinesco (in tutti i sensi), giudaizzato, tutti aggettivi che si confanno al cristianesimo cattolico uscito dal triennio da incubo 1962-1965.
Il sottoscritto, come ho già avuto modo di dire, è rimasto cattolico credente fino al 17 marzo 2009 anche se praticante smisi di esserlo nell’ottobre 2008. Questo distacco scaturì da un generale prolasso religioso principiato nella primavera del 2006 proprio quando mi avvicinai alla dottrina etnonazionalista.
Fino ad allora ero stato, a partire dai 14 anni, un cattolico duro e puro, gran bigotto, assiduo frequentatore di chiese e oratori, spietato nemico di blasfemia, ateismo, agnosticismo, modernismo, sincretismo, deviazionismi, eresie, sette e ostile agli altri credi, tra cui quelli neopagani (che non confonderei col paganesimo originale). Naturalmente, ma quello ancora oggi, ostile anche al degrado morale e spirituale delle giovani generazioni che mi circondavano. Più che intimamente cristiano ero esteriormente cattolico, insomma.
Prima dei 14, il mio cammino religioso non fa testo essendo frutto dell’educazione famigliare impartita dall’alto a tutti quelli della mia generazione, ma sicuramente acuita, nel mio caso, dall’anziana natura dell’ambiente domestico e sociale da cui provengo. La mia famiglia diede alla Chiesa due sacerdoti: un prozio e uno zio paterni. E anche dal lato di mia madre vi sono un sacerdote spretato e una suora.
Nel 2006, dunque, la svolta che mi portò nel giro di tre anni a piantare in asso la fede cattolica e tutti gli annessi e connessi. Abbandonai il cattolicesimo, il cristianesimo, e la religione medesima, perché stanco del mondo clericale “impreziosito” dal terzomondismo egualitarista; stanco di un credo che bollavo come semitico, e dunque all’Europa estraneo; stanco della superstizione, del bigottismo, dell’oscurantismo che promanano dalla religione in generale e dal cattolicesimo in particolare (questo ciò che credevo allora).
Con il 17 marzo 2009, giorno simbolico di San Patrizio (ovverosia il compromesso tra cristianesimo e paganesimo autoctono), divenni gradualmente anticristiano, irreligioso, empio tanto che feci del razionalismo identitario un nuovo credo, al fine di preservare l’identità e la tradizione genuine (per i parametri dell’epoca), senza più inquinamenti “giudeo-cristiani” e islamici.
Ho già ricordato come mi sia lasciato alle spalle questo periodo di furore ideologico giovanile (durato una decina d’anni), sorta di ribellione culturale ad un passato asfittico fatto di educazione cattolica maldigerita e mai vissuta come qualcosa di veramente genuino e cristiano. Tra l’altro non abbandonai la Chiesa per divenire neopagano, ma per sviluppare un punto di vista amorale (con riferimento alla filosofia di vita cristiana) mirato alla critica di ogni fenomeno religioso, sebbene – per coerenza etnicista – benevola nei riguardi dei credi tradizionali precristiani.
Oggi, pur non essendo religioso, riconosco tranquillamente la mia formazione cattolica, difendo il tradizionalismo tanto gentile quanto cristiano e prendo le distanze da quanto andavo dicendo sino all’estate 2019; maturando definitivamente (sono alla soglia degli -anta) posso conciliare l’anima pagana dell’Europa con quella cattolica, anche perché la solarità ariana della prima è confluita nella seconda. Il cattolicesimo cui mi riferisco, ovviamente, è quello preconciliare, e la gentilità che ho in mente è quella vera, precristiana. Il nuovo corso della Chiesa è uno snaturamento del cattolicesimo, e il neopaganesimo nient’altro che una pagliacciata modernista.
Non sono molto interessato alla spiritualità, non è il mio campo, tuttavia riconosco l’importanza culturale della religione nella vita identitaria di una comunità; a patto che non si metta di traverso in campo politico. Il cristianesimo cattolico alla Wojtyla mi ha attossicato, ma sarebbe sbagliato fare di tutte l’erbe un fascio sparando a zero su ogni culto (legato alla Lombardia e all’Europa, ovviamente). Nutro stima e simpatia per la religione tradizionale eurocentrica, perché marcia stando al passo col nazionalismo etnico, senza anteporvi stupidaggini irrazionali e buoniste che sono frutto dell’opportunismo di chi vuole sopravvivere inciuciando con la modernità. Difendo i valori spirituali, religiosi, culturali ereditati dall’epoca ariana, che sono certamente in linea coi valori razziali, ancorché filtrati dall’ottica greco-romana (quindi cattolica).
La paccottiglia postconciliare esalta la fantomatica componente giudaica del cristianesimo, rinnegando la classicità e l’eredità indoeuropea che sono alla base del credo cattolico. Il cristianesimo non è un’eresia dell’ebraismo, i fratelli maggiori dei cristiani non esistono, le radici giudeo-cristiane dell’Europa sono un mito a cui giusto il papa polacco (non per niente) e i suoi accoliti possono credere seriamente. E gli ebrei restano gli uccisori del Cristo, i deicidi, con buona pace del mio pingue conterraneo riformista.
Gli innumerevoli elementi gentili mutuati dal cattolicesimo smentiscono ogni macabra fantasia di ammucchiate ebraiche. La liturgia, il calendario, la gerarchia ecclesiastica, il culto dei santi, le festività precipue e minori, il marianesimo (oggi decisamente eccessivo e invadente, sempre per cagione del polacco), gli antichissimi riti, le preghiere, la figura del pontefice (!), l’adozione del latino sono tutti elementi gentili ricoperti di vesti cristiane. Che cos’è il cattolicesimo se non l’insegnamento di Gesù di Nazareth innestato sulla precedente religio romana? Per non parlare della scolastica, del tomismo, dell’apologetica che sono debitori del pensiero filosofico greco, sviluppatosi in contesti pagani. Possiamo concepire il cristianesimo senza mondo classico greco-romano?
E che dire della centrale figura del Cristo? Gesù era, certo, di formazione mosaica ma la sua figura storica scolora in quella sacrale della solarità indogermanica, tanto da venire accostato a diverse deità orientali venerate da popoli ariani. Il suo Natale è quello del Sole Invitto, la sua Pasqua di Risurrezione è la rinascita primaverile della natura osservata con sensibilità cosmologica dalla religiosità dei nostri arii padri. Il Dio (trinitario) di Gesù Cristo non è il dio dei moderni giudei e dei musulmani: i primi praticano un credo medievale raccogliticcio avulso dal mosaismo “positivo” del Nazareno, i secondi praticano un’eresia del cristianesimo.
Il concetto di “religioni abramitiche” è una delle tante baggianate pressapochistiche che piacciono alla galassia modernista – nata su internet – dei vari neopagani, new age, wicca, amanti di magia ed “energia” e chi più ne ha più ne metta, le cui fissazioni e conclusioni nichilistiche non sono poi molto diverse da quelle dei liberal. Come si può mettere la cristianità cattolica, dunque la romanitas, sullo stesso piano di chi crede nel Talmud e nella cabala o nel Corano? Di chi si circoncide, per costumanze desertiche, e ha una forte connotazione etnica semitica? Di chi è intriso di Medio Oriente e in Europa è un corpo estraneo?
Gli ebrei non sono “fratelli maggiori”, perché il cristianesimo non è un prodotto dell’ebraismo (che, ripetiamo, per come lo conosciamo oggi è un culto medievale) e accostare chi mise a morte Gesù con chi ne ha abbracciato il credo è blasfemo (e poi, gli ebrei, prima di essere dei praticanti di una religione sono un insieme di popoli accomunati dalla matrice semitica; un cattolico europeo sarà fratello di costoro?). E i maomettani non sono “fratelli minori”, perché il loro culto desertico, totalmente estraneo all’Europa, sebbene eresia del cristianesimo non è fondato sul Dio di Gesù Cristo (per non parlare, anche qui, del bagaglio culturale levantino e della natura etnica e razziale della stragrande maggioranza dei credenti musulmani).
Mi fa molto divertire l’islamofilia anticristiana di alcuni ambienti neonazisti e neofascisti (nostalgici delle gesta filo-arabe degli originali, che avevano un senso ben preciso): da una parte fissati fino alla malattia con tutto ciò che è nordico, biondazzurro, gelido dall’altra con una fascinazione femminea per le scimitarre e la mitica “virilità guerriera” dei seguaci di Maometto, più semitici e desertici degli stessi israeliti. Come se poi cristianesimo ed ebraismo fossero, appunto, la stessa cosa e come se l’Europa cattolica fosse stata imbelle, castrata, matriarcale ed effeminata… Ricordo anche, a questi soggetti, che la simbologia solare ariana (nonché l’iconografia della croce) è stata assorbita dalla cristologia; ai giudei le stelle a sei punte, ai musulmani le stelle e le mezzelune.
Qualcuno dice che Gesù di Nazareth era ebreo: gli avete scattato delle foto che attestino la sua supposta fisionomia armenoide od orientalide? Oppure lo avete sottoposto ad un test genetico? Magari, già che ci siete, sposate anche tutto il resto del repertorio antirazzista della sinistra petalosa che va dal “Gesù profugo” al “Gesù alternativo” (con le varie diffamazioni empie dei bestemmiatori variopinti). Gesù, per chi crede, era anche Dio, e Dio non può avere caratterizzazione etnica o razziale. Se, comunque, qualche tizio anticristiano del XXI secolo ha i suoi raw data di 23andMe me li dia che li carico su Gedmatch. Sempre che alla storicità di Gesù Cristo questi personaggi ci credano perché mentre gli danno dell’eresiarca ebreo dicono che non sia mai esistito…
Sarcasmo a parte, dico queste cose non solo pensando alla scomposta galassia neopagana (in cui, peraltro, possono anche esserci persone e associazioni rispettabili) ma pure a ciò che io stesso asserivo anni fa, in buonafede ma con indubbia superficialità e fanatismo. L’intento era quello di essere il più coerente possibile con l’etnonazionalismo völkisch e il nativismo, ma non resi un buon servigio alla causa schiettamente identitaria: non si può concepire un’Europa senza cristianesimo, e scristianizzarla equivarrebbe ad assecondare le empie brame del sistema-mondo (e di chi lo manovra), non certo quelle di 4 gatti “gentili”. Altresì, è una sciocchezza reputare il cristianesimo un corpo estraneo, non solo perché radicato nel nostro continente da quasi duemila anni ma anche perché, a ben vedere, non è un corpo estraneo, come già ricordato. Ovviamente, concepisco il cristianesimo esclusivamente in chiave cattolica tradizionalista: gli ortodossi sono scismatici, i protestanti eretici, i postconciliari giudaizzati.
Il mio punto di vista è quello di un laico che, nonostante le tentazioni razionaliste e anticlericali estreme del passato, riconosce l’importanza storica e culturale della religione, a patto che di religione cattolica genuina si tratti. Le altre, per quanto mi riguarda, non hanno alcuna legittimità in Lombardia. Posso tollerare una rinascenza pagana, perché affonda le radici nel passato precristiano celtico, gallo-romano, germanico, ma sono assai scettico sulla fattibilità e la serietà dell’impresa. Anche perché dovrebbe comunque essere un qualcosa che si inserisca nell’alveo del patriottismo lombardo, ed è facile per chi si professa pagano e anticristiano tracimare nella solita isteria antifa che accusa la società tradizionale forgiata dai nostri padri (che erano soprattutto cattolici, prima che gentili) delle peggiori nefandezze.
Sapete com’è: si comincia con le accuse al “monoteismo desertico” e si finisce per sposare i deliri dell’immondezzaio woke d’oltreoceano tra femminismo, antifascismo, antirazzismo, omofilia e piagnistei scomposti che puntano il ditino contro la proterva figura patriarcale del “privilegiato maschio bianco cis- eterosessuale cristiano normodotato”, il tutto condito dal delirium tremens di asterischi, pronomi e schwa. In questo, mi spiace dirlo, ma il paganesimo presta assai più il fianco del cattolicesimo (pure contemporaneo) alla barbarie postmoderna, con le sue ambiguità bisessuali, matriarcali, libertine, relativiste.
Sono, dunque, laico ma non ateo, laicista, pluralista, inclusivista e con soggetti stile Uaar non voglio avere nulla a che fare. Sogno uno Stato etnico lombardo non certo teocratico o confessionale ma che riconosca le radici gentili e cristiane della Lombardia e riconosca dignità e legittimità, in patria, soltanto alle forme indigene di religiosità: cattolicesimo (romano e ambrosiano, latino) e rinascita pagana. Il Vaticano ce lo siamo giocato e, salvo improbabili restaurazioni, meno ficca il naso nei nostri affari interni meglio è. Non ci serve a nulla un papa che fa da carabiniere al sistema, anche se di tanto in tanto si ricorda, stancamente, della tradizione e della lotta al relativismo. Non disdegno, a tal proposito, il progetto di una Chiesa nazionale lombarda autocefala, che sia per davvero tradizionalista e nemica giurata dei veleni della modernità, nonché della Roma che conosciamo.
Allo stesso modo non vorrei che qualche “druido” improvvisato mettesse i bastoni tra le ruote al lombardesimo in nome di chissà quale fola politeista, facendo le veci degli anemici preti castrati dal CVII. Ragazzi, va bene tutto, anche il ricostruzionismo (se proprio ci tenete) ma la politica non può andare al guinzaglio di una fede religiosa, che deve occuparsi di tutt’altro. Il credo assoluto della mia idea di entità statuale grande-lombarda è il sangue, il suolo, lo spirito, dove lo spirito attinge senz’altro alla cultura ariana e romano-cristiana ma senza indugiare nel confessionalismo. Non serve una teocrazia per liquidare il marasma progressista e democratico e condannare ogni forma di rilassatezza dei costumi in materia di etica, bioetica e famiglia.
E dico questo non per lisciare il pelo alla società occidentale secolarizzata, che dal dogmatismo e dall’oscurantismo della Chiesa di secoli e secoli fa è passata al dispotismo “illuminato” dell’assolutismo areligioso. Oggi, nel mondo occidentale (concetto che aborro, io sono lombardo, europeo, bianco, non un affiliato alla succursale europeista degli Usa), si irride e discrimina chi crede in Dio mentre ci si prostra di fronte all’idolo dei diritti umani e civili, prostituendosi al peggior conformismo ateo e laicista. I sommi sacerdoti dello scientismo e del liberticidio vigilano grifagni, a suon di “mancinate”.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedermi se, in definitiva, sono credente oppure no, e in cosa. Non mi pongo troppo il problema; essendo argomento personale, complesso, intimo e nobile al momento non vi è una risposta netta, posso dire di considerarmi alla ricerca, senza pregiudizi atei, per quanto la mia sensibilità spirituale sia debitrice della formazione cattolica (anche perché non mi sono mai accostato ad altre religioni) e mi sia rappacificato con le origini. Ma nella Chiesa attuale non mi riconosco.
La religione è un fatto importante, ma non fondamentale ai fini della politica e del governo di una nazione. Esiste un’eredità spirituale europea – laica – che abbraccia la cura militare e sportiva del corpo, lo studio, il lavoro (per vivere) e soprattutto la cura dottrinale, ideologica, culturale, politica della propria mente, della propria indole, della propria anima; oggi più che mai sarebbe necessario riviverla affinché gli europei tornino guerrieri, padroni di sé stessi e della propria terra, ed indomiti avversari vittoriosi della superstizione mondialista (genocida ed auto-genocida) e del relativismo anti-identitario. L’attuale religiosità occidentale, fondamentalmente incarnata dal cattolicesimo (l’eresia luterana e calvinista non fa testo), sta perdendo il mordente spirituale e proprio per questo scende a patti col regime per riguadagnare terreno, con conseguenze disastrose. Ma la soluzione è la tradizione, non la blasfemia.
La mia visione politica è solidamente ancorata al credo völkisch. Non può esistere una politica fatta di compromessi, trasformismi e ribaltoni in tale ottica proprio perché prima di darsi a quest’arte ci sarebbe l’impellente necessità di riabituare la popolazione ai sani dettami etnonazionalisti, ormai sepolti sotto metri di letame liberale e progressista.
Gli stessi soggetti (meta)politici che animavo in precedenza, a differenza della galassia pataccara leghistoide, prima di imbarcarsi in avventure elettorali e amministrative decisero, assai saggiamente, di informare, formare e catechizzare i lombardi, per farli sentire tali, per acculturarli, per svolgere tra di essi una doverosa e costruttiva attività “missionaria” che mai nessun movimento/partito s’è preso la briga di condurre, essendo tarantolato dall’ansia elettorale e dalla fame di voti, poltrone e stipendi dorati.
La visuale indipendentista, maturata nel 2006 e relegata in soffitta (per fallace realpolitik) dal 2014 fino all’estate 2021, è fondamentale e più che mai attuale, doverosa per sgombrare il campo da ogni equivoco circa l’inesistente italianità della Grande Lombardia. La mia visione politica è assai realista e concreta e prima dello strumento governativo avverte tutta la necessità di rieducare i lombardi; ma l’obiettivo finale rimane la liquidazione della Repubblica Italiana e la totale autoaffermazione della nazione grande-lombarda, anche se ora può parere utopico.
Prima, comunque sia, si fa cultura, dottrina, propaganda ideologica e identitaria – lombardista nel nostro caso – e poi, se si hanno tutte le carte in regola, si può intraprendere la carriera politica. Farlo prematuramente sarebbe un suicidio per tutte le parti coinvolte. Però è chiaro: un soggetto politico ben avviato non deve più sottrarsi alla pugna e deve scendere in campo concretamente, dandosi da fare per la nazione lombarda, altrimenti la politica rimarrà sempre tra le grinfie dei plutocrati e degli utili idioti.
Ciò nonostante ho ben chiaro che tipo di politica io voglia per la Lombardia e l’Europa e non può che essere etnonazionalista e comunitarista, del tutto aliena dalle classiche politiche bizantine, liberali o progressiste, attuali. Degne dunque della repubblica che rappresentano, dell’occupazione italiana delle Lombardie.
Una delle tipiche tare della politica mediterranea orientale, ma ormai globale, è quella del compromesso, del cavillo, dell’inciucio, del cosiddetto politicamente corretto basato sulla perversa logica del do ut des, che ha un tremendo fortore mafioso.
Oggi la politica occidentale funziona così: americani ed ebrei, dunque israeliani, hanno sempre ragione, pertanto tutto il resto – a partire dall’Europa ridotta a Ue (ossia a cagna al guinzaglio dei ricchi padroni) – deve ruotare attorno ai loro capricci; non c’è alcuna possibilità di fare politica realmente basata sui bisogni del popolo amministrato, si deve sempre e solo sottostare ai dettami che provengono da oltreoceano, filtrati dagli enti supini come, appunto, l’Unione Europea e gli stati-apparato ottocenteschi, nati per strozzare le genti europee in favore del danaro, delle logge, delle mafie e degli interessi di pochissimi a scapito di moltissimi.
Sicché, chi decide di far politica deve ingoiare tutta una serie di rospi che portano inevitabilmente al crollo del proprio partito, se radicale, ma in compenso alla poltrona sicura per il politicante maneggione di turno, che ben si adatta ai vizi dei potenti. Camerieri in giacca e cravatta lautamente stipendiati.
Io sono del tutto nemico di una squallida politica simile; da lombardista, etnonazionalista, socialista nazionale non posso che avere in ispregio il compromesso e la modernità amministrativa che gira attorno al soldo e si dimentica del popolo; proprio per questo ritengo che prima di far politica si debba fare metapolitica, militanza con le mani libere (ma col cervello nel cranio, ovviamente) volta all’educazione degli elettori di domani, che oggi non sono altro che pecoroni, o figli di pecoroni, abituati a dire sempre di sì ai capricci dei poteri forti in cambio del classico panem et circenses.
Non auspico una dittatura, ci mancherebbe, ma vorrei che il dibattito politico non fosse inficiato dal dogmatismo liberale e socialdemocratico che pone mille paletti, mille tabù, mille bavagli a proposito di delicate e scottanti tematiche d’attualità, e che si configura – quello sì – come un regime dispotico. Si parla sempre, e sempre a sproposito, di libertà, e poi si finisce puntualmente con le censure, le leggi liberticide, le denunce con condanne, il tutto semplicemente perché si rivendica la libertà di pensiero e d’espressione che dovrebbe essere uno dei valori più cari di questa corrotta società “illuminista” e democratica.
Sappiamo però bene che l’Illuminismo non sia affatto sinonimo di libertà, semmai di semi-libertà all’interno di un regime carcerario che dura dal ‘700, salvo brevi luminose parentesi. E non parliamo delle rivoluzioni borghesi (o bolsceviche): scaturite da presupposti rispettabili – sbarazzarsi, cioè, dei parassiti – non sono state altro, nella loro degenerazione, che uno strumento anti-tradizionale nelle grinfie dei soliti noti. I padri “nobili” di antifascismo e antirazzismo vanno rintracciati in questi foschi periodi di egualitarismo sanguinario.
Non c’è spazio, oggi, per gli identitari seri in questa politica fatta mercimonio, una politica infida, mafiosa, massonica, vassalla del mondialismo e dei ricchi sfondati senza alcun merito e qualità. Ma è ora che gli identitari seri si diano da fare per poter, un domani, avere seriamente voce in capitolo.
Rivendico una visione politica schiettamente etnonazionalista, che nel caso lombardo traghetti l’attuale, inventata, Regione Lombardia dallo status quo italiano di artificiale entità amministrativa senza storia a motore insubrico di un’unificazione nazionale panlombarda che si batta per la libertà da Roma e dalla baracca euro-levantina del tricolore (così come da ogni altro ente sovranazionale che tiene l’Italia per le gonadi).
L’indipendenza è la tappa finale, cui si spera di approdare dopo aver posto le basi dell’irredentismo grande-lombardo: Insubria, Piemonte (e Val d’Aosta), Emilia, Orobia, Liguria, Romagna per la Lombardia occidentale “gallo-italica”, Veneto, Rezia cisalpina (Trentino e Alto Adige, cioè il vero Tirolo), Friuli e Venezia Giulia (storica, il Quarnaro è il confine naturale) per la Lombardia orientale reto-venetica. Questo per capirci; la distinzione canonica sizziana, come sapete, è quella tra Lombardia etnica e Grande Lombardia.
C’è una bella distinzione tra indipendentismo e famigerato “handipendentismo”: il primo è la sacrosanta battaglia di una nazione per l’affrancamento da una malata e corrotta entità statuale senza storia (Lombardia ∼ Repubblica Italiana), il secondo è una pagliacciata libertaria alla leghista, o alla progressista, fondata su tragicomiche rivendicazioni pseudo-nazionali dove l’oggetto del contendere è spesso una patetica micronazione. Gli stati-apparato vanno liquidati, ma non certo per fare spazio ad un’Europa ridotta a spezzatino in stile Liechtenstein, San Marino, Lussemburgo.
L’esempio negativo della Lega Nord è emblematico, anche perché funzionale all’inflazione e alla banalizzazione di tematiche altrimenti importantissime. A cosa sono serviti trent’anni di servaggio repubblicano (spesso governativo), nonostante una marea di proclami smargiassi prima autonomisti, poi federalisti, poi secessionisti, e ritorno? Dopo la farsa elettorale padanista, infatti, ecco di nuovo il federalismo, poi la devolution (termine molto padano, devo dire) e il federalismo solidale (?), tutto questo finalmente negato da una patetica svolta italianista dettata dal più becero opportunismo poltronaro. A che sono serviti, dicevamo? A nulla, se non a ridicolizzare l’istanza identitaria doverosamente indipendentista. Il leghismo, oltretutto, è sempre stato un fenomeno libertario, ora pitturato di rosso ora di nero a seconda della convenienza politica, del tutto avulso dall’etnonazionalismo (dunque dal razionale culto di sangue, suolo, spirito).
I furbastri verdoni (già, il verde, pacchiana trovata mercatistica) hanno però ottenuto – alle spalle dei cosiddetti “militonti” e dell’elettorato boccalone – poltrone, incarichi, ministeri, stipendi dorati, lauti vitalizi, ricche prebende, agevolazioni danarose d’ogni genere, scandalose immunità e la missione, per loro, è più che compiuta. Da qualche anno, per sopravvivere, colmano il vuoto lasciato dalla dipartita di Alleanza Nazionale nella destra italiana, anche se devono fare i conti col postfascismo meloniano, che è il vero erede di Almirante e Fini. Che triste epilogo, il “carroccio”…
Salvini ha definitivamente sgombrato il campo dagli equivoci padanisti della Lega, ma la situazione fu da subito evidente a tutti coloro che avevano un minimo di sale in zucca: la degenerazione italiana fu cagione dello stesso Bossi, uno che non disdegnava di circondarsi di “terroni” assorbendone il malcostume. Quelli con la cravatta verde – un po’ come oggi i pentastellati – dovevano conciare Roma per le feste rivoluzionandola, ma è stato l’esatto contrario: l’icastica immagine di un Umberto invalido, ingozzato di rigatoni dagli italici Alemanno e Polverini, è il ritratto perfetto della Lega Nord.
La scomparsa del leghismo vecchia scuola è un bene, perché non è mai stato nulla di genuinamente lombardista, anti-italiano, indipendentista. A livello locale, sicuramente, la Lega può anche aver avuto qualche merito, e alcuni personaggi vicini ad essa non sono stati degli imbecilli (penso a Gilberto Oneto). Oggi non esistono più partiti di peso che si occupino – anche se in maniera approssimativa e cialtronesca – dell’autodeterminazione grande-lombarda; ma, come dicevo sopra, prima occorre informare, rieducare, formare i popoli lombardi tramite l’acculturazione e la presa di coscienza della propria genuina identità, altrimenti è tutto inutile.
Esistono diversi soggetti politici padano-alpini che si occupano, senza la benché minima base ideologica e culturale, di fumosa indipendenza (per questioni meramente economiche, si capisce); sono gli orfani della Lega bossiana, fondamentalmente, che animano patacche e liste-civetta finalizzate ad ottenere qualche poltrona e nulla più. Oppure sono associazioni un po’ più serie, ma velleitarie, che ricalcano alcune realtà straniere per accreditarsi agli occhi dell’europeismo di Bruxelles, eleggendo a proprio campo d’azione regioni inventate dall’odiata Roma. L’indipendentismo privo di solido retroterra culturale (lombardista, nello specifico) è inutile e non farà altro che ricalcare gli errori “padani”, impelagandosi senza via d’uscita nelle solite faccende finanziarie.
Per carità, lasciamo perdere i replicanti leghisti e battiamoci, invece, per una vera e propria rivoluzione culturale etnonazionalista, che sia l’anticamera di una futura azione politica genuinamente indipendentista, non più fondata su finte nazioni, regioni artificiali, macroregioni di comodo ma sull’unica nazione dei popoli cisalpini, che è la Lombardia. E, naturalmente, giustificata non, o perlomeno non solo, da banali pretese pecuniarie (per quanto importanti) ma da ragioni etniche, culturali, linguistiche, geografiche, ambientali, antropologiche, storiche, civili, spirituali, folcloriche e così via.
Abbiamo tremendamente bisogno, anzitutto, di cultura militante, e poi, se tutto va per il verso giusto, di politica militante dura e pura che tenga in non cale la modernità e si batta con ogni mezzo per i diritti sacrosanti della Lombardia indipendente e di un’Europa confederale, imprigionate in gabbie amministrative e sovranazionali antistoriche che le opprimono in maniera inaccettabile.
Valori sacri come il sangue, il suolo, lo spirito (inteso come identità e tradizione) non possono essere negoziati, perché non si può negoziare sulla libertà e sulla vita degli europei. È una questione di civiltà, una civiltà ormai da troppo tempo violentata dal regime antifascista che tiranneggia il continente, soprattutto ad occidente, riannodandosi all’infame mentalità contemporanea che è il frutto del 1789.
La politica deve finalmente essere radicale, rinnovata da una salutare palingenesi, perentoria, e deve attingere da forze fresche che sappiano conciliare a meraviglia la formazione spirituale con quella fisica, partendo dal presupposto che si debba avere le carte in regola anche da un punto di vista etno-razziale. Altrimenti tanto vale rimanersene a casa a poltrire in pantofole, piuttosto che fare danni su danni che, naturalmente, si ripercuotono sul popolo e non sui politicanti di turno.
Servono uomini, servono lombardi, non polentoni, “italiani del nord” o “padani” (intesi in accezione legaiola). Vogliamo davvero farla finita con il perverso sistema-Italia (e il mendace concetto di nazione italiana) e il nefando sistema-mondo? Benissimo, dimostriamolo rivoluzionando la politica stessa sennò, davvero, la si smetta di bestemmiare il nome lombardo e si vada ad ingrassare le file dei partiti italiani di destra-centro-sinistra, tutti uniti nel leccare e riverire i padroni, essendo emanazione della rivoluzione borghese partita dalla Francia (altra finta nazione, sebbene non ai livelli demenziali dell’Italia).
Pertanto, prima si crei la base mediante cultura e attiva militanza metapolitica, mediante dottrina etnonazionalista, e poi e solo poi, se tutto va per il verso giusto, si scenda in politica come se si scendesse in battaglia, perché mentre si va al mercato delle vacche la gente ci rimette ogni giorno di più, schiacciata com’è da immigrati, regimi antifascisti e mondialisti, squali, rossi annacquati, preti degeneri, tasse, riforme suicide, reati d’opinione e via dicendo.
Prima lombardi, poi politici, non il contrario, altrimenti è davvero la pietra tombale dell’autodeterminazione etnica. Allo stesso modo, prima l’etnonazionalismo, poi le politiche economiche, sennò sembra che ogni scelta partitica debba venire dettata dal soldo e dal materialismo consumistico: la Lombardia non è la Regione Lombardia, la si smetta di confondere colpevolmente le due cose, come se l’unica cosa che contasse per davvero fosse il fatturato.
La vita è guerra, signori; traccheggiare in giacca e cravatta è solo opportunismo auto-genocida e credo sia davvero il caso che la Lombardia riveda il suo pantheon ideale: dall’eroe imprenditoriale, all’eroe patriottico, in senso lombardista, ovviamente.
Non ho particolari autori di riferimento se non la natura: il sangue, il suolo, lo spirito, me stesso. Non credo ci sia bisogno di ispirarsi a qualcuno per maturare una propria visione del mondo e prendere posizione nei vari campi che ci stanno a cuore; spesso basta il buonsenso, ma è chiaro che questo deve essere corroborato da una buona cultura generale e, soprattutto, da una visuale personale sulla vita che passi anche per l’esperienza quotidiana del contatto sociale.
In questo senso gli autori e studiosi classici dell’area etnonazionalista, identitaria e tradizionalista sono assai preziosi, soprattutto se al centro dell’azione (meta)politica mettono il sangue. Più che per me, lo dico per le giovani generazioni, oggi facili prede di cattivi maestri che si fanno alfieri della temperie mondialista.
La mia attuale visione filosofica della vita e del mondo, la mia Weltanschauung, nasce da un percorso di maturazione che mi ha portato dall’impostazione cattolica postconciliare delle origini, spesso banalmente reazionaria e bigotta, all’amore per la verità che solo le dottrine völkisch sanno infondere compiutamente.
Prima, diciamo fino ai 22 anni, il mio mondo ruotava, un po’ prosaicamente, attorno ai valori della triade Dio-patria-famiglia, laddove Dio sta per il Dio di Gesù Cristo (in chiave cattolica annacquata), la patria sta per un’Italia neoguelfa (campanilista e regionalista, dunque) e la famiglia sta per la famiglia cattolica tradizionale timorata di Dio.
Per carità, va detto che crescendo con questi valori ho preparato il terreno alla mia visione del mondo rinnovata, e ho vissuto un’adolescenza e una prima gioventù integerrime di fronte alle tentazioni mondane della corruzione che nascono dal tipico nichilismo e relativismo dell’ambito giovanile occidentale.
La fede cattolica – ancorché postconciliare – tramandata dai vecchi mi ha sicuramente preservato dai veleni del mondo (non solo quelli blasfemi, s’intende) e a suo modo mi ha consentito poi di spiccare il volo verso lidi più seriamente tradizionalisti e anti-mondani, nonché coerenti con la mia genuina indole identitaria; pertanto non mi sento di rinnegare nulla della mia formazione etica e spirituale, ed è stato un bene crescere fino ad un certo punto cattolico “da manuale”; se non fossi stato educato cattolicamente e in maniera conservatrice, forse, oggi sarei in pasto al neomarxismo, al liberalismo, all’indolenza totale, al pecoronismo qualunquista, all’epicureismo.
La mia personale esperienza cattolica (forse più esteriore che intima) mi ha indubbiamente instradato verso i valori maturi che oggi difendo a spada tratta e che vorrei infondere e tramandare ai posteri. Sarò sempre grato a mio padre, mia madre, i miei vecchi per l’educazione ricevuta e non oso immaginare cosa sarei oggi se fossi cresciuto in una famiglia borghese al passo coi tempi, “illuminata”, lacerata da separazioni e divorzi e, soprattutto, da principi ispirati alla moderna temperie liberal e antifascista.
È sicuramente una questione più culturale che religiosa, perché genuinamente cristiano, in fondo, non lo sono mai stato; all’epoca mi son sempre dichiarato una sottospecie di crociato in perenne lotta con la dilagante corruzione modernista che fa scempio tra i giovani. Ed in questo, sicuramente, l’educazione famigliare è stata fondamentale perché la spartana mentalità alpina dei miei consente di mantenersi integri di fronte alla depravazione, e conservatori (nel giusto) di fronte all’eradicazione dell’identità e della tradizione. Tuttavia, va detto, i miei genitori non hanno mai approvato gli estremismi del sottoscritto, segno di una certa autonomia sizziana rispetto all’impostazione classica della famiglia.
Staccandosi dal cordone ombelicale del pensiero famigliare, è avvenuta la mia maturazione, frutto di meditazione, riflessione e presa di coscienza davanti alle sfide del futuro che mi e ci attendono. Oggi, come sapete, rigetto l’anticristianesimo, ma per una decina di anni decisi di assumere un punto di vista ostile alla religione cristiana, allora accusata di essere un corpo estraneo anti-europeo contrapposto al pensiero völkisch. Ma era un’esagerazione controproducente: a ben vedere non esiste contraddizione tra fede cattolica romana (o ambrosiana) tradizionalista – preconciliare – ed etnonazionalismo.
Nel 2009 ritenni necessario abbandonare la fede cristiana perché la giudicai inconciliabile con l’ideologia razzialista e nazional-sociale, preferendovi un tradizionalismo paganeggiante più in linea con le radici precristiane dell’Europa; volli essere coerente con il radicalismo völkisch adottando il solito repertorio neopagano che accusa, in maniera indistinta, il cristianesimo di essere una fede “abramitica” scaturita dall’ebraismo, di avere lo stesso dio dei giudei, di fondarsi su una figura (Gesù Cristo) di origine ebraica e di adottare una morale buonista, ecumenista, progressista, terzomondista, egualitarista, immigrazionista per nulla indoeuropea.
Per inciso: sono accuse, quasi del tutto, campate per aria, provenienti da ambienti troppo spesso pagliacceschi che riciclano in salsa tragicomica le argomentazioni nicciane o nazionalsocialiste, senza oltretutto distinguere tra le varie forme di cristianesimo e tra cattolicesimo tradizionale e modernista. La cosa, forse, più singolare è che mentre accusano il cristianesimo di essere irrazionale, superstizioso, fanatico e oscurantista (come pidocchi sessantottini qualsiasi) ricostruiscano – non si sa bene su che basi – un credo abbandonato dagli stessi gentili e interrotto da quasi 2000 anni; credo che, oltretutto, non era certo più razionale della fede cristiana, tra mitologia, politeismo, sacrifici umani, baccanali, orge ed eccessi di ogni tipo. Per non parlare della critica alla religione cristiana di essere molle, disfattista, masochista, femminea, smentita non solo dalle tendenze bisessuali, omosessuali, pederastiche e matriarcali del mondo classico ma pure dalla storia, antica e recente, dell’Europa cattolica (od ortodossa).
Ai tempi, il sottoscritto non ci andò troppo per il sottile, anche perché profondamente disgustato dagli scempi postconciliari di una Chiesa sradicata, scesa a patti con il sistema mondialista, che lo indussero a rompere con gli ambienti parrocchiali. Pur non aderendo a gruppi di ispirazione neopagana, o convertendosi alle pasticciate credenze da essi propugnate, simpatizzai per le pulsioni identitarie in chiave gentile, sviluppando una forma di irreligiosità verso il monoteismo “straniero”. Tuttavia, rigettai l’ateismo militante, dal puzzo marxista, e l’agnosticismo dei borghesi.
Col senno di poi, posso dire che distaccarsi dal cattolicesimo postconciliare (e dallo stantio bigottismo provinciale) fu più che comprensibile, in quanto scelta meditata a lungo e non certo frutto di un colpo di testa. Ma sull’anticristianesimo paganeggiante meglio stendere un velo pietoso; o si è l’imperatore Flavio Claudio Giuliano o qualsiasi attacco postmoderno alla fede in Cristo finisce per diventare un favore agli anticristiani per antonomasia, che non sono certo quattro spostati neopagani. Rispetto la gentilità, non la sua parodia modernista (plasmata su internet), senza dimenticare che lo spirito solare ariano è confluito nel cattolicesimo romano. Le storture “cattoliche” che abbiamo sotto agli occhi oggi sono il prodotto del Concilio Vaticano II: Paolo IV, Pio V, Pio XII non possono essere confusi con Roncalli, Wojtyla e Bergoglio.
Certo, i valori tradizionali del cattolicesimo non sono solo quelli patriarcali, conservatori, identitari, guerrieri, eurocentrici (oggi rinnegati dalle sciagure bergogliane, principiate col mio famigerato conterraneo) ma anche quelli più squisitamente evangelici come l’amore, la pace, il perdono, la carità sebbene lo stesso Cristo non fosse di certo un pacifista e un buonista amante dei compromessi. Fermo restando che amore e perdono, o carità, hanno senso tra singoli, non tra Stati, e che la politica nazionale di un Paese deve essere ispirata al patriottismo, non al catechismo.
E per quanto riguarda le bubbole delle “radici giudaico-cristiane”, dei “fratelli maggiori” e del “cristianesimo eresia dell’ebraismo” basti dire che la fede cristiana è stata plasmata nel mondo greco-romano (Europa), che accostare giudaismo e cristianesimo è ossimorico e che il concetto corrente di ebraismo è qualcosa di medievale; ai tempi di Gesù (che nemmeno era un locutore dell’ebraico) aveva un senso parlare di tradizione mosaica, non di ebraismo, una religione moderna basata su Talmud, cabala e Torah (che non è la Bibbia). Cristo era ebreo? Gli avete scattato foto o fatto un esame dell’ADN? Inoltre, per un cristiano, la vera fede è quella nel Dio (trinitario) del Nazareno, l’unica alleanza tra il divino e l’umano è la nuova ed eterna Alleanza e il vero popolo “eletto” è quello cristiano. I giudei, uccidendo Gesù, si sono chiamati fuori da tutto questo. In che modo, dunque, il cristianesimo sarebbe un prodotto del giudaismo?
Personalmente, allo stato attuale delle cose, sebbene mi sia pacificato con le mie radici, non mi ritengo religioso, praticante, cristiano e per quanto di formazione cattolica il mio punto di vista non risente di influenze clericali, anche perché ho una concezione laica (non laicista) della politica. Va da sé che in Lombardia sarei disposto a tollerare solo il cattolicesimo tradizionale e una rinascenza pagana dei culti precristiani indigeni (anche se sono alquanto scettico al riguardo) e che la mia idea di laicità non ha nulla a che vedere con le cretinerie giacobino-massoniche dei liberali e dei democratici. Le radici dell’Europa affondano nella gentilità ariana e nella romanitas cristiana, non nell’Illuminismo, nelle rivoluzioni borghesi, nel giudeo-bolscevismo e nell’europeismo di cartapesta defecato dall’antifascismo.
Ad ogni modo, dopo i 22 anni, abbandonando gradualmente la fede cattolica (postconciliare) e la visione politica banalmente reazionaria e conservatrice, mi sono concentrato di più sulle verità di scienza, non di fede: l’uomo e la natura. Capiamoci: non l’essere umano inteso come apolide animale planetario (l’unico animale a non avere razza, stranamente) ma come uomo europeo plasmato dalla natura continentale.
Gli uomini non sono di certo tutti uguali, sono suddivisi in razze, che a loro volta sono suddivise in sottorazze, ibridazioni fenotipiche, etnie e quel che a me sta a cuore è la situazione europea, segnatamente cisalpina, che è il territorio di competenza della Grande Lombardia delineata dal sottoscritto sin dal 2006.
Inizialmente, più che sentirmi lombardo, tendevo a rinchiudermi nel guscio del campanilismo bergamasco che non rinnega l’italianità. Il localismo esasperato, in un certo senso, è un sottrarsi alle responsabilità maggiori etnonazionali, senza peraltro mettere in discussione l’innaturale baracca del tricolore.
Ora invece, grazie al percorso di crescita che mi ha consentito di maturare una visione comunque indipendente rispetto al retaggio famigliare (religioso e anche filosofico-politico), posso dirmi lombardista ed etno-europeista, assumendo posizioni eurasiatiste focalizzate su di un cameratismo “imperiale” tra Europa occidentale, Europa orientale e Federazione Russa. L’impero confederale degli europidi va mantenuto, assieme ai buoni rapporti con tutti gli individui di razza bianca, non rinnegati, sparsi per il globo.
Al centro della mia visione filosofica c’è l’Europa, rappresentata dal sangue e dallo spirito e concretizzata nelle sue comunità etnonazionali e nel loro suolo patrio, che unendosi al sangue della stirpe ne ha plasmato il carattere, l’indole, la cultura, la civiltà. Questo non per razzismo o suprematismo bianco, ma per coscienza identitaria.
Tutto deve ruotare attorno al concetto di identità che significa insieme di caratteristiche fisiche e genetiche tipiche di un gruppo di popoli e trasmissibili per via ereditaria; un concetto che include sangue-suolo-spirito, la triade tradizionalista che preferisco, essendo “Dio-patria-famiglia” inflazionata dal pensiero clerico-fascista. Non che la spiritualità, il patriottismo e il patriarcato siano superflui o scontati, anzi! Dipende però da come vengono inquadrati perché il sottoscritto non si riconosce nella reazione, nel nazionalismo italiano e nel fascismo. Nell’ottica etnonazionalista – la mia – il dato religioso e spirituale (pagano e cattolico) rientra in sangue-suolo-spirito, e così patria e famiglia, ispirate alla vera identità e alla vera tradizione (cioè senza degenerazioni tricolori, mediterraneo-levantine e fascistoidi).
“Identità” significa concretezza, contrapposta a tutte le balle di comodo religiose, politiche, filosofiche atte a giustificare la globalizzazione, il multirazzialismo, il relativismo, il pluralismo genocida che distrugge l’Europa in cui i veri identitari credono. E a giustificare anche finte nazioni, come l’Italia, che sono funzionali al sistema mondialista e allo status quo.
Se non ci basiamo sul razionale, ripeto, razionale culto dell’Europa come continente plasmato dalla razza europide e dai popoli di identità biologica europea – figli di sangue e suolo natii – e dunque su una sorta di etno-razionalismo, su cosa vogliamo poggiare la nostra filosofia di vita? Sulle menzogne del politicamente corretto, del buonismo e di religioni moderniste piegate al volere dispotico del sistema-mondo? La razionalità, e il realismo, non sono in contraddizione coi valori spirituali, fondamentali per evitare di farsi risucchiare dal positivismo e dal materialismo zoologico. Fede e ragione sono compatibili, e il connubio potrebbe evitare tanto i fanatismi teocratici da Medio Oriente quanto le degenerazioni atee e laiciste (non meno feroci dell’oscurantismo clericale).
Chi vuole vivere per davvero, nel pieno senso del termine, esalta la genuina identità e tutti i suoi ideali e valori; chi vuole lasciarsi vivere, invece, esalta acriticamente il pervertimento dell’universalismo (che, di base, non è cosmopolitismo nichilista) e il conseguente annientamento di ciò che viene sprezzantemente liquidato come particolarismo, dunque la verità e la natura di una nazione. È il quieto vivere delle amebe standardizzate ed imbastardite dall’idolatria consumista e capitalista, nemica non solo dell’uomo – e dei suoi principi più sacri – ma anche dell’ambiente naturale che lo circonda, del pianeta terra. E, purtroppo, nessuno si sottrae a questa satrapia globalista, tantomeno la Chiesa stravolta dalla rivoluzione dolciastra di Giovanni XXIII che ha barattato col volemosebbene la coerenza di un cattolicesimo tradizionalista nemico giurato della modernità.
Alla luce di tutto ciò, diciamocelo: se Roma non rinnegherà il CV II l’ipotesi di una Chiesa nazionale lombarda autocefala – parte comunque del mondo religioso latino – non sarebbe idea poi così peregrina e balzana.
Sono un maschio bergamasco (dunque lombardo) 38enne, abile, normodotato, eterosessuale, sano e senza allergie od intolleranze alimentari. Digerisco il lattosio senza problemi, il che è sintomo di nordicismo (e stando ad un test genetico ho il gene preposto alla lattasi).
Fisicamente, sono 1 metro e 80 centimetri per 70 chilogrammi, ectomorfo, mesoschelico e relativamente longilineo dunque; moderatamente dolicocefalo, dal viso lungo e stretto (leptoprosopo), biondo cenere scuro con capelli mossi e riflessi dorati, occhi azzurri alquanto infossati, fronte bassa e inclinata con arcata sopraccigliare discretamente pronunciata, naso leptorrino (lungo, stretto e diritto) dalla radice alta, zigomi accentuati, mascella e mento non marcati, filtro tra naso e bocca considerevole, labbro inferiore carnoso, nessun prognatismo.
Lateralmente si evince una testa lunga e medio-bassa con occipite curvo non arrotondato, orecchie dal lobo semi-attaccato e sporgenza sopraorbitale. Collo lungo e snello con pomo d’Adamo in vista.
Il cranio è abbastanza grande, allungato, con volta cranica medio-bassa e osso occipitale sporgente; tempie non arrotondate e – visto dall’alto in norma verticale – appare di forma piuttosto pentagonoide e compresso ai lati. La volta cranica è cilindrica, vista di profilo. Non presento bozzo occipitale.
La carnagione è bianco-rosea, la peluria scarsa e bionda, la barba rada e rossiccia ma crespa, non morbida. Non ho efelidi.
Il fisico è appunto segaligno, con ossa lunghe e robuste, spigolose, ma con più nervo che muscolo. Mani e piedi lunghi con dita affusolate nel caso delle prime. Le dita dei piedi paiono di fattezze “romane”. Il sesso è normoconformato, in linea coi parametri europidi.
Possiamo quindi dire che, tutto sommato, sono dal punto di vista sub-razziale un caucasoide bianco nordo-mediterranide con minori influssi arcaici di tipo cromagnonoide orientale (in gergo, ‘kurganoide’), un fenotipo, di base, non atipico per la Padania e le aree alpine limitrofe (con propaggini mitteleuropee e toscane/corse). L’aria pseudo-slava ravvisata da alcuni è sicuramente frutto delle diluite asprezze balto-cromagnonoidi.
Guardando me, viene naturale pensare ad una fusione fra il settentrionale tipo “ligure” autoctono (atlanto)mediterranide e quello celtico di tipo nordico, irrotto a partire dall’Età del ferro (ma anche prima) in Lombardia, dall’Europa centrale. Solitamente esso è definito Keltic Nordid. I tratti kurganoidi non sono da ascrivere a influssi slavi (inesistenti nella Bergamasca) ma a qualcosa di barbarico o di più remoto (conservatosi nelle Alpi).
Le caratteristiche nordidi sono corroborate dal gruppo sanguigno continentale, probabilmente indoeuropeo, A+, dalla tolleranza al lattosio, dagli ottimi livelli di vitamina D e dai rami famigliari paterno e materno in cui i tratti nordici sono mescolati con caratteristiche alpinidi (nel caso materno) e cromagnonoidi/dinaridi (nel caso paterno).
Mia madre, originaria dell’Isola brembana, è alpinoide mentre mio padre, originario della Val di Scalve, era piuttosto cromagnonoide e dinaroide. Ho inoltre due sorelle fondamentalmente alpinoidi, la prima con influssi dinaridi.
Dal test dell’ADN effettuato, si evince che la linea paterna (R1b-U152) è di origine indoeuropea, italo-celtica, ed è la più diffusa in Lombardia e Toscana (e Corsica); nello specifico, il clade Z36 (che è poi il mio) è di origine celtica/gallica e trova la sua massima distribuzione proprio nel cuore lateniano della Cisalpina. La linea materna è H1m, aplogruppo indigeno derivato da H1, che è il più ricorrente nell’Europa occidentale, di origine paleolitico-mesolitica. H1m è stato identificato in alcuni resti vichinghi di Orcadi e Svezia e, stando alla sua moderna diffusione, pare concentrato per lo più nell’Europa nordoccidentale.
A livello autosomico (non sessuale), invece, rientro perfettamente nel cosiddetto Bergamo sample, campione accademico (HGDP) di granlombardi provenienti dal Bergamasco.
Mi permetto di consigliare anche a voi un test genetico dal prezzo abbordabile, in particolar modo 23andMe, che feci io. La genetica delle popolazioni non si vede ma nel nostro sangue portiamo la stratificazione etno-razziale del nostro albero, che è poi responsabile, in parte, anche del nostro aspetto fisico. Censire geneticamente la popolazione indigena delle Lombardie è una cosa che mi emoziona al solo pensiero.
L’antropologia razziale, o razziologia, comprende antropologia fisica (craniologia e antropometria), genetica delle popolazioni, genealogia, araldica, onomastica, tutte nobili branche del nostro scibile che ci permettono di sapere di più circa le nostre radici, ma comprende anche l’etno-antropologia.
Altre caratteristiche interessanti che possono offrire questi test sono quelle relative ai tratti ereditati, alla salute, alle parentele genetiche con altri utenti testati e alle percentuali di specie umane arcaiche. Senza contare che, per quanto riguarda la schiatta, lo studio è assai approfondito. Altresì, vi è la possibilità di scaricare i propri dati grezzi per caricarli su siti terzi (come Gedmatch) e analizzare i propri risultati in maniera più approfondita.
La propria appartenenza etno-razziale ha risvolti anche sullo spirito, sulla mente e l’indole, sulle nostre inclinazioni; ‘razza’ non è solo dato biologico, materiale, ma anche culturale, spirituale, senza per questo scadere nel razzismo e nel suprematismo (che non sono esclusiva dei bianchi, sia chiaro).
La vecchia antropologia d’anteguerra, poco scientificamente, soleva collegare alle “sottorazze” fenotipiche delle qualità animiche e caratteriali. Volendo fare questa operazione, per mero diletto, potrei dire che l’unione dei tratti nordici e mediterranei mi porta ad essere una persona abbastanza diretta, scabra, leale, onesta, genuina, intrisa di ideali alti e nobili, assai attaccata alle proprie radici e alla propria identità e rispettosa dell’ordine e della tradizione (qualora permeati di aristocrazia vera e propria e di retroterra indoeuropeo). E le asprezze kurganoidi mi donano una pennellata propriamente ariana (non da intendere nell’accezione hitleriana, si capisce, ma in ottica kurganita).
Disprezzo la massificazione e l’individualismo libertino, il conformismo, la standardizzazione, il quieto vivere, la sterile non-vita basata unicamente su fatturato, consumismo ed edonismo, oltre che sullo sterile appagamento dei bassi appetiti umani, e non mi ritengo per nulla una marionetta nelle mani dei pifferai magici. Disprezzo inoltre il cinismo relativista.
Sono senz’altro imbevuto di mentalità bergamasca alpina, che è un po’ rude, gretta, bigotta e testarda, misoneista, ma di certo non sono uno di quei classici padani che pensa solo al lavoro (e al mito dell’imprenditoria), ai soldi e allo stile di vita borghese o da bifolco arricchito, mentre i “foresti” e lo Stato tricolore gliela fanno sotto al naso. Diciamo pure che rielaboro, in maniera originale, il temperamento orobico.
Non mi sento chiamato o “eletto” (come qualcun altro), ma credo di essere un tipo umano piuttosto insolito nella propria ruvida genuinità foriera di disprezzo per la massificazione, nel proprio anticonformismo, nel proprio rifiuto e disprezzo per la modernità devastatrice, la mondanità e il becero andazzo di questi tempi che appiattisce tutto sul profitto e sul superfluo. Come soglio dire:
A só mia s-cèt de chès-ce tép de lögia.
Tendo ad essere nettamente anti-mondano, non ho amicizie nutrite e compagnie, ma non ho problemi col gentil sesso e avverto l’importanza di mandare avanti la stirpe, per sfuggire agli orrori moderni di una Lombardia e di un’Europa nella morsa dell’auto-genocidio spensierato, sebbene non la viva come un’ossessione. Mi rifugio nell’etnonazionalismo, nell’identitarismo e nel tradizionalismo duri e puri, senza alcun compromesso ideologico con lo status quo. Dobbiamo recuperare la nostra perduta eredità ariana/indoeuropea, conciliandola con la nobiltà delle radici romano-cristiane.
Ariana, sì; se parlare di arianesimo, razzialmente, appare oggi fuorviante e un po’ forzato, parlarne caratterialmente e spiritualmente non lo è, perché abbiamo lingue indoeuropee, siamo intrisi di cultura e mentalità indoeuropee, portiamo cognomi e nomi di tradizione ariana, e geneticamente e fisicamente spesso riaffiorano i tipici tratti dell’Ariano, anche nell’Europa occidentale e meridionale. E guardate che ‘Ariano’ non è una bestemmia, è l’etnonimo indoeuropeo, un tempo diffuso in tutto lo spazio indogermanico.
Siamo bianchi, europei, di retaggio ario, lo possiamo tranquillamente dire senza incorrere in anacronismi, neonazismi, ridicolaggini; tuttalpiù i problemi deriverebbero dagli stomachini deboli di progressisti, liberali, cristianucci all’acqua di rose e minoranze poco democratiche, che in Occidente diventano lobby.
E, in fondo, dobbiamo sforzarci di essere degni dei nostri padri almeno dentro, se vogliamo salvare le nostre patrie e l’Europa, perché solo un eroico sforzo collettivo etnonazionalista porterebbe alla vittoria e alla salvazione del nostro continente, e della nostra agonizzante civiltà, bisognosa di palingenesi.
In noi dovrebbe rivivere il piglio guerriero dei nostri antichi padri indoeuropei: Celti, Veneti, Galli, Romani, Longobardi. Senza tralasciare, naturalmente, la più nutrita parte della nostra identità genetica e fisica, biologica, che è certo preindoeuropea. Ma da questo punto di vista importa essere europidi.
L’arianesimo è il modello etnoculturale che ha fatto l’Europa giunta sino a noi, e di cui dunque dobbiamo andare fieri. Ogni popolo europeo deve superare le proprie tare, riscoprirsi indogermanico, e darsi da fare concretamente per il benessere etnico e spirituale della propria gente.
Nel caso bergamasco e lombardo va temperata la suddetta mentalità “alpina” che, in negativo, porta gli uomini a saziarsi solo di lavoro, di guadagno, di fatturato, di placide sicurezze, di mentalità meschina, coniglia, conformista e “trasgressiva” solo in peggio, nel caso giovanile (tabacco, alcol, droghe, sesso amorale, calcio vissuto come ragion di vita, divertimento sterile e deleterio, adesione acritica alle sciocche mode d’oltreoceano).
E va abbandonata la mentalità cattolica modernista (che non ha nemmeno più nulla a che vedere con la religione), corroborata dal Concilio Vaticano II, che è la cagione del relativismo, del cosmopolitismo, dell’assistenzialismo, dell’egualitarismo suicida, della castrazione dell’indole combattiva che fu dei nostri padri, in cambio dell’orrida mentalità masochista che vede nei nemici gli amici e nei patrioti i nemici.
Io provengo da una famiglia prevalentemente di mentalità “alpina” laddove si intendano le virtù e i valori (onestà, laboriosità, morigeratezza, pragmatismo, genuinità, rustico attaccamento alle origini e alle tradizioni), certo intensificata dall’età anagrafica e dal ceto sociale; mio padre e mia madre sono originari di famiglie contadinesche arcaiche, umili e semplici, ove contavano solo la Chiesa, il lavoro massacrante, e il nucleo ricco di prole, e cioè la norma della vecchia Bergamasca. Sono orgoglioso dei miei natali, ma so anche, comunque, riconoscere i limiti della tempra montanara e colonica, che sono del resto la cagione della cattività tricolore e globalista.
Ciò che i nostri genitori e nonni, bisnonni, trisnonni, avi hanno subito per colpa di certo clero e della classe agiata “guelfa” parassitaria (i vari “marchesi” paesani), ci insegna come la religione non possa prescindere dal rispetto del popolo e della patria, pena la trasformazione in oscurantismo e sfruttamento, a vantaggio di soggetti dannosi al benessere comunitario. E si vede ancor meglio oggi, dove la Chiesa postconciliare, dopo aver rinnegato quella precedente, ci beffa riempiendoci di allogeni da mantenere e subire, con tanto di untuosa retorica terzomondista.
Solo con l’autodeterminazione del proprio popolo ci si autorealizza, senza perder di vista la propria identità e senza perdersi, liquefarsi nel mare del nulla globalista e postmoderno, che punta alla totale standardizzazione cosmopolita per la distruzione non dell’individualismo ma di quello che viene sprezzantemente bollato come “particolarismo”; da chi vuole un mondo omologato, livellato, tritato, senza sangue, senza suolo, senza spirito dobbiamo sempre guardarci, poiché sono soggetti che vogliono lasciare il nostro continente senza più speranza di salvarsi da questo olocausto indotto.
Ebbene sì, signori, dopo dieci anni esatti Paolo Sizzi è tornato sul “Tubo”, aprendo un canale in cui si occupa di divulgazione culturale all’insegna del lombardesimo e della lombardità. Assieme a ciò sono anche sbarcato sul “Telegramma” inaugurando, parimenti, un canale in cui pubblico settimanalmente dei video, cioè gli stessi proposti su YouTube. In quest’ultima piattaforma mi trovate come Il Lombardista mentre su Telegram il canale è denominato come il blog da cui scrivo, Lombarditas. Mi auguro di fare cosa gradita a quanti sentivano la mancanza in video di chi scrive, e a tutti coloro che possono essere interessati a queste nuove avventure. Sino ad ora ho reso pubblici 6 filmati: uno di presentazione sul “Tubo” (con la versione bergamasca) e quattro sul “Telegramma”, e vedrò di portarmi in pari. Il giorno d’elezione della realizzazione è il saturdì/sabato, sull’esempio dei vecchi tempi, ma la condivisione sulle reti sociali viene posticipata al lunedì sera.
Se una decina di anni fa lo scopo era la propaganda politica e ideologica, relativamente al Movimento Nazionalista Lombardo, oggi mi voglio occupare principalmente di divulgazione, acculturazione e trattazione lombardista in chiave etnoantropologica, riservandomi di pubblicare, più avanti, qualche video di contenuto metapolitico e dottrinale. Il mio punto di vista, ovviamente, non è del tutto neutro, perciò è evidente come si possa intuire l’ideologia etnonazionalista ed indipendentista; tuttavia, si vuole cercare di dimostrare che, al di là della politica, le Lombardie hanno tutte le carte in regola per dirsi comunità nazionale, patria e insieme di popoli omogenei affratellati da un comune passato. Il vecchio canale fu chiuso con la cessata esperienza dell’MNL, ma devo dire che riscosse un discreto successo, che spero di eguagliare e superare.
Del resto, come si evince dalla casacca da me indossata, il colore sociale e la fede lombardista vengono rispettati, riallacciandomi idealmente all’esperienza militante degli anni scorsi. Vorrei, comunque sia, che il pubblico non partisse prevenuto sull’affidabilità e la credibilità di quanto dico, e sappia dunque ascoltarmi con attenzione, aprendosi poi – perché no? – al dibattito e al confronto, interagendo con me e con tutti quelli che mostreranno la mia stessa sensibilità e il mio stesso interesse circa gli argomenti affrontati. Invito sempre ad un dialogo franco e schietto ma al contempo civile e costruttivo; la goliardia e i toni accesi ci possono anche stare, a patto che non si esondi nelle sterili provocazioni e nel caos.
I commenti sono attivati tanto su YouTube che su Telegram e, già che ci sono, vi ricordo anche di aggiungermi, qualora lo vogliate, su Twitter e su Instagram: sul primo do spazio, oltre alla cultura, all’attualità, mentre sul secondo posto immagini relative all’esperienza del lombardesimo associativo, all’antropologia fisica, alla civiltà lombarda e alla dimensione culturale ed etnoantropologica del lombardesimo. I vecchi profili furono chiusi nella primavera scorsa per motivi di lavoro, e oggi vengono riproposti in una veste contenutistica rinnovata, per quanto sempre sotto l’egida del pensiero sizziano, come è ovvio che sia. Vi chiedo, nelle vostre possibilità, di aiutarmi a spargere la voce perché gradirei che il ritorno del Sizzi fosse accompagnato da una certa eco, che possa permettergli di raggiungere un uditorio sempre più ampio, non per velleità narcisistiche ma per diffondere la vulgata panlombarda e, quindi, lombardista.
Dai profili social diffondo anche gli articoli del blog, a cui invito ad iscrivervi per rimanere aggiornati e commentare. Ne approfitto per ringraziarvi anticipatamente della sequela, vedendo anche la risposta positiva in termini di iscrizioni ai canali succitati, che in pochi giorni hanno visto un concreto incremento. Mi fa piacere riscontrare un certo interesse, perché tutto quel che faccio è ispirato alla lombardità e vuole essere un tributo alla mia vera patria, che non è una piccola “matria” italica bensì una nazione a se stante a metà strada fra Mediterraneo ed Europa centrale. Vi esorto dunque alla sequela e al dibattito, senza precludermi, un domani, una trattazione più politico-ideologica che, comunque, in controluce è sempre presente.
Sizzi è un raro [1] cognome bergamasco peculiare della Val di Scalve (tributaria orobica della Val Camonica), le cui origini sembrano però da attribuire al paese di Gandino, in Val Seriana, come ramo della famiglia Rudelli [2]. Secondo alcuni studiosi di araldica (Passerini [3], Tettoni-Saladini [4]) il casato sarebbe di origine toscana, Firenze per la precisione, ma la connessione non è documentata. Il cognome Sizzi (con la forma primigenia, unica, Sizi) è presente, scarsamente, tra il capoluogo toscano e Prato ma a tutta evidenza è un ceppo indipendente da quello bergamasco.
Sizzi potrebbe essere il frutto di un patronimico derivato da una versione ipocoristica di nomi germanici in *sig- (‘vittoria’) [5] che, come in tedesco, o meglio, in antico alto-tedesco, esprime l’ipocorismo, sulla base di leggi fonetiche, mediante la particella -zz- [6]; nella fattispecie, il nome abbreviato è Sizzo, che può essere confrontato con altri vezzeggiativi medievali di origine teutonica quali Frizzo, Azzo, Sigizzo, Uzzo, Wizzo, Gozo e via dicendo, testimoniati da fonti documentarie della Germania meridionale; fra i nomi tedeschi contemporanei vengono in mente Heinz, Fritz, Götz ecc. [7]. Diversi cognomi padani e toscani, frutto della forte impronta culturale – soprattutto longobarda – lasciata dalle élite germaniche, possono essere ricondotti al fenomeno in oggetto: citiamo Frizzi, Albizzi, Opizzi, Oppizzi, Obizzi, Azzi a mo’ d’esempio.
Sizzo è dunque riconducibile a Sighard o Sigfrid, tanto che, come si diceva, si trova anche oltralpe, sparso per la Germania centromeridionale, segnatamente in Turingia dove c’è un Sizzo capostipite della medievale casata di Schwarzburg, ed un principe ottocentesco del medesimo casato, anch’egli chiamato Sizzo [8]. Interessante notare come sia in Germania che in Toscana [9] Sizzo (o Sizo) proceda da Sigizo, ipocoristico già segnalato nelle note.
I Sizzi toscani, di stirpe notabile, sono probabilmente derivati dai Sizi (da Sizo/Sizio, altro vezzeggiativo germanico come abbiamo visto), ed erano una tra le prime famiglie storiche fiorentine, originaria di Fiesole e dunque del contado, imparentata coi Medici, proprietaria di torri e chiese, ricca di consoli e di parte guelfa (vedi segnatamente la testimonianza di Luigi Passerini indicata nelle note, reperibile su Google Libri).
Dante Alighieri cita i Sizi pure nella Commedia, per bocca dell’avo Cacciaguida, come una, per l’appunto, delle famiglie più antiche e illustri della prima cerchia di Firenze, grazie alle origini e al loro impegno consolare:
Lo ceppo di che nacquero i Calfucci era già grande, e già eran tratti alle curule Sizii e Arrigucci.
(Paradiso XVI, 106-108)
Il blasone dei Sizi è «losangato di rosso e d’oro» [10] e quello dei Sizzi fiorentini «d’argento, alla banda alata di rosso» [11]. Il primo è visionabile qui, mentre del secondo non ho trovato traccia. L’argento (e prima ancora il bianco), comunque, era tradizionale colore guelfo; rosso ed oro sono, invece, classici colori nobiliari.
Secondo lo storico Lorenz Böninger vi fu, sul finire del ‘300, un’immigrazione di artigiani tedeschi nella città di Firenze tra cui dei “Sizzi” assimilati al tessuto etnoculturale e sociale della città toscana. Nel suo testo [12] egli dedica un capitolo apposito al successo professionale e all’integrazione di tre famiglie ritenute, appunto, di origine teutonica: Riccardi, Sizzi e Frizzi. Se questa tesi è concreta il cognome “Sizzi” sarà una toscanizzazione del casato originale (visto che i Sizi/Sizzi fiorentini esistevano già nel XII secolo). Potrebbe essere la riprova di un antroponimo germanico alla base della cognominazione ma, sicuramente, non vi è alcun legame tra il ceppo bergamasco e questi immigrati d’oltralpe.
Non si può escludere, comunque, che il mio cognome possa essere derivato, forse più verosimilmente (nonostante la radicata moda onomastica medievale di gusto germanico), dal nomen latino Sittius, (vedi la gens romana Sittia), il cui oscuro etimo potrebbe venir accostato a qualche significato connesso alla siccità, all’aridità, alla sete e dunque in senso lato alla brama [13]. Fra l’altro, i toponimi Siziano (Pavia) e Sizzano (Novara) credo siano da ricondurre al gentilizio latino in oggetto (anche alla luce della classica desinenza prediale latina -anus). Inoltre, per il Bergamasco, un atto del 1184 relativo alla località di Isola di Fondra (Val Brembana) ci tramanda il nome di un certo Sizio, evidentemente radicato anche nel nostro territorio [14].
In toscano esiste, curiosamente, il termine sizio [15], che indica un lavoro sedentario (vedi tedesco Sitz ‘seggio’), oppure un lavoro penoso (rifacendosi, in questo caso, all’espressione evangelica del Cristo in croce «Sitio» ossia «Ho sete»). Un’altra voce toscana interessante è sizza [16], “soffio di tramontana”, dal latino sidus ‘freddo’. Ma queste ultime voci si confanno, chiaramente, ai Sizzi gigliati; nel caso bergamasco, il mio, il casato Sizzi deve il suo nome sicuramente ad un patronimico, germanico o latino che sia.
Stando alle testimonianze incrociate di Passerini, Tettoni-Saladini e dell’Archivio di Stato di Firenze (interpellato anni orsono), il capostipite dei Sizzi fiorentini fu un certo Sizzo, della famiglia dei Sizi (le cui radici affondano almeno nel XII secolo), console di Firenze nel 1201. Quello bergamasco, come detto più sopra, era un membro della casata dei Rudelli, separatosi nel basso Medioevo. Si veda l’opera di Tullio Panizza citata nelle note. Rudelli è un tipico [17] cognome bergamasco, che suppongo derivato dal gentilizio romano Rutilius il cui significato va rintracciato letteralmente nel colore rosso o biondo scuro della capigliatura [18].
Dopo la battaglia di Montaperti del 1260, in cui i ghibellini senesi sconfissero i guelfi fiorentini, pare che alcuni Sizzi gigliati, stando alla testimonianza di Passerini e Tettoni-Saladini, ma anche di Roberto Ciabani [19], prendessero la via dell’esilio trapiantandosi altrove (persino in Francia) dandosi alla mercatura. Non ci sono comunque documenti che attestino la presenza di questi esuli toscani nel Bergamasco. Il fatto che il mio cognome sia presente a Bergamo e a Firenze – sebbene in ceppi distinti e indipendenti – può essere, qualora sia di etimo germanico, attestazione del prestigio goduto dai Longobardi tanto in Lombardia quanto in Toscana, e infatti diversi cognomi presenti nella prima ritornano nella seconda (forse pure per fenomeni migratori lombardi medievali [20]).
Ho notato che vi sono dei Sizzi anche a Taranto ma, documentandomi in passato, grazie alla testimonianza di alcuni di loro ho scoperto che non sono dei Sizzi reali (bergamaschi o fiorentini) bensì Ziz giuliani (di Pola) italianizzati durante il fascismo e trasferitisi in Salento nel secondo dopoguerra. Il loro cognome originario dovrebbe essere un etnico riferito alla Cicceria, regione storica del Carso terra degli istroromeni [21].
Dall’orobica Valgandino i Sizzi, derivati dai Rutellis de Noris (Rudelli e Noris sono ancor oggi cognomi squisitamente bergamaschi), si spostarono, sul finire del ‘300, a Brescia (ramo estinto) e a Trento – venendo ascritti alla nobiltà imperiale come Sizzo de Noris – dove tuttora risiede un conte discendente del vescovo-principe di Trento Cristoforo Sizzo de Noris. Le vicende dei Sizzo trentini sono state ricostruite, come ricordato supra, dall’araldista tridentino Tullio Panizza, nelle opere citate in calce all’articolo.
Non ho notizie di legami del mio ceppo famigliare paterno con questa aristocratica prosapia; come è noto chi, oggi, porta un cognome “illustre” lo ha ereditato biologicamente, con tutta probabilità, da coloni più che dai nobili medesimi. Ricordo solamente che in famiglia circolava una diceria di un prozio sacerdote (don Ariele Sizzi) relativa ad una lontana origine austro-ungarica, sicuramente motivata dai Sizzo de Noris di Trento (che però sono, appunto, originari del Bergamasco).
Ad ogni modo, io discendo dai Sizzi rimasti in Val Seriana, che poi verso l’800 si trasferirono in Val di Scalve, a Vilminore, e non so dire, come accennato, se questi fossero nobili spiantati o valligiani un tempo al servizio dei Sizzi patrizi. I Sizzi seriani sono documentati come una delle famiglie laniere del territorio di Gandino, parliamo del XVI secolo [22]. Bisognerebbe condurre serie e approfondite ricerche d’archivio per saperne di più. Comunque sia la provenienza etno-geografica è fuor di dubbio. Panizza riporta anche le oscillazioni grafiche del cognome Sizzo de Noris: Sicci, de Siciis, Sitius, Sitz, Siz, Sizo, Sizzi, Sizza.
In apertura ho inserito il blasone dei nobili trentini, riportato da Tettoni-Saladini e così descritto: «ancora di nero a 2 marre su scudetto di argento su – aquila di nero su oro – barca con albero e bandiera bifida svolazzante a destra recante 2 bambini nudi che si danno la mano tutto di argento su mare fluttuoso di azzurro su azzurro». Direi che l’aquila nera su sfondo dorato è un chiaro tributo al Sacro Romano Impero.
Per concludere la vicenda dei Sizzi bergamaschi diremo che, una volta estintosi il ramo gandinese, alcuni degli scalvini – divenuti artigiani – presero la via del Milanese e della pianura bergamasca; tra quest’ultimi mio nonno, divallato alla volta di Brembate di Sopra (pochi giorni prima del disastro della diga del Gleno, 1 dicembre 1923, a quanto sembra) dopo aver sposato una donna di Azzone, sempre in Val di Scalve. Impiantatisi a Brembate, i Sizzi si dedicarono, oltre al mestiere di artigiani, alla coltivazione e all’allevamento e, ovviamente, proliferarono. La mia famiglia nasce dunque dall’incontro fra le Orobie e l’Isola bergamasca.
Infine, una curiosità genetica di cui avrò modo di riparlare: come già dissi in passato, il mio lignaggio paterno (determinato dall’aplogruppo Y R1b-U152 (scoperto con il test di 23andMe) clade Z36 (celtico di La Tène [23][24], appurato grazie ad YSEQ) è diffusissimo nella Lombardia etnica (il bacino del Po) segnatamente orientale dove registra il suo picco “italiano” [25]. Anche questo depone a favore di un’origine indigena dei Sizzi bergamaschi, per quanto, da umanista, vedere un’omonimia nei Sizii fiorentini citati da Dante nell’acme paradisiaca del suo capolavoro letterario abbia indubbiamente un certo fascino [26].
Note
[1] Vedi Gens Labo e Cognomix.
[2] Le notizie circostanziate sui Sizzi bergamaschi e i Sizzo de Noris sono tratte da Tullio Panizza, Famiglie nobili trentine d’origine bergamasca. In: Bergomum – A. 8 (1933) e Tullio Panizza, Secondo contributo alla storia di famiglie nobili della Venezia Tridentina di origine bergamasca. In: Bergomum – A. 9 (1934).
[3] Luigi Passerini, Memorie storiche intorno alla famiglia fiorentina dei Sizzi, Milano, 1855.
[4] Leone Tettoni, Francesco Saladini, Teatro araldico ovvero raccolta generale delle armi e delle insegne gentilizie delle più illustri e nobili casate che esisterono un tempo e che tuttora fioriscono in tutta l’Italia, Milano, 1847.
[5] Vedi Cognomix.
[6] Si vedano queste fonti reperite su Google Libri, dove si suggerisce che il vezzeggiativo Sizzo derivi da Sigizo, a sua volta diminutivo di Sigfrid.
[7] ibidem
[8] Sizzonen
[9] Cfr. questa ricerca su Google Libri.
[10] Ceramelli Papiani
[11] ibidem
[12] Die deutsche Einwanderung nach Florenz im Spätmittelalter, Leida, 2006, opera citata dal primo volume de La mobilità sociale nel Medioevo italiano, di Lorenzo Tanzini e Sergio Tognetti (Viella, 2016), presente su Google Libri.
[13] Dizionario Latino Olivetti
[14] Cenni storici
[15] Dizionario Etimologico Online
[16] ibidem
[17] Gens Labo
[18] Rutilio
[19] Le famiglie di Firenze, Bonechi, 1992. Tra i Sizzi toscani val la pena ricordare Francesco, astronomo fiorentino avversario di Galileo.
[20] Leonardo Rombai, Geografia storica dell’Italia, Le Monnier, 2002, p. 189.
[21] Nota di Marino Bonifacio di Trieste sulla Rivista Italiana di Onomastica, anno XXV (2019).
[22] Museo della Basilica di Gandino
[23] Eupedia
[24] «The Z36 sub-clade has also been associated with Celtic populations; as it occurs in moderately high frequencies, approximately 30-40%, in Italy including, Liguria and Lombardy, France, southwestern Germany (specifically Baden-Württemberg), and western Switzerland» Tratto da Mallory J. Anctil, Ancient Celts: A reconsideration of Celtic Identity through dental nonmetric trait analysis, 2020, consultabile qui.
[25] «Northwestern Italy has a very high percentage of haplogroup R1b (around 70 %) with the highest proportions in the area of Bergamo […]. In this pre-alpine region […] the percentage of individuals with haplogroup R1b-U152 is around 50 % […]. This local present day hotspot for haplogroup R1b-U152 fits quite well the ancient habitats of Celtic cultures» Tratto da questo studio di Martin Zieger e Silvia Utz, che cita quello di Grugni et al. 2018 in cui, per la Bergamasca, si danno le seguenti stime di R-U152: 46,2 per le valli e 53,2 per la pianura. Globalmente, R1b raggiunge l’80,8% nelle valli orobiche (il 70,9% in pianura).
[26] Ricordiamo, per completezza, che l’aplogruppo R-U152 è ben rappresentato anche in Toscana dove, tuttavia, è più probabile una sua filiazione villanoviana (vedi il collegamento ad Eupedia citato alla nota 23). In Lunigiana (che tecnicamente non è Toscana, bensì crocevia tra Liguria ed Emilia) sarà invece, più probabilmente, segnale ligure apuano, come suggerito da questo studio di Bertoncini et al. 2012. U152 è, genericamente, ritenuto una mutazione legata a genti protostoriche centroeuropee che irradiarono, pure verso sud, culture che potremmo definire italo-celtiche. In tale novero rientrano Celti, Liguri, Italici e Veneti, anche nella loro fase embrionale.
Paolo Sizzi nasce venerdì 5 ottobre 1984, alle 10:25, presso la clinica di Ponte San Pietro (Bergamo). Terzo di tre figli, appartiene ad una famiglia bergamasca dalla notte dei tempi e di estrazione rustica che lo cresce secondo i dettami cattolici e tradizionalisti. Il ramo paterno è originario della Val di Scalve, mentre quello materno è nativo dell’Isola, ossia di quel territorio incuneato tra i fiumi Adda ad ovest e Brembo ad est. La coscienza e l’orgoglio identitari, derivanti da un fortissimo senso di appartenenza, non abbandoneranno mai il giovane orobico, segnando indelebilmente il suo percorso ideologico-politico e portandolo ad una adesione entusiastica al pensiero etnonazionalista.
Seppur residente a Brembate di Sopra, a mo’ di segno del destino, Sizzi frequenta l’asilo di Cerchiera, frazione di Pontida, a poca distanza da quell’abbazia che secondo la tradizione fu sede del celebre giuramento, atto fondativo della Lega Lombarda (7 aprile 1167). Questo offre il destro per ribadire, ancora una volta, come la vera Lombardia sia l’intero settentrione della Repubblica Italiana, e non soltanto l’artificiale regione del Pirellone; la Lombardia è la Padania medievale, grazie a cui potevano dirsi lombardi tanto a Vercelli quanto a Ferrara (Dante insegna) e tanto a Bergamo quanto a Treviso. Del resto, ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’ non vogliono dire nulla, e il Triveneto (concetto risorgimentale), prima dell’espansione del veneziano, parlava lombardo, come testimoniano ladino e friulano che gli sono affini.
Nel paese dell’Isola suddetto, Brembate di Sopra, Sizzi cresce e frequenta le vecchie scuole elementari e medie, rimanendo nell’ambito di parrocchia e oratorio, da cui del resto si distaccherà alla soglia dei 25 anni. L’educazione impartita dalla famiglia all’Orobico è rigorosamente cattolica osservante, ma assieme a ciò trova spazio una vigorosa presa di coscienza identitaria che lo ancora solidamente al territorio bergamasco e lombardo concretizzandosi, ad esempio, nell’uso quotidiano dell’idioma di Bergamo, pressoché unica lingua impiegata in ambito famigliare, con orgoglio. È suggestivo che Brembate Superiore si trovi a metà strada fra Sotto il Monte – paese natale del Roncalli – e la già citata Pontida, quasi a rimanervi doppiamente influenzato; d’altra parte, il giovanissimo Paolo matura negli anni ruggenti del leghismo secessionista.
Dopo le medie inferiori, nel 1998, ecco le superiori in Bergamo, grafica pubblicitaria presso un istituto professionale. L’impatto con la realtà cittadina rappresenta per il rustico virgulto brembatese un’esperienza spiazzante; Sizzi deve misurarsi con un ambiente caratterizzato da pluralismo (tanto etnico – significativa presenza di italiani etnici e qualche gettone allogeno – quanto ideologico) e dall’inevitabile strascico frutto di un relativismo ormai imperante presso la gioventù occidentale: blasfemia, libertinaggio, immoralità, crisi valoriale, progressismo, deviazioni assortite, uso e abuso adolescenziale di bacco e tabacco (e non solo), deliri da centro sociale, occupazioni/autogestioni e via di questo passo. Superfluo dire che questi 5 anni acuiranno il temperamento reazionario del Nostro, portandolo ad un’idiosincrasia per tutto quello che puzza di sinistra mondialista e libertarismo.
Ottenuta la maturità nel 2003, Sizzi consegue un attestato post-diploma in e-commerce, per perfezionare le conoscenze multimediali. Ma la vera svolta, assieme alle prime esperienze lavorative, è data dall’iscrizione alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bergamo, coronando la propria passione umanistica, sopitasi negli anni precedenti a vantaggio della vena grafica e artistica. Paolo si laureerà nel 2014 in Lettere, e nel 2017 diverrà dottore magistrale in Culture moderne comparate. Il periodo universitario coincide con la scoperta dell’etnonazionalismo, risalente al 2006; una rivoluzione ideologica e culturale nel mondo dottrinale dell’Orobico, principio della personale saga lombardista. Cerchiamo di ripercorrerne le tappe salienti.
Nel 2006, come detto, Sizzi si avvicina all’etnonazionalismo, grazie alle opere di Federico Prati divulgate sulla rete da un forum völkisch della vecchia Politica On Line; parimenti, il Nostro comincia ad appassionarsi all’antropologia fisica – dunque alla craniologia – e alla genetica delle popolazioni, scoprendo gli scritti antropologici di alcuni autori fondamentali quali Coon, Biasutti, Sergi, Günther, von Eickstedt, Lundman, Deniker, Hooton, Angel, Baker e altri, e seguendo i vari studi in materia di genetica via via pubblicati anche su internet, a partire dalla fondamentale opera di Cavalli-Sforza e dei suoi collaboratori. La biologia e la razziologia ricoprono un ruolo basilare nel pensiero sizziano, perché se l’identitarismo non è etnoantropologico si riduce a flatus vocis, soprattutto alla luce della situazione “italiana” (cioè di un quadro pseudonazionale, data la sua estrema diversità).
Nel medesimo anno Paolo scopre il Fronte Indipendentista Lombardia, soggetto nato da fuoriusciti leghisti in polemica con Bossi, e comincia ad interessarsi alla questione nazionale lombarda nella sua reale estensione etno-storica; l’etnonazionalismo lo distacca pian piano dalla sfera reazionaria e cattolica, in favore di una dimensione più intimamente legata alle origini e alle radici (anche spirituali) cisalpine. Due anni più tardi si tessera per il FIL entrando in contatto con diversi indipendentisti lombardi, fra cui il compianto Simone Riva. Sino al 2010 collaborerà con quest’ultimi al progetto di un coerente e radicale movimento lombardista che – con loro – non verrà mai alla luce. In compenso Sizzi conosce Adalbert Roncari, con cui stringe un sodalizio che porterà alla fondazione del Movimento Nazionalista Lombardo (2011) e di Grande Lombardia (2013).
Nel 2009 il Nostro getta le basi del lombardesimo mediante la creazione di alcuni blog. Il lombardesimo è l’etnonazionalismo lombardo, ovviamente indipendentista, che rappresenta il fecondo incontro fra il filone völkisch e l’identitarismo cisalpino; inizialmente esso incarna anche una durissima polemica contro il cristianesimo, dopo che Sizzi decide di abbandonare la fede cattolica per sposare una linea culturalmente paganeggiante e spiritualmente nativista, senza comunque aderire ad alcun credo specifico. Sono, infatti, gli anni dell’etno-razionalismo, un connubio che conduce il Bergamasco ad una visuale tendenzialmente atea ma rispettosa dei culti tradizionali europei. Sempre nel 2009 Sizzi diviene membro del senato accademico di Bergamo per la facoltà di Scienze umanistiche (Lettere), esperienza che lo espone all’inquisizione progressista con conseguenti denunce per i caustici contenuti dei suoi blog. Da questa vicenda matura il noto infortunio giudiziario per reati d’opinione: offese al PdR e istigazione alla discriminazione razziale.
Come ricordato, la fondazione del primo soggetto lombardista, l’MNL, risale al 2011, e il campo d’azione era rappresentato dalla Lombardia etnica, cioè il territorio nazionale lombardo racchiuso dal bacino del Padus (Insubria, Orobia, Emilia fino al Panaro, Piemonte); successivamente, nel 2013, il Movimento confluisce in Grande Lombardia e apre all’intero panorama storico lombardo, ossia alla Padania nella sua globalità. La riflessione sizziana, tuttavia, non si fermerà qui, e nell’aprile 2014 Paolo decide la svolta: esce da GL e coniuga l’istanza etnicistica con l’idea di un federalismo italico, per cercare di non buttare il bambino assieme all’acqua sporca. Questa sorta di etnonazionalismo patriottardo, in senso antico-romano ma per nulla statuale/repubblicano, si prefigge il recupero della nobiltà dell’ideale panitaliano, senza comunque rinnegare il prima lombardista ma adeguandolo alla nuova bisogna. Per un settennio la linea di Sizzi sarà, dunque, etnofederale, italico-romana, lombardista epperò sposata ad un italianismo che si voleva animato da un sacrale afflato ispirato alla terra di Saturno.
Ciononostante, questa esperienza, caratterizzata anche da diversi anni di collaborazione con il consorzio di EreticaMente, sarà destinata ad esaurirsi nell’estate del 2021, sia per un rinnovato fervore lombardista di Paolo, desideroso di radicalità, sia per le riflessioni maturate alla luce dei più recenti studi di genetica delle popolazioni, che sottolineano non solo l’eterogeneità italiana (unica nel continente) ma pure il dato esotico, antico e recente, che contraddistingue l’Italia vera e propria, cioè la penisola e la Sicilia. Cosicché, per ragioni di coerenza, serietà e maturità, Sizzi abbandona l’italianismo, ancorché etnofederale, e riabbraccia la causa lombardista tornando sulle primigenie posizioni etnonazionaliste in chiave panlombarda. Il blog da cui si scrive nasce da tale riscoperta delle origini, conseguenza della chiusura del vecchio Il Sizzi, e questa volta non si tornerà più indietro. Unica sensibile differenza, rispetto agli albori del 2009, sta nella cessata ostilità nei riguardi del cristianesimo cattolico (tradizionalista), per cercare una convergenza tra lo spirito pagano e quello romano-cristiano d’Europa.
Attualmente Paolo Sizzi non fa parte di alcun movimento o associazione, ma rimane idealmente vicino alle posizioni di MNL e GL, soggetti da lui fondati. Indipendentemente dalla militanza, la testimonianza sizziana continua all’insegna del lombardesimo dei primordi, insistendo soprattutto sulla bontà del panlombardismo etnico; va da sé, comunque, che anche i restanti territori cisalpini siano parte integrante della propria idea di Lombardia, essendo storicamente ancorati alla dimensione padano-alpina e, dunque, granlombarda. Non avrebbe senso, infatti, lasciare Liguria, Romagne, Venezie, Friuli, Trentino e Tirolo meridionale al proprio destino: devono anch’essi partecipare al consesso lombardo, sebbene non rientrino nell’ambito propriamente etnico. Da notare che la divulgazione delle idee sizziane è stata agevolata da alcune interviste (televisive e radiofoniche) e da qualche polemica sulle reti sociali animata persino da noti tromboni liberal; il regime cerca in ogni modo di mettere in cattiva luce chi esce dal coro di belanti pecoroni antifascisti, ma così facendo gli regala visibilità e pubblicità. Ecco il perché del mio espormi con nome, cognome e faccia, nonostante tutto e tutti.
Oggi, assieme al lavoro, Sizzi porta avanti il proprio impegno, soprattutto culturale, per rendere giustizia all’identità etnica e storica lombarda, dopo essersi assestato sulle posizioni etnonazionaliste primigenie. Egli auspica l’autoaffermazione delle genti lombarde tutte, e di conseguenza un’Europa delle (vere) nazioni affrancate da ogni giogo statolatrico (e sovranazionale) insensibile ai richiami di sangue, suolo e spirito. La cultura è fondamentale, per riscoprire sé stessi, e l’Orobico vuole insistere per l’appunto sulla bontà della battaglia identitaria, che viene prima di quella politica. Non si esclude, in futuro, una nuova sfida lombardista in chiave associazionistica, ma per il momento ciò che importa è non perdere di vista la basilare dottrina völkisch, declinandola in senso etnoantropologico e spirituale; la tenzone culturale va portata avanti giorno dopo giorno, in nome dei valori più alti e nobili che animano uomini e donne desiderosi di vera identità, dunque di vera libertà.
SL!
Aggiornamento
Nella primavera del 2024 ho recuperato appieno il purismo lombardista dei primordi, riabbracciando l’etno-razionalismo e, di conseguenza, la critica caustica nei confronti del monoteismo desertico del “libro”, cristianesimo incluso, e della metafisica (specie universalista e apolide). L’etnonazionalismo razionale è la cifra filosofica del lombardesimo militante ed era necessario – sebbene a livello pragmatico possa avere un senso tentare una conciliazione tra radici gentili e cattoliche, in nome del tradizionalismo – ristabilire in toto la prisca verità in camicia plumbea. Il brembatese (superiore), cioè io, è fondamentalmente disinteressato alla religione dal 2009, ateo ma rispettoso nei confronti del solare ethos indoeuropeo, e se il popolo granlombardo avesse davvero bisogno di un culto ecco la soluzione della Chiesa nazionale ambrosiana, trasmutata in gentile (preromana, gallo-romana, etena) e subordinata all’etnostato cisalpino.
Inoltre, il 23 dicembre 2024 è nata ufficialmente a Bergamo l’associazione politico-culturale Nazione Lombarda, di cui sono padre fondatore e presidente. Alfine, il Movimento Nazionalista Lombardo e Grande Lombardia, parimenti creati dal sottoscritto, hanno il loro naturale erede, che è l’approdo, il coronamento e la piena e totale realizzazione delle istanze etniciste e nazionaliste care ai veri patrioti cisalpini, che si riconoscono cioè nel quadro comunitario della Lombardia storica. NL è il movimento dei lombardi, volto alla difesa, al recupero e all’affrancamento dell’identità della nostra vera patria, che non è Italia e che per tale motivo merita la libertà, dopo 4.000 anni di storia e di gloria. Un’associazione politica che si occupa di politica (non in senso elettorale) ma che fa della cultura militante un irrinunciabile baluardo: senza dottrina lombardista e divulgazione culturale e razziologica diverrebbe impossibile risollevare dalla polvere il nostro sopito popolo, il quale può trovare in Nazione Lombarda anche la propria naturale guida in chiave metapolitica.
Un anno fa, dopo un settennio trascorso all’insegna della conciliazione fra pensiero lombardista e italianismo etnofederale, decisi di riabbracciare in toto il lombardesimo delle origini, tornando sulle mie posizioni etnonazionaliste iniziali incentrate sull’autodeterminazione lombarda e sull’identitarismo etnico applicato al contesto cisalpino. Tale svolta fu il frutto di una riflessione estiva motivata dall’esigenza di una rinnovata coerenza comunitaria (dunque nazionale e sociale), dove sangue, suolo e spirito venissero ricollocati al centro del dibattito senza più compromessi; la decisione fu agevolata dalla pubblicazione di alcuni studi di genetica delle popolazioni (da affrontare più avanti) che ribadivano con forza non solo la straordinaria eterogeneità – unica in Europa – di ciò che oggi chiamiamo Italia, ma anche quanto andava emergendo nelle ricerche degli anni precedenti: il contributo esotico, antico e recente, al genoma italico, ossia centromeridionale (segnatamente meridionale).
Avremo modo di parlare compiutamente della questione genetica italiana, ma sin da ora appare utile sottolineare come il dato biologico, nell’ottica sizziana, rimanga fondamentale al fine di plasmare un concreto e lineare pensiero politico-ideologico che poggi su solide basi etnoantropologiche: stirpe e terra, dunque la patria sublimata dal radioso spirito indoeuropeo, sono sempre state le irriducibili guide della visione del mondo del sottoscritto, non per razzismo o suprematismo ma per questioni di serietà, trasparenza e coerenza; il dato razziale (inteso come origine, nazione, discendenza) esige una salutare radicalità che nelle destre di ogni tempo viene meno ma che in ambito etnonazionalista rappresenta il fulcro della filosofia völkisch.
Il Sizzi nasce lombardista, l’originalità del lombardesimo fa parte della sua cifra ideologica e politica, nonché culturale ed antropologica, ed era dunque giusto e doveroso recuperare il senso del messaggio primevo lasciandosi alle spalle l’esaurita esperienza italianista. A maggior ragione è doveroso in un momento in cui trionfa il sovranismo tricolore sposato persino da coloro che un tempo si dicevano padanisti ma che, in realtà, sono sempre stati ambigui, ondivaghi e opportunisti. La Lombardia, ovviamente nella sua accezione etno-storica, non ha affatto bisogno di patriottismo italiano (non essendo Italia in senso nazionale) bensì di identitarismo genuino e di affrancamento da ogni giogo imposto dal sistema-mondo, a partire dalla gabbia statolatrica romana.
L’indipendentismo è dunque la logica conseguenza dell’azione metapolitica e politica lombardista, sebbene personalmente abbia sempre visto la dottrina etnonazionalista come prioritaria; infatti, l’etnonazionalismo presuppone, nel contesto padano-alpino, l’istanza indipendentista, ma non viceversa. Sappiamo, per l’appunto, che il separatismo europeo è solito sventolare lacere bandierine progressiste, a differenza del lombardesimo che è invece degna espressione etnonazionale del pensiero völkisch. Una comunità, una patria, un insieme di popoli omogenei coesi da identità e tradizione trovano il proprio fondamento nella natura e nella cultura, non certo nelle chiacchiere (o, meglio, nelle fanfaluche) della sinistra internazionalista che vede fascisti e razzisti in ogni dove.
Alla luce di quanto esposto era meritorio, da parte mia, un recupero integrale della dottrina lombardista – del resto da me forgiata – e un conseguente riavvicinamento agli storici sodali e al soggetto da me fondato, Grande Lombardia, erede del Movimento Nazionalista Lombardo (anch’esso frutto delle elucubrazioni e dell’azione sizziana). Attualmente GL è ibernata ma rimane l’unica associazione ideale nel panorama (meta)politico cisalpino, pur non appartenendovi più; i capisaldi della compagine sono quelli del sottoscritto, a partire da etnonazionalismo e panlombardismo. Unica differenza sta nel fatto che, nel tempo, ho abbandonato il ripudio del cristianesimo cattolico, optando per una conciliazione tra le due grandi componenti spirituali europee: la cristiana e la gentile (per quanto quest’ultima, oggi, sia inconsistente).
Precisiamo: non mi ritengo religioso e men che meno osservante ma le nostre radici sono indubitabilmente cattoliche, romane e ambrosiane. Per come la vedo, il cattolicesimo va preservato in senso tradizionale e preconciliare, prendendo le distanze dalla contemporanea deriva mondialista della Chiesa, e per quanto possa essere opera velleitaria la Lombardia dovrebbe adottare la visione integrista sganciandosi così dal Vaticano. Un cristianesimo latino sano condanna le contaminazioni giudaiche ed ecumeniste, così come la patetica tendenza al sincretismo buonista che grazie a Bergoglio ha subito un’impennata. Ricordiamoci che il Cristo è l’erede della solarità e dello spirito uranico indoeuropeo, e la rinascita della pietas continentale sta nella salvaguardia della tradizione, non certo nella difesa di un mellifluo monoteismo denominato abramitico (in sostanza, una concessione agli eretici, agli scismatici e soprattutto ad ebrei e musulmani).
La religione è comunque argomento secondario, ai fini politici e ideologici, e la vera svolta del mio personale credo sta nel ritorno alle origini lombardiste dure e pure, abbandonando l’italianismo, ancorché etnofederale, e riprendendo le fila del discorso interrotto nell’aprile 2014. La Lombardia, intesa come nazione storica permeata di schietta identità galloromanza cisalpina, non può dirsi Italia, in quanto figlia di una temperie etnoculturale che si colloca a metà strada fra Mediterraneo ed Europa centrale. L’Italia vera e propria è, invece, l’ambito peninsulare e insulare (Corsica e Sicilia) coeso dal dato italico-romano, romanzo orientale, puramente meridionale (nel quadro europeo) e influenzato dal mondo greco. Ritengo non si tratti di materia opinabile, anche perché lo stesso nome ‘Italia’ nasce nell’estremo sud ausonico.
Va da sé che il passo successivo al riconoscimento delle specificità lombarde, sia nei confronti dell’Italia che del resto d’Europa, riguardi l’indipendentismo, l’affrancamento identitario volto all’autodeterminazione delle genti padano-alpine, ancorché possa parere utopico. Nell’ottica di un’Europa delle vere nazioni, finalmente liberata dagli enti sovranazionali mondialisti, la Lombardia trova il suo spazio, ovviamente come realtà etnica allargata a tutti i popoli che possono dirsi cisalpini/lombardi; il punto di partenza è il bacino padano, cioè la Lombardia etnica, per poi giungere a tutto quanto il quadro settentrionale, che è la Grande Lombardia del Sizzi.
Lasciandomi alle spalle il periodo italianista, voglio intraprendere di nuovo il cammino völkisch, soprattutto per essere d’esempio ai più giovani, che giustamente anelano a quella intransigenza identitaria che passa per la riscoperta del patrimonio etnoantropologico natio. Non tornerò mai più indietro ma insisterò sulla bontà dell’etnonazionalismo, che a mio dire è l’unica ideologia capace di dare un senso profondo e rinnovato alle legittime aspirazioni patriottiche di popoli troppo spesso imprigionati in mere entità statuali, totalmente prive di connotati etnici e nazionali unitari. È questo il caso della Repubblica Italiana, espressione di un Occidente massificatore e standardizzante a guida americana che tiene completamente in non cale identità e tradizione. Riscoprire i primordi lombardisti è dunque basilare, e il mio augurio è quello di essere un modello positivo per tutti coloro che non piegano il capo di fronte all’omologazione di nazioni annichilite e umiliate da una globalizzazione inevitabilmente priva di valori, in quanto beceramente fondata sull’arido dato finanziario.
Salute a tutti voi, chi scrive è Paolo Sizzi, cultore di lombardità sulla rete ormai da 16 anni. Ho aperto questo nuovo spazio virtuale nell’autunno scorso, sentendo l’esigenza di riconciliarmi pienamente con le mie origini, nonché con la mia terra e la sua vera natura. Coloro che mi seguono avranno notato che ho rimosso gli articoli precedenti, dopo aver tenuto il sito privato in modalità provvisoria, contestualmente all’abbandono marzolino del vecchio “Cinguettatore”. Tale scelta deriva da motivi, per così dire, professionali, che mi hanno spinto ad una riconsiderazione della mia presenza sul web, accantonando per il momento questioni politico-ideologiche e, soprattutto, cambiando registro comunicativo. Non ho voluto, tuttavia, sacrificare Lombarditas, e si è deciso, dunque, di privilegiare il lato culturale dell’opera sizziana – sperando di fare cosa gradita ai lettori – a vantaggio di scientificità e imparzialità.
In questo blog, come anticipato nelle Informazioni, troveranno posto le classiche tematiche a me care, discusse dal 2006 a questa parte: storia, geografia, linguistica, dialettologia, araldica, onomastica, cognomastica, toponomastica, folclore, così come i “cavalli di battaglia” del sottoscritto, antropologia (fisica) e genetica delle popolazioni. Di politica, metapolitica e ideologia tratterò in altra sede; qui, allo stato dell’arte, si è scelto di dare degno risalto a tutto quello che concerne la cultura bergamasca e lombarda, dove ‘lombarda’ significa cisalpina, a partire dal nucleo fondante della nostra realtà etnica e nazionale, che è il bacino padano. Non mancherò di dare uno sguardo anche all’Italia e all’Europa.
Ho preservato gli articoli, scritti in tutto questo tempo, valevoli da un punto di vista culturale, e che per questo riproporrò senz’altro, con i dovuti aggiornamenti e miglioramenti. Essendo il frutto di un lavoro di studio e di ricerca, appare salutare un recupero del materiale più pregevole, aumentandone lo spessore scientifico con note, citazioni, bibliografia e/o sitografia. Il nuovo taglio assunto da questo giornale di bordo su internet, a differenza dell’impostazione originaria, pone maggior enfasi sull’erudizione, sebbene la divulgazione sia sempre stata l’intento principale dei miei scritti. Come ho più volte ricordato, a che pro darsi all’impegno ideologico e politico se non si sa nulla della storia del proprio territorio, della sua identità e del peculiare profilo delle genti che lo abitano? insomma, se non ci si conosce?
Oltretutto, si vuole raggiungere un duplice obiettivo: da una parte continuare la storia sizziana di trattazione etnoantropologica (segnatamente lombarda), dall’altra rendere affascinante, agli occhi soprattutto dei più giovani, la disamina di tutto quello che concerne la patria alpino-padana, una patria che Carlo Cattaneo definiva “artificiale” in quanto «immenso deposito di fatiche». Il pensiero del sottoscritto ormai è ben noto, e in attesa di tempi più propizi è giunto il momento di dare spazio alla cultura a tutto campo, senza per questo rinunciare alla discussione antropogenetica, che non verrà snaturata. Sarà per me un onore e un vanto riuscire a conquistare l’attenzione delle generazioni lombarde, in nome di quel sentimento d’appartenenza comunitario che è linfa vitale di ogni popolo.
Potremmo dire che questa è una novella, intrigante, tenzone poiché si vuole dimostrare come, al di là della visione politica lombardista – e quindi della personale prospettiva etnonazionalista – esista un insieme di genti etnicamente e storicamente lombarde ben differenziate nel quadro europeo, a partire dal confronto con la penisola vera e propria, che è la primigenia Italia mediterranea, italica, romana e influenzata dal mondo greco. Il mio punto di vista non può, certamente, essere del tutto neutro, ma, conciliando le esigenze di cui sopra con la volontà di adottare un’ottica razionale, cercherò di illustrare, senza faziosità, la bontà del sentimento patrio in chiave grande-lombarda. Attenzione: la “Grande Lombardia” non è una velleità espansionistica dello scrivente, è semplicemente il nome impiegato per definire il contesto subalpino storico, in quanto sovrapposizione della Langobardia (Maior) alla (Gallia) Cisalpina. Non si parla certo di opinioni.
Avrò modo di citare diverse fonti documentarie utili a chi ha l’interesse e il piacere di approfondire quanto verrà trattato, perché lo scopo principale di questo spazio virtuale rimane quello di suscitare un desiderio di conoscenza con ricadute concrete sul sapere dei lettori. La grande sfida che riguarda il presente e il futuro dei nostri popoli concerne la salvaguardia del patrimonio tradizionale, mortalmente minacciato dalla società mondializzata, e questo dovrebbe essere un dovere trasversale da parte di tutti i lombardi, nello specifico, e degli europei, in generale. Se la lingua, la tradizione, l’identità, la mentalità, gli usi e costumi e, non da ultimo, l’etnia di una nazione muoiono a rimetterci non sono solo le fasce della società più avanti negli anni ma anche, e soprattutto, i più giovani e coloro che verranno. Avrà ancora un senso chiamare ‘Lombardia’ la Lombardia?
Anche per questa ragione, e non solo per quella palesata in apertura, appare utile avvicinare alle tematiche trattate coloro che sentono il bisogno di ampliare lo scibile in materia di lombardità – come da titolo di questo blog – poiché le Lombardie sono una ricchezza di ogni lombardo, e hanno il diritto di difendere le radici per alimentare un futuro roseo che passi per l’autodeterminazione dei propri virgulti. Naturalmente non rinuncerò mai alle mie idee e al mio retroterra ideologico e dottrinale, frutto del profondo legame col territorio orobico e padano-alpino, ma vorrei passasse il concetto che lo spirito d’appartenenza non è appannaggio di qualche movimento o partito (che, peraltro, nel tempo si è perso per strada). Ogni riferimento a via Bellerio è puramente casuale…
Lombarditas mira, quindi, al recupero di quel sano orgoglio lombardo che non significa odio, razzismo, discriminazione, bensì amore e rispetto, anzitutto per sé stessi, per il proprio suolo natio, per la propria cultura; i lombardi possono dirsi etnia e nazione, come i sardi e gli italiani etnici. Togliamoci dalla testa l’idea che difendere l’identità sia un attacco nei confronti degli altri, poiché solo dalla difesa del rispettivo onore comunitario può nascere il riconoscimento di quello altrui. Qualcuno storce il naso perché parlo di ‘nazione lombarda’? Che dire, dunque, della Confraternita dei Lombardi in Roma, una compagnia religiosa creata per dare assistenza spirituale e materiale ai lombardi presenti nella capitale italica nel XV secolo, la cui denominazione seriore fu “Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo della Nazione Lombarda”? La fierezza per i relativi natali non può essere preclusa alle popolazioni europee, a differenza di quelle del Sud del pianeta: il rullo compressore della globalizzazione capitalistica è una minaccia per tutti gli uomini, senza distinzione.
Vi auguro buona lettura e buona discussione, invitando a mantenere, nei commenti, toni civili e rispettosi, proprio perché l’intenzione è quella di confezionare un prodotto di qualità che, anche nel confronto, possa rappresentare un’occasione di edificazione per tutti, in particolare, torno a dire, pei più giovani. I commenti riguardo ideologia e politica non sono banditi, ma vi raccomando di non andare fuori tema e di rispettare questa nuova veste contenutistica del blog. Prossimamente rifletterò sull’opportunità di riprendere qualche tematica di trattazione (meta)politica, anticipandovi che in cantiere c’è dell’altro, ma di questo parleremo poi. Sfruttare la dimensione educativa dello strumento internettiano, soprattutto oggi, è un’occasione da non lasciarsi sfuggire, eziandio per il giovamento di ciò che, spregiativamente, viene liquidato come localismo.
P.S.: mi potete trovare sui nuovi profili Twitter e Instagram, da cui, fra le altre cose, diffondo gli articoli del weblog. Attualmente sono account incentrati per lo più sulla divulgazione culturale, a mo’ di appoggio all’opera di Lombarditas. Parimenti, vi segnalo il canale Telegram omonimo nel quale pubblico, con cadenza settimanale, dei brevi video circa la natura delle Lombardie, affiancato dal nuovo canale YouTube. A quanti vorranno contattarmi o chiedere in merito ad approfondimenti e questioni varie, ricordo l’indirizzo di posta elettronica lombarditas@gmail.com.