Lombardia germanica

L'”Italia” di Alboino

Eravamo rimasti a Odoacre.

Questo sciro re degli Eruli nel 476 divenne re d’Italia, fino al 493 quando, asserragliato a Ravenna, fu deposto e ucciso da Teodorico, re degli Ostrogoti.

Il regno romano-barbarico che ci interessa più da vicino è dunque quello dei Goti di Teodorico che durò più o meno dal 489 al 553.

Nel 489 egli invase la Pianura Padana e nel giro di 4 anni se ne impossessò scacciando Odoacre a Ravenna dove, capitolando nel 493, fu poi ucciso dal re goto durante un banchetto.

I Goti, Ostrogoti in questo caso, erano un popolo germanico originario della Svezia meridionale che verso il finire dell’Impero diedero moltissimo filo da torcere all’agonizzante Roma, anche per tutta una serie di batoste inflitte all’esercito romano.

Prima di giungere in Lombardia, erano stanziati nel settore orientale del Mar Nero, mentre in quello occidentale vi erano i Visigoti; pressati dalla minaccia unna che infuriava sul limes, sbaragliando i Romani si spostarono verso occidente sinché invasero l’Italia romana stabilendosi, più che altro, nel settore settentrionale e centrale.

Centri cruciali Pavia, Milano, Verona, Ravenna.

A Pavia Teodorico aveva il suo palazzo imperiale nonostante che la capitale fosse la romagnola Ravenna (dove fu poi tumulato).

I Goti erano di religione ariana, seguaci dell’eresia cristiana di Ario, ma una volta stanziati in Italia non diedero troppe rogne alla popolazione cattolica, al clero romano, o alla classe senatoria romana, che preservava ancora, in taluni casi, gli antichi culti pagani.

Il Regno ostrogoto non fu esperienza negativa, e col tempo risollevò la Lombardia sconquassata dal crollo romano, rinsanguando superficialmente la sua popolazione.

I guerrieri germanici comandavano e amministravano, combattendo, mentre i Latini badavano al diritto, all’arte, alla religione, alla cultura. Questa formula si rivelò vincente perché da una parte difese il territorio col valore dei combattenti goti, e dall’altra la mantenne a galla culturalmente evitando che sprofondasse del tutto nella barbarie. Un fatto che, ovviamente, non vale per il grosso del popolo, si capisce. Il crollo dell’Impero e l’inizio del Medioevo [1] furono vissuti drammaticamente dall’Europa romana e in particolar modo dall’Italia [2].

Si calcola che circa 250.000 individui [3] tra Ostrogoti e altri Germani (Rugi e Gepidi) calarono nella Pianura Padana agli ordini di Teodorico, provenienti dai Balcani; il loro impatto sulla popolazione autoctona fu del tutto contenuto, e i Longobardi influirono molto più di essi sull’Italia romana, specialmente su Padania e Toscana.

L’Italia gotica, però, aveva due problemi: Bisanzio e Roma.

I primi, in perenne combutta coi preti romani, intrigarono coi loro ruffiani d’Occidente per danneggiare in ogni modo gli Ostrogoti, tanto che nel 535 si arrivò alla famosa Guerra greco-gotica, culminata nel 553 con la vittoria di Bisanzio.

Lo scontro fra il mondo latino, cattolico, mediterraneo, e anche bizantino, e quello germanico, ariano, continentale, “barbarico” come ci si ostina ancor oggi a chiamarlo nonostante che i moderni migranti siano, invece, etichettati a guisa di “risorse” e “ricchezza” (i Goti, almeno, erano integralmente europei), sfociò in questa sanguinosissima guerra che vide soccombere soprattutto il popolo, sopraffatto da carestie, pestilenze, epidemie, e scorribande da ambo i lati.

La guerra impegnò celebri comandanti goti come Teodato, Vitige, Totila, Teia ma fu vinta dal valore di Belisario e dalla levantina scaltrezza dell’eunuco Narsete.

A dar man forte ai Goti vi furono anche Franchi e Alemanni.

Non per darsi al nordicismo, ma c’è da dire che Teodorico diede vita ad un regno comunque buono, per i tempi, e pian piano aiutò l’Italia ad uscire dalla crisi, per quanto la presenza gota fosse per lo più dislocata al di qua del Po, per motivi militari e strategici. Alla Roma senatoria e papalina questo non stava bene e fu il primo episodio di tutta una serie di ingerenze religiose negli affari di stato, che condussero a sud delle Alpi truppe straniere (e oggi allogeni).

La capitolazione degli Ostrogoti portò molti di essi ad emigrare, ma una minima parte rimase, nonostante l’intera Italia cadesse nelle mani di Giustiniano e dei Bizantini. E si diedero alla resistenza.

La Guerra greco-gotica fu un immane disastro per la popolazione, come ricordato, grandemente falcidiata soprattutto al “nord” dai mille flagelli che la guerra e la crisi recano seco.

Chiesa e Costantinopoli, deserto e Levante, parevano i vincitori, ma non durò a lungo.

Nel 568 un fiero e valoroso popolo nordico si affacciò sulla Carnia, provenendo dalla Pannonia, attuale Ungheria: i Longobardi, guidati dal loro re Alboino.

Tra il 569 e il 572 si impossessarono del grosso della Cisalpina e della Toscana, sbaragliando i fiacchi Bizantini e ricacciandoli da dove erano venuti, oppure costringendoli in sacche costiere come le Venezie e la Romagna (oltre naturalmente alla Roma del papa).

La Lombardia deve il suo nome ai Longobardi, ma tale etnonimo le fu dato indirettamente dai Bizantini, che chiamavano Langobardia i territori soggetti ai Germani in questione, quindi la Padania, la Toscana, e chiaramente i successivi ducati di Spoleto e Benevento (Langobardia Minor).

Tuttavia, il nome ‘Lombardia’ divenne appannaggio del settentrione, grazie alla forte impronta lasciata dagli antichi Vinnili, e per questo è il miglior termine per indicare la nostra nazione.

I Longobardi conquistarono la parte continentale e la penisola, ma a noi interessa il fulcro del loro dominio ossia la Pianura Padana, la Lombardia storica.

Questi bellicosissimi Germani erano anch’essi originari della Scandinavia, della Scania pare, e in seguito a diverse peripezie attraversarono l’Europa centrale giungendo prima in Pannonia, via attuale Austria, poi appunto in Val Padana, dove, divenendo del tutto stanziali, portarono a termine la loro epopea.

In 150.000 al massimo [4], il 2 aprile 568, varcarono il Passo del Predil (o il Matajur) per dilagare nella pianura occupando saldamente quasi tutto il “nord”, ma è chiaro che i Longobardi di stirpe non fossero esattamente 150.000: al loro seguito, infatti, 20.000 Sassoni e altri fra Gepidi, Rugi, Svevi, Bavari, Alemanni, Bulgari.

La nobiltà longobarda, e il fulcro etnico del popolo conquistatore, erano razzialmente nordidi o cromagnonoidi, ariani di fede assieme al pagano culto di Godan-Odino. Tra di essi anche elementi fenotipicamente indogermanici come i Corded Nordid e i Battle-Axe. La presenza dell’aplogruppo protoindoeuropeo R1a1a nelle terre subalpine è da attribuirsi agli invasori germanici, oppure all’influsso slavo nel settore orientale estremo della Grande Lombardia.

Di certo i Vinnili incrementarono il nordicismo della Val Padana, soprattutto, e dell’Italia etnica peninsulare (Toscana, Umbria, Sannio), impattando più dei Goti e di altri Germani. Studi genetici recenti calcolano che l’apporto biologico nordeuropeo alla Lombardia storica ammonti ad un 20%. Avremo modo di riparlarne, a proposito del calcolatore Eurogenes Global25, grazie a cui alcuni sodali lombardisti hanno messo a punto interessanti modelli, indicativi del profilo antropogenetico della Padania. Anticipiamo, comunque, che le aree più germanizzate (al di là, per ovvie ragioni storiche, dell’arco alpino) paiono il Triveneto di terraferma e le plaghe a cavallo fra Insubria e Piemonte, oltre al Piemonte stesso.

Discreta ma decisiva fu l’influenza di questi nordici sul nostro territorio, nonostante la perdita della lingua e delle loro ancestrali credenze religiose e tradizioni, via via abbandonate stabilendosi nel dominio italico-romano; anche i Franchi, i Burgundi, i Visigoti, in parte gli Anglo-Sassoni, i Normanni, venendo in contatto con la superiorità culturale di stampo latino preferirono abbracciarla che combatterla e distruggerla, e questo fu certamente un bene per l’Europa. Col tempo giunsero anche a fondersi con gli indigeni romanici. La forza guerriera germanica e la grandezza culturale greco-latina furono la rinascita dell’Europa dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente.

Alboino conquistò Milano il 3 settembre 569 dando vita al Regno longobardo, e Pavia nel 572, ove pose la capitale del regno dopo un assedio durato anni.

Esso comprendeva quattro aree fondamentali: l’Austria (dall’Adda al Friuli), la parte più turbolenta del regno perché più bellicosa, aggressiva, conservatrice, ariana, pagana che in Bergamo, Brescia, Trento, Verona e Cividale aveva i suoi capisaldi; la Neustria (dall’Adda alla Val di Susa), ov’era la capitale della Langobardia Maior, il settore più pragmatico, realista, “civilizzato”, ma anche filo-romano e poi cattolico, i cui centri principali erano Milano, Pavia, il Seprio, il Ticino, Torino; l’Emilia fino a Spilamberto (degna di nota la germanizzazione degli Appennini); la Tuscia, che fu colonizzata e corroborata dal sangue longobardo così come da quello gotico, accostandola per molti versi alla Lombardia.

Successivamente nacquero il Ducato di Spoleto e quello di Benevento, piuttosto autonomi e riottosi al dominio centrale, sebbene venissero più tardi annessi.

I Longobardi si organizzarono in ducati ricalcando le precedenti suddivisioni bizantine, spesso in lotta col potere centrale pavese, e prima che la situazione si normalizzasse dovette esaurirsi la cosiddetta anarchia dei duchi, che durò una decina di anni, subito dopo la morte dell’indiscusso duce Alboino e del suo successore Clefi, e che terminò con l’avvento del figlio Autari.

Ancor più decisivo il regno di Agilulfo, con le sue grandi conquiste nella Pianura Padana bizantina (Cremona, Mantova, Padova), e Teodolinda, la regina cattolica di dinastia bavarese che molto incise sulle sorti del popolo longobardo.

Note

[1] Tradizionalmente, l’inizio del Medioevo a sud delle Alpi è sancito dall’invasione longobarda del 568-569.

[2] Se di tanto in tanto usiamo il termine equivoco ‘Italia’ è soltanto per indicare i territori che furono dell’Italia romana, dunque per comodità.

[3] Claudio Azzara fa una stima al ribasso, parlando di 100-125.000 unità, di cui 25.000 guerrieri.

[4] Stando alle classiche stime di studiosi come Jarnut, Gasparri, Azzara, Pohl.

Lombardia gallo-romana

Gallia Cisalpina

Nel V-IV secolo avanti era volgare, dunque, i Galli storici si insediarono nella Pianura Padana, sconfiggendovi gli Etruschi e stabilendo una continuità coi Liguri, già celtizzati dalla Cultura di Hallstatt. Nacque così la Gallia Cisalpina.

Gli Etruschi, fondamentali per l’antica cultura italica e per la formazione della civiltà romana, si attestarono primariamente in Toscana e Lazio (l’Etruria padana era più che altro un’espansione commerciale degli stessi); nel Lazio antico, invece, gli Italici protovillanoviani (Villanova era primariamente associata ai Tirreni), Latini, migrati, in forma embrionale, dalla valle del Po, fondarono Roma nel 753 a.e.v., sovrapponendosi alla civilizzazione etrusca e gettando le basi della Repubblica romana (che venne dopo il periodo monarchico). Nell’epoca che va dal 264 al 146 a.e.v., essa conquistò il Mediterraneo e quasi tutta l’Italia [1] romana, unificandola.

Grazie a campagne militari che andarono dal 225 al 194 a.e.v., i Romani si assicurarono il controllo della Gallia Cisalpina, che venne annessa così all’organismo romano. Fondarono diverse colonie tra cui Piacenza, Lodi, Cremona, Acerrae (Pizzighettone).

Prima delle conquiste romane, i Galli Cenomani, stanziati nel territorio della Lombardia etnica orientale e nel Veneto occidentale, si allearono coi Venetici e giunsero in conflitto con i Galli Insubri, che invece legarono con i Boi dell’Emilia in funzione anti-romana. I Cenomani divennero, come i Venetici, alleati dei Romani, più o meno stabilmente.

Nel 222 a.e.v. i Romani sconfissero proprio gli Insubri nella battaglia di Clastidium, Oltrepò pavese, ne distrussero l’esercito e ne approfittarono per conquistare Mediolanum, estendendo così il dominio dell’Urbe alla regione gallica transpadana. Il pericolo gallico, che portò al sacco senone di Roma ad opera di Brenno (390 a.e.v.), fu scongiurato.

Tre anni prima, gli Insubri si resero assai minacciosi, costituendo una “lega” celtica che invase il territorio italico, venendo però sconfitta dai Romani a Talamone.

Durante la Seconda guerra romano-punica (218-202 a.e.v.), il cartaginese Annibale, che dilagò nel territorio romano dalle Alpi, sobillò Insubri e Boi contro Roma. Qualche osservatore moderno di area vetero-leghista vede in tale evento un’occasione di unità per i popoli celtici della Cisalpina; fu per certi versi così, e chissà se la storia sarebbe andata altrimenti, ma resta il fatto che i Celti si misero dalla parte di un più forte invasore nordafricano, che calò nella Pianura con tanto di elefanti, divenendo suoi mercenari per avversare Roma. I Romani erano forestieri, in Padania, ma pure i Cartaginesi.

Annibale sconfisse i Romani sul Ticino e sul Trebbia, scese lungo la penisola e, sempre grazie all’appoggio insubrico, li batté sul Trasimeno (qui si mise in mostra il leggendario Ducario). Poi venne la volta della disastrosa, per i Romani, Canne (216 a.e.v.). Il vittorioso epilogo della guerra però, come sappiamo, arrise a Roma grazie a Scipione l’Africano che sconfisse Annibale a Zama, ridimensionando le ambizioni di Cartagine.

La Gallia Cisalpina divenne così una provincia romana. Le colonie portarono all’insediamento in terra padana di elementi italico-romani, mentre l’elemento gallico venne in parte sterminato, schiavizzato o disperso, segnatamente in area boica e senone. Questi dati non sono da esagerare, anche per quanto concerne la Cispadana. I Boi, secondo gli storici romani, presero in massa la via della migrazione transalpina, verso la Boemia che, come Bologna, prende il loro nome [2].

Nell’89-88 avanti era volgare, la cittadinanza romana venne estesa alla Cispadana mentre la Transpadana ricevette lo ius Latii, con il quale i Celti al di là del Po e i Liguri vennero latinizzati tramite deduzione di colonie fittizie.

Nell’81 a.e.v. il confine italico venne posto lungo le Prealpi e la Gallia Cisalpina divenne provincia armata, mentre nel 49 a.e.v. Giulio Cesare concesse la cittadinanza romana ai transpadani.

Nel 42-41 avanti era volgare, la provincia della Gallia Cisalpina venne abolita e la Padania annessa all’Italia augustea.

La Lombardia etnica fu così suddivisa in (Gallia) Transpadana (dal Sesia all’Oglio), Venetia et Histria (Brescia, Cremona, Mantova, e cioè l’area cenomane), (Gallia) Cispadana (l’Emilia) e il Piemonte meridionale nella Liguria.

I Cenomani alleati dei Veneti, e dunque dei Romani, vennero “premiati” annettendoli al resto dei loro alleati, staccandoli dallo zoccolo duro della Gallia togata; da qui nasce l’equivoco della Lombardia orientale “veneta”, poi corroborato dalla dominazione marciana moderna. I Veneti non misero mai piede al di qua del Garda, e la Lombardia etnica orientale è galloromanza e gallo-italica, al pari del resto del fulcro lombardo [3].

La guerra contro le popolazioni alpine (celto-reto-liguri), invece, continuò anche dopo il 42 a.e.v., con Augusto e i suoi figli, e l’esito fu scontato: popoli come Vennoneti, Bergalei, Camuni e Triumplini dovettero arrendersi di fronte allo strapotere romano, che portò così il confine dell’Italia romana sino alle Alpi.

I Romani diffusero l’uso del latino, delle loro leggi, dei loro costumi, della loro religione e realizzarono numerose opere di urbanistica e infrastrutturali. Dobbiamo ad essi reti viarie, idriche, fognarie. In questo periodo fiorirono i commerci e l’agricoltura, sorsero e si ingrandirono città e villaggi, fermo restando che Roma beneficiò grandemente della naturale prosperità celtica.

La romanizzazione della Gallia Cisalpina fu un passo fondamentale per i nostri avi e per noi, inserendoci nella civilizzazione latina. Non fu solo conquista militare, politica, culturale, amministrativa, fu anche etnica, sebbene il grosso del popolo rimase di estrazione indigena celto-ligure, per quanto romanizzato. E va anche messo in conto l’influsso tardo-imperiale esercitato dai coloni del Mediterraneo orientale, e poi riequilibrato dall’apporto germanico soprattutto dei Longobardi. Nulla, comunque sia, di paragonabile all’Italia etnica.

La romanizzazione non rende la Padania Italia, perché Roma antica non era quella moderna, e quindi non era l’Italia per come la conosciamo. I Galli divennero col tempo Gallo-Romani per lingua, religione, cultura, usi e costumi, progresso, civiltà, infrastrutture e servizi, ma questo non implicò l’eradicamento totale della stirpe gallica, specie a nord del Po. Altrimenti, anche oggi, l'”Italia” sarebbe un blocco unico dalle Alpi a Lampedusa, coeso dall’ADN romano (qualsiasi cosa voglia dire).

Certamente, noi lombardi (etnici) non siamo gallici e basta, o celto-germanici e basta. Siamo eminentemente celto-liguri, dove più e dove meno, e poi gallici e, in misura minore, germanici, anche qui dove più e dove meno. Ma siamo altresì romani (o, meglio, romanici, e romanzi), anche per sangue, non solo per lingua e cultura. Sicuramente, la romanizzazione portò in Padania geni italici e geni levantini. La primaria linea paterna lombarda è celtica/celto-ligure, e il nostro ADN è primariamente dell’Europa sudoccidentale, per quanto il concetto di Europa meridionale sia sterminato. La Cisalpina, come più volte ricordato, è a metà strada fra il Mediterraneo e il continente.

Diversi funzionari romani si stabilirono in Gallia Cisalpina, così come i veterani di guerra ricevettero, in virtù delle loro prestazioni, terreni lombardi [4]. La Lombardia diede i natali, fra gli altri, a tre autorità del mondo culturale romano: Virgilio, di Mantova, Plinio il Vecchio, di Como e Cornelio Nepote, di Pavia od Ostiglia (Mantova). Per non parlare di Catullo e di Livio, ma qui siamo in territorio venetico.

Si registrarono delle infiltrazioni germaniche nella Val Padana, ben prima delle invasioni storiche che portarono alla creazione dei regni romano-barbarici sul finire dell’Impero romano d’Occidente: Cimbri, Teutoni, Ambrones, Taifali, assieme a schiavi germanici e gallici deportati in Lombardia come forza lavoro, e ai famosi laeti, coloni nordici del tardo Impero.

Il dominio di Roma, repubblicano ed imperiale, su quella che oggi è Lombardia etnica e storica, durò 700 anni. Un periodo che non si può certo ignorare, è evidente, ma nemmeno va ingigantito in chiave retorica. La romanità non ha reso la Padania Italia, altrimenti mezza Europa andrebbe considerata italiana.

Nel 292 Diocleziano, con la riforma politico-amministrativa, designò Milano a residenza di uno degli imperatori, Massimiano. Milano divenne capitale dell’Impero romano d’Occidente, fino al 402 era volgare, quando Onorio trasferì la capitale a Ravenna. Le riforme dioclezianee, peraltro, vennero seguite da quelle di Costantino che divisero l’Italia romana, ormai una provincia come tutte le altre, in Annonaria e Suburbicaria: la prima coincise grossomodo con tutta la Grande Lombardia, e ne faceva parte pure l’intera Rezia. La Suburbicaria era invece la vera Italia, quella etnica, pur comprendendo anche la Sardegna.

Certamente Roma, sul finire della sua potenza, divenne un ente accentuatamente parassitario che sfruttava e strizzava le varie province per arricchirsi sulle loro spalle, succhiandole come un vampiro, vessandole con rapaci funzionari, lasciandole sguarnite di fronte alla crescente aggressività dei popoli germanici e barbarici che premevano lungo il famoso limes, minacciati com’erano da altri popoli barbari, nemmeno di origine europea, quali gli Unni. Chiaramente sono i difetti – ereditati dai Bizantini – di tutti gli imperi che non siano un’armonica confederazione di realtà etnonazionali. Ma questo è un concetto moderno, caldeggiato dal lombardesimo.

La decadenza romana, da una parte fisiologica, venne acuita dall’orientalismo, dall’effeminatezza e dal prolasso dei costumi, dal meticciamento e dall’eresia giudaica cristiana che sfilacciava l’ethos romano, già corrotto ed indebolito dall’età imperiale.

Diocleziano tentò di salvare il salvabile, rinviando di due secoli il crollo del gigante romano dai piedi d’argilla. Già in quel periodo, ormai, Roma contava poco o nulla.

L’Editto di Caracalla (212 era volgare), sull’universalità dell’Impero (tutti “romani”), e l’Editto milanese di Costantino nel 313, che garantiva libertà religiosa a tutti i cittadini romani, avviarono l’Europa sulla strada della dittatura cristiana bimillenaria. Teodosio compì l’opera proclamando il cristianesimo unica religione obbligatoria del mondo romano.

Il cristianesimo si diffuse in Lombardia, con tutto il suo strascico di magagne mediorientali, e nel 374 Ambrogio fu acclamato vescovo di Milano.

Nel 402, come ricordato più sopra, la capitale venne spostata nella paludosa Ravenna, in un clima congeniale allo stuolo di parassiti statali che ormai di romano non avevano più nulla. La stessa culla della romanità versava in pessime condizioni, preda del malgoverno, della corruzione, dell’incuria, dei liberti, dei cristiani e dei dinosauri senatori attaccati tenacemente ai loro privilegi. Una situazione che ricorda invero quella attuale.

Il destino dell’Impero era segnato, e nonostante che buona parte dell’esercito romano fosse rimpinguata da freschi soldati germanici (la schiatta guerriera “italica” era ormai esausta) la relativa vicinanza della Lombardia al confine danubiano favorì numerose incursioni di popoli barbarici nordici nel suo territorio, che poi venne trascinato nella polvere, nel fango e nelle macerie dall’inesorabile crollo della, comunque da tempo, ingessata potenza romana, decentratasi a nord e ad est (Costantinopoli).

Lo sciro Odoacre depose Romolo Augustolo, un ragazzino fatto ultimo imperatore-fantoccio dalle congiure di palazzo. Era il 476 dell’era volgare e il dominio di Roma, la prima Roma, ebbe fine, per convenzione. Infatti, più che di crollo, la storiografia moderna parla di dissoluzione, o di trasformazione.

Con il definitivo tramonto dell’Occidente, si contesero il possesso della Lombardia Ostrogoti e Bizantini, e fu la volta del grande Teodorico.

Note

[1] Sarà utile ricordare che l’Italia primigenia era la punta della Calabria e poi, in senso lato, la vera terra degli Italici, il centrosud. La Gallia Cisalpina venne, fondamentalmente, conquistata e annessa per ragioni militari, portando il confine dell’Italia romana allo spartiacque alpino.

[2] Lo strato gallico sopravvisse certamente anche a sud del Po, come ci testimonia la stessa genetica. Le notizie di stermini di massa sono dunque esagerazioni propagandistiche belle e buone. A nord del fiume, invece, come risaputo, la penetrazione romana fu soprattutto culturale, perlomeno inizialmente, e avvenne pacificamente.

[3] Sappiamo invece che sia proprio il Veneto ad essere parte della Grande Lombardia, e prima ancora della Gallia Cisalpina.

[4] La romanizzazione viaggiò anche grazie agli stessi indigeni cisalpini che, in veste di legionari, importarono usi e costumi di Roma nelle proprie terre natie. O anche grazie alle magistrature delle élite galliche.

Lombardia preistorica e protostorica

Incisioni camune

Pubblicherò, per qualche soledì, alcuni articoli sulla storia della Lombardia, soffermandomi in particolare sul cuore insubrico-orobico della nostra nazione. A seguire, degli scritti storici circa Bergamo e la Bergamasca.

La “Lombardia” del Pliocene (l’epoca più recente dell’era cenozoica o terziaria, fra i 5 e i 2 milioni di anni fa) aveva un’estensione territoriale differente da quella attuale.

Mentre l’arco alpino era ben definito, la Pianura Padana era ancora del tutto assente. Questa deve la sua formazione al deposito dei detriti portati a valle dal fiume Po e dai suoi affluenti nel corso dei milioni di anni successivi fino ad oggi; inoltre, alla spinta tettonica che la placca africana esercita contro la placca europea [1]. Tale spinta, nel corso delle centinaia di migliaia di anni, ha fatto sollevare la crosta terrestre dell’Europa, e in particolar modo dell’Appenninia e della Lombardia, di alcune decine di metri.

Questi due fattori combinati insieme hanno fatto sì che al posto dell’Adriatico, che occupava il Golfo Pliocenico Padano, abbiamo oggi una verdeggiante pianura tra le più fertili e ricche (purtroppo anche inquinate e cementificate, conseguenza, non da ultimo, della sovrappopolazione immigrata) d’Europa.

Durante l’ultima glaciazione (Würm), quella che interessò le Alpi tra i 110.000 e i 12.000 anni fa, la Lombardia alpina e prealpina presentava compatte calotte glaciali e ghiacciai montani. I ghiacciai montani e pedemontani modellavano il territorio asportando virtualmente tutte le tracce delle precedenti glaciazioni di Günz, Mindel e Riß, depositando morene di base e morene terminali di differenti fasi di ritrazione, e accumuli di löss (argille sabbiose finissime e giallastre di origine eolica), e spostando e ri-depositando le ghiaie attraverso i fiumi che scendevano dai ghiacciai. Al di sotto della superficie, essi ebbero un’influenza profonda e duratura sul calore geotermico e sulle tipologie di flusso delle acque sotterranee.

I celeberrimi laghi prealpini lombardi si formarono proprio in questo periodo, dalla ritirata dei ghiacciai.

Durante l’ultima glaciazione, va anche detto che la Val Padana appariva decisamente decentrata ed estesa rispetto ad oggi, tanto che il Po sfociava nell’Adriatico all’altezza di Ancona.

Le prime tracce circa la presenza dell’uomo nella Cisalpina rimontano al Paleolitico. La presenza dell’Uomo di Neanderthal è dimostrata da ritrovamenti risalenti a 50.000 anni fa, sebbene scarsi rispetti al resto d’Europa. La comparsa dell’uomo moderno, invece, è da attribuire a 34.000 anni fa (Paleolitico superiore), stando ai reperti.

Nel Neolitico (VI millennio avanti era volgare) si cominciano ad intravvedere le prime forme concrete di civiltà, grazie alla diffusione della ceramica impressa. Si affermano i manufatti di origine ligure anariana, e gli individui appartenenti a questo filone artigianale possono dirsi di tipo mediterraneo. La Cultura della ceramica cardiale si originò, però, nel Levante e giunse in Padania dai Balcani, innestando nella mediterranea, e arcaica (cromagnoide), valle del Po il tipo dinarico.

Il Neolitico è il fondamentale strato lombardo, da un punto di vista genetico, ed è quello che accomuna, in senso mediterraneo e (meno) levantino antico, l’Europa sudoccidentale. La principale differenza etno-razziale fra gli “italiani” deriva dal fatto che più si scende verso il Mediterraneo e più si riscontrano influssi egeo-anatolici e mediorientali, anche recenti (età romana imperiale e tardo-imperiale). Naturalmente, le componenti anatolico-caucasiche e levantine degli italiani etnici meridionali non fanno di essi fratelli di coloro che abitano oggi Asia Minore e Medio Oriente, perché recate da genti mescolatesi con gli indigeni; altresì, Arabi [2], Ebrei, Saraceni, Ottomani hanno influito superficialmente, a livello genetico, sull’Ausonia, poiché essa deve il suo genoma esotico principalmente a popolazioni greche e coloni levantini di età romana.

Gli uomini neolitici, dediti ad attività agricole, erano organizzati in società matriarcali incentrate su figure femminili, non solo a livello gerarchico e sociale ma anche culturale: culti ctoni, lunari, legati alla fertilità, al ciclo delle stagioni e alla Madre Terra, la Dea Madre: tutto da lei nasceva e a lei ritornava (quindi, rito funerario dell’inumazione) [3].

Erano società pacifiche, imbevute di artisticità, artigianato, raffinatezza, ricchezza e benessere. Per quei tempi, si capisce.

Gli oscuri Liguri, popolo di base preindoeuropea che si estendeva dalla Francia sudoccidentale alla Toscana settentrionale, erano eredi di questa temperie culturale, anche se nel tempo furono indoeuropeizzati. Il loro endoetnonimo, secondo gli storiografi antichi, era Ambrones, palesemente indoeuropeo, e facilmente accostabile a quello degli italici Umbri e degli omonimi Ambrones germanici. Dovrebbe ricollegarsi al celtico *ambr- e al latino imber, che significano ‘acqua, pioggia’, e quindi anche ‘fiume, torrente’.  

Durante l’Età dei metalli, comparve nel cuore della Lombardia la Cultura di Remedello (III millennio a.e.v.). In questa fase (Età del rame), abbiamo i prodromi delle prime vere grandi civiltà protostoriche cisalpine. Elementi caratteristici del periodo sono i megaliti (statue stele, statue-menhir in Lombardia) e il vaso campaniforme.

La protostoria europea cominciò proprio col Calcolitico e arrivò fino all’Età del ferro, passando per quella del bronzo.

L’Età del rame, di Remedello, vide il fiorire del megalitismo anche in area padana, dove la Val Camonica cominciò ad emergere culturalmente grazie alle stele antropomorfe; sul finire del Calcolitico, comparve la Cultura del vaso campaniforme, che portò in Lombardia elementi di origine franco-iberica e centro-europea (delle avanguardie indoeuropee, in questo caso). La fase finale di Bell Beaker (all’inglese) fu infatti indoeuropeizzata nel Centro Europa, entrando in contatto con le ondate ariane provenienti dalle steppe ponto-caspiche. Pare che il tipo fisico di questa cultura fosse brachicefalo, sul dinarico.

La civiltà camuna esplose nell’Età del bronzo (II millennio a.e.v.), producendo le celeberrime incisioni rupestri (principiate comunque nel Mesolitico), dove cominciarono a comparire i primi simboli solari e guerrieri di origine ariana penetrati in Padania dalle Alpi Centro-Orientali. I Camuni erano, di base, un popolo alpino reto-ligure (i Reti erano dei tirrenici al pari degli Etruschi, ma senza influssi anatolico-caucasici recenti), certamente arianizzato soprattutto nel Ferro. A sud della Camunia, erano attestati gli Euganei, una popolazione ligure, o alpina [4]. Altro popolo alpino del Bresciano erano i Triumplini.

Reti erano pure i Vennoneti della Valtellina, e non a caso parte delle suddette incisioni sono state trovate anche nel settore orientale della provincia di Sondrio.

All’Età del bronzo appartiene pure la Cultura di Polada, che interessò soprattutto la Lombardia orientale, intrisa di elementi “mittel” di filiazione indoeuropea.

Finalmente, nella tarda Età del bronzo (XIII secolo a.e.v.), ecco la Cultura dei campi di urne, indoeuropea, proveniente dall’area centro-orientale dell’Europa, che in Lombardia trovò linfa vitale grazie a Canegrate e al proto-Golasecca, in Insubria. Nella Bassa lombarda, invece, si fece sentire l’influenza protovillanoviana, e poi villanoviana (etrusca), di culture collegate ai proto-Italici e ai proto-Latini, senza dimenticare le terramare, fra Regione Lombardia e Regione Emilia-Romagna.

La Cultura di Golasecca (prima Età del ferro, preceduta dalla fase protogolasecchiana del Bronzo finale) andava dal fiume Sesia al Serio ed era proto-celtica/celtica, emanazione di quella di Hallstatt; riunì elementi delle precedenti Culture di Polada (Liguri palafitticoli indoeuropeizzati), della Scamozzina (Liguri indoeuropeizzati) e di Canegrate (Celto-Liguri) nascendo attorno al XII secolo avanti era volgare, e vide come protagonisti gli Insubri pre-gallici, gli Orobi che fondarono Como, Lecco e Bergamo, e i Leponzi stanziati nel Ticino [5]. Costoro, fondendo caratteristiche mediterranee e preindoeuropee liguri con l’identità indoeuropea, virile, solare, guerriera, nordica, gettarono le basi della Lombardia preromana, irrobustite poi dai Galli storici, dai Gallo-Romani e da Goti e Longobardi, popoli germanici originari, si dice, della Svezia meridionale.

Fortificazioni, armi e oggetti in bronzo e in ferro (usati anche come corredo funebre), campi di urne [6], culti solari e celesti, monili ariani e solari, allevamento di cavalli, uso del carro da guerra, cittadelle, classici toponimi in -ate e tracce della varietà linguistica del celtico parlato allora nella Lombardia insubrica centro-occidentale (leponzio), erano alcune delle principali peculiarità della celtica civiltà di Golasecca, che svolgeva, oltretutto, un importante ruolo di mediazione culturale e commerciale fra i Celti continentali e il mondo mediterraneo, specie etrusco.

Le migrazioni ariane in Padania andarono dalla media Età del bronzo (metà del II millennio a.e.v.) al V-IV secolo a.e.v. (Età del ferro, iniziata nel I millennio avanti era volgare). E proprio in questo periodo irruppero i Galli storici.

Le invasioni storiche dei Galli continentali resero di fatto Gallia Cisalpina il territorio compreso tra la fascia alpina meridionale e l’Appennino settentrionale e tra le Alpi Occidentali e Orientali, soprattutto la cosiddetta Gallia Transpadana (rispetto a Roma [7]), che andava dal Piemonte al fiume Oglio e dallo spartiacque alpino al fiume Po.

Le ondate galliche portarono i Biturigi del mitico Belloveso alla fondazione di Milano [8], la nostra capitale, e occuparono lo spazio geografico che già fu dei golasecchiani; i Cenomani del, parimenti, leggendario Elitovio fondarono Brescia e occuparono il suo contado e quello di Cremona, Mantova, Trento (?) e Verona; i Boi si stanziarono in Emilia, ma anche nel Lodigiano, e liquidarono gli Etruschi (un impasto mediterraneo-villanoviano, preindoeuropeo-indoeuropeo, con una tarda fase culturale orientalizzante), che precedentemente erano arrivati a lambire la Bassa lombarda transpadana, sfruttandola più che altro per motivi commerciali (vedi il famoso emporio mantovano del Forcello).

I Galli trovarono una realtà transpadana occidentale già in parte celtizzata, instaurando un continuum etnico che sarebbe poi quello leponzio-gallico continentale che ha fatto da sostrato linguistico ai dialetti gallo-italici.

Prima che i Romani conquistassero gradualmente la Lombardia, annettendola all’organismo italico, i Galli cisalpini suddivisi in tribù celtizzarono il territorio – continuando l’opera dei proto-celtici predecessori – da un punto di vista culturale e razziale, trovandosi a loro agio tra alture, colline, pianure, in riva ai nostri laghi di origine glaciale e in mezzo alla sterminata foresta planiziale di farnie, carpini e frassini che ricopriva la Pianura Padana.

Il Celta, come si sa, amava immergersi nella continentale natura circostante, una caratteristica che comunque ritorna nella tipica religiosità indoeuropea, fondata com’è sul sangue della stirpe e il suolo della patria.

La toponomastica lombarda divenne fortemente gallica [9]; il carattere celtico della lingua indigena si rafforzò; sorsero sempre più abitati fortificati posti in collina (i famosi “duni”); inumazione e incinerazione dei cadaveri, a seconda della tribù gallica, caratterizzarono i riti funebri della popolazione; la costruzione di santuari e la dedicazione di boschi sacri costellò le contrade padano-alpine; la produzione di manufatti celtici, stavolta soprattutto in ferro (armi in particolar modo), accompagnò la Cisalpina sino alla piena romanizzazione. L’Età del ferro è l’epoca celtica per antonomasia, nella Grande Lombardia.

La schiatta gallica, composta – soprattutto a livello elitario – da nordidi del tipo Keltic, biondi, fulvi, castani, con occhi verdi o azzurri, con lunghi mustacchi e lunghi capelli, alti e robusti, bellicosi e pervasi dal furore, nordicizzò la Lombardia, contribuendo, assieme ai popoli germanici, al concreto apporto nordeuropeo che contraddistingue l’identità della terra fra Alpi e Po, con l’appendice cispadana.

In termini antropologici, però, la Lombardia si basa primariamente sull’elemento alpino e atlanto-mediterraneo, con un importante contributo dinarico che si irrobustisce procedendo verso est; il dato alpino viene erroneamente definito “celtico” perché assai diffuso nelle Gallie e nell’Europa centrale, dove la civiltà celtica/gallica si sviluppò grazie a Hallstatt e La Tène, per poi irradiarsi in buona parte dell’Europa.

L’identità della Lombardia, specie occidentale, è fortemente celtica, e affonda le radici nel periodo di Canegrate, mille anni prima della calata dei Galli di Cesare, fiorendo durante il golasecchiano ed esplodendo grazie all’apporto dei transalpini. Ma merita considerazione anche il sostrato ligure, anariano e ariano, e quello reto-etrusco su Alpi e pianura. Non abbiamo trattato del contesto venetico, essendoci concentrati sulla Lombardia etnica segnatamente insubrico-orobica, ma risulta evidente, a partire dal dato archeologico, che la presenza celtica abbia interessato eziandio l’area della Grande Lombardia orientale.

Note

[1] La Padania nasce dalla collisione fra la parte settentrionale della massa africana distaccatasi, la zolla adriatica, e la massa eurasiatica. Dire, dunque, che il nostro territorio è figlio tout court della placca africana è una sciocchezza pressapochistica.

[2] Nel genoma siciliano è stato tuttavia individuato un lascito nordafricano medievale.

[3] Questa è la lettura tradizionale, alla Gimbutas, della cosiddetta Old Europe. Oggi la posizione degli archeologi è decisamente più sfumata.

[4] Termini come ‘ligure’, ‘alpino’, o anche ‘mediterraneo’, nel contesto archeologico tradizionale, indicano il sostrato indigeno, anariano, delle nostre terre.

[5] Altri popoli antichi associati al golasecchiano, secondo l’archeologo Raffaele De Marinis – ai cui scritti rimando -, sono Levi, Marici, Libui o Lebeci, Vertamocori, Agones.

[6] Urnfield, nel mondo anglosassone, indica il peculiare rito funerario del mondo indoeuropeo, l’incinerazione, che si ricollega a precisi schemi e modelli della spiritualità ariana, come il culto del fuoco, della purificazione e degli antenati, e la liberazione dell’anima dalla “prigione” del corpo.

[7] Se adottassimo il criterio “milanese” la Cispadana sarebbe la Transpadana romana, e viceversa.

[8] In realtà, è più probabile che la fondazione di Mediolanum sia avvenuta in epoca golasecchiana; la vicenda dei Galli Insubri va così a sovrapporsi a quella degli Insubri golasecchiani, stando ad un’omonimia non certo singolare, vista la comune appartenenza etnica al mondo celtico.

[9] Tipici suffissi gallici come -aco, -ago, -uno, -uco, -ugo accompagnarono la penetrazione dei conquistatori, prosperando anche in epoca gallo-romana e medievale.

I lombardi e la Lombardia

El Bisson

I lombardi, segnatamente padani, sono un popolo, dunque un’etnia; non sono una razza o una subrazza, chiaramente, bensì un insieme di genti che costituiscono la nazione cisalpina, la Grande Lombardia.

I lombardi, scendendo più nello specifico, appartengono alla razza caucasoide europea, agli europidi, e sono la risultante della fusione di elementi di base (atlanto)mediterraneide e alpinide con altri di estrazione dinaride e, meno, nordide (periferica). L’elemento dinaride/adriatide, si fa preponderante nel contesto del Triveneto.

La Lombardia storica è molto vasta come territorio, va dalle Alpi Occidentali a quelle Orientali, e dall’arco alpino all’Appennino, e quindi i granlombardi non sono del tutto omogenei, anche se gli elementi fisici e genetici basilari restano appunto il sostrato neolitico ligure e reto-etrusco (mediterraneo occidentale) e quello più continentale (alpino), influenzato dagli apporti indoeuropei.

Il nerbo lombardo è ovviamente situato nella Lombardia padana, nell’area che gravita attorno a Milano, la nostra capitale, e se vogliamo trova nell’Insubria il suo fulcro rustico, per quanto oggi offuscato dalla globalizzazione e dall’invasione alloctona.

La zona insubrica fu proto-celtica (Canegrate e Golasecca), gallica (Insubri), naturalmente gallo-romana, germanica (Longobardi della Neustria e Franchi), modellata dal Medioevo feudale, comunale e signorile; è un po’ il cuore della Lombardia etnica, grazie alla sua centralità, non solo geografica ma anche culturale e linguistica.

Il cuore della Lombardia è piuttosto alpinide, e il tipo alpino è certo quello prevalente. Solitamente, sebbene erroneamente, viene associato ai Celti, in quanto il grosso del popolo transalpino che questi portavano seco, essendo centro-europeo, apparteneva al fenotipo in oggetto. Un po’ come i Venetici, associati all’estrazione dinaride, in virtù della loro provenienza centro-orientale, danubiana.

Comunque sia, tradizionalmente, i caratteri fisici legati alla celticità sono quelli nordidi dinaromorfi, vedasi il noto Keltic Nordid dell’Età del ferro.

Procedendo verso nordest si possono notare influssi retici (nord-etruschi) in Valtellina, nelle Orobie, nelle Prealpi bergamasche e bresciane, quindi dinarico-mediterranidi, e lo stesso si può riscontrare a sudest, in area padana, dove gli Etruschi, se non proprio a colonizzare, giunsero ad influenzare zone come Cremonese, Bassa bresciana, Mantovano. Se parliamo di Reti, tuttavia, va soprattutto citato il Triveneto settentrionale, e se parliamo di Etruschi la Lombardia cispadana; nel primo caso vanno messi in conto discreti influssi di tipo nordoide, e naturalmente l’elemento alpinide.

L’aplogruppo R1b-U152, clade Z36, ritenuto peculiare delle invasioni galliche, trova i suoi massimi fra Bergamasco e Bresciano, in zone molto conservative e caratterizzate da una cospicua eredità del Ferro. Quel lignaggio paterno, essendo presente parimenti in area elvetica, è molto probabilmente connesso alla Cultura di La Tène.

Gli influssi liguri, al di là della Liguria, sono forti nel basso Piemonte, Pavese, Novarese, Milanese e Alto Milanese, Lodigiano e si esprimono in elementi mediterranidi e “progressivi” (atlanto-mediterranidi). Anche l’Emilia occidentale risente particolarmente del sostrato ligure. La toponomastica però suggerisce l’esistenza di un substrato di questa tipologia eziandio nel settore genericamente centro-occidentale (Piemonte e Insubria), mediante il classico suffisso -asco/a.

Il modesto apporto nordide deriva certamente da Celti e affini [1] e, soprattutto, dai popoli germanici, quali Goti e Longobardi. Nel caso orientale va registrato l’ingresso di componenti teutoniche recenti e slave. Coi Franchi, nel Medioevo, si verificarono pure immigrazioni di altri elementi nordici come Alemanni, Svevi, Bavari. D’altra parte, lungo l’arco alpino, va ricordata la presenza storica di diverse minoranze di origine transalpina.

Fra i gruppi minoritari storici, allogeni, vanno menzionati i giudei, concentrati a Milano ma un tempo presenti anche nell’ovest e nella Bassa, e gli zingari, in particolare sinti, noti giostrai della Val Padana.

Potremmo dire che l’odierno lombardo etnico, mediamente, è medio-alto, robusto, brachicefalo/mesocefalo, di carnagione chiara, capello castano, occhio intermedio; appartiene, primariamente, al lignaggio dell’aplogruppo del cromosoma Y R1b, indoeuropeo occidentale, e a quello dell’ADN mitocondriale H1 (euro-indigeno, mesolitico), al gruppo sanguigno “universale” 0+ ma pure sensibilmente al gruppo euro-continentale A+, e digerisce certo il lattosio più di molti altri “italiani” (segnatamente meridionali), per via della propria storia. Come si sa, più si va a nord e più il lattosio è tollerato (in “Italia” si digerisce relativamente poco, per via della robusta eredità neolitica e agricola, che nel settore meridionale scolora nel levantinismo recente).

Discreta è la diffusione dell’occhio nordico verde-grigio-azzurro, modesta quella del biondismo puro, che nel nord granlombardo raggiunge il 20%.

Geneticamente parlando, a livello di ADN autosomico, siamo certamente celtici e germanici, ma il grosso è neolitico talché ci collochiamo tra toscani e iberici/francesi meridionali, globalmente. Può sembrare sorprendente, ma la Val Padana, che è la realtà più popolosa della Grande Lombardia, è molto mediterranea occidentale e ha un contributo romano-imperiale, dunque orientale, più importante di quello dell’Iberia, anche se poi questa è certo meno nordica, in senso slavo-germanico. Siamo dunque europei meridionali, o meglio centromeridionali, nonostante il netto influsso antropologico e genetico del Centro Europa, che si fa cospicuo lungo le Alpi.

Quello che, sempre geneticamente, distingue chiaramente la Padania da Toscana/centro, ma soprattutto dal sud, è un maggior aspetto continentale (indoeuropeo e nordico) e un minor contributo levantino, antico e soprattutto recente. Sardegna naturalmente isolata. Non esiste un vero e proprio cline, tra gli “italiani”, anzi, lo stacco che esiste fra Padania e Italia etnica meridionale è una vera e propria frattura. La Toscana è una realtà intermedia, per diversi aspetti più affine, biologicamente, alla Grande Lombardia che all’Italia.

In epoca protostorica la Lombardia è stata dunque modellata, a ovest, dalle culture proto-celtiche di Canegrate e Golasecca (emanazione di quella di Hallstatt), a est da quella di Polada, Fritzens-Sanzeno, Este, senza contare i castellieri nordorientali; a sud da terramare, protovillanoviano, villanoviano, con la Liguria arianizzata dai neo-Liguri [2] e dagli influssi celtici. Questo per citare le civiltà precipue. Nella seconda fase del Ferro, va citata la gallica Cultura di La Tène, e a seguire la romanizzazione, militare a sud del Po, pacifica al di là.

Popoli protostorici degni di nota furono i Liguri, più o meno indoeuropeizzati (fra cui Lebeci, Levi, Marici, Euganei [3] e le varie tribù della Liguria e dell’Emilia occidentale), i Reti (Vennoneti, Camuni, Triumplini, Anauni ecc.), i Celto-Liguri veri e propri (Salassi, Insubri golasecchiani, Leponzi, Orobi, Anamari), i Galli (Insubri, Cenomani, Boi, Lingoni, Senoni, Carni), gli Etruschi della Cispadana. Determinante fu l’apporto romano, soprattutto nelle colonie create grazie alla conquista della Gallia Cisalpina, e poi meritano menzione Goti, Longobardi e in misura minore Franchi e altri Germani. I lombardi sono nati dalla fusione di questi elementi etnici, portata a compimento nell’Alto Medioevo, e in particolar modo dall’incontro fra il substrato mediterraneo e alpino, l’arianizzazione del Ferro [4], la romanizzazione, e il superstrato germanico, per quanto marginale.

I lombardi abitano un territorio mite, temperato, subcontinentale; centromeridionale dal punto di vista geografico, legato alle Alpi e alla Valle del Po, all’Appennino settentrionale, per nulla peninsulare; la vegetazione forestale in area montana è composta da rovere e roverella, mentre in pianura è (o era) tipicamente continentale grazie a frassino, carpino e farnia; la fauna è a metà strada fra quella mediterranea e l’area mitteleuropea; la cucina ha influssi centro-europei [5] perché a base di carne bovina e suina o di cacciagione e selvaggina, latticini, cereali o verdura e frutti classici dell’area europea centrale come verze, patate, cicorie, orzo, segale, frumento, mele, frutta secca, che portano alla creazione di piatti poveri e rustici ma sostanziosi (cazzoeula, busecca, cotoletta, polpette, polente varie e non solo di granturco, pasta all’uovo ripiena, lardo e burro come condimenti, stufati, bolliti, affettati, dolci grassi di ogni tipo ecc.); si beve più vino che birra, naturalmente. Il vino locale non ha nulla da invidiare a quello francese.

Risentiamo molto della romanizzazione, vuoi per la lingua, per la vite, per i castagni o per l’olio dei laghi; vuoi per il cattolicesimo sempre abbastanza fedele a Roma (purtroppo). Siamo chiaramente una terra che ha una discreta componente mediterranea, prevalente lungo le coste liguri, romagnole, istriane. Roma ci ha anche lasciato in eredità, a noi come a mezza Europa, dei geni del Mediterraneo orientale recenti, di epoca imperiale, seppur nulla di paragonabile a quanto accaduto nel centrosud.

A livello di indole e di inclinazione culturale, potremmo dire che i lombardi sono intrisi di mentalità alpina e contadina (padana): grandi lavoratori, testardi, coriacei, sobri, terragni, intraprendenti; aspetti che comportano benefici (lavoro, parsimonia, ordine, disciplina, virtù, efficienza, sviluppo, benessere) ma anche difetti (taccagneria, ottusità, bigottismo, campanilismo, chiusura mentale e grettezza, ignoranza, piccineria, arroganza). Per non parlare della sfumatura cosmopolita di aree come Milano, Torino, Genova, Bologna, dove materialismo e consumismo dominano, spesso in condominio col progressismo, facendosi acerrimi nemici dell’impegno identitario, e dei nostri giovani e giovanissimi traviati.

Ce la prendiamo, a volte, coi sud-italiani e gli altri immigrati, pedine dell’orripilante giuoco mondialista, ma dobbiamo pure riconoscere che la colpa dell’attuale condizione di colonia romana, italiana e multirazziale è anche nostra: una società viene invasa e conquistata dall’esterno anzitutto perché corrotta al suo interno. I granlombardi, soprattutto occidentali, hanno abdicato al ruolo di legittimi padroni della Grande Lombardia, e ora ne pagano le conseguenze. Questo succede, sacrificando l’identitarismo al dio denaro. Poi è chiaro, la condanna nei confronti dell’italianizzazione e della susseguente immigrazione allogena deve essere senza se e senza ma, perché ordita dal sistema, nonostante la complicità dei pescecani locali.

La cosa migliore per i lombardi è riscoprire le proprie origini, ridestare l’identità sopita, ché nulla è davvero perduto, e abbracciare il lombardesimo. Etnonazionalismo e indipendentismo lombardi, perché la nostra patria deve lottare unita per la propria salvazione e la propria libertà. Basta Roma, basta Italia, basta sistema-mondo. Il futuro può essere roseo soltanto se proiettato nella dimensione genuinamente völkisch dell’azione culturale, metapolitica e politica della Grande Lombardia restituita a sé stessa, e affrancata dal giogo cosmopolitico.

Note

[1] Liguri e popoli alpini arianizzati, Veneti, Etruschi di influsso indoeuropeo.

[2] Un termine tratto da Michel Lejeune.

[3] Per taluno popolazione alpina.

[4] Molti non lo sanno, o fingono di non saperlo, ma il celtismo padano-alpino risale al Bronzo, mille anni prima circa dei Galli, grazie alla Cultura di Canegrate, e ai primordi della Scamozzina.

[5] I Longobardi modificarono sensibilmente la dieta cisalpina, romanizzata, che comunque aveva radici celtiche.

Suddivisione cantonale della Grande Lombardia

Credo sia cosa utile e, si spera, gradita presentare la ripartizione amministrativa lombardista della Grande Lombardia indipendente, che come sapete segue criteri cantonali. Scenderemo nel dettaglio, allegando una cartina esplicativa, disegnata da Adalbert Roncari, ed elencando entità cantonali e loro distretti, con tanto di emblemi realizzati dallo stesso Roncari e da una militante, su indicazione di Paolo Sizzi, che qui ci limiteremo a descrivere. Vale la pena ricordare che, secondo il lombardesimo, il concetto di regione non sussiste più, se non per meri fini demografici e statistici, poiché fomite di regionalismi e poiché gli preferiamo, come detto, quello di cantone, sulla base delle vicende storiche delle città padane precipue e dei relativi comitati/contadi. Ma un criterio importante è dato anche dai confini naturali, specie idrografici, impiegati per conferire forma concreta alla suddivisione politica. Illustreremo per prime le entità amministrative della Lombardia etnica, che è il cuore della Lombardia storica, e via via tutte le altre.

Cartina cantonale della Grande Lombardia

Lombardia subalpina (Piemonte, in giallo):

  • Canton Turin (Taurasia), con i distretti di Torino (capoluogo), Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Canton Coni (Bagiennia), con i distretti di Cuneo (capoluogo), Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Canton Lissandria (Ambronia), con i distretti di Alessandria (capoluogo), Asti e Acqui.

Lo stemma di Torino è la bandiera crociata con croce bianca in campo blu, orlata d’oro, risalente all’assedio francese del 1706; quello di Cuneo è l’insegna storica del Marchesato di Saluzzo, d’argento al capo d’azzurro; quello di Alessandria, parimenti, riprende il simbolo del Marchesato e del seguente Ducato del Monferrato, d’argento al capo di rosso.

Lombardia cispadana (Emilia, in rosso):

  • Canton Parma (Marizia Orientale), con i distretti di Parma (capoluogo), Fidenza e Fiorenzuola;
  • Canton Moddena (Boica Occidentale), con i distretti di Modena (capoluogo), Reggio e Carpi;
  • Canton Piasenza (Marizia Occidentale), con i distretti di Piacenza (capoluogo), Voghera e Tortona.

Lo stemma di Parma è la nota bandiera crociata, con croce blu in campo giallo; quello di Modena è il bipartito giallo-blu del comune omonimo; quello di Piacenza è il bipartito rosso-bianco del comune piacentino.

Lombardia transpadana occidentale (Insubria, in azzurro):

  • Canton Milan (Bassa Insubria), con i distretti di Milano (capitale della Lombardia e capoluogo), Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia (capitale morale della Lombardia);
  • Canton Comm (Alta Insubria), con i distretti di Como (capoluogo), Lecco, Lugano e Varese;
  • Canton Noara (Lebecia), con i distretti di Novara (capoluogo), Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano;
  • Canton Locarn (Leponzia), con i distretti di Locarno (capoluogo), Domodossola, Intra e Bellinzona.

Lo stemma di Milano è la Croce di San Giorgio, rossa in campo bianco; quello di Como lo scaccato bianco-rosso del Seprio; quello di Novara la Croce di San Giovanni Battista, bianca in campo rosso; quello di Locarno il bipartito rosso-blu del Ticino.

Lombardia transpadana orientale (Orobia lato sensu, in verde):

  • Canton Bressa (Alta Cenomania), con i distretti di Brescia (capoluogo), Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Canton Bergom (Orobia), con i distretti di Bergamo (capoluogo), Crema, Clusone e Zogno;
  • Canton Cremona (Bassa Cenomania), con i distretti di Cremona (capoluogo), Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Canton Sondri (Vennonezia), con i distretti di Sondrio (capoluogo), Tirano e Chiavenna.

Lo stemma di Brescia è il bipartito bianco-azzurro del comune omonimo; quello di Bergamo il bipartito d’oro e di rosso del municipio bergomense; quello di Cremona il fasciato bianco-rosso del comune cremonese; quello di Sondrio riprende il bianco e l’azzurro della bandiera comunale sondrasca, inquartandoli.

Veniamo ora ai restanti ambiti cantonali della Grande Lombardia, dopo aver passato in rassegna quelli della Lombardia etnica.

Lombardia genovese (Liguria, in marrone):

  • Canton Sgenoa (Ingaunia), con i distretti di Genova (capoluogo), Savona, Rapallo, La Spezia e Massa;
  • Canton Nizza (Intimilia), con i distretti di Nizza (capoluogo), Sanremo e Imperia.

L’insegna di Genova è la classica Croce di San Giorgio, orlata d’oro; quella di Nizza è un fasciato bianco-azzurro che riprende le onde presenti nel simbolo nizzardo (a partire da quello della Contea omonima), sotto all’aquila rossa e ai tre monti.

Lombardia romagnola (Romagne, in arancione):

  • Canton Bologna (Boica orientale), con i distretti di Bologna (capoluogo), Imola, Ferrara e Comacchio;
  • Canton Ravenna (Romagna), con i distretti di Ravenna (capoluogo), Cesena e Forlì;
  • Canton Rimin (Senonia), con i distretti di Rimini (capoluogo) e Pesaro.

Il simbolo di Bologna è, anche in questo caso, la Croce di San Giorgio, orlata di blu; quello di Ravenna è il troncato giallo-rosso della bandiera tradizionale romagnola; quello di Rimini riprende lo scaccato, parimenti giallo-rosso, del blasone dei Malatesta.

Lombardia tirolese (Rezia cisalpina, in blu):

  • Canton Trent (Anaunia), con i distretti di Trento (capoluogo), Cavalese e Cles;
  • Canton Bolzan (Tirolo), con i distretti di Bolzano (capoluogo), Merano, Bressanone, Brunico e Silandro.

Lo stemma trentino riprende quello del Principato vescovile di Trento, con le tre bande orizzontali porpora-bianco-porpora; quello di Bolzano la bandiera bianco-rosso-bianca a strisce orizzontali del comune di Bolzano, con un cromatismo che rimanda alla Contea del Tirolo.

Lombardia veneta (Veneto, in rosa):

  • Canton Venezzia (Venethia), con i distretti di Venezia (capoluogo), Chioggia, Padova, Treviso e Rovigo;
  • Canton Visenza (Cymbria), con i distretti di Vicenza (capoluogo), Bassano e Schio;
  • Canton Verona (Euganea), con i distretti di Verona (capoluogo), Bussolengo, Legnago e Villafranca;
  • Canton Bellun (Catubrinia), con i distretti di Belluno (capoluogo), Pieve di Cadore, Conegliano e Castelfranco.

Lo stemma di Venezia, tramite le bande orizzontali giallo-rosse, riprende la bandiera storica della Serenissima, caratterizzata soprattutto dal Leone di San Marco; quello di Vicenza allude al blasone a strisce orizzontali giallo-verdi dei da Romano (Ezzelini), signori medievali di Vicenza originari del suo territorio; quello di Verona è la nota bandiera crociata con croce gialla in campo blu; quello di Belluno, di nero al capo d’argento, riprende il blasone dei da Camino, casata trevigiana che esercitò il proprio potere fra Treviso e il Cadore.

Lombardia giuliana (Carnia e Istria, in grigio):

  • Canton Triest (Istria), con i distretti di Trieste (capoluogo), Pola e Fiume;
  • Canton Gorizzia (Julia), con i distretti di Gorizia (capoluogo), Aidussina e Tolmino;
  • Canton Udin (Carnia), con i distretti di Udine (capoluogo), Cividale, Gemona, Cervignano e Tolmezzo;
  • Canton Pordenon (Friuli), con i distretti di Pordenone (capoluogo), Maniago e Portogruaro.

Simbolo di Trieste è lo spiedo da guerra, “alla furlana”, bianco in campo rosso; quello di Gorizia il troncato giallo-azzurro tratto dalla bandiera della provincia; quello di Udine il tradizionale scudo bianco-nero della nobile famiglia dei Savorgnan; quello di Pordenone riprende i colori della bandiera pordenonese, rosso-bianco-rossa a bande verticali.

Presentiamo qui, a mo’ di esempio, l’insegna cantonale del Canton Milan – e Milano è la capitale storica della Lombardia etnica e della Grande Lombardia -, per dare un’idea di come siano stati concepiti gli stemmi. Potete reperire gli altri sul profilo Instagram di Paolo Sizzi.

Canton Milan

Ovviamente, le città alpino-padane hanno anche altri simboli, che non sono stati da noi impiegati poiché gli stemmi dei cantoni devono essere semplici e immediati. Gli emblemi peculiari di ogni centro restano patrimonio comunale, naturalmente inscritto nella più ampia realtà cantonale. Il nostro intento, pensando anche alla stessa suddivisione amministrativa di una Grande Lombardia indipendente, è quello di dare degna rappresentanza a tutte le genti cisalpine, dalla politica alla simbologia, nel novero di un etnostato sicuramente unito, coeso e forte ma aperto a blande forme di federalismo, appunto, cantonale. Nulla di paragonabile alla Confederazione Elvetica, fortunatamente, poiché la Lombardia esiste ed è una nazione, dal Monviso al Nevoso e dal Gottardo al Cimone, mentre la Svizzera vera e propria è giusto un cantone alemanno, per quanto dilatata all’inverosimile sino ad inglobare territori granlombardi.

La Lombardia subalpina (Piemonte)

Drapò del Piemonte

Da lombardista considero come Lombardia occidentale Piemonte e Valle d’Aosta, mentre la Lombardia occidentale moderna sarebbe la cosiddetta Insubria.

‘Piemonte’ è soltanto un coronimo, un nome geografico, non un etnonimo, e il territorio che esso designa, dal Medioevo sino al Risorgimento – cosiddetto -, è stato ritenuto parte della Lombardia storica, assieme alla regione lombarda attuale, Liguria, Emilia, Svizzera “italiana”, con il resto della Padania [1].

Uno dice: pure la Valle d’Aosta? Perché annetterla al Piemonte? Perché rientra nel bacino idrografico del Po, è cisalpina e non è altro che una valle con una cittadina, Aosta; è oltretutto decisamente piemontesizzata, in particolare nel settore meridionale. Se poi ci fate caso, vi sono franco-provenzali, diluiti, sia nell’area aostana che nella provincia torinese, e cioè nelle vallate occidentali, tra cui Susa.

Ridare questo cantone alpino, secolarmente legato alla Subalpina, al dominio francese, che già detiene territori granlombardi come Nizzardo, Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio? Assolutamente no. Aosta rimane con noi, unita al Piemonte perché folle tenerla sotto forma di ente regionale, per di più autonomo, e ce la si può accattivare col blando federalismo cantonale [2]. Sono altresì conscio della forzata “meridionalizzazione” di quella valletta, e infatti penso che il territorio andrebbe fatto respirare, per così dire, a vantaggio degli indigeni, favorendo il rientro delle famiglie ausoniche finite lassù.

La suddivisione amministrativa lombardista della Subalpina sarebbe la seguente:

  • Torino (Taurasia), con Ivrea, Pinerolo, Susa e Aosta;
  • Cuneo (Bagiennia), con Alba, Mondovì e Saluzzo;
  • Alessandria (Ambronia), con Asti e Acqui [3].

Ricordiamo che il lombardesimo non crede nelle regioni storiche, e infatti propone un modello cantonale. Si parla di Insubria, Orobia, Emilia e Piemonte come mere entità a fini statistici e demografici, senza alcun riconoscimento; per tale ragione abbiamo trattato di Vercelli, Biella e Valsesia a proposito dell’Insubria, perché fra l’altro aree di transizione. Ad ogni buon conto, al Piemonte spettano, come rammentato, anche Monginevro, Valle Stretta e Moncenisio, lembi di territorio padano, dal dopoguerra sotto la Repubblica Francese, destinati al distretto di Susa.

Classico simbolo subalpino è il Drapò sabaudo, che riprende la Croce di San Giovanni Battista con un tocco di blu Savoia, da abbandonare in favore della bandiera crociata dell’Assedio per Torino, dell’insegna storica del Marchesato di Saluzzo per Cuneo e di quella del Marchesato del Monferrato per Alessandria.

Le minoranze ivi presenti sono la franco-provenzale a nordovest e la walser a nordest; ci sarebbe anche quella occitana nel settore sudoccidentale, ma spesso si tratta di piemontesi che parlano provenzale. L’occitanismo cisalpino è un pretesto per fare gazzarre di sinistra anti-identitarie, condite dal solito cosmopolitismo antifascista. Nell’area meridionale estrema le genti di Taurasia [4] e liguri si sovrappongono, ma l’idioma subalpino viene parlato anche in brandelli di Regione Liguria, che sono parte del territorio geografico padano.

In Piemonte vi sono anche delle residue comunità ebraiche, e così in Emilia, bassa Regione Lombardia e Milano. Eccetto Torino e Milano si tratta ormai di poche unità, spesso mescolate e secolarizzate. Siamo dell’idea, tuttavia, che vadano restituite alla Palestina, come gli zingari all’India.

Nella vera Lombardia occidentale si parla piemontese, che comprende torinese e cuneese (ad ovest), astigiano, langarolo, roerino, monferrino, alessandrino (a sud); vi sono inoltre le loquele influenzate dal lombardo [5] dei linguisti come vercellese, biellese, valsesiano, novarese orientale, lomellino occidentale (ad est), ed infine citiamo il canavesano parlato ad Ivrea e suo territorio (a nord). In Valle d’Aosta c’è il patois valdostano, che è franco-provenzale, e si usa anche il francese (oltre al toscano).

Decenni fa in Piemonte c’era una minoranza che in breve non lo è più stata, vale a dire quella sud-italiana; Torino è diventata la terza città meridionale della Repubblica Italiana, grazie (si fa per dire) all’affarismo e alle politiche economiche targate Valletta-Agnelli che hanno letteralmente farcito di migranti, specie calabresi, la città sabauda. La Subalpina ospita, assieme a Liguria, Insubria-Orobia ed Emilia, ormai milioni di individui di origine ausonica, che hanno comportato con il loro esodo un ovvio sconvolgimento del tessuto etno-sociale originale, pagato, come sempre, dalla povera gente. La colpa a monte non è tanto degli immigrati “meridionali” quanto dei soliti affaristi indigeni che, ieri, sfruttavano i sud-italiani e oggi i moderni migranti. Agli esodi si sono aggregate le mafie che hanno fatto affari d’oro nel triangolo industriale (con la complicità della corruzione di taluni autoctoni, va detto).

Ai simpaticamente detti “terroni”, passatemi il termine scherzoso, si aggiunsero, in misura minore, veneti (soprattutto lagunari), friulani, emiliani orientali, romagnoli, esuli istro-dalmati sfrattati dai criminali titini e ovviamente gli immigrati più recenti provenienti da tutto il globo, che sovente rappresentano un grave problema in termini di delinquenza e degrado. Essere identitari, e indigeni, in Piemonte è ormai una medaglia al valore.

L’autoctono è di stampo celto-ligure, gallo-romano e longobardo. Forte in Piemonte il tipo alpinide, che implica una statura mediamente più bassa, rispetto ai vicini (vedasi le carte antropometriche di Ridolfo Livi), ma più diffuso è anche il tipo ligure, l’atlanto-mediterranide. La parte meridionale della regione subalpina risente molto del sostrato ligure antico e alcune zone che costeggiano il confine meridionale sono un embricarsi di piemontesi e genovesi, in senso storico (pensiamo all’Oltregiogo).

Per converso, il biondismo in area prealpina e alpina, e in zone come il Canavese, è sensibilmente più radicato, rispetto alla Regione Lombardia, grazie ad infiltrazioni nordiche storiche, anche se comunque di statuto periferico.

Le qualità terragne piemontesi sono però in pericolo di vita – se non direttamente trapassate – perché sempre più patrimonio di pochi, annacquate dallo sciagurato Risorgimento e triturate da un mondo industriale, come quello Fiat, orientato decisamente verso gli States più che verso l’Europa.

Il periodo italianista (2014-2021) non ha indebolito la mia convinzione riguardo la questione “meridionale” nella Cisalpina – perché decisamente orientato all’etnofederalismo – ed è poi riemersa con prepotenza nel contesto del ritorno alle origini plumbee: penso che, al pari degli altri immigrati, coloro che qui emigrarono nel dopoguerra dovrebbero rientrare nella terra dei padri, anche perché la Padania occidentale sta nettamente naufragando nel cemento, nell’inquinamento e nella sovrappopolazione. Se si vuole sopravvivere, cari miei, bisogna rivedere un bel po’ di cose.

Va da sé che sarebbe molto più assennato promuovere il rimpatrio degli ausonici piuttosto che continuare ad incentivarne la migrazione, affinché, peraltro, riprendano possesso dei territori sud-italiani abbandonati, oggi trasformati in colonie di alloctoni extraeuropei. Il sud della Repubblica Italiana può rialzarsi soltanto camminando con le proprie gambe, e anche per tale motivo l’indipendenza della Grande Lombardia potrebbe essere una ghiotta occasione di rilancio per l’Ausonia tutta.

Si è voluto creare uno stato tricolore, già di per sé scellerato, sfruttando la condizione depressa delle terre e delle genti sud-italiane col risultato di spalmare in lungo e in largo clientelismo, assistenzialismo, nepotismo, familismo, abusivismo e mafie, e tutto quel bizantinismo tipico di Roma e dintorni. Avrebbe avuto molto più senso settentrionalizzare il centrosud, piuttosto che il contrario. Ma questo non ci importa. Ci sta a cuore, molto più realisticamente, l’autodeterminazione della Lombardia, che deve andare di pari passo con quella dell’Italia etnica, affinché la repubblica venga rottamata e ogni popolo a meridione delle Alpi abbia il proprio etnostato.

Note

[1] In epoca post-carolingia era Lombardia soprattutto la porzione occidentale della Cisalpina.

[2] Fermo restando che l’area andrebbe comunque lombardizzata, per rinsaldare i legami cisalpini e rafforzare la coscienza granlombarda. I franco-provenzali, gli arpitani, sono il frutto di migrazioni medievali, come ogni altra minoranza storica del nostro territorio.

[3] Senza Tortona, destinata al Canton Piacenza, assieme a Voghera.

[4] Impieghiamo il termine ‘Taurasia’ come etnico del Canton Torino, ma può essere sinonimo di ‘Piemonte’. Deriva, ovviamente, dai celto-liguri Taurini, il cui etnonimo riecheggia, secondo alcuni, il celtico tarvos ‘toro’.

[5] Per noi il lombardo coincide col gallo-italico.

La Lombardia cispadana (Emilia)

Torino, Statua al fiume Po

La Lombardia meridionale tradizionale, che comprende parte della Val Padana, riguarda i territori di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. Nella visione lombardista che ho teorizzato, i due Oltrepò, pavese e mantovano, sarebbero da assegnare all’Emilia, per motivi linguistici e geografici.

E, infatti, la vera Lombardia meridionale comprende i territori cispadani sino al Panaro, inclusi gli Oltrepò e il Tortonese. Per ragioni di influssi culturali le aree di Tortona, Voghera, Piacenza e Suzzara sono le prime ad essere associate alla Transpadana; nel caso del Piacentino si tratta soprattutto della parte centrosettentrionale della provincia, perché quella restante è di influenza ligure. Tuttavia, venendo a parlare di suddivisione cantonale della Lombardia etnica, in questo caso della sezione cispadana, anche le zone tendenti alla Liguria rientrano nel dominio etnico.

La Lombardia meridionale tradizionale, in senso allargato, comprende dunque Tortona, Voghera, l’Oltrepò pavese, Piacenza (fino all’angolo nordoccidentale della provincia di Parma, zone come Busseto, Fidenza e Salsomaggiore), Pavia (con la Lomellina, Vigevano, tendenti al Piemonte), Lodi, Cremona, Casalmaggiore, Mantova e l’Oltrepò mantovano. La Lombardia meridionale lombardista, invece, racchiude tutti i territori a sud del Po, sino almeno al confine orientale costituito dal corso del fiume Panaro.

Grande protagonista delle vicende meridionali è il Padus che dà il nome alla Pianura Padana e che costituisce una frontiera naturale, sebbene non troppo severa viste le reciproche influenze, fra Transpadana e Cispadana. Il vero confine meridionale della Grande Lombardia corre lungo lo spartiacque appenninico, che poi coincide con l’isoglossa Massa-Senigallia.

Il termine ‘Padania’, che non è un etnonimo e si presta a mille inflazioni e banalizzazioni politiche, può essere un utile coronimo da impiegare per definire fondamentalmente l’Emilia, che è il fulcro della Val Padana, della pianura dell’Eridano, per dirla in chiave mitologica. Come sappiamo, l’Emilia deve il suo nome latino alla via che collega Piacenza a Rimini, costruita da Marco Emilio Lepido, console romano. ‘Padania’ può comunque essere un sinonimo geografico di Cisalpina.

La Lombardia medievale inglobava tutta la Padania, specie quella occidentale, dunque Insubria, Orobia, Piemonte, Liguria ed Emilia (basti pensare alla città di Reggio, che prima della sciagurata unificazione tricolore si chiamava Reggio di Lombardia), e il lombardesimo ricalca pertanto l’etnogenesi medievale del popolo lombardo, a partire dal contesto etnico, cioè del bacino padano. Oggi, conservare le specificità regionali classiche appare poco utile, poiché fiacca il nazionalismo lombardo; per tale motivo puntiamo sui cantoni, dunque sui contadi storici, anche perché sovente i toponimi delle regioni sono privi di significato etnoculturale (vedasi ‘Piemonte’ ed ‘Emilia’).

Ci sarebbe poi la Romagna, storicamente distinta dall’Emilia ma non certo remota da essa, soprattutto pensando a Bologna e Ferrara (che il lombardesimo è propenso ad associare alla prima). Linguisticamente si può dire che vi sia un continuum tra Emilia orientale e Romagna, ma la tendenza si può registrare a partire dall’area orientale del Parmense, dove non per caso principia l’assenza delle vocali turbate. C’è pure da aggiungere che diversi linguisti parlano di dialetti emiliano-romagnoli.

A livello miseramente amministrativo, allo stato dell’arte, la Lombardia meridionale comprende le province di Pavia (contigua a quella di Lodi, città fortemente legata alla capitale longobarda, alleata fedele del Barbarossa e in lotta con Milano), Cremona (a cui va tolto il Cremasco ma non l’area di Soresina) e Mantova (a cui andrebbe Casalmaggiore, oggi sotto Cremona e senza Suzzara e l’Oltrepò).

In termini lombardisti, invece, la suddivisione amministrativa ideale della Cispadana ragionata, in cantoni e distretti, sarebbe la seguente:

  • Parma (Marizia Orientale), con Fidenza e Fiorenzuola;
  • Modena (Boica occidentale), con Reggio e Carpi;
  • Piacenza (Marizia Occidentale), con Voghera e Tortona.

La sciocca distinzione tra (Regione) Lombardia ed Emilia banalizza la vera accezione etnica di Lombardia, che riguarda anche il territorio piemontese. Pavia, Lodi, Cremona e Mantova, tradizionalmente meridionali – ma non cispadane -, appartengono a domini distinti: Pavia e Lodi al contesto insubrico, Cremona e Mantova a quello orobico, anche se zone di transizione (eccetto il Lodigiano).

Insegne cantonali di queste province sono la croce parmense blu su sfondo giallo, il bipartito giallo-blu modenese e il bipartito rosso-bianco piacentino. Menzioniamo, comunque, anche la Croce di San Giovanni Battista pavese, lo scudo crociato giallo-rosso lodigiano e la Croce di San Giorgio (con aquile imperiali nere) mantovana.

La Bassa della Regione Lombardia è area ibrida, per così dire, e vi sono influenze reciproche con l’Emilia. Il Po non è un’opinione, e viene adottato anche da noi lombardisti come confine fra Transpadana e Cispadana, ma ribadiamo che entrambe, almeno fino al Panaro nel caso meridionale, sono Lombardia etnica.

I dialetti della famiglia linguistica lombarda, cioè gallo-italica, parlati in queste terre sono quelli classicamente considerati emiliani: tortonese, oltrepadano, piacentino, parmigiano, reggiano, modenese a cui va senz’altro aggiunto il mantovano, specie dell’area oltrepadana. Il pavese è ibrido insubrico-emiliano e il cremonese orobico-emiliano , mentre il lodigiano è piuttosto cisabduano [1]. L’area casalasco-viadanese è mantovana, ricordiamo.

Gli influssi milanesi sul Pavese sono assai forti e lo orientano più verso Milano che verso l’Emilia, e infatti il territorio di Pavia (senza Lomellina e Oltrepò) rientra nel Canton Milano (Bassa Insubria). E, allo stesso modo, anche il Lodigiano è milanese, mentre Cremonese e Mantovano (senza Oltrepò) si associano nel Canton Cremona (Bassa Cenomania).

Tortonese, oltrepadano e piacentino, invece, hanno influssi transpadani che si notano bene, ad esempio, nella presenza delle vocali turbate di origine celto-germanica Å“u e u e di altri fenomeni, anche a livello di lessico e di costrutti fraseologici. Ma rimangono parlate cispadane, “emiliane”.

In fondo, queste aree, come il resto di Lombardia odierna ed Emilia, hanno conosciuto le medesime popolazioni: Liguri, Celto-Liguri, Galli, Romani, Longobardi (giunti tardi nel Bolognese e nel Ferrarese).

Quel che separa Transpadana e Cispadana, oltre alla geografia, è l’antica impronta etnoculturale emiliana, di tendenza italica, villanoviana e dai più forti influssi etruschi (vedasi l’Etruria padana), che oltre il Po giungevano sino a Mantova (ivi si trovava l’emporio del Forcello) [2]. Ricordiamo, ad ogni modo, gli Anamari, o Anari, tra Piacenza e Parma, popolazione forse celto-ligure.

Nella Regione Lombardia meridionale trovarono spazio Liguri (tra cui Levi e Marici ad occidente, ma anche a sudovest del Fiume), Celto-Liguri, Galli (Insubri, Boi, Cenomani) ed alcuni generici influssi proto-italici, villanoviani e quindi etruschi, soprattutto a Cremona e Mantova.

Forte la romanizzazione delle terre meridionali, come dimostrano centuriazioni e rete viaria, e le svariate colonie dedotte (tra cui Cremona, Pavia, Lodi, Piacenza, Fidenza ad ovest). La colonizzazione romana fu fitta e portò, sicuramente, ad un drastico ridimensionamento dell’elemento gallico, anche se la romanofilia esagera palesemente nel cianciare di massacri ai danni dei nativi. Peraltro, un bel termine per definire la Lombardia etnica meridionale potrebbe essere ‘Boica’ [3].

Gli Etruschi, spesso inquadrati come invasori levantini, erano il risultato della sedimentazione locale di più popoli: autoctoni mediterranei [4], “Italici” indoeuropei (protovillanoviani e villanoviani) e, forse, una tarda classe dominante di egeo-anatolici [5]. Stando ai più moderni studi genetici, pare tuttavia che gli Etruschi fossero geneticamente indistinguibili dai Latini, senza apporti levantini sospetti. Fu la romanizzazione a recare geni recenti originari del Mediterraneo orientale nelle aree tirreniche, andando ad intaccare il genoma indigeno.

I Liguri, invece, erano prevalentemente autoctoni mediterranei, sebbene fortemente indoeuropeizzati (celtizzati, in particolar modo). In antropologia fisica, il cosiddetto tipo ligure è l’atlanto-mediterranide, ossia un fenotipo mediterraneo fortemente dolicocefalo, alto, robusto e più chiaro di quello basico, progressivo per usare un termine caro a certi ambienti antropogenetici amatoriali.

I Longobardi fecero la loro parte, fino a Spilamberto segnatamente, e colonizzarono sensibilmente l’area appenninica tosco-padana (si può rintracciare un curioso picco di biondismo nella Lunigiana settentrionale).

La Lombardia meridionale presenta un aspetto sub-razziale atlanto-mediterranide, alpinide o padanide, ossia, come abbiamo già visto, risultante dall’incrocio tra tipo ligure e quello adriatico (dinaride). Un’area certamente più mediterranea della Lombardia transpadana. Anche gli Etruschi tardi, i coloni romani e i Bizantini hanno contribuito, e lo si vede nella componente genetica anatolico-caucasica che si fa più marcata varcando il Po a sudest (specie se si parla della zona ferrarese). Si tratta comunque di componenti secondarie, non di ceppo predominante. Geneticamente parlando, la Padania si colloca globalmente nell’Europa sudoccidentale [6], assieme a Iberia e Occitania, a differenza dell’Italia etnica che ha un maggiore input sudorientale, in particolar modo nel meridione.

La Lombardia amministrativa di mezzogiorno, per così dire, fa degnamente parte della Lombardia transpadana, anche per via dei determinanti influssi signorili milanesi. Zone come Pavia, Lodi e Cremona hanno sempre orbitato attorno alla capitale lombarda, e questo si fa sentire parimenti a livello linguistico ed etnico.

Del resto, pure una città come Piacenza è decisamente più legata a Milano che a Bologna, e le influenze ambrosiane arrivano sino ad Alessandria e Vercelli, in Piemonte, i cui stemmi sono copia di quello milanese, marca della Lega Lombarda come tutti gli altri scudi crociati, col Sangiorgio, della Cisalpina. Ma eguale importanza ricopre il negativo di tale vessillo, che è la croce ghibellina di San Giovanni Battista, forte in Piemonte, Insubria, Ticino, e presente qua e là in tutta la Padania.

Una mentalità “lombarda” imprenditoriale, industriale, liberale (ma non lo dico certo con vanto, anzi) contraddistingue l’Emilia nordoccidentale nei confronti del resto della regione e la accosta proprio alla Regione Lombardia meridionale, tanto che per certi versi, come abbiamo visto, può esserne una sua propaggine.

Il mondo emiliano stereotipato è fatto di tortellini, salumi, formaggi, motori, vino, cantautori, spirito dissacrante, comunismo e sindacalismo, e capite bene che una città come Piacenza tenda a sottrarsi da questo contesto, virando sul mondo transpadano.

Ma da un punto di vista linguistico, e nonostante i ben noti influssi, il piacentino è certamente più emiliano che cisabduano, al pari di tortonese e oltrepadano, e così a livello geografico essendo cispadano. Per questo manteniamo, come confine amministrativo cantonale, il grande fiume delle pianure.

Possiamo dire che esista una Lombardia al di qua del Po e una al di là, adottando il punto di vista milanese [7], ma sono entrambe parte del medesimo contesto etnico, e della medesima nazione, la Grande Lombardia.

Note

[1] Alcuni dialettologi affermano l’esistenza di un lombardo della bassa Regione Lombardia, da Pavia a Mantova, ma è soltanto una suddivisione di comodo.

[2] A sud del Po, civiltà quali le terramare (che avevano comunque propaggini transpadane), il protovillanoviano e il villanoviano si inscrivono, tradizionalmente, nel contesto italico ed etrusco, dove per ‘italico’ si intende comunque una fase protostorica ed embrionale, non storica.

[3] I Galli Boi devono il loro etnico o ad una derivazione “bovina” oppure ad una guerriera; nel secondo caso, vedi l’ipotesi formulata da Pokorny. In rete si parla del celtico bogos ‘distruggere’, ma non ho trovato validi riferimenti al riguardo.

[4] Imparentati coi Reti e locutori dell’etrusco, fossile linguistico preindoeuropeo.

[5] Vedasi anche la fase finale orientalizzante della civiltà etrusca.

[6] Si consideri, comunque sia, che più si procede verso nord e verso est, nel contesto padano-alpino, e più aumenta la tendenza centro-europea.

[7] I concetti correnti di Transpadana e Cispadana sono, in realtà, il frutto della visione romana.

La Lombardia transpadana orientale (Orobia)

Swastika camuno allineato

La Lombardia transpadana orientale (volgarmente detta Orobia in contrapposizione all’Insubria, ma l’Orobia vera e propria sarebbe il solo Bergamasco) comprende i territori transabduani, alpini (retici) e di transizione fra Transpadana e Cispadana (Emilia). La fascia meridionale lombarda verrà comunque trattata a parte.

A differenza della Lombardia transpadana occidentale, l’Insubria, non ha mai avuto un grande centro catalizzatore che esercitasse anche una forma di koinè linguistica e culturale e questo perché la comunemente chiamata Lombardia orientale è un territorio composito e non omogeneo: geograficamente parlando, troviamo una Valtellina linguisticamente insubrica (quantomeno ad ovest) assieme al Grigioni lombardofono [1], un nerbo lombardo orientale bergamasco-bresciano, e una fascia di transizione meridionale.

Il nome convenzionale di ‘Orobia’ [2] può essere quindi usato solo per comodità; trattare di Lombardia transpadana (o transabduana) orientale è certamente meglio (in epoca italianista teorizzai un ‘Insubria orientale’, considerando l’inedita denominazione che mi venne in mente sulla scorta della lombardofonia tradizionale, ma ingenererebbe soltanto equivoci).

La Lombardia orientale, qui designata, comprende i territori di Sondrio, Valtellina, Bregaglia, Poschiavo, Bergamo e tutta la sua Val San Martino, Camunia, Brescia, Giudicarie, Riva del Garda [3], la sponda occidentale del Benaco, Crema, Cremona, Mantova. Alcune porziuncole di territorio come la Val di Lei (Madesimo), Livigno e l’Oltremincio sarebbero geograficamente extra-lombarde (in senso etnico), così come l’Oltrepò mantovano andrebbe considerato Emilia, sulla base dei confini naturali.

La Valtellina, seppur di idioma insubrico, non è certo centrale, è retica e orientale, e dunque va considerata assieme a Bergamo e Brescia, che sarebbero un po’ il fulcro della regione (le Alpi Orobie, peraltro, sono anche valtellinesi); Cremona è linguisticamente di transizione fra lombardo orientale e meridionale ma è al di qua del Po quanto Mantova, linguisticamente emiliana. L’alto Mantovano è invece orientale anche a livello di dialetto [4], così come il Trentino occidentale.

La parte meridionale della Regione Lombardia (Pavia, Cremona, Mantovano centrosud), assieme a Tortona, Voghera e Piacenza, che io colloco in Emilia, verranno trattate in un altro articolo, col resto della Lombardia cispadana, per quanto la Bassa occidentale sia considerabile Insubria e quella orientale Orobia in senso esteso.

La suddivisione amministrativa, cantonale e distrettuale, di queste terre potrebbe essere la seguente:

  • Brescia (Alta Cenomania), con Rovato, Desenzano, Darfo e Riva;
  • Bergamo (Orobia), con Crema, Clusone e Zogno;
  • Cremona (Bassa Cenomania), con Mantova, Ghedi e Casalmaggiore;
  • Sondrio (Vennonezia), con Tirano e Chiavenna.

Parliamo della provincia di Sondrio (con il Grigioni lombardo, ma senza Mesolcina che è ticinese); della provincia di Bergamo (con tutta la Val San Martino che in parte, dal 1992, è sotto Lecco e il Cremasco); della provincia di Brescia (con l’alto Mantovano ma senza l’estremo sud); di quelle di Cremona (senza Cremasco ma con l’estremo sud bresciano) e di Mantova (senza la zona settentrionale, l’Oltremincio e l’Oltrepò). Il cantone bresciano ingloba il Trentino occidentale, lombardofono, delimitato ad est dal Sarca-Mincio.

Gli stemmi cantonali si rifanno a quelli dei capoluoghi, e dunque l’inquartato bianco-azzurro per Sondrio (anche se esiste un vessillo storico valtellinese a strisce verticali bianche e rosse), il bipartito rosso-dorato per Bergamo, il bipartito bianco-azzurro per Brescia, il fasciato bianco-rosso per Cremona (in antico, il ghibellino capoluogo cremonese optava per la Croce di San Giovanni Battista).

La cosiddetta “rosa camuna” invece, ma non quella dell’attuale Regione Lombardia bensì lo swastika delle incisioni rupestri, è uno stemma che può designare, globalmente, l’Orobia in senso lato, anche se, come sapete, noi lombardisti non crediamo nelle classiche regioni, per quanto confortate da elementi storici. Meglio la soluzione cantonale che va a ricalcare i contadi medievali, spesso dalle radici romane.

La Lombardia etnica orientale, quindi, è costituita da un nucleo orobico-cenomane linguisticamente orientale, da un nord retico linguisticamente occidentale, o alpino, (eccetto le vallate orientali) e da un sud padano-cenomane linguisticamente di transizione, sebbene il dialetto mantovano di transizione non sia essendo tradizionalmente considerato emiliano.

I dialetti genuinamente orientali, da un punto di vista idiomatico, sono bergamasco, cremasco, alto mantovano, bresciano, camuno, trentino occidentale, parlate gardesane [5] e il famoso gaì, il gergo dei pastori bergamaschi e camuni.

Il valtellinese, con bormino, livignasco, chiavennasco e il dialetto del Grigioni lombardo, sono occidentali (o in taluni casi alpini, ma è quasi la stessa cosa); il cremonese è a cavallo tra lombardo classico ed emiliano; il mantovano è considerato emiliano.

Non esiste alcuna koinè orobica, nonostante il bergamasco sia per svariati motivi il dialetto lombardo orientale più prestigioso e noto, nonché parodiato. Si pensi, infatti, che nel ‘500 era riconosciuto dagli umanisti come uno dei principali volgari della cosiddetta Italia, senza dimenticare tutta la letteratura che ruota attorno a Bergamo, dalla Commedia dell’Arte alle traduzioni di testi toscani famosi, fino ai burattini e ad Olmi, passando per i saggi gallo-italici del Biondelli [6].

La Lombardia orientale insomma, a differenza di quella occidentale classica, non è molto omogenea. La Valtellina, che comprende anche il Grigioni lombardo, etnicamente è celto-retica e linguisticamente alpino-occidentale; così anche le Orobie e la Val Camonica soprattutto, sebbene esse siano orientali linguisticamente, pur risentendo del sostrato retico (pensate alle famose s sorde aspirate); Bergamo e il Bergamasco occidentale facevano parte della Cultura di Golasecca e hanno quindi radici proto-celtiche (orobiche) ed insubriche (in senso gallico), ma il dialetto è orientale (in questo gli influssi veneti furono decisivi) quanto nel Bresciano e nei territori che gli gravitano attorno (Giudicarie, Garda, la Bassa, l’alto Mantovano); questi ultimi sono etnicamente cenomani allo stesso modo di Cremona e Mantova, e pure di Trento e Verona, solo che Cremona è “ibrida”, Mantova è padana, Trento sta bene col Tirolo storico, quello meridionale, e Verona col Veneto. Non dimentichiamoci poi dei forti influssi etruschi nella Lombardia etnica sudorientale.

Come ben sappiamo buona parte della Lombardia orientale finì nelle mani di Venezia e della Serenissima ma questo incise solo linguisticamente e in minima parte culturalmente; nonostante una porzione di questa regione lombarda, già in epoca romana, venisse associata alla Venetia, popoli venetici qui non ce ne furono, poiché gli Euganei delle valli bresciane erano reto-liguri. Gli influssi veneti sono sensibili nell’area bresciana orientale ma per questioni confinarie. D’altra parte, l’influsso è reciproco, e la stessa Verona nel Medioevo presentava aspetto idiomatico gallo-italico [7].

Riconosco il buongoverno cinque-secentesco di San Marco, rispetto al marasma franco-spagnolo che imperversava ad ovest, ma questo non giustifica nella maniera più assoluta le patetiche rivendicazioni dei venetisti che si aggrappano a tre secoli di politica glissando spaventosamente sulla vera storia delle nostre terre, che è storia eminentemente lombarda, come lombarda è la lingua e lombarda è l’etnia, plasmata da Celto-Liguri e Longobardi, comprendendo la romanizzazione su sostrato gallico. Piuttosto, parlando di Lombardia transpadana orientale, va riconosciuto il contributo tirrenico che era retico a nord ed etrusco a sud.

Il Veneto comprende i veneti e non gli ex sudditi della Repubblica di San Marco; pertanto lombardi etnici orientali, friulani, ladini, istriani, dalmati e abitanti vari del Mediterraneo orientale, se indigeni, non sono veneti. Non ci vuol poi molto a capirlo, non parlano nemmeno la lingua veneta.

A livello fenotipico i lombardi orientali sono essenzialmente alpinidi, con forti influssi dinaridi; trova spazio anche il consueto tipo padano del Biasutti (dinaride + atlanto-mediterranide) e qualche spruzzata nordide soprattutto lungo l’arco alpino. In Lombardia il tipo nordico è prevalentemente periferico, dunque miscelato con elementi autoctoni (nordo-mediterranide, alpino-nordide/sub-nordide, dinaro-nordide/noride).

La Lombardia etnica orientale fu Austria longobarda, ariana – se non sotto sotto pagana -, bellicosa e assai tradizionalista rispetto alla Neustria occidentale monarchica e cattolica, orbitante attorno a Pavia. Questo ha sicuramente inciso sui nostri popoli, anche a livello somatico e caratteriale.

Nonostante l’est, da un punto di vista economico e sociale, sia storicamente rimasto indietro, rispetto all’ovest, tra Ottocento e metà Novecento, il divario è stato ampiamente colmato e purtroppo il progresso ha avuto le sue velenose ricadute: immigrati da ogni dove, quartieri cittadini ridotti a ghetti, forte “meridionalizzazione”. La situazione si fa davvero drammatica soprattutto a Brescia e dintorni.

Se poi ci aggiungiamo l’atavico bigottismo cattolico, lo strapotere delle curie e la nefanda politica di radice democristiana, unita alla cialtroneria del fumo negli occhi verde, il quadro è ancor meglio definito. Un caso l’accoppiata Roncalli-Montini?

La nostra terra non è sicuramente rimescolata quanto il Piemonte e la povera Insubria, e lo stesso vale per la zona meridionale della Regione Lombardia, perché lo sviluppo ha attecchito più tardi e identità e tradizione, custodite dalle origini contadine, sono dure a morire, seppur inquinate da cattolicesimo e socialismo marxista.

La Lombardia transpadana orientale deve fare del proprio conservatorismo (non cristiano o reazionario) il punto di forza che aiuti la Cisalpina occidentale tutta a sbarazzarsi del laido disinteresse per le proprie radici e la propria storia e cultura.

Noi orientali abbiamo moltissimo da dare in termini di forze fresche, dure e pure, decise, determinate, pronte a correre in soccorso dei fratelli occidentali proprio come accadde nella battaglia di Legnano, in cui il nerbo guerriero era costituito in maniera consistente dalla fanteria transabduana.

D’altro canto, in tutta la Lombardia, è forte il campanilismo e la rivalità provinciale (Bergamo e Brescia, Monza e Como, Varese e Como, Cremona e Piacenza, e tutti contro Milano!) ma oggi come oggi può avere un senso solo a livello di intrattenimento, segnatamente sportivo.

Oggi occorre riscoprirsi lombardi, ed europidi naturalmente, per fare fronte comune contro il nemico mortale delle nostre terre, che è la globalizzazione, la quale si serve dell’Italia e di Roma per distruggere l’identità indigena.

Note

[1] Secondo alcuni linguisti nella Lombardia settentrionale si parla lombardo alpino, più che insubrico, ma si tratta di sottofamiglie affini.

[2] ‘Orobia’, nome coniato dagli umanisti, trae origine dai celto-liguri Orumbovii, popolo antico il cui etnico potrebbe, come viene suggerito da Delamarre, essere ricondotto al sostantivo plurale gallico orbioi significante ‘eredi’. Vedi qui.

[3] La lombardofonia trentina, teoricamente, riguarderebbe un territorio più esteso, in senso settentrionale, anche se linguisticamente in regresso.

[4] Usiamo il termine ‘dialetto’ inteso come variante, vernacolo, della famiglia linguistica lombarda (gallo-italica), che vede nel milanese il lombardo per antonomasia. Ma, si capisce, anche i “dialetti” sono lingue.

[5] Esiste un influsso di tipo bresciano anche lungo la sponda orientale del Garda.

[6] Che, addirittura, considera il bresciano suddialetto del bergamasco.

[7] Come ben sappiamo, nel Medioevo tutta la Cisalpina era Lombardia, e l’estensione linguistica lombarda riguardava anche il Triveneto.

L’etno-razionalismo

Uno dei capisaldi identitari del pensiero lombardista è costituito dal cosiddetto etno-razionalismo, sintesi di razionalismo ed etnonazionalismo. L’etno-razionalismo rievoca appunto l’etnonazionalismo unendolo ad un robusto razionalismo, poiché la ragione deve essere il faro che guida l’uomo e i popoli, soprattutto se europidi. Esso contempla anche del salutare realismo, grazie a cui la metafisica viene decisamente messa da parte; noi lombardisti rispettiamo tradizione e spiritualità, comprese le cattoliche, ma è logico che il nostro punto di riferimento sia rappresentato dalla natura e dalla realtà, una realtà che coincida, chiaramente, con la verità. Per le religioni non ci può essere spazio, in senso politico e ideologico, anche se per coerenza etnicista potremmo simpatizzare per i veri culti tradizionali, quelli gentili.

Ma la metafisica, dunque miti e religioni, vanno lasciati alle spalle, per quanto possano essere bagaglio identitario, pure soltanto in senso culturale. La realtà del lombardesimo contempla la ragione, la scienza, la verità, ponendo sangue e suolo come fondamento della nostra dottrina. Questo apre anche ad un materialismo razionale, che non diventi neopositivismo zoologico, si capisce, ma che teorizzi una visione tradizionale slegata dalla zavorra cultuale, specialmente se correlata alle religioni abramitiche, quale il cristianesimo stesso. È evidente come la spiritualità, slegata dalla razza e dall’etnia, incarni un gravissimo problema, perché mira ad annullare l’identità nell’universalismo e in una fede in qualcosa di estraneo all’Europa.

L’etno-razionalismo riconduce tutto alla concretezza del sangue, del suolo e dello spirito inteso come valore umanistico che passa per mentalità, carattere, cultura, lingua, civiltà – parlandone in termini individuali e, soprattutto, nazionali – e non quale principio metafisico. Anche i classici concetti di bene e male vanno inquadrati alla stregua di qualcosa di funzionale all’ottica identitaria e tradizionalista, poiché il bene assoluto è la piena affermazione antropologica e biologica di singolo e collettività, contro ogni nemico dei principi völkisch. Bene è tutto quello che rappresenta un valore positivo ai fini della preservazione e determinazione della razza, e ogni popolo del pianeta dovrebbe sviluppare una simile considerazione. Male è invece la condanna e il decadimento di identità e tradizione, e dunque tutto ciò che simboleggia il fallimento dell’autodeterminazione.

D’altra parte prendiamo le distanze dal manicheismo delle religioni monoteistiche, di matrice semitica, poiché il loro dio, e dunque i loro principi, sono un prodotto di un mondo all’Europa estraneo. L’Europa è la nostra grande, e vera, famiglia spirituale. Il feticcio abramitico, Geova, affonda le radici nell’ambito levantino e riflette perciò la mentalità e gli usi e costumi di popoli agli antipodi della nostra eredità ariana. Credere di poter conciliare il lombardesimo col cristianesimo, nonostante i circa 2.000 anni di cultura cattolica, è una forzatura destinata all’insuccesso, poiché è chiaro: o si serve la vera Europa, e le origini indoeuropee, o si serve Yahvè.

Come detto poco sopra, il lombardesimo accantona religiosità e spiritualità per potersi concentrare su ciò che esiste per davvero: la nazione lombarda. E siamo dell’idea che la ragione non possa accompagnarsi alla fede, essendo quest’ultima intrisa dell’assurdità che costituisce la linfa vitale della metafisica. Scervellarsi per il sesso degli angeli – e per gli angeli medesimi – è un affronto alla verità assoluta della patria, che a differenza di Dio esiste e si manifesta concretamente permettendoci di raggiungere quell’autoaffermazione oggi più che mai vitale. Un identitario europeo può credere in Dio? Pacifico, ma gli consiglierei di capire bene di quale dio si tratti e, in particolare, di non anteporlo alla stirpe.

L’etno-razionalismo lombardista è a suo modo anticristiano. Un anticristianesimo che non è satanismo acido bensì contrapposizione a quanto la Chiesa ci ha inculcato nei secoli, anche per tenerci buoni e succubi e per legarci mortalmente alle catene dell’asservimento, dell’ignoranza, della superstizione. Il cristianesimo, coerente, è oltretutto universalismo, pietismo, umanitarismo, egualitarismo, progressismo (a suo modo), e se pensiamo poi alle radici semitiche del culto in Cristo capite bene che lasciare spazio a tutto ciò diviene un problema. Riprendendo la domanda posta sopra, un lombardista può essere cristiano? Certo, ma a rischio e pericolo della sua coerenza e della sua serietà, sia verso il lombardesimo che il cristianesimo.

Non siamo interessati a scristianizzare la società in una maniera conforme alle fole dell’Illuminismo e dei suoi eredi (i laicisti arcobaleno, per capirci), o peggio ancora a discriminare e perseguitare chi si dice fedele di Cristo e cattolico. Del resto i nostri padri erano gentili, ma anche cristiani, e non possiamo disprezzarne la cultura religiosa, come se nulla fosse accaduto negli ultimi millenni. C’è eziandio il rischio di riempire il vuoto spirituale lasciato dal cattolicesimo (chi, ormai, va ancora in chiesa, vecchine a parte?) con la spazzatura edonista prodotta dal consumismo e dal capitalismo occidentale, ma di certo con il lombardesimo un simile pericolo non esiste.

Il lombardista, infatti, non ha nulla a che vedere coi moderni giacobini e rigetta tutti i disvalori progressisti, compresa la laicità antifascista che tanto eccita i nostalgici della Rivoluzione francese. Il materialismo lombardista di cui andavo parlando è il robusto buonsenso, quasi contadinesco, che contraddistingue Sizzi, e che lo porta a prendere le distanze da una spiritualità votata al servizio di Cristo e, dunque, del clero cattolico. Oggi abbiamo una Chiesa finalmente coerente coi dettami evangelici e proprio per questo infida e perigliosa, più del passato. Quando papi e preti non erano coerenti, cioè prima del Concilio Vaticano II, rappresentavano a loro modo un’opposizione all’anti-identitarismo e all’anti-tradizionalismo, sebbene a scapito della propria fede.

Perché è inutile girarci intorno: la Chiesa preconciliare era lontana dai dettami cristiani, certo cattolica ma dubbiamente cristiana, e serviva più il potere temporale che quello spirituale. Un discorso che vale anche per l’antisemitismo clericale, dacché Cristo e la sua cerchia erano ebrei, Dio (inteso come Geova, si capisce) è prodotto della mentalità ebraica, il cristianesimo rimonta alla Palestina e dunque il cristiano ostile agli ebrei è qualcosa di grottesco e assurdo. Certo, i tradizionalisti cattolici non sono esattamente antisemiti, sono giudeofobi, e cioè condannano l’ebraismo come fenomeno spirituale che disconosce Gesù. Nondimeno, resta ridicolo un sentimento negativo verso coloro che hanno praticamente portato al Messia: senza giudei non ci sarebbe Cristo.

Riparleremo di cristianesimo (segnatamente cattolico), ebraismo e islam, ma quanto detto in questo articolo è utile a comprendere come il credo lombardista, l’unico che abbia un senso davvero identitario, nel mondo cisalpino, sia fortemente e fermamente laico in un’accezione per davvero razionale, e razionalista. E coniugando questo razionalismo con l’etnicismo del nazionalismo völkisch pone in essere un’antitesi radicale al ciarpame tanto fideistico quanto ateistico, dove tale termine allude all’universalismo giacobino e massonico degli atei volgari. Noi crediamo nel sangue, nell’etnia, nella nazione e ad essi dedichiamo i nostri sforzi e il nostro impegno, per il benessere materiale e spirituale della Grande Lombardia.

La Lombardia transpadana occidentale (Insubria)

Biscione visconteo

La Lombardia transpadana occidentale, o Insubria [1] etnica come la si potrebbe chiamare per comodità, è il fulcro della Grande Lombardia, il centro della nazione, suo cervello, cuore e motore.

‘Insubria’ deriva dal termine celtico, rafforzato, *suebro- ‘forte, violento’, riferito agli antichi celto-liguri Insubri [2]. Tale etnonimo passò poi ai Galli storici del IV secolo avanti era volgare (probabilmente Biturigi) che occuparono il territorio lombardo fino al fiume Oglio (a Bergamo, contrariamente a quanto si crede comunemente, si stanziarono proprio questi, e non i Cenomani, e il Bergamasco infatti venne inserito, dai Romani, con Milano nella Gallia Transpadana, e non nella Venetia con Brescia). Anche la Cultura di Golasecca andava dal fiume Sesia fino al Serio, altro corso d’acqua locale, in territorio orobico, dove si trovavano appunto i celto-liguri Orobi.

L’Insubria corrisponde all’antico territorio abitato fondamentalmente dai celto-liguri Insubri e Leponzi, e dopo Roma discretamente germanizzato dai Longobardi che si diedero come centri vitali Milano, Monza, e il Seprio (Pavia, la capitale, è situata nella fascia insubrica meridionale, influenzata dal mondo padano) e che più tardi corrisponderà al nerbo del Ducato di Milano.

Milano, la grande capitale della Lombardia etnica e della Lombardia storica, è da sempre il perno dell’Insubria, la città che ha plasmato il territorio circostante, da Lodi al Ticino. Socialmente, politicamente, culturalmente, linguisticamente.

L’area insubrica genuina è formata dalle terre di Milano, Lodi, Monza, Brianza, Lecco, Como, Legnano, Busto Arsizio, Varese, Novara, Intra e Pallanza (Verbania), Canton Ticino e Mesolcina (quest’ultimi, oggi, sotto la Confederazione Elvetica). La Svizzera inoltre comprende anche la valle del Sempione, essa pure parte insubrica del bacino del Po, come la restante regione lombarda. Noi lombardisti tendiamo inoltre a legare all’Insubria, intesa in senso statistico e demografico, Pavia, Valsesia, Vercelli e Biella.

Si tratta, come fulcro storico, di una regione piuttosto omogenea, sia etnicamente che culturalmente, con un solido sostrato proto-celtico/celto-ligure (Golasecca e Canegrate) e gallico (Insubres romani), corroborato dalla dominazione longobarda che ha profondamente inciso sul territorio, e poi dalla signoria dei Visconti, che sotto l’egida del germanico Bisson ha retto le sorti dell’Insubria ducale si può dire fino al 1500.

La romanizzazione, per quanto fondamentale in termini culturali e identitari, non stravolse il territorio, e portò ad una lenta assimilazione dell’elemento celtico nativo, che adottò spontaneamente i costumi latini. Questo, certamente, dopo i ben noti fatti bellici che contrapposero i Galli ai Romani, portando alla sconfitta e alla pacificazione dei primi.

L’area è omogenea pure linguisticamente perché la koinè milanese ha costituito un ottimo collante politico-culturale, anche se degni di nota sono pure il ticinese, il brianzolo, il laghee, il lodigiano e le parlate più occidentali influenzate dal piemontese.

Parimenti, Valtellina, Grigioni lombardofono e Pavese risentono degli influssi del milanese e le parlate di quei luoghi, i primi due soprattutto, sono classificate come lombardo occidentale (che nella terminologia dei moderni linguisti indica l’insubrico/cisbaduano). I dialetti di Pavia (eccetto quelli della Lomellina), invece, sono di transizione con l’emiliano. Un discorso simile si potrebbe fare con la Valsesia, stretta fra Piemonte e Insubria, fermo restando che il piemontese orientale mostra certamente alcuni fenomeni di transizione.

Volendo suddividere amministrativamente la Lombardia transpadana occidentale, che è poi la Lombardia etnica centrale di noi lombardisti (con l’aggiunta del territorio pavese e del Piemonte orientale), avremmo i seguenti ambiti cantonali, con relativi distretti:

  • Milano (Bassa Insubria), con Busto Arsizio, Monza, Lodi e Pavia;
  • Como (Alta Insubria), con Lecco, Lugano e Varese;
  • Novara (Lebecia), con Vercelli, Biella, Varallo e Vigevano;
  • Locarno (Leponzia), con Domodossola, Intra e Bellinzona.

Attenzione: il lombardesimo non propugna, nel contesto grande-lombardo, la creazione di vere e proprie regioni, bensì di cantoni, e loro distretti,  blandamente federati. Non siamo certo regionalisti, anche se riconosciamo tranquillamente l’esistenza di realtà storico-culturali, come la stessa Insubria in termini correnti (e poetici).

Non serve dunque un’insegna globale insubrica perché quella classica del Ducale visconteo (Aquila imperiale e Biscione), a mio avviso, è l’ideale stemma della Lombardia intera, emblema dell’etnostato cisalpino. I cantoni, invece, possono tranquillamente utilizzare le insegne delle loro città precipue (o dei territori storici), e dunque Croce di San Giorgio per Milano, bandiera sepriese a scacchi bianco-rossi per Como, Croce di San Giovanni Battista per Novara, bipartito rosso-blu ticinese per Locarno. Segnaliamo, comunque sia, la nota Scrofa semilanuta, uno dei simboli gallici della capitale lombarda.

La Croce di San Giorgio milanese, anche se non può vantare le origini e la storia della genovese (che ha inciso su quella d’Albione), ha un profilo autonomo, all’interno delle vicende medievali; emblema del comune di Milano, della Lega Lombarda, di moltissime città padane guelfe esprime la coscienza patriottica dei lombardi e il loro spirito d’appartenenza, mirabilmente sfociati nel giuramento di Pontida e, soprattutto, nella battaglia di Legnano. Unita alla Croce di San Giovanni Battista, ghibellina, e allo Swastika camuno, appare quale ideale bandiera nazionale cisalpina.

Naturalmente abbiamo poi il Biscione e il Ducale viscontei, originari dell’Insubria, che costituiscono, il primo, il simbolo se vogliamo del popolo lombardo, del suo retaggio celto-germanico (essendo di ascendenze nordiche) e della sua cultura storica, il secondo, il miglior emblema possibile per la nazione lombarda, rappresentato da un quadripartito bianco-dorato in cui, alternandosi, troviamo l’Aquila del Sacro Romano Impero, latino-germanica, e il Bisson, blasone prima visconteo (ma in origine della città ambrosiana e delle sue milizie comunali) e poi sforzesco, indissolubilmente legato a Milano e alla Lombardia intera.

Per quanto riguarda invece la questione linguistica diamo qui una veloce carrellata dei principali dialetti occidentali – in realtà centrali – del lombardo: milanese (il lombardo per antonomasia), dialetti milanesi, legnanese, brianzolo, ticinese, ossolano, varesotto, bustocco, comasco, laghee, lecchese, lodigiano, novarese, lomellino e alcune parlate gergali. Inoltre, dobbiamo aggiungere le parlate della Valtellina e del Grigioni lombardo, in territorio orientale ma tassonomicamente insubriche.

Questione etnica. Il grosso della Lombardia transpadana occidentale è etnicamente celto-romanzo, gallo-italico, e le sue componenti principali sono la ligure arcaica, la celto-ligure, la gallica (insubrica), la coloniale italo-romana e quella germanica (Goti e Longobardi). A livello sub-razziale/fenotipico, predomina il tipo alpino assieme a quello atlanto-mediterranide, o meglio ancora padanide (dinaride + atlanto-mediterranide), con spruzzate nordiche qua e là, soprattutto in area prealpina e alpina. L’unica minoranza indigena è quella degli alemannici walser che si trovano nel nordovest del territorio.

L’Insubria tradizionale è racchiusa nel bacino imbrifero del Padus, zona tipicamente lacustre, ed è delimitata a nord dalle Alpi Lepontine, ad ovest dal Sesia, a sud dal Po, e ad est dall’Adda. Pavia, come abbiamo visto, è una via di mezzo tra Insubria e Padania (intesa qui come Emilia), rammentando che l’Oltrepò è da considerarsi cispadano in tutti i sensi.

È da sempre il motore della Lombardia, l’area economicamente più ricca e avanzata, animata da intraprendente spirito imprenditoriale perfettamente incarnato dai milanesi e dal Ducato che fu. Dal secondo dopoguerra, per via del boom economico e anche di sciagurate politiche romane, il cosiddetto triangolo industriale capeggiato da Milano è stato investito da milioni di sud-italiani che hanno, volenti o nolenti, stravolto il tessuto etnico e sociale del cuore etnico lombardo, soprattutto per arricchire i soliti noti, a scapito degli indigeni.

Tutte le immigrazioni di massa sono sbagliate, in particolare qualora comportino l’afflusso di realtà etniche e razziali incompatibili. Se l’Insubria oggi annaspa sotto il peso di smog, cemento, inquinamento e traffico “indiano” è anche per questo.

Assieme agli italiani meridionali, circa un milione di veneti si è spostato in territorio occidentale, uniti agli esuli istro-dalmati cacciati dal criminale Tito. Anche molti orobici cercarono fortuna ad ovest.

L’Insubria oggi è piuttosto malridotta e martoriata da una densità demografica mostruosa, dovuta a immigrazione selvaggia (da ogni dove), e dall’industrializzazione scriteriata, ed è un vero peccato perché il territorio insubrico è incantevole, tra laghi prealpini, fiumi, aree collinari, campi e pianure, risaie, e ovviamente Prealpi e Alpi.

La soluzione a questi guai, ovviamente, è l’indipendentismo. Prima ancora, il comunitarismo, che permette il recupero della solidarietà fondamentale, tra connazionali, al fine di riscoprire e dunque difendere le proprie radici.

Gli insubrici sono in via d’estinzione, e in talune zone purtroppo già estinti, anche per colpe proprie, si capisce. Dobbiamo promuovere serie politiche etniciste per far riguadagnare ad essi terreno, perché con la loro scomparsa parlare di Insubria non avrebbe più senso. E allo stesso modo, parlare di Lombardia e di Europa senza più i rispettivi autoctoni.

Note

[1] In senso geografico può essere chiamata Insubria tutta la fascia prealpina e collinare della Regione Lombardia.

[2] L’etimologia viene suggerita qui.