Il percorso ideologico di Paolo Sizzi

P. Sizzi

Credo valga la pena stendere una riflessione su quel che è stato il mio periodo italianista, o meglio, su ciò che mi spinse ad allargare lo sguardo etnonazionalista al contesto panitaliano (termine improprio, ma impiegato per capirsi), e lo faccio approfittando di un articoletto di un tizio coperto da pseudonimo e pubblicato, nell’aprile 2014, su Giornalettismo, testata online il cui nome è fin troppo eloquente.

Fu scritto, per l’appunto, all’indomani del mio cambio di registro nei confronti dell’Italia (intesa come “nazione” storica, non come stato ottocentesco o repubblica partigiana postbellica, beninteso; non avrei, comunque, potuto nutrire alcuna simpatia nei confronti della RI) e l’unico intento che animò l’anonima penna fu, ovviamente, quello di pigliarmi per i fondelli, considerando che l’inclinazione del giornaletto multimediale è quella del più banale pressapochismo antifascista e petaloso.

La sicumera dei democratici è risaputa quando si tratta di analizzare fenomenologie identitarie: loro sono moralmente superiori in quanto sinistrorsi/sinistrati all’acqua di rose, tutti gli altri sono casi umani da compatire perché retrogradi, disadattati, repressi, complessati, pazzi e chi più ne ha più ne metta. Loro sono i geni, gli altri sono i reietti.

Di conseguenza, chi non si genuflette di fronte alla vulgata resistenzial-democratico-repubblicana, benedetta dagli americani (ossia dai paladini della sinistra italica ed europea), è un povero imbecille da guardare con compassione dall’alto in basso. E il nostro baldo orobico può, forse, fare eccezione, nella mente di cotanti intellettuali?

Il suddetto tizio mi sbrodolò addosso le consuete logore fesserie, da leggersi tra le righe: nazista da strapazzo, lombrosiano, caso umano, fenomeno da baraccone; altresì, ridicolizzando sia la primeva fase lombardista che la svolta italianista, ridusse ad una farsa opportunistica il passaggio dal lombardesimo all’italianesimo (così chiamato all’epoca), come se non fosse altro che una cialtronata di poco momento e non, piuttosto, il frutto di una approfondita riflessione, una sorta di maturazione (più che una conversione o, addirittura, un tradimento del prima lombardista, come l’individuo scrisse con assoluta leggerezza). A testimonianza della razionalità di questo articolo, comunque, ecco la perla: io sarei un tifoso laziale. Prego?

La sua “analisi” si incentrò su quanto di me noto tramite la rete, fra cui i documenti di cui ho già parlato in questo blog, ovvero l’intervista al Post e alle Invasioni barbariche.

L’anonimo si soffermò sulla mia passione per la razziologia considerandola alla stregua di ciarpame degno dell’astrologo giudeo Lombroso, mostrando grande ignoranza se si pensa che è la frenologia ad essere pseudoscienza, non la craniometria e la tassonomia delle razze e sottorazze umane, con relative varianti fenotipiche. Per non parlare della genetica delle popolazioni, che rimarca pure le note differenze tra “italiani”.

Illuminante, però, appare la chiusura del patetico scritto: «il nazionalismo che chiama in causa le aquile romane, pur declinato come etno-nazionalismo federale, ha invece tutt’altro sapore e non fa ridere come l’arianesimo orobico» – e ancora – «Una grande occasione d’intrattenimento persa e Sizzi che cade dalla padella alla brace». Capito?

Lo scopo dell’autore era palese: ridicolizzare e demonizzare l’area identitaria e i suoi protagonisti, soprattutto i più genuini e non corrotti dalla politica di professione, esprimendo ironico rammarico per l’abbandono delle posizioni lombardiste originarie; il soggetto sembrava più allarmato dall’aura fascistoide del cambio di rotta, minimizzando la portata dell’etnonazionalismo lombardo. L’insipiente non può che ridere (a denti stretti) di ciò che è per davvero rivoluzionario, palesando tutta la sua imbarazzante arroganza e ignoranza.

A quei tempi, convinto della bontà dell'”evoluzione” italianista, pensai che anche le scomposte reazioni di soggetti come quello citato fossero il tributo involontario ad una scelta ponderata e matura: mettendo da parte l’identitarismo “regionale” solleticato dall’indipendentismo, il nazionalismo italianista rispettoso dell’istanza etnofederale appariva meritorio nel contesto nostrano, perché unificante. Ma l’Italia, signori miei, come vado ripetendo spesso, non è la soluzione, è il problema, se interpretata come Stivale fantozziano che arriva sino alla Pianura Padana…

Nella primavera del 2014, e in quelle successive, l’intento sizziano fu di conciliare l’istanza lombardista con quella “nazionale” ma, più che altro, da un punto di vista civile, culturale, geopolitico; vedevo l’Italia come uno dei pilastri imperiali europei e difendevo la suggestione latina di grande civiltà romana, pagana, cattolica, italiana in senso moderno e contemporaneo, alla luce dell’unificazione linguistica. Fino all’estate del 2019 posi parecchia enfasi sulla questione delle radici precristiane – con toni non molto concilianti verso il cristianesimo cattolico – poi optai per un ammorbidimento poiché la Tradizione va difesa integralmente, ed equiparare il culto di Cristo a giudaismo e islam è una sciocchezza.

Tuttavia, smaltita la sbornia del neofita, mi assestai su posizioni comunque etnonazionaliste, dove prevalse – e non poteva essere altrimenti – la componente etnicistica: il mio faro è sempre stata la triade sangue, suolo, spirito e la realtà biologica (da cui tutto il resto) dell’Italia non poteva certo essere taciuta o distorta per fini propagandistici. E allora parlai estesamente, per anni, di Italie, di patto etnofederale, di etnonazionalismo declinato in chiave rigorosamente federale, perché le differenze tra “italiani” sono sotto gli occhi di tutti, retorica patriottarda a parte.

Alla lunga, come è poi avvenuto, l’esperienza italianista si è esaurita e ho preferito riabbracciare in toto, coerentemente, quanto da me teorizzato agli esordi, tornando ad affermare che se di Italia si può e, si deve, parlare va fatto riferendosi squisitamente al centrosud, ossia all’Italia primigenia. Lo capite che, se ci si dichiara nemici giurati del mondialismo, non è possibile indugiare oltre su posizioni che, involontariamente, diventano un servigio al moloc globalista: l’Italia artificiale in chiave 1861 non è altro che uno stato, non una nazione, e ripropone in piccolo la barbarie che il sistema-mondo pratica su vasta scala. Come non esiste una “razza umana” così non esiste una “razza italiana”: non si può combattere il nichilismo unipolare all’americana con quello in tredicesimi del tricolore.

Con buona pace delle aquile romane, la forza dell’etnonazionalismo non ha eguali, e la sacralità della lotta identitaria e tradizionalista deve necessariamente passare per la coscienza etno-razziale. Anche perché parlare di Italia dalle Alpi alla Sicilia in nome di latinità, romanità, echi gentili, religione cattolica e lingua fiorentina è un po’ pochino… Tolto l’idioma franco di Firenze, la romanitas è il comun denominatore di altri territori europei, mica solo di quelli a sud dell’arco alpino.

Se per sette anni mi sono professato italianista (ovviamente secondo la mia visione: prima bergamasco e lombardo, poi italiano) è stato in assoluta buonafede, non per opportunismo. Gli argomenti di cui mi sono occupato e mi occupo sono pura passione, e non ho mai avuto la fregola del soldo, della poltrona, della carica o del posticino al sole. Ho sempre preferito cultura e metapolitica alla politica, anche solo come velleità.

Per quanto concerne, invece, le trite e ritrite pagliacciate apotropaiche di gente che, come sempre, non ha nemmeno il coraggio di mostrare nome e faccia ma adora sputare sentenze (stile l’autore dell’articolo commentato), sono la regola, nonché l’indice della pochezza antifascista: di fronte alla radicalità del patriottismo völkisch i ragli d’asino non finiranno mai di cessare. E non fatevi ingannare dalla criminalizzazione lib-dem della galassia neofascista, poiché chi sventola tricolori, in un modo o nell’altro, fa un servizio alla piovra mondialista.

C’è di buono che, con il periodo italiano, per così dire, mi sono dato una regolata, fors’anche per l’età. Nel 2014 avevo 30 anni, una crescita dunque, e ho cominciato da quel momento a lasciarmi alle spalle gli eccessi e i furori ideologici (non la coerenza e la radicalità, ovviamente), evitando di impelagarmi in ulteriori grane. Anche la soluzione etnofederalista voleva essere un equilibrio tra due posizioni estreme e poco pratiche: indipendentismo da una parte e fascismo dall’altra. Ma l’Italia come sacrale federazione indoeuropea e romana di piccole patrie non è, dopotutto, da meno, considerando che razza di stato abbiamo per le mani, e il gioco non vale la candela.

Qualcuno pensa che un Paese diviso e litigioso faccia solo comodo allo straniero. Un Paese, appunto: l’Italia non lo è. E, fra l’altro, l’occupazione atlanto-americana continentale, peninsulare e insulare è possibile proprio grazie a questa artificiale unità, in cui Roma è una delle più fedeli pedine dell’Occidente a trazione statunitense. L’indipendentismo assennato, ossia quello etnonazionalista, non fa il gioco del forestiero, perché il vero ascaro del globalismo è lo stato senza nazione di matrice ottocentesca, perfettamente incarnato dalla Repubblica Italiana.

Da parte mia era doveroso il ritorno al lombardesimo, depurandolo dagli elementi controversi degli esordi (ero ventenne, d’altronde), non solo perché ideologia da me lanciata ma pure in quanto salutare riscoperta di quella coerenza necessaria per affrontare, col piglio giusto, le sfide del domani. L’italianismo di otto anni fa era animato da nobili intenti ma è inutile ai fini della battaglia etnonazionalista; il sottoscritto è utile, alla causa identitaria, come teorico lombardista, che prima dell’indipendenza della Lombardia auspica l’affrancamento della sua sopita identità nazionale.

Al di là della politica e delle beghe fra centralismo, federalismo, autonomismo ed indipendentismo, infatti, la cosa basilare rimane l’identitarismo etnico, la salvaguardia di sangue-suolo-spirito, fermo restando che la Grande Lombardia merita appieno la totale autoaffermazione nei confronti di Roma e dell’Italia. Non si tratta di fantasticare – come facevo agli albori –  di un nord celto-germanico “e basta” (manco fossimo inglesi o fiamminghi!), in ossequio a certo nordicismo neonazista, ma di contestualizzare le Lombardie nel quadro europeo centromeridionale, anello di congiunzione tra Mediterraneo e Mitteleuropa.

All’epoca del Movimento Nazionalista Lombardo, immaginavamo una Cisalpina inserita in una confederazione “gallo-teutonica”; da italianista la collocavo nel contesto panitaliano; adesso, razionalmente, la concepisco per conto proprio, poiché le macroregioni sono delle sciocchezze dal puzzo tecnocratico e affaristico. La famiglia imperiale eurussa sta bene, ma qui dobbiamo badare all’autodeterminazione nazionale dei lombardi, senza scendere a compromessi né con Roma né con Bruxelles. Degli altri nemmeno parlo. Al più, avrebbe senso un rapporto stretto con le realtà dell’arco alpino o della (vera) Alta Italia, ossia Toscana e Corsica, fermo restando che, nella storia, è certamente esistito uno spazio carolingio di impronta celto-germanica che comprendeva anche la Padania.

Volenti o nolenti, dobbiamo certamente fare i conti con la realtà, ma senza perdere di vista l’obiettivo fondamentale, che è quello di opporci risolutamente all’omologazione dello status quo divenendo esempio e applicando, nel concreto, i dettami del nazionalismo etnico. Come individui e come popolo. E senza dimenticarci che, prima della politica, viene la cultura poiché se mancasse quest’ultima la res publica sarebbe completamente svuotata di significato. A che giova portare alle urne i lombardi se questi non sanno nemmeno chi sono?  L’indipendenza e la liberazione della Lombardia cominciano dalle nostre menti e coscienze.

Non rinnego la fase italianista, così come non rinnego i primordi lombardisti, e se oggi posso gustare appieno, nella maturità dei miei quasi 40 anni, il lombardesimo è anche grazie a quei precedenti sette anni in cui tra meditazioni, riflessioni e studi ho fortificato la convinzione che ogni rinascita di orgoglio patrio deve necessariamente passare per la verità del sangue, la sacralità del suolo e la luminosità dello spirito. E, dunque, oggi più che mai affermo con convinzione che la mia patria è la Grande Lombardia.