Paolo Sizzi in diretta alla “Zanzara”, con rivelazione finale

Nella serata di mercoledì scorso, 19 febbraio, ho potuto partecipare in diretta alla nota trasmissione radiofonica de La Zanzara di Giuseppe Cruciani e David Parenzo, negli studi milanesi di viale Sarca. Non sono nuovo alle incursioni di Radio24, poiché in passato, in diverse occasioni, venni contattato telefonicamente proprio dal Cruciani. A chi interessa, ecco il mio intervento, tratto da YouTube. So che qualcuno storce sempre il naso, a proposito dell’opportunità di approfittare degli inviti dell’irriverente dittero, ma continuo a pensare che sia giusto metterci la faccia e sfruttare l’occasione per poter diffondere il fondamentale messaggio identitario. Questa volta, peraltro, era un diretta e non una telefonata registrata e poi tagliuzzata.

È stata un’esperienza diversa, divertente e a mio avviso molto utile e preziosa, poiché, pur sapendo del carattere e del clima della trasmissione (specie per il fastidioso sottofondo parenziano, condito da insulti e acide banalità), trovo importante partecipare ad iniziative che, per quanto possano prestarsi ad ambiguità e controindicazioni, offrono l’occasione di farsi conoscere, sentire e di portare la propria testimonianza. Certo, io stesso non sono esente da venature goliardiche e ironiche e so stare al clima scherzoso, senza però perdere di vista il fine ultimo, che è quello di poter discutere, in un modo o nell’altro, delle proprie posizioni.

Non vorrei rovinare la sorpresa a chi, leggendo questo articolo, non avrà ancora avuto l’opportunità di guardarsi il filmato, perciò non scenderò nei dettagli. Chi invece ha già potuto assistervi, in diretta o differita, avrà apprezzato gli interventi a proposito di antropologia fisica, genetica delle popolazioni, disamine craniometriche (anche dell’orvietano Cruciani e dell’ebreo Parenzo) e, naturalmente, di lombardesimo. Ho infatti beneficiato della possibilità di diffondere ulteriormente il mio credo etnonazionalista, incentrato sull’autoaffermazione e l’indipendenza della Grande Lombardia, che del resto è un tema profondamente intrecciato con lo studio antropogenetico e del territorio. Il culto razionale di sangue, suolo e spirito conduce alla preservazione identitaria e, di conseguenza, all’affrancamento del sentimento patriottico della nazione cisalpina.

Il sottoscritto è animato da sempre da un salutare fervore etnicista e razzialista, convogliato nel nazionalismo panlombardo. La coscienza comunitaria, l’orgoglio e il sentimento d’appartenenza, il rispetto e la ricerca dell’endogamia sono oggi più che mai necessari se vogliamo dare alla Lombardia una speranza di riscossa, rivincita e vera rivoluzione culturale e politica. Ogni strumento scientifico, volto alla contemplazione della natura biologica del nostro popolo, è altamente apprezzato, certamente nel rispetto di ogni altra realtà identitaria che non diventi un pericolo mortale lungo la via della nostra piena libertà.

A chi non ha assistito, buona visione, e a chi ha già dato mi auguro di aver potuto offrire un momento di riflessione e di acculturazione, con un pizzico di divertimento e di leggerezza, che a piccole dosi non guastano se intesi come intrattenimento culturale che dà l’opportunità di gustare sprazzi di costruttiva divulgazione razzialista. Sul finale del video, la grande sorpresa. Ho accettato l’invito della Zanzara anche per poter annunziare un lieto evento, che si spera fausto per tutta la popolazione cisalpina: la comunicazione ufficiale della nascita di Nazione Lombarda, di cui parlerò meglio nello scritto del soledì. Per questo, e chiaramente per l’ospitata, devo ringraziare la trasmissione, che mi ha permesso di parlarne. E pazienza per il consueto travaso di bile del povero David, molto avvezzo agli insulti e assai poco alle argomentazioni.

Salut Lombardia!

Paolo Sizzi sulla religione

Sizzi, cioè chi scrive, è di formazione cattolica e nasce in una famiglia alquanto religiosa, che ha peraltro dato alla Chiesa due sacerdoti (e ce ne sarebbe anche un terzo, da parte materna, poi spretatosi). Il Nostro è cresciuto, dunque, immerso in un ambiente cattolicissimo e sino ai 24 anni è stato un credente, praticante e devoto, fedele alla causa cristiana, in virtù della propria educazione ma anche della propria spontanea affermazione. A partire dalla primavera del 2009, tuttavia, si è distaccato dalla Chiesa, maturando una visione del mondo decisamente etnonazionalista e ostile, di conseguenza, a tutto il sistema di valori cattolico, che certamente non è compatibile con una ideologia völkisch integrale.

Il 2009 è l’anno in cui è andato concretizzandosi il lombardesimo, dopo una gestazione principiata nel 2006, frutto di una radicale presa di coscienza etnonazionalista di Sizzi volta all’esaltazione razionale degli ideali di sangue, suolo, spirito, che sono la triade fondamentale su cui deve edificarsi una nazione degna di questo nome, come la Lombardia. Dal 2009 al 2019, anche durante il periodo italianista, Paolo ha portato avanti una visuale anticristiana, ostile alle religioni ma con simpatie culturali pagane, poiché era necessario sviluppare un’ottica che fosse estranea tanto ad un credo semitico di importazione mediorientale quanto alle fedi religiose in genere.

Dal 2019 ad oggi, invece, il sottoscritto ha cercato di conciliare la coerenza etnicista con un recupero identitario dello stesso cristianesimo cattolico, naturalmente in chiave preconciliare e rivestito di solarità indoeuropea, provando così a stabilire un connubio cristiano-pagano che rappresentasse le due grandi anime spirituali della nostra terra. Un’operazione certo non dettata dalla fede e dall’afflato religioso, che Sizzi non ha più, ma dal desiderio di tentare una conciliazione, per il bene della Lombardia medesima. Dopo quasi 5 anni ho deciso di lasciar perdere perché le incongruenze erano troppe e perché la coerenza völkisch impone altro. Direi che è stucchevole tollerare il cattolicesimo soltanto per via di una patina indoeuropea; a questo punto si recuperi direttamente il paganesimo.

Certo, l’idea della Chiesa nazionale ambrosiana, cattolico-pagana, non era un’intuizione da cestinare del tutto, anzi, avrò modo di riparlarne come soluzione culturale originale per dare un volto tollerabile alla religiosità padano-alpina. Tuttavia, il pensiero etnonazionalista, alla lunga, non può essere conciliabile con il credo in Gesù di Nazareth, poiché sono troppe le contraddizioni che turberebbero un compromesso di questo tipo. Nondimeno, Paolo non è religioso, non è credente e non ha esigenze spirituali (intese come rapporto con il trascendentale), né gentili né cristiane, e appare quindi utile promuovere nuovamente, e senza edulcorazioni, l’originale etno-razionalismo lombardista. Lo spirito esiste come insieme di elementi culturali, civili, caratteriali, mentali, artistici, intellettuali di un popolo, e in tal senso, giustamente, parlo sovente di sangue, suolo, spirito.

Tutto questo per dire cosa? Semplice: Paolo Sizzi prende le distanze da ogni religione, frutto della cultura umana, e dal divino, frutto dell’inventiva umana, perché intende rimettere al centro del dibattito quel fondamentale razionalismo emendato da ogni squallido elemento illuminista (dunque cosmopolita, egualitarista, modernista, laicista in accezione progressista e ateo in senso “acido”). Il razionalismo etnico del lombardesimo esalta la vera ragione, la cui culla è l’Europa, come strumento indispensabile per un’esistenza improntata ai valori etnici, razziali, patriottici, proprio perché la ragione depone a favore di quell’identitarismo antropologico e biologico senza il quale l’Europa stessa sarebbe perduta. Ed esalta il realismo, al di là di ogni credenza, mito o timore superstizioso.

La religione non ha più nulla da darci, e possiamo tranquillamente lasciarcela alle spalle. Questo è il caso, soprattutto, di un cristianesimo che nasce come corpo estraneo semitico, al pari di giudaismo e islam, e che è animato da un punto di vista e da una filosofia di vita universalisti, umanitaristi, antirazzisti in nome di un dio biblico, dunque levantino, che non ha nulla a che vedere con il nostro continente. Dio e dei non esistono, sono chiaramente il prodotto della mitologia e dei bisogni spirituali umani (fortemente intrisi di ignoranza, paura, ansia dell’ignoto e della morte), ed è sterile cercare di conciliare questi concetti con l’inconciliabile, e cioè con l’identitarismo etnico e il razzialismo lombardisti.

La religione, ormai, è un qualcosa che trova sbocco soltanto nel secondo/terzo mondo, dove cioè regnano miseria, povertà, oscurantismo, sovrappopolazione, superstizione, analfabetismo, degrado e infatti lo stesso cattolicesimo oggi galleggia grazie a fedeli provenienti in maniera schiacciante dal sud del globo. Può, forse, l’etnonazionalismo scendere a patti con qualcosa di simile, diametralmente opposto al pensiero völkisch? Ovviamente no. E allora il cristianesimo, fratello di ebraismo e islam e devoto di un dio mediorientale creato da popoli mediorientali, va abbandonato, senza se e senza ma. Ciò non significa perseguitare i cristiani o scristianizzare “satanicamente” la nostra società, ma consegnare finalmente alla storia il credo cattolico (nel caso lombardo), e la Chiesa.

Altresì, è la religione in genere che va abbandonata, perché oggi del tutto inutile e buona solamente per popoli sottosviluppati (e non certo bianchi). Troppo spesso la spiritualità diventa un ostacolo sul cammino identitario e davvero tradizionalista dell’uomo europide, e dunque sul percorso che conduce alla piena autoaffermazione, e direi proprio che sarebbe folle sacrificare la verità assoluta di sangue e suolo in favore della superstizione e del terrore verso la morte. Per di più a favore di un culto di importazione. Certo, abbiamo la gentilità, il paganesimo, che sarebbe sicuramente molto più coerente col lombardesimo essendo il frutto dello spirito indigeno, indoeuropeo, ma personalmente trovo anch’esso inutile, essendo il sottoscritto ateo.

Ma il mio ateismo è un ateismo identitario, tradizionalista, etno-razionalista, e non c’entra nulla con l’ateismo “convenzionale”, che è cioè ciarpame progressista degno dell’Illuminismo. Stesso discorso per il laicismo, quella tendenza a voler secolarizzare e scristianizzare la società per fare un favore a chi, in Europa, non dovrebbe starci nemmeno dipinto. Del resto, questo ateismo “convenzionale” è a sua volta una religione, una superstizione giacobino-massonica, perché del tutto irrazionale, dal momento che, come il cristianesimo medesimo, è votato all’universalismo, all’antifascismo, all’antirazzismo, proprio sulla base delle castronerie dei philosophes.

Concludendo, la mia opinione, sulla religione oggi, è negativa. La religiosità fa parte del nostro retaggio culturale e civile, nessuno lo nega, e la stessa identità lombarda è permeata di cattolicesimo, assieme alle radici pagane. Ma possiamo farne tranquillamente a meno, essendo ormai un problema che impedisce di affrontare di petto la questione che più ci sta a cuore: la totale realizzazione del progetto lombardista. Un lombardo può tranquillamente dirsi cattolico o gentile – ci sarebbe poi da discutere anche sulla stessa bontà iniziatica e spirituale della gentilità e, infatti, ne riparleremo – ma il lombardesimo prende nettamente le distanze dalla religione. Può tollerare una rinascenza pagana, in quanto culturalmente e ideologicamente compatibile col nazionalismo etnico, per chi proprio ha esigenze spirituali, ma il credo lombardista è votato all’unica verità indiscutibile, che è quella razziale.

La visione filosofica di Paolo Sizzi

Ho già avuto modo di discutere, su questo blog, circa la mia visione del mondo e il mio punto di vista filosofico, ma alla luce dei recenti sviluppi relativi al recupero del lombardesimo integrale ho deciso di riprendere la questione. Si tratta quindi di uno scritto, quello che vado a proporre, che vuole essere integrazione e rettifica parziale dei precedenti, per quanto concerne la questione metafisica e religiosa. Chiarisco subito che il sottoscritto, in questi anni, pur avendo mutato atteggiamento nei riguardi della spiritualità, è rimasto sostanzialmente lo stesso e cioè uno scettico, per quanto di formazione cattolica. Detto ciò, l’articolo non si focalizza solo su questo ma abbraccia a tutto tondo la visione sizziana.

Ho un approccio decisamente improntato al razionalismo, al realismo e ad una sorta di materialismo identitario che pur non credendo in alcunché di metafisico ritiene che si possa parlare di spirito, come insieme di elementi culturali, civili, caratteriali, mentali e artistici di un popolo. La ragione è il faro che deve guidare l’uomo europeo lungo il cammino della propria esistenza, ma senza sbocchi relativisti e nichilisti: l’esaltazione razionale di sangue, suolo e spirito è quanto contraddistingue il lombardesimo e, dunque, colui che l’ha plasmato, il qui presente.

Tale visione va sotto il nome di etno-razionalismo e, come anticipato, fa da sfondo alla stessa ideologia lombardista. Avremo modo di riparlarne. Esaltare razionalmente il sangue della nazione, il suolo patrio e lo spirito della propria gente significa rimettere al centro di tutto etnia e razza, fatto oggi più che mai cruciale, in un mondo piegato e piagato dalla globalizzazione. Serve infatti un vigoroso recupero di un identitarismo e un tradizionalismo che sappiano dare forma alle aspirazioni patriottiche della Lombardia e della vera Europa, anche per contrastare efficacemente tutto quello che è nemico dei connotati peculiari della nostra civiltà. Sizzi ritiene dunque basilare perseguire una logica etnonazionalista, che del resto è quanto lo caratterizza dal lontano triennio 2006-2009.

Da allora comincia ad abbozzarsi il pensiero definitivo di Paolo sul mondo, sull’uomo, sull’esistenza, sul senso della vita e sul significato dell’identità. Distaccandosi dall’ambito cattolico, che ha forgiato il giovane Sizzi, perciò dal contesto per così dire reazionario, ecco che il Nostro si avvicina a quella mistica del sangue che delinea il concetto di razza. Razza come subspecies biologica, nel nostro caso caucasoide europea, europide, ma razza anche come ulteriore suddivisione etnica, pensando alla Lombardia. Ed è chiaro che non si tratta soltanto di tassonomia biologica e antropologica, ma anche di specifica culturale, perché certamente il sangue ha bisogno del supporto dello spirito per ascendere. La lezione dei nostri padri indoeuropei non viene vanificata.

Ritengo che l’esistenza dell’uomo europeo, che si differenzia da quello di altre latitudini (e in questo c’è il ripudio di umanitarismo ed egualitarismo), debba concentrarsi sugli elementi identitari e tradizionali proprio per cercare di uscire dal marasma che attualmente sconvolge il nostro continente; un marasma di matrice progressista, ma pure liberale, in cui nulla ha più senso, a meno che alimenti la sconfinata epa del grande capitale e del sistema-mondo. L’uomo europeo, viene perciò risucchiato dal vortice mondialista e completamente svuotato, per venir poi rimpinzato di ciarpame modernista e anti-identitario volto alla celebrazione di tutte quelle nefandezze che sono state partorire dal ‘700.

Certo, Paolo non è affatto credente o religioso, o meglio, crede nel valore del sangue congiunto a quello del suolo, pertanto potrebbe parere che idealmente si ricolleghi per davvero ai “lumi”, ma non è assolutamente così. Partendo dalla fondamentale triade di sangue, suolo, spirito ecco che l’Orobico plasma una dottrina e un senso dell’esistenza volti a quanto di più prezioso abbiamo, e che è la cifra identitaria della Lombardia, dell’Europa, della razza bianca: non abbiamo bisogno di dei, religioni e paradisi – mere creazioni dell’uomo – sapendo che la ragione prima e ultima della nostra vita deve essere la realizzazione etnica e razziale dell’individuo e della sua comunità.

E questa dialettica individuo-comunità è fondamentale, poiché il primo non può sussistere senza patria, nazione, famiglia, e la seconda ha bisogno dell’individuo, degli individui, per poter essere considerata una collettività incentrata sui valori e i principi etnicisti. Come si sarà capito, insomma, Sizzi pone molta enfasi sui criteri di nazionalità, etnia e razza, proprio perché fondamentali al fine di edificare l’identità e la fisionomia antropologica e culturale di un popolo. Criteri che si basano sulla realtà, la concretezza, la materialità dell’essere popolo, patria, nazione, pur tenendo in considerazione ciò che chiamiamo spirito. Esso nasce dall’incontro di sangue e suolo e rappresenta tutti quegli elementi “umanistici” che contribuiscono alla formazione di una coscienza identitaria, e di uno spirito di appartenenza.

Lasciando dunque perdere la metafisica, e concentrandoci su razionalismo e realismo, abbiamo così l’opportunità di esaltare un materialismo identitario che il detrattore potrebbe chiamare zoologico ma che in realtà incarna il significato più intimo dell’essere uomini e donne, come parte di una comunità. Poiché la materia, quanto di concreto e visibile, sensibile, deve essere quella solida certezza su cui erigere l’edificio dell’etno-razionalismo, ben sapendo che possiamo fare a meno di tutte le speculazioni filosofiche astratte che non conducono a nulla, o che fanno parte soltanto di un passato che oggi non ha più nulla da dirci e darci.

D’altra parte, anche l’uomo è un animale, un essere vivente, e come tale ha diverse razze. Razze che si legano a concetti di civiltà, cultura e spirito per come lo abbiamo delineato, perché, pur essendo un animale, l’uomo può contare sulla ragione, sul linguaggio, sulla cultura, sulla civiltà appunto, che sono ciò che lo elevano dalla condizione ferina. Dobbiamo credere in ciò che è percepibile grazie ai nostri sensi, che si può spiegare e dimostrare scientificamente, e che può essere appunto compreso dal nostro intelletto: esistere allude alla possibilità di esperire, e di sperimentare, pertanto di conoscere. Parliamo, comunque sia, di un intelletto che, assieme ai gradi di civiltà, varia da popolo a popolo perché è inutile prenderci in giro con l’egualitarismo: le capacità logico-matematiche variano in base ad etnia e razza, e le genti della terra non possono essere livellate in nome di un assurdo relativismo antropologico.

Non esiste alcun disegno divino dietro l’universo, il pianeta, gli esseri, gli uomini, la vita, ed è certo il caso che ci ha voluti, qui ed ora, al mondo. Ma nonostante questo non dobbiamo affatto abbandonare i capisaldi di identità e tradizione poiché ci permettono di dirigere la nostra esistenza sulla retta via, che è quella che porta al coronamento etnonazionalista. La verità assoluta esiste, e discende dal sangue; e in nome di tale verità dobbiamo dare forma a tutto ciò che è liquido ed instabile perché l’uomo deve dominare la natura, grazie alla ragione, e avere così la facoltà di imprimere al globo un indirizzo finalmente razionale. Solo così la vita sarà degna di essere vissuta, esorcizzando la sua apparente assurdità, rimettendo al centro di tutto il dato antropologico (appunto come risultante di sangue, suolo, spirito) e lottando per la salvaguardia di ciò che può permetterci di divenire idealmente immortali, nel segno della comunità: la continuazione della stirpe.

Il percorso ideologico di Paolo Sizzi

P. Sizzi

Credo valga la pena stendere una riflessione su quel che è stato il mio periodo italianista, o meglio, su ciò che mi spinse ad allargare lo sguardo etnonazionalista al contesto panitaliano (termine improprio, ma impiegato per capirsi), e lo faccio approfittando di un articoletto di un tizio coperto da pseudonimo e pubblicato, nell’aprile 2014, su Giornalettismo, testata online il cui nome è fin troppo eloquente.

Fu scritto, per l’appunto, all’indomani del mio cambio di registro nei confronti dell’Italia (intesa come “nazione” storica, non come stato ottocentesco o repubblica partigiana postbellica, beninteso; non avrei, comunque, potuto nutrire alcuna simpatia nei confronti della RI) e l’unico intento che animò l’anonima penna fu, ovviamente, quello di pigliarmi per i fondelli, considerando che l’inclinazione del giornaletto multimediale è quella del più banale pressapochismo antifascista e petaloso.

La sicumera dei democratici è risaputa quando si tratta di analizzare fenomenologie identitarie: loro sono moralmente superiori in quanto sinistrorsi/sinistrati all’acqua di rose, tutti gli altri sono casi umani da compatire perché retrogradi, disadattati, repressi, complessati, pazzi e chi più ne ha più ne metta. Loro sono i geni, gli altri sono i reietti.

Di conseguenza, chi non si genuflette di fronte alla vulgata resistenzial-democratico-repubblicana, benedetta dagli americani (ossia dai paladini della sinistra italica ed europea), è un povero imbecille da guardare con compassione dall’alto in basso. E il nostro baldo orobico può, forse, fare eccezione, nella mente di cotanti intellettuali?

Il suddetto tizio mi sbrodolò addosso le consuete logore fesserie, da leggersi tra le righe: nazista da strapazzo, lombrosiano, caso umano, fenomeno da baraccone; altresì, ridicolizzando sia la primeva fase lombardista che la svolta italianista, ridusse ad una farsa opportunistica il passaggio dal lombardesimo all’italianesimo (così chiamato all’epoca), come se non fosse altro che una cialtronata di poco momento e non, piuttosto, il frutto di una approfondita riflessione, una sorta di maturazione (più che una conversione o, addirittura, un tradimento del prima lombardista, come l’individuo scrisse con assoluta leggerezza). A testimonianza della razionalità di questo articolo, comunque, ecco la perla: io sarei un tifoso laziale. Prego?

La sua “analisi” si incentrò su quanto di me noto tramite la rete, fra cui i documenti di cui ho già parlato in questo blog, ovvero l’intervista al Post e alle Invasioni barbariche.

L’anonimo si soffermò sulla mia passione per la razziologia considerandola alla stregua di ciarpame degno dell’astrologo giudeo Lombroso, mostrando grande ignoranza se si pensa che è la frenologia ad essere pseudoscienza, non la craniometria e la tassonomia delle razze e sottorazze umane, con relative varianti fenotipiche. Per non parlare della genetica delle popolazioni, che rimarca pure le note differenze tra “italiani”.

Illuminante, però, appare la chiusura del patetico scritto: «il nazionalismo che chiama in causa le aquile romane, pur declinato come etno-nazionalismo federale, ha invece tutt’altro sapore e non fa ridere come l’arianesimo orobico» – e ancora – «Una grande occasione d’intrattenimento persa e Sizzi che cade dalla padella alla brace». Capito?

Lo scopo dell’autore era palese: ridicolizzare e demonizzare l’area identitaria e i suoi protagonisti, soprattutto i più genuini e non corrotti dalla politica di professione, esprimendo ironico rammarico per l’abbandono delle posizioni lombardiste originarie; il soggetto sembrava più allarmato dall’aura fascistoide del cambio di rotta, minimizzando la portata dell’etnonazionalismo lombardo. L’insipiente non può che ridere (a denti stretti) di ciò che è per davvero rivoluzionario, palesando tutta la sua imbarazzante arroganza e ignoranza.

A quei tempi, convinto della bontà dell'”evoluzione” italianista, pensai che anche le scomposte reazioni di soggetti come quello citato fossero il tributo involontario ad una scelta ponderata e matura: mettendo da parte l’identitarismo “regionale” solleticato dall’indipendentismo, il nazionalismo italianista rispettoso dell’istanza etnofederale appariva meritorio nel contesto nostrano, perché unificante. Ma l’Italia, signori miei, come vado ripetendo spesso, non è la soluzione, è il problema, se interpretata come Stivale fantozziano che arriva sino alla Pianura Padana…

Nella primavera del 2014, e in quelle successive, l’intento sizziano fu di conciliare l’istanza lombardista con quella “nazionale” ma, più che altro, da un punto di vista civile, culturale, geopolitico; vedevo l’Italia come uno dei pilastri imperiali europei e difendevo la suggestione latina di grande civiltà romana, pagana, cattolica, italiana in senso moderno e contemporaneo, alla luce dell’unificazione linguistica. Fino all’estate del 2019 posi parecchia enfasi sulla questione delle radici precristiane – con toni non molto concilianti verso il cristianesimo cattolico – poi optai per un ammorbidimento poiché la Tradizione va difesa integralmente, ed equiparare il culto di Cristo a giudaismo e islam è una sciocchezza.

Tuttavia, smaltita la sbornia del neofita, mi assestai su posizioni comunque etnonazionaliste, dove prevalse – e non poteva essere altrimenti – la componente etnicistica: il mio faro è sempre stata la triade sangue, suolo, spirito e la realtà biologica (da cui tutto il resto) dell’Italia non poteva certo essere taciuta o distorta per fini propagandistici. E allora parlai estesamente, per anni, di Italie, di patto etnofederale, di etnonazionalismo declinato in chiave rigorosamente federale, perché le differenze tra “italiani” sono sotto gli occhi di tutti, retorica patriottarda a parte.

Alla lunga, come è poi avvenuto, l’esperienza italianista si è esaurita e ho preferito riabbracciare in toto, coerentemente, quanto da me teorizzato agli esordi, tornando ad affermare che se di Italia si può e, si deve, parlare va fatto riferendosi squisitamente al centrosud, ossia all’Italia primigenia. Lo capite che, se ci si dichiara nemici giurati del mondialismo, non è possibile indugiare oltre su posizioni che, involontariamente, diventano un servigio al moloc globalista: l’Italia artificiale in chiave 1861 non è altro che uno stato, non una nazione, e ripropone in piccolo la barbarie che il sistema-mondo pratica su vasta scala. Come non esiste una “razza umana” così non esiste una “razza italiana”: non si può combattere il nichilismo unipolare all’americana con quello in tredicesimi del tricolore.

Con buona pace delle aquile romane, la forza dell’etnonazionalismo non ha eguali, e la sacralità della lotta identitaria e tradizionalista deve necessariamente passare per la coscienza etno-razziale. Anche perché parlare di Italia dalle Alpi alla Sicilia in nome di latinità, romanità, echi gentili, religione cattolica e lingua fiorentina è un po’ pochino… Tolto l’idioma franco di Firenze, la romanitas è il comun denominatore di altri territori europei, mica solo di quelli a sud dell’arco alpino.

Se per sette anni mi sono professato italianista (ovviamente secondo la mia visione: prima bergamasco e lombardo, poi italiano) è stato in assoluta buonafede, non per opportunismo. Gli argomenti di cui mi sono occupato e mi occupo sono pura passione, e non ho mai avuto la fregola del soldo, della poltrona, della carica o del posticino al sole. Ho sempre preferito cultura e metapolitica alla politica, anche solo come velleità.

Per quanto concerne, invece, le trite e ritrite pagliacciate apotropaiche di gente che, come sempre, non ha nemmeno il coraggio di mostrare nome e faccia ma adora sputare sentenze (stile l’autore dell’articolo commentato), sono la regola, nonché l’indice della pochezza antifascista: di fronte alla radicalità del patriottismo völkisch i ragli d’asino non finiranno mai di cessare. E non fatevi ingannare dalla criminalizzazione lib-dem della galassia neofascista, poiché chi sventola tricolori, in un modo o nell’altro, fa un servizio alla piovra mondialista.

C’è di buono che, con il periodo italiano, per così dire, mi sono dato una regolata, fors’anche per l’età. Nel 2014 avevo 30 anni, una crescita dunque, e ho cominciato da quel momento a lasciarmi alle spalle gli eccessi e i furori ideologici (non la coerenza e la radicalità, ovviamente), evitando di impelagarmi in ulteriori grane. Anche la soluzione etnofederalista voleva essere un equilibrio tra due posizioni estreme e poco pratiche: indipendentismo da una parte e fascismo dall’altra. Ma l’Italia come sacrale federazione indoeuropea e romana di piccole patrie non è, dopotutto, da meno, considerando che razza di stato abbiamo per le mani, e il gioco non vale la candela.

Qualcuno pensa che un Paese diviso e litigioso faccia solo comodo allo straniero. Un Paese, appunto: l’Italia non lo è. E, fra l’altro, l’occupazione atlanto-americana continentale, peninsulare e insulare è possibile proprio grazie a questa artificiale unità, in cui Roma è una delle più fedeli pedine dell’Occidente a trazione statunitense. L’indipendentismo assennato, ossia quello etnonazionalista, non fa il gioco del forestiero, perché il vero ascaro del globalismo è lo stato senza nazione di matrice ottocentesca, perfettamente incarnato dalla Repubblica Italiana.

Da parte mia era doveroso il ritorno al lombardesimo, depurandolo dagli elementi controversi degli esordi (ero ventenne, d’altronde), non solo perché ideologia da me lanciata ma pure in quanto salutare riscoperta di quella coerenza necessaria per affrontare, col piglio giusto, le sfide del domani. L’italianismo di otto anni fa era animato da nobili intenti ma è inutile ai fini della battaglia etnonazionalista; il sottoscritto è utile, alla causa identitaria, come teorico lombardista, che prima dell’indipendenza della Lombardia auspica l’affrancamento della sua sopita identità nazionale.

Al di là della politica e delle beghe fra centralismo, federalismo, autonomismo ed indipendentismo, infatti, la cosa basilare rimane l’identitarismo etnico, la salvaguardia di sangue-suolo-spirito, fermo restando che la Grande Lombardia merita appieno la totale autoaffermazione nei confronti di Roma e dell’Italia. Non si tratta di fantasticare – come facevo agli albori –  di un nord celto-germanico “e basta” (manco fossimo inglesi o fiamminghi!), in ossequio a certo nordicismo neonazista, ma di contestualizzare le Lombardie nel quadro europeo centromeridionale, anello di congiunzione tra Mediterraneo e Mitteleuropa.

All’epoca del Movimento Nazionalista Lombardo, immaginavamo una Cisalpina inserita in una confederazione “gallo-teutonica”; da italianista la collocavo nel contesto panitaliano; adesso, razionalmente, la concepisco per conto proprio, poiché le macroregioni sono delle sciocchezze dal puzzo tecnocratico e affaristico. La famiglia imperiale eurussa sta bene, ma qui dobbiamo badare all’autodeterminazione nazionale dei lombardi, senza scendere a compromessi né con Roma né con Bruxelles. Degli altri nemmeno parlo. Al più, avrebbe senso un rapporto stretto con le realtà dell’arco alpino o della (vera) Alta Italia, ossia Toscana e Corsica, fermo restando che, nella storia, è certamente esistito uno spazio carolingio di impronta celto-germanica che comprendeva anche la Padania.

Volenti o nolenti, dobbiamo certamente fare i conti con la realtà, ma senza perdere di vista l’obiettivo fondamentale, che è quello di opporci risolutamente all’omologazione dello status quo divenendo esempio e applicando, nel concreto, i dettami del nazionalismo etnico. Come individui e come popolo. E senza dimenticarci che, prima della politica, viene la cultura poiché se mancasse quest’ultima la res publica sarebbe completamente svuotata di significato. A che giova portare alle urne i lombardi se questi non sanno nemmeno chi sono?  L’indipendenza e la liberazione della Lombardia cominciano dalle nostre menti e coscienze.

Non rinnego la fase italianista, così come non rinnego i primordi lombardisti, e se oggi posso gustare appieno, nella maturità dei miei quasi 40 anni, il lombardesimo è anche grazie a quei precedenti sette anni in cui tra meditazioni, riflessioni e studi ho fortificato la convinzione che ogni rinascita di orgoglio patrio deve necessariamente passare per la verità del sangue, la sacralità del suolo e la luminosità dello spirito. E, dunque, oggi più che mai affermo con convinzione che la mia patria è la Grande Lombardia.

Paolo Sizzi sbarca sulla “Scossa”

Signori, ci siamo: ho preso la decisione di sbarcare sulla “Scossa”, Twitch, e potete reperire il mio profilo qui. La scelta è dettata dall’esigenza di dare più qualità alla divulgazione e alla propaganda, unendo così l’ambito culturale ed etnoantropologico a quello ideologico, politico e dottrinario, ovviamente in accezione squisitamente lombardista. È una nuova avventura per me, un’iniziativa, che si spera coinvolgente e accattivante, volta a sfruttare al meglio gli strumenti tecnologici offerti dalla rete, al fine di imprimere più efficacia all’azione culturale e ideologica di Paolo Sizzi. Grazie, sin da ora, per la pazienza, la collaborazione e il supporto, di varia natura, che offrirete, e vi invito a poter partecipare attivamente alle dirette, anche per mostrare come esista una comunità lombardista, per quanto, al momento, prevalentemente virtuale. Il contenuto delle trasmissioni sarà di carattere, come detto, culturale ed etnoantropologico (spazio, insomma, a craniometria e genetica delle popolazioni) senza tralasciare il lato ideologico e dottrinario, sulla falsariga di quanto portato avanti su Telegram e YouTube. Margine per del sagace intrattenimento, con un tocco di salutare becerume (censura permettendo), ovviamente tollerabile, perché ci sarà anche da ridere, sviluppando un dibattito che risulti appassionante a partire dall’esposizione dei contenuti di rilievo che il Sizzi ha nel carniere. Lombardia al primo posto.

Penso vi potrà anche essere un angolo dedicato alle disamine craniometriche, unito all’approfondimento antro-genetico, fermo restando che il fulcro delle dirette sarà comunque quello relativo al lombardesimo, sia in senso culturale che dottrinario. So che Twitch è una piattaforma diversa, rispetto al “Telegramma” e al “Tubo”, e bisognerà cercare di conciliare la divulgazione e la propaganda con il pubblico ivi presente, senza però snaturare l’opera sizziana. Credo sia una bella novità per tutti e staremo a vedere come si svilupperà nel tempo, lasciando un po’ di posto anche all’improvvisazione, per osservare il divenire di ciò che verrà mandato in onda. Ne approfitto di nuovo per invitarvi ad interagire concretamente, in maniera costruttiva (sebbene un po’ di goliardia non guasti), mettendo ad ogni modo in conto le incursioni dei soliti detrattori, ma fa parte del giuoco. Da ultimo un promemoria e un ringraziamento. Sto pensando a tre dirette settimanali, di cui una, fissa, alla domenica (soledì) sera, e le altre due a seconda degli impegni; la fascia oraria di riferimento è sempre 20-21. Avrò comunque occasione di essere più preciso nel prosieguo. E infine un sentito grazie a dei ragazzi lombardisti, molto giovani e in gamba, che oltre a sostenermi hanno contribuito, nel concreto, alla creazione e gestione di alcuni spazi. Dopotutto, il buon Sizzi è (quasi) un “boomer”.

Odiare ti costa? Solo se non sei un pagliaccio variopinto

Il 17 febbraio del 2020 (1-2 mesi prima del macello che sconquassò la Lombardia, segnatamente la Bergamasca) l’influencer, idolo dei semicolti e tipico ospite da salotto alla Fabio Fazio-so Roberto Burioni venne a cercare il sottoscritto su Twitter per digitare, in calce ad una mia foto in cui elogiavo – non senza un tocco di ironica provocazione – la qualità razziale donatami dalla natura, una trita corbelleria antifascista e antirazzista, smentita dalla stessa scienza che egli esalta. Il mio cinguettio originale, del giorno prima, era il seguente:

«Quando ammiro il mio cranio…»

Sul “Cinguettatore” ho sovente postato mie fotografie (o tavole craniometriche) con lo scopo di illustrare, fra il serio e il faceto, il fascino della disamina craniologica e antropometrica, aggiungendovi una sagace pennellata provocatoria, come in questo caso. Il tweet, dunque, voleva essere da una parte un’orgogliosa rivendicazione delle proprie origini biologiche (che ai popoli europidi, ai bianchi, è preclusa) e dall’altra una fustigazione di quel patetico cupio dissolvi che affligge il maschio bianco “cis-” eterosessuale (e normodotato), accusato dall’Occidente auto-genocida di essere il responsabile delle peggiori nefandezze.

Apriti cielo. Dopo aver pubblicato tale post si scatenò una gazzarra indecente, vergognosa, delinquenziale raggiungendo oltre 1.500 commenti. La stragrande maggioranza delle interazioni non fu altro che una sterminata sbrodolata acida di insulti, diffamazioni, prese per i fondelli con la bava alla bocca, biliosa isteria e, soprattutto, di sguaiato ricorso al più osceno body shaming. E questa cosa è certamente la più indicativa del delirio collettivo messo in scena, poiché, come potete immaginare, gli odiatori da tastiera intervenuti appartengono alla galassia del disagio liberal, cioè a quel pulviscolo umano che da mane a sera denuncia la torva derisione sessista dell’aspetto fisico.

Ma si sa, se il bersaglio è un “diverso” partono gli inni a Norimberga e piazzale Loreto, se invece è un “nazi” o un “fascio”, o più semplicemente uno che esprime dissenso nei confronti del regime woke, non c’è scrupolo petaloso che tenga, e il linciaggio mediatico diventa buono e giusto, sacrosanto. Questo deve essere stato lo stesso pensiero di alcune pagine Facebook antifasciste, gestite da illuminati semicolti ossessionati dall’analfabetismo funzionale (una delle tante idiozie alla Eco partorite dai reggicoda del sistema mondialista, per giustificare la svendita delle loro terga a chi, da oltre 75 anni, tiene per le gonadi l’Italietta dei Badoglio), che ripresero il commento di Burioni al mio tweet affermando che mi avrebbe “blastato”.

Ecco, anche l’imbecillità di tale termine ibrido (segnale della sudditanza e dell’imbastardimento dell’idioma di Dante a vantaggio della lingua della globalizzazione) la dice lunga sulla prostituzione ideologica dei castigamatti di regime, pupazzi piegati a 90° di fronte alle presunte autorità intellettuali e morali sulla cresta dell’onda, sommi sacerdoti del novello dogmatismo oscurantista: quello del pensiero debole. I gestori delle suddette pagine non si peritarono di dare in pasto alle torme di scalmanati omologati le mie parole e la mia immagine, a riprova di quanto la superiorità morale antifascista – liberale o progressista – sia una venefica menzogna, su cui si fondano intere istituzioni. Odiare ti costa? Sicuro, a meno che tu sia un pagliaccio variopinto.

Tra i livorosi commentatori di Twitter spiccarono alcuni tizi con tanto di profilo verificato (non si sa per quale ragione, visto che sono sconosciuti ai più, ma probabilmente la spunta blu – ante Musk – è una sorta di segno di riconoscimento tra caproni conformisti), su tutti Roberto Burioni, appunto, e Luca Bizzarri. Col secondo ebbi un protratto botta e risposta, ma i giullari del sistema non meritano qui ulteriore considerazione. Veniamo, piuttosto, alla scontata replica del fenomeno virologico di Pesaro, riportata qui sotto (e badate bene che nessuno l’aveva cercato, ne ha di tempo da sprecare, il narcisistico dottore):

Ipse dixit

Premessa: il Sizzi non è un antropologo, e uno scienziato, ma quando parla di razze sa ciò che dice, a differenza di quanto vorrebbe far credere il virologo vanesio prestato alla tuttologia, e venerato siccome feticcio dai contemporanei discepoli di positivismo e scientismo. Al personaggio altamente politicizzato, replicai che le razze umane (o meglio ancora sottospecie umane) esistono in quanto esistono i meticci; ergo, sussistono degli ecotipi originali di partenza. Del resto, fino a prova contraria, anche l’uomo è un animale e ad essere unica (dunque globalmente condivisa) è la SPECIE, non la razza. Roberto, passi le tue giornate ad esaltare la scienza e poi, tra le righe, difendi il concetto antiscientifico di “razza umana”? Andiamo!

Burioni, ovviamente, non replicò; il suo unico intento era quello di farsi un bagno di facili consensi, vellicando il proprio ego con la piaggeria delle larve di Twitter. Sarebbe stato interessante sentire la sua risposta, ricordandogli l’esistenza di farmaci specifici e diversificati a seconda della razza, e di malattie e disturbi tipici di alcuni gruppi razziali. Il nostro ha mai provato a curare l’ipertensione di un congoide con un ace-inibitore? O a somministrare statine ad alte dosi ad un mongoloide? Per non parlare delle intolleranze alimentari… Il ritornello antifa del “siamo-tutti-uguali” è una cialtroneria senza alcun fondamento medico-scientifico.

Curiosamente, il preclaro professore da social, nello stesso periodo in cui gettava alle ortiche il suo prezioso tempo per commentarmi (febbraio 2020, ricordiamo), minimizzava la portata del coronavirus irridendo chi indossava le mascherine e invocava severe restrizioni verso la Cina stigmatizzando la globalizzazione. Non scherziamo, ragazzi: il vero virus è il razzismo. In tempi più recenti, invece, dava dei sorci a coloro che non si vaccinavano e rifiutavano la certificazione verde, auspicandone la ghettizzazione permanente. Se gli araldi della cosiddetta comunità scientifica sono costoro è evidente che qualcosa, dopo il 1945, sia andato completamente storto. Mala tempora currunt.

Io, dal canto mio, mi schiero con tutti quei medici forensi, anatomopatologi, archeologi, paleontologi, osteologi, antropologi e genetisti che parlano ancora tranquillamente di razze umane, non certo coi venditori di fumo che spacciano l’antropologia culturale – fumisteria neomarxista erede di Boas, rimpinzata dalle smentite castronerie di Lewontin – per scienza esatta. E questo perché l’etnonazionalismo, pur diffidando delle derive scientiste e materialiste, deve avvalersi della razionalità e della scienza per corroborare i propri principi: l’identità è anzitutto biologica, dunque razziale.

Infine una nota di colore (no, non in senso sub-sahariano). La sera di quel 17 febbraio 2020, a coronamento della gigantesca canea suscitata dal mio cinguettio, poteva forse mancare la chiamata di Cruciani, supportato dal suo saltimbanco del cuore, lo scappellato Parenzo? La cosa più divertente è che, costoro, partono in quarta introducendo la telefonata con contumelie e derisioni, ma una volta che scatta il confronto in diretta inscenano il solito teatrino fatto di voci sopra la propria, urla, pollaio e uscite da bettola per far deragliare il discorso buttandolo in caciara. In questa occasione, a conferma della propria pochezza, arrivarono a chiudere in fretta e furia la chiamata sbattendomi il telefono in faccia. Una volta messi con le spalle al muro, consci dell’ennesima figura fecale confezionata col sottoscritto, un epilogo del genere è una comoda via di fuga*.

* Di tenore analogo l’ultima incursione zanzaresca, datata 27 gennaio 2023 (ma trasmessa ad inizio febbraio), reperibile sul “Tubo”. Oltre al consueto repertorio di cialtroneria assortita – di Parenzo non vale più nemmeno la pena parlare -, venendo a trattare di attualità e craniometria, va notato come il Cruciani, ogni volta, ami ricordare il mio infortunio giudiziario, sottolineando il reato (?) manciniano, di istigazione alla discriminazione razziale; peccato che la condanna verta, anzitutto, sul vilipendio del PdR, e poi sul razzismo. Sempre di ideologia e politica si tratta ma, moralmente, l’odio razziale, e dintorni, potrebbe apparire più riprovevole della lesa maestà. Ad ogni modo, meno male che il caro Giuseppe sarebbe un baluardo della lotta contro il ciarpame politicamente corretto e da cultura della cancellazione…

Paolo Sizzi a “Piazzapulita”

Sizzi a “Piazzapulita”

La prima settimana del dicembre 2019 fu piuttosto impegnativa, per il sottoscritto, essendo passato per ben tre interviste (si fa per dire) effettuate dai media di regime: due de La Zanzara di Cruciani e Parenzo e una ad opera del programma di La7 Piazzapulita. Qui parlerò, nello specifico, di quest’ultima.

Nel tardo pomeriggio di mercoledì 27 novembre 2019, mentre tornavo dal lavoro in macchina, mi trovai fra capo e collo un giornalista di Piazzapulita con un operatore, che praticamente irruppero in casa mia seguendomi alle spalle, essendo il cancello aperto. Fui preso alla sprovvista, così come mia madre che ritrovandosi due estranei in cortile (abito in un rustico villino del contado bergamasco) uscì allarmata per vedere che accadesse.

Capendo la situazione la signora, anziana e vedova, si spaurì, venendo colta da sconforto, e di fronte alla telecamera espresse tutta la sua preoccupazione e sofferenza per via della mia vicenda giudiziaria (condanna definitiva per “offesa all’onore e al prestigio del PdR”, Napolitano, e “istigazione alla discriminazione razziale”).

Questo, cari amici, suscita in persone normali ed oneste la persecuzione liberticida di chi si sfila dalle maglie dello status quo mondialista, finendo denunciato, condannato, esposto alla gogna mediatica. Leggi come la Mancino e il vilipendio delle istituzioni italiane sanzionano mere idee ed opinioni, e chi si macchia di tali “reati” non fa alcuna vittima, non danneggia né persone né cose: le uniche vittime sono gli stessi identitari, e i loro famigliari, come in questo caso vergognosamente tirati in ballo nella caccia alle streghe.

Cercai di tranquillizzare mia madre, facendole capire (per l’ennesima volta) che io non dico nulla di male, nonostante certe esagerazioni del passato – anche se lei non sente ragione e teme per me, soprattutto in chiave lavorativa (perché un lavoro ce l’ho) – e che, francamente, dell’opinione altrui me ne sbatto allegramente i cosiddetti. L’odio o il disprezzo che le reti sociali possono vomitare su di me non mi tangono, anche se fa capire chi, per davvero, è vittima di persecuzioni, di insulti, calunnie, minacce, bullismo internettiano e squadrismo antifascista da tastiera.

Dopo la scena patetica scatenata dall’intervento dei due figuri di La7 – che pensavo non venisse filmata e poi mandata in onda, avendo detto di non coinvolgere il genitore – decisi comunque di rilasciare un’intervista di un quarto d’ora circa, fuori dalla mia abitazione, in cui esposi il mio pensiero völkisch, la bontà della battaglia lombardista, la necessità di un “italianesimo” etnofederale (ero ancora nel periodo filo-italico) e la mia passione per l’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni.

Pur comprendendo come il rischio del consueto taglia e cuci fosse concreto, decisi di affrontare la telecamera, nonostante tutto e tutti, e illustrai il mio punto di vista, anche in merito alle domande che mi venivano fatte. Si parlò di craniometria e craniologia, antropologia fisica, genetica delle popolazioni, di ebrei (Segre) e di Balotelli, del concetto di cittadinanza e nazionalità, di endogamia e altri aspetti emersi dalla mia visione del mondo, ripescando vecchi cinguettii di Twitter.

Ultimata l’intervista, i due se ne andarono e io rincasai. Una settimana dopo, giovedì 5 dicembre, vidi il servizio su La7, anticipato dagli spot della trasmissione, Piazzapulita per l’appunto. Il sottoscritto venne presentato dissotterrando un vecchio filmato che circolava su YouTube circa la prima fase lombardista – praticamente un video di oltre dieci anni fa – e mostrando alcuni tweet del vecchio profilo Twitter, andati perduti (essendo stato cacciato due volte, da quel social), ma salvati dalla “preziosa” opera dell’Osservatorio antisemitismo. La cornice? Il tema dell’odio, ovviamente, con tanto di scritta a caratteri cubitali posta a chiusura delle réclame del programma, una trovata di cattivo gusto. Manco fossi Breivik.

Sì, perché fu proprio tale osservatorio democratico (?), ossessionato dai neonazisti virtuali o presunti tali e malato di censura, a dare l’imbeccata al giornalista Alessio Lasta, questo il suo nome, indirizzandolo verso di me, al fine di confezionare un servizio in cui si mettesse alla berlina il “nazi” disadattato di turno per fare sensazionalismo. Venni presentato come un nazista, un odiatore, un leone da tastiera che vomita bile su internet (come se mi fossi mai nascosto dietro avatar e nickname, peraltro!), un disagiato sociale, accostandomi a personaggi controversi e veicolando il messaggio che, da un momento all’altro, potrei passare all’azione, come se l’identitarismo fosse odio e la passione antro-genetica il prodromo della violenza.

Dell’intervista originale, si capisce, vennero mandati in onda pochi spezzoni raffazzonati, evidenziando faziosamente i passaggi più pruriginosi, se vogliamo, ancorché espressi in tutta calma, lucidità, razionalità, senza deliri e senza atteggiamenti nazisteggianti. Trasmisero i frangenti in cui parlai di endogamia all’europide, affermando l’importanza della salvaguardia anche biologica della propria identità (caucasoide bianca, italica, lombarda); la necessità di difendere il concetto di razza, come subspecies, che non è nulla di nazista e hitleriano – checché ne dica lo stucchevole intervistatore – ma è realtà antropologica, genetica, biologica appunto (mentre etnia è un concetto più culturale che altro); la differenza tra cittadinanza (carta) e nazionalità (sangue), sottolineando come la Segre, ebrea italiana, sia di cittadinanza italiana ma di nazionalità giudaica, così come un Balotelli nato e cresciuto in “Italia” sia negroide ghanese, e non italico per sangue.

Non mi sembra proprio di aver affermato delle castronerie perché la stessa genetica delle popolazioni ci dice come esistano ebrei distinti in vari rami (aschenaziti, sefarditi, mizrahì i principali, ma anche gli italkim, cioè gli ebrei italiani, cui la Segre appartiene) e distinti, soprattutto, dai popoli europidi, essendo una popolazione sì ibrida – nel caso europeo – ma comunque situata, come cluster genetico, tra Italia meridionale e Levante. E questo vale per tutte le popolazioni del globo, i cui confini biologici possono essere delimitati sia dalla genetica che dall’antropologia fisica, che passa pure per l’analisi del cranio.

Infine, una battuta sulla Liliana che, senza addentrarmi nel suo passato che rispetto tranquillamente, oggi è un’anziana signora longeva e distinta (non se la passa certo male, in qualità di senatore a vita), dignitosa, ma dai propositi a mio avviso troppo bellicosi verso la libertà d’espressione, che non è libertà di insultare ma libertà di dire, ad esempio, che gli ebrei d’Europa sono un’etnia a sé stante, diversa dai cosiddetti “italiani” (a loro volta distinti in differenti etnie), ponte tra Levante ed Europa. Questo è forse odio? Affermare che esistono razze, sottorazze e profili fenotipici peculiari, nonché etnie innervate proprio sul concetto di sangue e, naturalmente, di cultura è istigazione a fare del male, ad impugnare un’arma? Ma che stiamo dicendo? Questo è un delirio bello e buono.

Terminato il filmato, in cui il Lasta si dimostrò chiaramente prevenuto, ignorante, partigiano e censore (ma visto l’esordio non poteva essere altrimenti), ecco il commento in studio di eminenti esperti di antropologia e genetica: Laura Boldrini, Arianna Ciccone, Valentina Petrini, Gennaro Sangiuliano (oggi ministro della Cultura) e un giovane sovranista meloniano, Francesco Giubilei. Conoscevo solo la Boldrini, che ovviamente può vantarsi di essere una gigantesca testa pensante in materia di sangue, suolo, spirito.

Orchestrati da Corrado Formigli, il conduttore, indeciso sul come classificarmi (scemo o futuribile criminale nazista), i presenti si produssero in tutta una serie di beceri luoghi comuni, conditi da insulti, continuando a mescolare il sottoscritto con neonazismo, neofascismo, suprematismo bianco, Hitler, Mengele e gente varia che fa della violenza o aizza a farla. Io ho avuto guai giudiziari, è vero, ma per mere questioni d’opinione; sicuramente, ai tempi, posso dire di avere un “tantino” sbarellato, ma non ho mai fatto il nazifascista della mutua o il suprematista alla lombarda, non ho mai propagandato odio, e tantomeno lo faccio ora!

Piuttosto infervorata la signora Ciccone, assidua frequentatrice del “Cinguettatore”, che voleva ridurmi alla stregua di personaggio folcloristico, cui non dare alcuna visibilità, preso per i fondelli da tutti: tutti chi, scusate? I guitti antifascisti di Twitter, probabilmente, quelli che si vantano di essere democratici e liberali ma poi fanno le crociate per bannare e sospendere in perpetuo, dimostrando come dietro le “prese per il culo” vi sia comunque una grande paura per tematiche spinose e poco simpatiche come etnonazionalismo, antropogenetica e razzialismo, che sono inesorabili pugni nello stomaco al pensiero unico fucsia e al mondialismo, con le loro perversioni.

A questa signora dico che censura fa rima con paura e, pur concordando sul fatto che io sia innocuo perché persona civile, ribadisco che le tematiche da me trattate stanno profondamente sulle gonadi ai semicolti, ma non perché odio, istigazione alla violenza, neonazismo o altre assurde accuse di questo genere, ma perché vanno a sbugiardare clamorosamente tutte le balle antirazziste e antifasciste, tutte le narrazioni liberali e progressiste, tutte le costruzioni e sofisticazioni del politicamente corretto e della retorica resistenziale, che in questo finto Paese è una vera e propria droga. E non solo una droga, direi, ma pure una forma di dittatura che vuole eliminare tutto quello che esula dal contesto “democratico” (ossia schiavo dell’alta finanza), e infatti gli ospiti in studio condannarono pure il comunismo staliniano, altro nemico mortale del capitalismo e dell’imperialismo americano, quanto nazionalsocialismo e fascismo.

Il “simpatico” Formigli insistette dandomi del povero scemo, e dimostrando una grandissima profondità intellettuale e capacità di analisi, mentre quella Ciccone continuò a minimizzare riducendomi al rango di macchietta senza alcun peso ed importanza; in entrambi i casi stiamo parlando di ignoranti abissali che nulla sanno di ciò di cui mi occupo, e nulla sanno di antropologia, di genetica, di etnonazionalismo, però parlano, parlano e dicono un mucchio di corbellerie, assieme al Giubilei che prende le distanze da me difendendo il suo triste partito sovran-sionista, oggi al governo tricolore, amante della Repubblica Italiana, della costituzione e di tutta la chincaglieria partigiana, dicendo che il suo capo, la Meloni, nulla ha a che fare con l’etnonazionalismo. E meno male, diamine!

Scemo, scemo del villaggio, pazzo, personaggio folcloristico, nazista, soggetto dalle opinioni criminali (se non criminale tout court)… Le ficcanti argomentazioni degli astanti, ideologicamente trasversali (a testimonianza di come tutto l’arco parlamentare sia complice del sistema), alla corte di Corrado Formigli si sprecano, senza che nessuno entri nel merito della questione: odio? nazismo? razzismo? no no, nulla di tutto questo, parlo del preservazionismo etno-razziale fondato su basi scientifiche e biologiche, che non è sacrosanto perché lo dice il Sizzi ma perché lo suggeriscono la realtà che viviamo ogni giorno, una realtà fatta di globalizzazione che sradica, calpesta, infanga e distrugge l’identità in tutti i suoi aspetti, un’opera infame di demolizione supportata sia dai cialtroni di sinistra che dai cialtroni di destra, pecoroni statali della baracca italiana, entità coloniale di proprietà Usa e Nato.

La trasmissione intendeva stigmatizzare l’esistenza dei “nazisti del web” – per cavalcare ridicole polemiche qualche mese più tardi spazzate via dal coronavirus – ma, in tutta franchezza, è stata solamente la messa in onda di una sceneggiata indecente e spoetizzante in cui una persona, io nella fattispecie, viene linciata senza contraddittorio sparando nello spazio le più pacchiane banalizzazioni e strumentalizzazioni, senza, ripeto, entrare nel merito della vera questione che è la salvaguardia dell’identità e della tradizione di un popolo, di una comunità, in tempi di globalizzazione galoppante che non lascia spazio all’orgoglio etno-razziale. Quella stessa globalizzazione che poi cagionò una pandemia. Ma si sa, “il vero virus è il razzismo” (citazione di qualsivoglia fesso liberal).

Del resto, perché, periodicamente, si parla tanto, a vanvera, di fantomatico pericolo fascista o nazista, in Europa? Perché bisogna far guardare da un’altra parte, e perché si creano finti problemi con lo scopo di incanalare l’odio della gente verso il capro espiatorio “nazi”, lasciando belli tranquilli i veri nemici dei popoli europei che sono gli squali, i banchieri, i finanziocrati, i mondialisti, gli imperialisti euro-atlantici, la mafia nelle sue varie sfumature.

Qualcuno, a caldo, mi disse che avrei fatto meglio a non farmi intervistare; il problema è che il servizio, questi, lo avrebbero fatto comunque, e se li avessi cacciati a malo modo avrei dato l’idea del tizio che si spaventa ed evita di parlare, esprimendo il suo dissenso al regime. Io approfitto delle situazioni propizie per divulgare il messaggio etnonazionalista, che si costruisce anche sulle basi biologiche e, mi pare evidente, la figuraccia la fanno questi tristi e omologati giornalisti proni alla volontà dei tecnocrati antifascisti, giornalisti che non sanno nulla, non sanno di cosa uno parli, tentano di mettergli in bocca cose mai nemmeno pensate e fanno della retorica cosmopolita da quattro soldi.

Chiaro, col senno di poi (memore della prima intervista televisiva, quella de Le invasioni barbariche della Bignardi, con Michele Serra a sputare sentenze senza contraddittorio), vista l’irruzione, il coinvolgimento di terzi, le riprese in casa mia, il taglia&cuci e lo spettacolo raccapricciante in diretta, avrei potuto tranquillamente indurre gli intrusi ad andarsene evocando i carabinieri; tuttavia, ritengo che a sfigurare sia stato il circo di Piazzapulita, non certo chi scrive, perché il modello di giornalismo proposto da La7 in questa occasione si è dimostrato davvero pessimo, un imbarazzante tributo a chi comanda e tiene gli scribacchini per le gonadi.

Il discorso relativo al baraccone di Formigli può essere fatto anche per le due chiamate di Cruciani (che mi aveva già contattato nel giugno del 2015), dove lui e Parenzo si dimostrarono i veri fanatici intolleranti, ignoranti come caproni, che più di insultare, coprire la voce dell’interlocutore con le proprie, e buttare in gazzarra discussioni molto profonde e degne di attenzione, non possono fare. Fra l’altro, anche qui, solito lavoretto di taglio e cucito, senza dare lo spazio che merita alla basilare questione del sangue. Naturalmente, il loro programma radiofonico è quello che è, fatto di satira, provocazioni e inflazioni, ma non sarebbe male cercare di confrontarsi seriamente evitando, ad ogni piè sospinto, di aggredire verbalmente a vuoto, senza che, peraltro, vi sia da parte di chi parla (il sottoscritto) arroganza, presunzione, protervia. Io cerco solo di propagare il messaggio etnonazionalista, che ovviamente si avvale anche della scienza per corroborare i propri principi.

L’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni meritano rispetto, perché sono branche scientifiche, così come meritano rispetto l’etnonazionalismo, l’identitarismo sangue e suolo e il comunitarismo. Chi si approccia a questi contesti colmo di pregiudizi, dettati da superficialità e ignoranza crassa, non andrà da nessuna parte, e non capirà mai come lo studio dell’uomo, anche in chiave biologica, sia fondamentale soprattutto oggi, con lo scopo di annichilire tutte le idiozie egualitariste della vulgata progressista, antifascista, lib-dem.

Da ultimo, una precisazione: circolava una bufala secondo cui io avrei detto, in merito all’argomento Liliana Segre, che: «I campi di sterminio sono una fandonia come l’11 settembre»; questa affermazione mi è stata attribuita da un giornalista di Repubblica, Piero Colaprico, che si è basato su questo commento Facebook (il primo), postato da un tal Daniele (cognome cancellato), collegandolo, non so in che modo, al sottoscritto. Come mai non mi stupisce che un simile sfondone (a quanto pare in malafede) provenga da uno che scrive su quel giornale? Si prendono un po’ troppe libertà questi soggetti, dall’alto della loro inesistente superiorità morale…

Tutto questo voleva forse essere una trappola architettata contro il sottoscritto per presentarlo come mostro nazista da sbattere in prima pagina? Se così fosse il trabocchetto non ha funzionato perché, nonostante i soliti mezzucci giornalistici, credo proprio di aver detto la mia in una maniera sobria, equilibrata e ben lontana sia dallo stereotipo del neonazi che da quello della macchietta da tastiera. Sta alla gente obiettiva farsi un’idea circa la condotta sizziana, nella personale convinzione che nelle mie parole non vi sia alcuna forma di odio, discriminazione e incitamento alla violenza, ma solamente e semplicemente amore per la natura che sta alla base di una sana visione del pianeta terra e di chi lo abita.

Su YouTube potete reperire le tre interviste in oggetto. Lascio giudicare a voi il taglio giornalistico (se di giornalismo si può parlare, beninteso) assunto da questi personaggi, e se qui il problema vero sia io o, piuttosto, la dittatura dell’imperante pensiero unico/pensiero debole che si serve di cervelli succubi e bacati incapaci di animare individui per davvero liberi. Il dispotismo reale sta nell’antifascismo e nella sua macchina del fango, produttrice di leggi liberticide, giustificate da una presunta superiorità sinistroide e/o liberale, e di prodotti “culturali” affetti da faziosità cronica, dove i buoni e i belli sono i complici della tirannia globalista mentre i cattivi e i brutti tutti quelli che si sottraggono alla vulgata di questa fosca temperie occidentale (contemporanea).

A proposito di craniometria (e di “Zanzara”)

Pól

Nel giugno del 2015 ricevetti la prima telefonata (ne seguiranno altre 4 fra 2019 e 2023, tutte quante reperibili su YouTube) da quei due guitti de La Zanzara (nota trasmissione radiofonica demenziale in onda su Radio24), Giuseppe Cruciani e David Parenzo. Avrei potuto benissimo sbattergli il telefono in faccia – pur non conoscendo bene il programma, all’epoca – ma la tentazione propagandistica è sempre troppo forte. E credo sia giusto affrontare il dibattito, anche a costo di venir irriso da minus habentes come quelli (il che, comunque, è un’attestazione di stima involontaria, visti i soggetti).

La loro chiamata era dovuta alla curiosità suscitata dalla craniometria, un interesse che coltivo da anni in qualità di amatore, nel più ampio contesto dell’antropogenetica, ma che nella testa di personaggi del genere (o dell’itaglione medio) sembra qualcosa di lombrosiano o nazista. Oltretutto, chissà come si procurò il mio numero, il duo romano-ebraico…

Cari amici, che cos’è la craniometria, scusate? Non è altro che una diramazione della più vasta branca antropometrica, una disciplina scientifica che tratta delle misurazioni del corpo umano (del cranio e dello scheletro, soprattutto) per scopi archeologici e antropologici, perno dell’antropologia fisica (o razziologia, ma tale termine so che provoca forte prurito nei benpensanti).

La craniometria, misurazione del cranio, si ricollega alla craniologia, vale a dire allo studio del cranio umano ai fini antropologici ed etno-razziologici. Tutto ciò, tengo a precisare, con Lombroso e la sua frenologia (o la fisiognomica) non ha nulla a che vedere. La craniometria è scienza, la frenologia è astrologia. Chiaro il concetto?

Ormai dovrebbe esser chiara – a chi frequenta i lidi sizziani – la preminenza delle misure cranio-facciali e corporee per gli scopi della tassonomia razziale, poiché la pigmentazione è un dato secondario e non è il principale discrimine tra razze umane, soprattutto tra sottorazze e varietà fenotipiche di una stessa razza.

Detto questo, non è che il sottoscritto sia un antropologo o uno scienziato, ma ha una passione per l’antropologia fisica (così come per la genetica delle popolazioni, pur non essendo un genetista), e dunque per l’approfondimento delle conoscenze riguardo la biodiversità razziale umana.

Ovviamente è uno studio da integrare, per forza di cose, con la suddetta genetica delle popolazioni ma che, evidentemente, agli occhi di gente come Cruciani o Parenzo suona poco più che una barzelletta. Beata ignoranza: costoro volevano far fare la figura dello scemo al sottoscritto ma, irridendo anche solo il concetto di ‘aplogruppo’, si sono tirati la classica zappa sui piedi. Chiunque può cercare informazioni su quanto sto dicendo ora (e che ho sempre detto più e più volte sui vari blog) e può così verificare se sia io ad essere “da ambulanza” (cit. Cruciani) o loro da asilo infantile. Io sono solo un appassionato, ma genetisti del calibro di Cavalli-Sforza, Piazza, Barbujani, Boattini, Francalacci, Cruciani (omonimo del conduttore), Boncinelli, Sazzini, Caramelli, Raveane, Sarno ecc., solo per rimanere sugli italofoni, non credo meritino di vedere sputacchiato il proprio campo scientifico d’indagine da due saltimbanchi.

La realtà “italiana”, fra le altre cose, è una delle più studiate al mondo, in fatto di genetica, per via della sua ben nota diversità etnica che le dà un aspetto alquanto eterogeneo, così peculiare da non avere eguali in Europa. E non solo in senso nord-sud ma anche ovest-est, per non parlare del caso sardo e delle varie minoranze.

Per carità, la trasmissione radiofonica incriminata, La Zanzara, è un tripudio di cattivo gusto e cialtroneria dove uno come Parenzo fa la parte del… leone, ma ogni occasione è buona per parlare di antropologia e amore per le proprie radici, con relativo studio approfondito in campo sia fisico che genetico.

Quanto dai due mandato in onda è stato il consueto taglia&cuci (l’intervista è durata 5-6 minuti, in cui ho parlato di svariate questioni) ma, francamente, ribadisco che la figura degli imbecilli l’hanno fatta Cruciani e Parenzo. Io mi sono limitato, senza sbottare per cadere nei loro tranelli e far la figura dell’idiota fanatico, a parlare brevemente di craniometria/craniologia e genetica, argomenti che come sapete ho affrontato con dovizia sui miei spazi virtuali precedenti, e che continuo a fare su Lombarditas.

La misurazione del cranio è assai ricorrente presso archeologi, paleontologi, anatomopatologi, medici forensi, ricercatori antropologici e fino a che non è stato un reato (per gli antirazzisti) parlare liberamente di razze e loro studio antropologico e fisico, a livello accademico, fior fior di autori se ne sono avvalsi per spiegare al meglio la differenziazione tra gruppi razziali umani (per citarne qualcuno ricordiamo Broca, Boas, Ripley, Lapouge, Deniker, Sergi, Livi, Biasutti, von Eickstedt, Hooton, Coon, Günther, Lundman, Baker, Schwidetzky, Knussmann). Tra l’altro, va detto che l’antropologia fisica è una disciplina scientifica e si studia nelle università (a Bologna e Ferrara, ad esempio), e a questo proposito va fatto il nome dell’accademico fiorentino Brunetto Chiarelli, tuttora in vita.

Pure Cavalli-Sforza si avvaleva di studi antropometrici ed antroposcopici parlando di genetica delle popolazioni (citando lavori contemporanei), proprio perché non siamo tutti uguali, e sensibili differenze fisiche intercorrono tra le principali razze umane e relativi sottogruppi. Questi studi sul corpo umano in senso etno-razziale corroborano poi, ovviamente, la genetica delle popolazioni, che mostra anch’essa la biodiversità tra etnie e razze.

Peraltro, se teniamo conto di antropologia fisica e genetica, più che di sottorazza, oggi come oggi, conviene parlare di fenotipi, e la craniometria di cui tratto io (le misurazioni, le tassonomie, l’inquadramento etnico e geografico) non è altro che questo. Le sottorazze vere e proprie, infatti, riguardano le suddivisioni geografiche della razza caucasoide e delle altre, caratterizzate dai vari tipi fisici regionali.

Sulla rete c’era un interessante calcolatore per caucasoidi (Racial analysis calculator) messo a punto da Dienekes Pontikos, personaggio greco noto anche per lo studio della genetica delle popolazioni (vedi il Dodecad Project); una versione pensata per i maschi e una per le femmine. In mancanza di craniometri, e di altri strumenti professionali, era un valido supporto per avere una classificazione indicativa circa il proprio fenotipo, basandosi sui punti craniometrici.

Non essendo più online appare superfluo parlarne, ma la misurazione andava effettuata correttamente, utilizzando strumenti come calibro, morsa, riga rigida, bindella, compasso, squadra metallica e il responso prodotto andava messo in relazione con il supplemento fotografico dell’opera fondamentale di Coon The Races of Europe, che potete ancor oggi trovare qui. Il sito in oggetto, sebbene di taglio nordicista, è una fonte assai preziosa di informazioni, e potete reperirvi tantissimo materiale interessante, tra cui un utilissimo glossario, tavole, mappe e la bibliografia del caso.

Un altro sito alquanto degno di nota è Human Phenotypes, frutto dell’eccellente lavoro di un utente tedesco un tempo presente sull’antro-forum The Apricity (che, tra le altre cose, mi classificò come “southern Celt“, ossia Atlanto-Mediterranid + North Atlantid, da intendersi come il Keltic Nordid di Coon).

Una precisazione: il sottoscritto è noto per saper classificare, fenotipicamente, un individuo partendo anche solo da poche fotografie (basate sulle classiche tavole craniologiche: visione frontale, di tre quarti, laterale); è evidente che la mia classificazione non potrà che essere indicativa, per quanto basata sulla cultura fenotipica, perché la craniometria vera e propria necessita, ovviamente, di valori numerici.

Con il calcolatore razziale di cui sopra ho misurato me stesso e pochi altri individui, ma come capirete, o saprete, chiunque poteva misurarsi e misurare per avere un responso di massima circa la propria natura sub-subrazziale. Ovviamente, alle misurazioni va unita l’osservazione antroposcopica (e la conoscenza, dunque, dei raggruppamenti razziali umani) e la già citata genetica delle popolazioni.

A questo proposito vi inviterei a farvi un bel test dell’ADN, che reputo soldi ben spesi se una persona ha a cuore l’approfondimento del proprio lignaggio. Ai tempi (2013), io e il mio “giro” lombardista ci testammo con 23andMe, ottimo ed economicamente abbordabile per avere una prima infarinatura, circa il proprio genoma. Stesso discorso per Living DNA e MyHeritage. Come ulteriore approfondimento, per chi volesse, ci sono anche AncestryDNA, FTDNA e Full Genomes, per citare qualche test.

Studiare, anche solo per passione, le razze umane è semplicemente amore per le proprie radici e per la biodiversità, e non è nulla di sbagliato, di criminale, di razzista o di folle, con buona pace di chi irride, con arrogante ignoranza, le discipline – scientifiche – che si occupano della questione.

Ma forse è giusto così, poiché il disprezzo di chi è parte integrante del sistema segna la via da non seguire per finire dritti dritti nelle fauci dell’omologazione, che è poi eradicazione e distruzione della propria identità e del proprio retaggio, anche biologici, non solo culturali. Chi ha invece due dita di cervello e del buonsenso, si tolga le fette di salame oscurantiste dagli occhi e si lasci avvincere dalla razziologia. Conoscere sé stessi e la propria stirpe, ma anche quelle altrui (partendo dall’Europa), è una marcia in più, non una in meno, soprattutto in questi tempi di relativismo distruttore e di gioventù dal cranio vuoto infarcito di spazzatura americana.

Sizzi alle “Invasioni barbariche”

Sizzi alle “Invasioni barbariche”

Veniamo alla famosa intervista rilasciata a Le invasioni barbariche di Daria Bignardi, andata in onda il 13 aprile 2012 su La7, di cui, credo, potete trovare ancora qualche spezzone su YouTube.

Reperirete, probabilmente, anche le immancabili parodie seguite alla pubblicazione di alcuni miei datati video propagandistici, forse un po’ pittoreschi essendo vecchia scuola (quelli in primeva camicia plumbea, per capirsi), ma non mi crucciano: fanno parte del gioco, e state tranquilli che non ho fregole liberticide, a differenza della Repubblica Italiana (che fa rima con “colonia americana”).

Venni intervistato da una troupe televisiva del programma il 23 dicembre 2011; lo scenario fu attorno a casa mia e al vecchio cascinale paterno, che si trovano nel medesimo fondo denominato Gér (ossia ‘luogo ghiaioso’, perché un tempo qui ci arrivava il Brembo), nel comune di Brembate di Sopra, tra campi, boschi, vigneti, orti, pollai.

L’intervista durò tre ore buone con un fuori programma finale proprio in riva al fiume succitato, sulla cui destra orografica sorge il mio paese. Siamo nel nordest dell’Isola bergamasca, cosiddetta perché incuneata tra i fiumi Adda e Brembo, appunto.

Anche in questo caso, come nell’intervista de il Post, dissi cose contenute in questo blog, sebbene in modalità più “rozza”, e quindi è inutile ripeterle: si parlò di me, della mia storia, della mia famiglia, della mia formazione, delle mie idee, dell’allora Movimento Nazionalista Lombardo.

Sarei dovuto andare in onda il 20 gennaio 2012, durante la prima puntata delle Invasioni, su La7, ma per tutta una serie di problematiche logistiche slittai all’ultima, quella del 13 aprile, che fra le altre cose si occupava dei famigerati scandali leghisti relativi a Belsito, al “Trota” Bossi e Rosi Mauro che portarono alle dimissioni di Bossi senior e alla smania di repulisti incarnata da Maroni, il segretario della Lega Nord subentrato al genio di Cassano Magnago. Successivamente, Maroni divenne governatore della Pirellonia (la Regione Lombardia) e al suo posto venne eletto l’uomo della (finta) svolta, Matteo Salvini.

Dico “finta”, sì, perché l’italianismo di via Bellerio era in fieri e l’ex felpato del Giambellino (Salvini) si è solo limitato a prendere atto della vera natura italiana del leghismo, in senso soprattutto deteriore, sgombrando il campo da annosi equivoci frutto della propaganda secessionista.

Piccolo inciso: ma mentre la Lega andava a passeggiatrici, grazie al “cerchio magico” ausonico stretto attorno all’Umberto (e capeggiato dalla sua seconda mogliettina per metà sicula), Maroni e Salvini dov’erano? Veramente non sapevano nulla?

La puntata della trasmissione in oggetto si concentrò anche sugli umori della base padana e sulla voglia di “identità” dei “militonti” leghisti, traditi dai loro magnogreci dirigenti/digerenti, al che si inserì la mia intervista.

In studio con la Bignardi, tale Michele Serra Errante (un nome un programma), giornalista sud-italiano (ovviamente) di Repubblica che ama farsi gli affari nostri – nostri di noi lombardi – pontificando sull’italianità di cartapesta e sul padanismo con un sarcasmo piuttosto untuoso e patetico.

Tre ore di riprese condensate in pochissimi minuti, in cui il girato originale si alternava a stralci del mio video di presentazione del vecchio canale YouTube dei Lombardisti. Il filmato finale risultò così essere una “demonizzazione” del sottoscritto, con tanto di musichetta lugubre e di Hitler sbraitante in sottofondo.

C’è da stupirsi che La7 di De Benedetti abbia deciso di presentarmi così? Assolutamente no, era prevedibile e difatti decisi di affrontare il rischio, conscio comunque dell’esposizione mediatica e della pubblicità gratuita, per me e pel movimento lombardista. Valgono, insomma, gli stessi ragionamenti fatti per la precedente intervista a il Post. Bisogna osare, signori miei, altrimenti possiamo anche lasciar perdere di fare (meta)politica e di portare la nostra rivoluzionaria testimonianza, in questo mare di conformismo tricolore e, quindi, mondialista.

Le tragicomiche iniziarono quando, al termine dell’intervista taglia&cuci, la radical chic Bignardi chiese al buon compagnuccio Serra sue impressioni circa il sottoscritto. L’enotrico sputasentenze, con un’espressione tra il sorpreso e l’imbarazzato stampata in volto, si produsse allora in considerazioni banali, scontate, infantili, che qualunque attivista da cesso sociale poteva rilasciare.

Approfittando della mancanza di contraddittorio, si permise pure di fare il fenomeno, aizzato dalla claque del programma, insultando e usando turpiloquio nei miei riguardi, come se fosse un comunistello “terruncello” qualunque e non un giornalista di professione. Che poi, per carità, non pretendo troppo da chi scrive su certe testate, anche perché l’odierna qualità del giornalismo italico la conosciamo tutti…

Il tizio si lasciò andare alle seguenti esternazioni:

«bisogna essere drastici con uno come questo» – “questo” ha un nome, ma stai forse istigando?;

«uno può inventarsi le identità che vuole» – ha parlato il trombone itaglione, per dirla alla Oneto, difensore dell’italianità posticcia e dell’anti-identità mondialista;

«ogni identità su base etnica è razzista» – ecco il solito benpensante ignorante che confonde la razza con l’etnia e che reputa l’identità null’altro che un documento rilasciato dallo Stato senza nazione (peraltro, il razzismo cosa c’entra?);

«bisogna che qualcuno gli vada a dire, affettuosamente ma fermamente, che dice puttanate» – paternalismo misto a pacchiana prosopopea, da suprematismo sinistrato con tanto di trivialità ben poco “signorile”, ne abbiamo, Serra?;

«il razzismo non è un gioco» – non sono razzista, caro Michele, e chi gioca, surriscaldato dagli applausi pilotati e dalla compiacente Bignardi, sei tu vecchio mio;

«sangue e suolo producono morte, paranoia, follia» – a parte il fatto che nel video mandato in onda non parlavo di sangue e suolo – avranno mica imbeccato un sapientone come te, Michele? – vogliamo trattare di tutto il criminale degrado prodotto da oltre 75 anni di repubblica partigiana, atlantista e democristiana? Tutto produce morte, paranoia e follia comunque, se interpretato da menti malate, ma non devo certo farmi carico io dell’assistenza sociosanitaria “nazionale”;

«ha la camicia bruna, poverino anche lui» – il poverino sei tu, la camicia era grigio piombo, mettiti gli occhiali;

«il simbolo (la Croce lombardista, NdA) ricorda pateticamente il nazismo» – a parte la confusione della ruota solare, volgarmente detta “celtica”, con la croce uncinata nazionalsocialista, vogliamo dire, o Serra, quanta morte e distruzione produssero la Rivoluzione francese e i tuoi amati “liberatori” americani, assieme agli zelanti tirapiedi partigiani di ogni colore (in particolar modo i traditori rossi al soldo dei titini) o a quelli della Brigata Ebraica, che poi finirono nelle file degli aguzzini israeliani?;

«costui è una persona abbandonata perché non si è stati severi» – sono grato ai miei genitori per l’educazione ricevuta, grazie a cui sono cresciuto tradizionalista, identitario, rustico, immune ai veleni modernisti, altrimenti oggi sarei un Michele Serra qualsiasi;

«qualche adulto gli dovrebbe dire che sta dicendo cose imbecilli e pericolose, inaccettabili» – ed ecco ancora la sciocca paternale democratica di chi non ha alcun titolo per farla, come se per forza di cose il bamboccio fossi io (all’epoca ventisettenne) e non, piuttosto, i giovani reggicoda del regime antifascista fossilizzato nei liberticidi reati d’opinione e di vilipendio delle istituzioni tricolori. Cosa c’è di più infantile del seguire il sentiero battuto, acriticamente, magari indicando come soluzione l’emigrazione di massa verso la Babilonia americana o i “civili” Paesi nordici? Ma l’adulto chi sarebbe, poi? Uno come l’Errante Serra?

Il soggetto terminò sparando a zero sulla Lega Nord, dicendo che essa ha fallito il suo obiettivo che era quello di fare la Padania e i padani mentre il padanismo non è che identità di pochi imposta a molti.

Questa sua ultima affermazione mi fa ancora sorridere, a distanza di dieci anni: la Padania certamente non esiste, ma la Lombardia sì, come ben sappiamo; non c’è bisogno di inventarsi proprio nulla, in questo caso, perché i lombardi e la Lombardia sono realtà a prescindere da ogni propaganda e da ogni forzatura politica. Bisogna solo prenderne atto, senza farsi venire la schiuma alla bocca, delirando di “padanismi” imposti.

Chi, oltretutto, ha imposto qualcosa agli altri sono proprio coloro che hanno creato il baraccone ottocentesco italiano, fregando decine di milioni di persone a tutto vantaggio di una sparuta minoranza di maneggioni massonici (sul libro paga dei forestieri), quindi non fatemi venir da ridere. Non lo dico certamente per difendere i legaioli, sia chiaro, dato che si sono spensieratamente adattati alla temperie della capitale dell’Italia etnica (cioè “Roma ladrona”).

Serra e i suoi epigoni, da indefessi democratici, concepiscono l’Italia come un mero staterello senza sangue e senza suolo, aperto a cani e porci e in vendita al miglior offerente mondialista, e ci può anche stare, capiamoci, se la intendiamo come “unica famiglia dalle Alpi alla Sicilia”, appiattita sulla linea della statolatria di marca giacobina e antifascista.

La vera Italia è il territorio centromeridionale, e solo laggiù uno Stato unitario italiano potrebbe avere un senso; in caso contrario, allargando l’italianità a terre che italiche e italiane non sono mai state, non si può che ottenere la contemporanea repubblica-canaglia del tricolore, entità multietnica inevitabilmente – per coerenza cosmopolita (dunque apolide) – schierata dalla parte della globalizzazione e dei nemici della sovranità nazionale dei veri popoli storici.

Ai Michele Serra di turno parlare di identità va bene solo ed esclusivamente quando si tratta di popolazioni del terzo mondo, da strumentalizzare abilmente per gli scopi cari agli idoli della sinistra progressista occidentale: gli americani, preferibilmente in stile Obama.

Cari i miei sommi sacerdoti del giornalismo italiano, avete uno Stato ma non avete una nazione, non avete unità, non avete fraterna solidarietà perché questa repubblica è sbagliata e campata per aria, e di conseguenza fa solo il gioco del nemico. E la situazione non può essere certo sanata dalla retorica patriottarda dei Napolitano e dei Mattarella. Non posso riconoscermi nell’Italia etnica e storica, perché sono lombardo; pur avendo, per sette anni, lasciato perdere la soluzione indipendentista carezzando una forma di etnofederalismo volto alla coesione delle “Italie”, sono sempre rimasto fermo (e non solo per le inique grane giudiziarie) nel mio giudizio negativo circa lo Stato italiano, che di identitario non ha praticamente nulla (basti pensare, ad esempio, al fatto che la lingua italiana – cioè l’idioma di Firenze – non è riconosciuta come lingua ufficiale dalla “sacra” costituzione).

Il concetto contemporaneo di democrazia non è altro che una forma di sudditanza, della politica dell’arco parlamentare, in favore della plutocrazia e dell’alta finanza il cui obiettivo è annientare le radici delle genti estirpandole e bruciandole con l’infernale fuoco anti-identitario e anti-tradizionalista, che alimenta l’odio mondialista delle moderne dittature finanziocratiche basate sulla debolezza del pensiero unico. I politici? Camerieri lautamente ricompensati al servizio dei potenti e degli intoccabili.

Costoro non difendono e rappresentano, dunque, il popolo, non difendono la gente comune, non difendono il sangue (perché l’identità è sangue, altrimenti è ius soli, o ius sanguinis da strapazzo stile RI): incarnano le istituzioni, e uno stato-apparato che non ha un’ossatura identitaria e genuinamente nazionale, in quanto espressione di un’accezione di Italia del tutto fallace.

Il concetto artificiale di italianità è odioso e insopportabile, prevede una massa amorfa di cittadini che sono “italiani” sulla base di un pezzo di carta burocratico, o quando si tratta di pagare esorbitanti tasse (in cambio di servizi da sottosviluppo) e strisciare muti obbedendo al padrone internazionalista di Roma.

L’italianità può essere un concetto vivo e guizzante se applicato alla sua reale sfera etnonazionale, che è quella toscana, còrsa, mediana, siculo-ausonica, maltese, altrimenti diventa il moloc che ancor oggi ci fa scannare senza alcun vantaggio per nessuno, o meglio, per i nostri parassitari nemici.

Io non mi invento proprio nulla quando parlo di Lombardia e lombardi, perché esistono, a differenza degli italiani caricaturali “spantegati” sino alla Vetta grande-lombarda (il Klockerkarkopf), concepiti come sguaiati tifosi bardati d’azzurro, mangia-spaghetti, mammoni, servi papisti, mandolinari dai baffi neri, mafiosi o cibo per altri stereotipi americani (fondamentalmente basati sul meridione italico) e perché io non difendo il mondialismo e il suo sottoprodotto all’amatriciana, ma la natura, la verità, la libertà.

Tutte cose che fanno un male cane a quelli come Serra e colleghi che difendono Stati e non nazioni, e che gli fanno letteralmente perdere le staffe al punto di insultare, frignare e volgarizzare con termini da bar sport le sacrosante ragioni identitarie dei lombardi e di ogni vero popolo d’Europa.

L’intervista a “il Post”

Ol Pól (foto di Thomas Pololi)

Nell’estate del 2011, in piena temperie lombardista dei primordi, rilasciai un’intervista ad un giornalista indipendente, che poi la fece avere al noto quotidiano online sinistroide (e filo-americano) il Post, che la pubblicò il 12 luglio dello stesso anno. All’epoca avevo 26 anni e la fregola un po’ narcisistica di atteggiarmi a personaggio, il che può aver in parte inflazionato la bontà del  messaggio che volevo comunicare, e in cui ho sempre creduto: la fondamentale importanza, soprattutto in una temperie globalista, di difendere a tutti i costi identità e tradizione.

A quei tempi, essendo stato esponente del Movimento Nazionalista Lombardo, avevo tutto l’interesse di farmi pubblicità, sfruttando vari canali, e poco mi importava di come potevo venire raffigurato agli occhi dell’amorfa massa antifascista; del resto, il gioco di questa gente è quello di rappresentare gli identitari come pazzoidi e casi umani, è così da tempo: chi va contro la vulgata mondialista merita il pubblico ludibrio, una cosa che comunque ha anche i suoi vantaggi.

Personalmente ho sempre messo nome, cognome e faccia per diffondere ciò in cui credo, ed è quello che dovrebbe fare ogni patriota, per concretizzare la resistenza al sistema globale e globalizzante. Delle scomposte reazioni dei conformisti poco me ne cale; non mi ha mai preoccupato il giudizio altrui, pur riconoscendo di avere, in diverse occasioni, esagerato calcando la mano. Eccessivo zelo giovanile.

Naturale che gli avversari si occupino di te in maniera ferocemente critica o canzonatoria. Ma, se ti prendono in considerazione, vuol dire che, a tuo modo, fai pensare e in un certo senso fai anche paura ai benpensanti, e lo dimostra il fatto che sono stato sotto processo e condannato per ridicoli reati d’opinione (vilipendio del PdR e istigazione all’odio razziale, a mezzo blog).

La satira fa parte del gioco – sebbene il sottoscritto non sia certo un potente – e a differenza dei presidenti della Repubblica italiani non sono permaloso. A patto che non mi si diffami, ovviamente.

Le manifestazioni isteriche dei media, e del pubblico coi paraocchi in genere, sono sintomatiche dei riti apotropaici che la società buonista ancor oggi inscena per esorcizzare i fantasmi del passato, a dimostrazione che, nonostante il mare di ciarle retoriche con cui le istituzioni ci sommergono, non è affatto vero che la gente abbia sviluppato gli anticorpi necessari per combattere il “fascismo” e il “razzismo”. Di conseguenza, si ripescano tematiche di ottant’anni fa per far guardare da un’altra parte, sparigliando le carte in tavola col fine di impedire di capire dove stia il bene e dove il male.

Il sottoscritto, peraltro, tecnicamente non è né fascista né razzista, anche se fa comodo dipingermi così per, appunto, esorcizzare le proprie paure e banalizzare le tematiche scottanti che stanno a cuore ad ogni sincero nazionalista, e che solo i fessacchiotti di regime possono derubricare al rango di “deliri” di personaggi isolati e disadattati che “non trombano” (magari qualche bella meticcia sudamericana?). Curiosa l’ossessiva insistenza degli antifascisti sul “trombare” e lo “scopare”: sa tanto che ad andare in bianco siano loro…

Che dunque i perbenisti della vulgata antifascista e antirazzista continuino pure ad occuparsi ossessivamente di noi e a criminalizzarci; ci fanno solo un favore e le persone genuine e razionali valuteranno da sé dove stia la verità.

Nel luglio di una decina di anni fa, quindi, previo accordo telefonico, si presentarono a casa mia due tizi per intervistarmi e scattare qualche foto nell’agro brembatese (superiore), in cui felicemente vivo e che ha naturalmente condizionato la mia formazione. Nell’intervista, nonostante il cambio di registro e di prospettiva su alcune cose (maturando è giocoforza), dicevo ciò che potete leggere su questo blog; al netto di qualche esagerazione esibizionistica, io sono quello che emerge dall’articolo, al di là delle idee politiche: una persona rustica, schietta, genuina, vera, terragna, proba, fortemente attaccata al proprio sangue, al proprio suolo, al proprio spirito.

Signori, è ovvio: il giornalismo italiano (parlo dei media di regime) cerca di presentarti come un caso umano, lo scemo del villaggio, uno a metà strada fra un matto e un buffone, ma forse non lo sappiamo? Per questo dovremmo nasconderci e darci all’anonimato? Giammai, e ben vengano queste occasioni – a patto che non siano trappole – che permettono di esporci e di dire la nostra facendo valere le nostre ragioni. Spesso smentendo il prevenuto che ci troviamo davanti. Dipende, tuttavia, dalla serietà e dall’onestà dell’interlocutore: nei casi che vedremo nei prossimi articoli i giornalisti, se così possono chiamarsi, si sono dimostrati pessimi.

Superfluo dire, altresì, che io non sia un pazzo, un criminale e un cultore della violenza e quindi chi mi accusa di cose simili la fa fuori dal vaso, in cattiva fede, per portare avanti la sua patetica agenda di servo. C’è, infatti, la tentazione di dipingere l’etnonazionalista o il sovranista, il tizio di “estrema destra” insomma, come un pericolo pubblico, sulla scorta di qualche caso di cronaca d’oltreoceano (una realtà che nulla c’entra con l’Europa).

Ad ogni modo, l’intervistatore si mostrò gentile e ben disposto nei miei confronti, e devo dire che, nonostante qualche errore di trascrizione e qualche confusione, ha riportato fedelmente, nell’articolo, quanto ho avuto modo di dirgli all’epoca. Capiamoci: questo giornalista non era nella maniera più assoluta un mio ammiratore o un sostenitore della causa etnicista, anzi, e non era nemmeno neutro; la sua inclinazione antifascista era evidente (altrimenti dubito che il Post gli avrebbe pubblicato il pezzo).

L’intervista riguardò la mia biografia, il passaggio all’etnonazionalismo radicale come conseguenza del distacco dal cattolicesimo e dal pensiero cristiano, il Movimento Nazionalista Lombardo, la Weltanschauung sizziana e la passione per il sangue, il suolo e lo spirito, declinata anche in chiave antropologica e culturale.

Il titolo dell’articolo, “Non ho mai visto il mare”, nacque dalla mia dichiarazione di non essere mai stato in località marittime (pur avendo visitato Venezia nel 2004) e potrebbe celare qualche piccola malignità da apericena antifascista dell’autore, della serie: «Questo è un disadattato con l’apertura mentale di un talebano». In realtà, quel che volevo dire era che non ho mai vissuto il mare, e non ne sento il bisogno, essendo un lombardo coi piedi ben piantati per terra e amante di laghi, campagne, colline e montagne della mia patria. Naturalmente, il mare bagna anche la Grande Lombardia (Liguria, Romagna, Venezie) ma il suo nucleo etnico è squisitamente di terraferma.

In altre parole, alludevo alla mia idiosincrasia nei riguardi di quella mentalità italiana stereotipata incentrata su ‘o sole e ‘o mare; il mondo marittimo non fa parte della cultura e dell’esperienza padano-alpine, così come non fa parte della cultura alpina in genere. Ciò non toglie che, un domani, possa visitare le terre granlombarde o europee bagnate dai mari. Ma, di sicuro, non ho una mentalità “da spiaggia” e i miti melodrammatici e petalosi del “mare-che-apre-la-mente” e del “mare-che-unisce-i-popoli” mi provocano prurito alle mani.

La mia visione è un handicap? Direi proprio di no. Io so nuotare e non ho paura dell’acqua, ma al mare preferisco i miei fiumi, i miei laghi, le mie pozze orobiche alpine, i miei torrenti dagli antichi nomi indoeuropei. Anche questo è identitarismo.

Questa mitologia del mare, in chiave italiana, fa un po’ parte del lavaggio del cervello meridionalista operato da Roma, che prevede abbondanti dosi di pizza, spaghetti, sugo di pomodoro, esaltazione dell’olio d’oliva a scapito dei “barbari” derivati del latte e di sceneggiate napoletane assortite per farci credere tutti quanti uguali, da Bolzano a Pantelleria. L’Italia esiste, è innegabile, ma non comprende la Lombardia, che rispetto al centrosud e alle isole è un mondo a sé stante. L’appiattimento subculturale romanocentrico, attuato anche grazie agli esodi “interni” su vasta scala, ha tramutato lo Stato del tricolore in una grigia e tetra prigione di popoli disparati.

Ma il mare (inteso come Mediterraneo), notoriamente, è anche il simbolo del relativismo, dell’annientamento, dell’annullamento dell’individuo tra i flutti del nichilismo contemporaneo, e di un certo libertinaggio promiscuo ed edonista che vuole estirpare la moralità della tradizione per travolgere i popoli col conformismo, e dunque lo sprezzo o l’indifferenza per ogni vero valore degno di essere vissuto sino in fondo.

Non odio e non temo il paesaggio marino concreto, quello che riguarda le coste della stessa Grande Lombardia; stigmatizzo il “mare mentale”, null’altro che il dilagante nulla che invade la scatola cranica della moderna gioventù europea occidentale, e respingo lo stereotipo meridionaleggiante che vorrebbe tutti gli “italiani” appiattiti sul modello caricaturale del “terrone”.

Altro discorso è la sfera dei rapporti interpersonali, soprattutto col gentil sesso. Al giornalista dissi di non essere mondano, di non frequentare luoghi di divertimento di massa e di avere poche amicizie, preferendo la cultura alla “perdizione”; all’epoca (più di dieci anni fa) ammisi anche di non aver mai avuto relazioni concrete, snobbando l’idea del matrimonio in favore di un improbabile “sacerdozio laico e pagano del lombardesimo”. In questo passaggio sottolineai, in maniera fin troppo enfatica, la necessità di rieducare le masse lombarde, anche per prendere le distanze dalle fissazioni dei ventenni occidentali standardizzati.

Di acqua sotto i ponti ne è passata, da allora, e alla luce della vita vissuta e dell’esperienza maturata di sacerdozi, di qualsiasi forma, non voglio sentir parlare. Non ostenterò mai il mio privato (famigliare, sentimentale, lavorativo), coinvolgendo terzi, ma sarò ben felice di dare il mio contributo alla causa demografica, qualora ve ne siano le condizioni. Non ho mai vissuto la questione come un’ossessione.

Certo è che l’uomo qualunque di simpatie antifasciste e antirazziste, in una società ipersessualizzata e materialista fino al midollo, pensa che viaggiare in luoghi esotici, sguazzare in calde acque salate e copulare a tutti i costi sia la ricetta per non chiudersi in sé stessi e diventare “nazifasciorazzisti”; ma, forse, qualche imbecille pensa davvero che se io frequentassi assiduamente il Mediterraneo, viaggiassi in lungo e in largo e diventassi un Casanova cambierei visione del mondo? Sarei l’uomo più miserabile della terra.

Insomma, sono le solite balle dell’armamentario sinistroide o liberale di chi vuole demonizzare gli identitari perché tendono ad uscire dal coro dei pecoroni di regime. E così, magicamente, chi sostiene il pensiero forte contro la debolezza del pensiero unico diventa psicopatico, frustrato, represso (magari omosessuale!), caso umano, incel, emarginato, potenziale stragista e chi più ne ha più ne metta.

Se è l’identitario ad evadere questi diventa nemico pubblico numero uno, se invece lo fa qualche scrittore “illuminato” è un atto d’amore per la cultura (quale?), e così ogni capriccio radical chic diventa una moda da imitare.

Nella nota intervista alle Invasioni barbariche (2012), di cui parlerò successivamente, dissi di ritenermi, provocatoriamente, un «disadattato volontario». Nella misura in cui ripudio le schifezze moderniste anti-identitarie e anti-tradizionaliste, lo confermo in pieno ancor oggi: non mi sento figlio di questi tempi di… buona donna, e non mi conformo in maniera supina agli usi e costumi occidentali, che hanno ridotto gli europei a larve che vivacchiano cibandosi della spazzatura proveniente dalla pattumiera transoceanica.

Chi ha voluto occuparsi di me, al di là dei propri intenti, per certi versi mi ha fatto un favore, garantendo visibilità alle mie idee e al movimento di allora. Vorrei spronare tutti quanti la pensino come me ad uscire allo scoperto e ad unirsi alla battaglia etnonazionalista, senza vergognarsi di nulla perché chi, su questa terra, si deve vergognare e sotterrare, è l’agente internazionalista della globalizzazione, che ci vuole tutti uguali, bastardi, plagiati, imbelli, sudditi, idioti, buoni solo per rimpinzare lo spaventoso ventre senza fondo del mercato, solleticando i bassi appetiti consumistici ed edonistici dell’occidentale.

I pennivendoli vogliono raffigurarci ora come pazzi scatenati ora come fenomeni da baraccone? Facciano pure. La verità è dalla parte degli identitari e sempre, quando sorge qualcuno con idee forti, nascono trasversali alleanze di mediocri per abbatterlo. Non dico sia il mio caso, per carità, non mi ritengo un genio o un eroe (anche perché, in passato, ho posto in essere poco proficui eccessi) ma è certamente quello di uomini rivoluzionari di indubbio acume ed indubbia levatura, che nella loro vita sono stati circondati solo da nemici insipidi. E solo l’alleanza in blocco di costoro ha potuto toglierli di mezzo.

Le onde del mare globalista, mondialista, pluralista, multirazzialista, relativista e nichilista che ci vogliono travolgere ed inghiottire, si infrangono sugli scogli della natura dura e pura e della ferrea volontà socialista MA nazionalista. Ovviamente in accezione etnica: il patriottismo italiano tricolore non è coerente nemico del cosmopolitismo, essendo l’inesistente Italia dalle Alpi alla Sicilia – realtà multinazionale – sottoprodotto di una temperie culturale giacobino-massonica che teneva in non cale sangue e suolo.